🇮🇹 Francesco Zambon: Metamorfosi del Graal, Roma, Carocci, 2012. ISBN 978-88-430-6575-2. Pp. 414.
Francesco Zambon, professore ordinario di filologia romanza all’Università di Trento, è un saggista attento e dotato di acutezza intellettuale non frequente nello scenario accademico e filologico. In Italia si può senz’altro considerare uno dei maggiori esperti in filologia e letteratura romanza. L’ambito di ricerca in cui si apprezzano i suoi maggiori contributi è la letteratura allegorica medioevale, in particolare si è dedicato con attenzione allo studio dei bestiari e dei trovatori.
Dopo diversi articoli sul ciclo graaliano e un’opera incentrata sullo studio di Robert de Boron e del suo Roman du Graal (Robert de Boron e i Segreti del Graal) – comprensiva finanche di una edizione critica del romanzo in antico francese – Zambon si è impegnato a comporre una sintesi chiara ed esplicