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Brahmajñākavi Śrī Deva Rao Kulakarni (Hombala)

3. Adhyātma Yoga

A cura di Maitreyī

Alcuni fraintendimenti

L’aspirante non dovrebbe avere le seguenti idee sbagliate:

  1. Che a conclusione di questo Adhyātma Yoga si entri in samādhi (nirvikalpa samādhi o transe)
  2. Che si ottengano strane esperienze anomale di sentire suoni meravigliosi o di vedere visioni affascinanti ecc.
  3. Che si acquisiscano siddhi o poteri miracolosi.

Poiché questi sono poteri o esperienze attraenti e allettanti, molti si aspettano o ricercano tali risultati che, però, non hanno niente a che vedere con l’Adhyātma Yoga qui trattato, in quanto ciò che viene fatto e raggiunto ex novo non è eterno, ma è legato al tempo. Il fine dell’Adhyātma Yoga è quello di conoscere la propria vera natura di Ātman che è al di là dei concetti di tempo e spazio; con questa conoscenza, si deve falsificare completamente la dualità e, insieme, il proprio senso dell’ego. Un mumukṣu deve praticare l’Adhyātma Yoga finché si stabilisce naturalmente nella Coscienza del Sé senza alcuno sforzo. Nel Vedānta, questo stabilirsi nella conoscenza è detto jñāna niṣṭha, che è lo strumento diretto per ottenere l’Adhyātma Yoga.

Chi pratica l’Adhyātma Yoga dovrebbe osservare esteriormente l’umiltà e le virtù prescritte nella Bhagavad Gītā1, discriminando sempre tra l’ego e il Sé in quanto suo Testimone. Non si tratta di un processo di meditazione costante o di uno sforzo per sentirsi “io sono il Sé”, come avviene nell’ambito della Kartṛ Tantra Sādhanā; si devono, invece, osservare attentamente i fatti della vita con mente critica per apprestarsi a discriminare nel modo descritto sopra.

Di questi tempi i Guru raccomandano e ingiungono soprattutto meditazioni e tecniche in qualche misura utili alla nostra vita quotidiana. L’Adhyātma Yoga è molto diverso da questi metodi. In questo caso, dopo aver conosciuto la natura non-duale del Sé, non ci sarà più la triade di fruitore, di fruizione e di oggetto fruito. Si veda la citazione che segue:

… ma quando per il conoscitore del Brahman tutto diventa il Sé, allora cosa si dovrebbe annusare e con che cosa…? (BU II.4.14)2

Dopo aver ascoltato di questo Adhyātma Yoga, alcuni lo prendono per un argomento che deve essere afferrato con l’intelletto. Queste persone pensano di aver compreso correttamente, ma continuano a chiedere “E poi?” Questa domanda indica che non hanno ancora acquisito le qualifiche necessarie per intuire la loro vera natura di Ātman. Credono che questi siano tutti esercizi intellettuali o noetici, perché pensano che dopo aver conosciuto queste ‘teorie’ si debbano praticare alcuni esercizi per ottenere risultati concreti nel tempo. Distinguono naturalmente tra la teoria e la pratica, come sono abituati a fare nella loro vita ordinaria. Ma fin dall’inizio abbiamo ribadito che ciò che viene fatto e raggiunto ex novo non è eterno ed è invariabilmente legato al tempo; questo è dimenticato da tali persone, dimenticanza che per loro diventa una ulteriore squalifica. Può essere raggiunto con la pratica dopo averlo conosciuto teoricamente solo ciò che è limitato dal tempo, dallo spazio, vale a dire ciò che non è il Sé. Ma nel caso del Sé, che è lo stesso proprio Essere e la cui natura è immediata e diretta, non c’è alcuna possibilità di distinzioni come ‘teorico’ ed ‘effettivo’. Il proprio Sé è il ‘pratico del pratico’. L’unico sforzo necessario per farlo emergere è quello di dismettere la propria tendenza naturale a identificarsi con gli anātman che vanno dall’ego al corpo. A questo proposito, Śaṃkara afferma:

Pertanto, dobbiamo solo eliminare ciò che per avidyā è falsamente attribuito a Brahman; non dobbiamo fare alcun ulteriore sforzo per acquisire la conoscenza di Brahman, poiché Egli è del tutto evidente. (BhGŚBh XVIII.50)

Significato di alcuni termini importanti secondo i Bhāṣya di Śaṃkara3

L’Adhyātma Yoga sarà ora qui descritto sulla base dei commenti di Śaṃkara al Prasthānatraya. A questo proposito ci sono molte parole usate nei Bhāṣya, come yogasamādhi e altre, il cui significato è diverso da quello che è comunemente attribuito in altri contesti. A questo scopo vorremmo mostrare qui alcuni esempi.

Nella Bhagavad Gītā la parola samādhi è interpretata da Śaṃkara per intendere quella buddhi o antaḥkaraṇa, in cui si sono riuniti tutti gli oggetti di godimento per il Puruṣa, l’anima individuale. Qui Śaṃkara dice che la ferma decisione dell’intelletto si chiama samādhi4, ossia ciò che può determinare se preferire i godimenti mondani o la liberazione; per entrambi, la risoluta volizione dell’intelletto è il motore principale5. Quindi samādhi significa buddhi.

Altrove nella Gītāsamādhi significa il Sé. L’intelletto si pacifica completamente quando, attraverso la discriminazione, si riconosce la vera natura del Sé. Quindi il Sé è chiamato samādhiDhi significa Sé. Se non si riconosce la vera natura del Sé, non c’è pacificazione della mente6. Così nella strofa successiva la parola samādhisthasya, indica colui che si è già stabilito nella sua vera natura di Ātman7.

In una Kārikā di Gauḍapāda aggiunta alla Māṇḍūkya Upaniṣad (III.37), samādhi è interpretato da Śaṃkara in due modi. Il primo è il seguente:

“[Il Sé] è assolutamente in pace, è luce eterna, in virtù di essere per natura la Coscienza che è il Sé; samādhiḥ, assorbimento divino, così è chiamato perché è realizzabile attraverso la visione che nasce dall’attenzione più profonda (samādhi)” (MUGKŚBh III.37).

 Il secondo è:

Oppure è chiamato samādhi, perché è l’oggetto dell’attenzione.” (MUGKŚBh ibid.)

Quanto alla parola yoga, essa è interpretata da Śaṃkara nei modi seguenti. Nella Bhagavad Gītāyoga è la consapevolezza della vera natura del Sé come risultato della discriminazione8. Sempre nella Gītā la parola yoga è usata per indicare i mezzi per raggiungere la via del jñāna, qui denominata Sāṃkhya. Vale a dire che qui con yoga s’intende la pratica del karma yoga quale strumento per accedere alla via della conoscenza (jñāna mārga)9.

Nell’introduzione al quarto capitolo della Bhagavad Gītā, il significato della parola yoga è dato come segue:

Lo yoga che è stato insegnato nei due capitoli precedenti è il naturale stabilirsi nella vera natura del Sé come risultato della completa rinuncia e che può essere raggiunto con i mezzi del karma yoga.

Qui yoga significa lo stabilirsi naturale nella vera natura del Sé.

La pratica dei mezzi diretti a ottenere la conoscenza della vera natura del Sé, cioè śravaṇa (ascolto), manana (riflessione) e nididhyāsana (o Adhyātma Yoga), conosciuta come Sāṃkhya o Sāṃkhya Yoga, preceduta dalla pratica del karma yoga, è chiamato il sentiero dello yoga. Queste due fasi del sentiero dello yoga sono descritte nel quinto capitolo della Bhagavad Gītā.

Nella Bhagavad Gītā (IX.25) la parola yoga è ancora usata per descrivere il mistero divino del Signore o del Sé; qui, perciò, yoga significa il Sé, il substrato di tutte le apparenze del mondo duale, che appare simultaneamente come se avesse preso la forma del mondo e allo stesso tempo privo di tutti i fenomeni dualisti. Questo mistero è descritto qui come yoga.

In tutti i passi menzionati sopra, Śaṃkara ha interpretato la parola yoga secondo le vere tradizioni del Vedānta, e perciò non ha mai preso in considerazione i termini samādhiyoga e altri ancora, come sono usati nel rāja yoga, nel pātañjala yoga, nello haṭha yoga e così via. Per questo motivo, quando parla di conoscenza dell’Ātman, non fa alcuna menzione di cakranāḍīkamalaKuṇḍalinī, prodigi ecc. In alcuni passaggi delle Upaniṣad sono menzionate alcune categorie particolari di upāsanā come la meditazione sull’Oṃkāra, l’ahaṅgraha upāsanā10 e altre. A volte, in brani vedici dedicati all’upāsanā, compaiono le nāḍī come iḍāpiṅgalā e suṣumnā e, solo in tal caso, anche Śaṃkara le ha menzionate.

Ma nei capitoli dedicati esclusivamente alla conoscenza dell’Ātman o all’intuizione della Realtà, non vi è alcuna menzione di quei termini. Prima di concludere l’argomento dell’Adhyātma Yoga dobbiamo discutere degli ostacoli sulla via e del metodo per superarli seguendo le indicazioni delle Kārikā di Gauḍapāda e della Bhagavad Gītā.

Gauḍapāda enumera i seguenti ostacoli: vikṣepa, distrazione, laya, ottundimento, sakaṣāya richiamo all’attaccamento e rasāsvāda, autocompiacimento.

Vikṣepa: Quando un sādhaka inizia a praticare Adhyātma Yoga, a volte la sua mente vaga pensando a questioni mondane con desiderio di godere del piacere degli oggetti esterni. Questa tendenza all’agitazione della mente è chiamata vikṣepa. Per superare questo difetto, un vicārin dovrebbe praticare vairāgya, il non-attaccamento o rinuncia. Questo non-attaccamento è di due tipi. Per prima cosa si dovrebbe osservare incessantemente che tutto è pieno di sofferenza ed è non-eterno. Considerando questi fatti mentre si godono cose del mondo, si dovrebbe desistere dal desiderio. Questa è metà della rinuncia. I buddhisti e i seguaci di altre scuole hanno insegnato solo questo tipo di rinuncia. Ma nel Vedānta, ai sādhaka è prescritta la rinuncia completa. In tal caso il mumukṣu deve ricordare che l’intero fenomeno della dualità è solo falsa apparenza. La realtà di questo universo è il Sé che si concepisce erroneamente come mondo. Il Sé è non-duale, non nato e assoluto anche allorché appare come universo. Quindi la Realtà è sempre non nata. Dal punto di vista di questa Realtà, anche ora il mondo come tale non c’è. Questo è chiamato “il ricordo la Realtà non-nata”. Quando il sādhaka osserva questo sul solido terreno della visione delle tre avasthā della vita, allora solo costui può ottenere la rinuncia completa o vairāgya.

Laya: Durante l’indagine, seguendo il metodo dell’Adhyātma Yoga, a volte l’intelletto diventa ottuso e scivola nel sonno profondo. Questo ostacolo è causato dall’inerzia (tamas). Per superarlo, si deve rendere vigile la propria mente impegnandosi nel processo di discriminazione interiore ed esteriore; inoltre si dovrebbero osservare certe discipline e regole di vita riguardanti la dieta, il lavoro, il riposo, il sonno ecc. A questo proposito si faccia riferimento alla Bhagavad Gītā (VIII-17). Osservando queste regole verso l’esterno si può vincere questo tamas.

Sakaṣāya (o kaṣāya): A volte la mente si ferma: non segue più il metodo di discriminazione né scivola nel sonno. Questa condizione della mente è come fosse la forma seminale del vikṣepa. La mente è pronta a distrarsi allorché l’attenzione diminuisce o è interrotta per un qualche momento. Per sconfiggere questo difetto, si dovrebbero fare ripetuti sforzi per riportarla sulla pista della discriminazione.

Rasāsvāda: Quando la mente è intenta nella discriminazione, prova una sorta di piacere o di beatitudine che è la conseguenza dell’attenzione prestata all’argomento. Questo autocompiacimento è d’ostacolo per stabilirsi nella vera natura del Sé. Questo difetto è chiamato rasāsvāda. Qui rasa significa piacere e āsvāda significa godere. Per superare questo ostacolo si dovrebbe fare affidamento sul severo processo di discriminazione che citiamo di seguito:

Questo piacere è un riflesso del Sé nella mente dovuto alla concentrazione. Poiché io sono il Sé, io sono il Testimone di chi gode di questo piacere. Poiché io sono il Sé, io sono il Testimone del godimento di questo piacere. Poiché io sono il Sé, sono il Testimone di ciò che è goduto in quanto oggetto di piacere. Proprio poiché io sono il Sé non-duale, non esiste alcun triplice concetto di godimento, il chi gode e di ciò che è goduto. Io sono della natura della Beatitudine, che è evidente nel sonno profondo. Invece il presente piacere è un concetto che appare e scompare. Quindi è una falsa apparenza proiettata sulla vera essenza”. (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā, III.40-46).

Riflettendo in questo modo si può superare questo ostacolo.

Tutte queste argomentazioni sono state riassunte nella Bhagavad Gītā che ne raggruppa i rimedi in due categorie. La prima corrisponde alla pratica costante (abhyāsa) e la seconda alla rinuncia (vairāgya). Per la prima dovrebbe osservare esteriormente l’umiltà, la purificazione della mente ecc., come sono state menzionate sopra (vBhagavad Gītā XIII.7-11 e XVIII.51), mentre interiormente si deve praticare la discriminazione con mente attenta, com’è stato descritto sopra in dettaglio. Vairāgya deve essere praticato com’è indicato nelle Kārikā di Gauḍapāda e che abbiamo già esposto. Osservando questi due testi si possono vincere tutti gli ostacoli alla pratica dell’Adhyātma Yoga.


  1. Stare con umiltà, semplicità, innocenza, tolleranza, sincerità, servizio al maestro, pulizia, fermezza, controllo del corpo e dei sensi, non attaccamento agli oggetti dei sensi, assenza di egoismo, vedendo il male nella nascita, morte, vecchiaia, malattie e disgrazie, senza attaccamento e con distacco nei confronti di figli, moglie, casa raggiungimento del desiderabile e dell’indesiderabile, con devozione incrollabile nei Miei confronti, con concentrazione unificata, con inclinazione a dimorare in un luogo pulito, con ripulsa per la folla, con fermezza nella conoscenza del Sé, contemplazione sulla Meta della conoscenza della Realtà, tutto questo è chiamato conoscenza. Ignoranza è ciò che le è opposto.” (BhG XIII.7-11); “Essendo dotato di mente purificata, e controllando se stesso con forza, rifiutando gli oggetti dei sensi a partire dal suono, ed eliminando l’attaccamento e l’odio, chi ricorre alla solitudine, mangia con parsimonia, ha sotto controllo la parola, il corpo e le emozioni, per il quale contemplazione e attenzione sono sempre il metodo più elevato, è posseduto dalla rinuncia, avendo scartato l’egoismo, la forza, l’orgoglio, il desiderio, l’ira e gli averi superflui, libero dall’idea del possesso, e sereno, costui è qualificato a realizzare il Brahman. Uno che è diventato Brahman e ha raggiunto il beato Sé non ambisce né desidera. Diventando equanime verso tutti gli esseri, egli raggiunge la devozione verso di Me.”(BhG XVIII.51-54) [N.d.C.].[]
  2. Cfr. BU IV.5.15 [N.d.C.].[]
  3. Alcune parti di questo paragrafo ripetono gli insegnamenti orali di Svāmī Satchidānandendra Mahārāja che, successivamente, sono stati messi per iscritto da Śrī D.B. Gangolly in pubblicazioni diverse. Deva Rao Kulakarnijī, perciò, ha trasmesso fedelmente il sapere ricevuto dal suo Guru com’è tradizionale, senza alcuna preoccupazione profana per i ‘diritti d’autore’. La conoscenza, infatti, non è una ‘proprietà intellettuale’ attribuibile a un singolo individuo: il senso dell’‘io’ e del ‘mio’ fanno parte dell’avidyā. [N.d.C.].[]
  4. La decisione rivolta all’uno non sorge nella mente (samādaudi coloro che si dilettano nel piacere e nel benessere, e i cui intelletti si lasciano trasportare da quella parola (śābda [pramāṇa], i testi del karma kāṇḍa).” (BhG II.44) [N.d.C.].[]
  5. E la decisione rivolta alla conoscenza o [all’AdhyātmaYoga, non si stabilisce, cioè non sorge nel samādhi [la parola samādhi qui ha il senso traslato di intelletto, dove si concentra ogni cosa che è di godimento per la persona] di coloro che si dilettano nel piacere e nel benessere, di coloro che desiderano solo la ricerca del godimento e della ricchezza, di coloro che si identificano con questi e di coloro il cui intelletto è distratto, il cui giudizio discriminante è onnubilato da insegnamenti pieni di rituali svariati e particolari.” (BhGŚBh II.44) [N.d.C.].[]
  6. Quando il tuo intelletto, dopo essere stato disorientato dall’aver udito la parola (śābda [pramāṇa]), diventerà incrollabile e fermo nel Sé, allora otterrai lo [AdhyātmaYoga che nasce dalla discriminazione” (BhG II.53). “Samādhau, in samādhi, vuole dire nel Sé; samādhi in senso derivato è ciò in cui l’intelletto diventa stabile.” (BhGŚBh II.53) [N.d.C.].[]
  7. O Keśava, qual è la descrizione di un uomo che è assorbito nell’Ātman? Come parla l’uomo di stabile conoscenza? Come siede? Come si muove?” (BhG II.54) “Come può essere descritto da altri un uomo di stabile conoscenza, la cui realizzazione ‘Io sono il Brahman Supremo’, rimane immutabile, essendo assorbito nell’Ātman?” (BhGŚBh II.54) [N.d.C.].[]
  8. CfrBhG II.53 riportata due note sopra. “Allora raggiungerai lo yoga, l’illuminazione, la reintegrazione nel Sé che sorge dalla discriminazione”. (BhGŚBh II.53) [N.d.C.].[]
  9. Ma ascolta questo (insegnamento) dal punto di vista dello yoga, dotato della quale conoscenza ti libererai dalla schiavitù dell’azione” (BhG II.39). “Ma ascolta questa conoscenza che ti sarà insegnata prossimamente [partendo] dal punto di vista dello yoga, cioè dal punto di vista degli strumenti per raggiungerla; ossia ascoltala [partendo] dalla prospettiva del karma yoga, vale a dire dell’esecuzione dei riti e dei doveri che ti conducono al distacco dopo aver distrutto le coppie degli opposti, grazie all’adorazione del Signore, e (ascoltala) anche nel contesto della pratica dell’assorbimento nel Sé. […] O Partha, ti libererai della schiavitù dell’azione; l’azione è essa stessa la schiavitù descritta come dharma e adharma; ti libererai di questa schiavitù con il raggiungimento della via della conoscenza per grazia del Signore.” (BhGŚBh II.39) [N.d.C.].[]
  10. Meditazione che prende come supporto apparente il proprio ego. Considerata lecita per gli avatāra e i jīvan mukta, tale upāsanā è priva d’ogni utilità per l’uomo ordinario: “Il Signore Kṛṣṇa meditava su Se stesso ogni mattina come un gṛhastha, e allo stesso modo il Signore Rāmacandra eseguiva yajña per soddisfare Se stesso, ma questo non significa che un comune essere vivente debba imitare il Signore assumendo il metodo dell’ahaṅgraha upāsanā”. (Śrīmad Bhāgavata Purāṇa, IX.11.1) [N.d.C.].[]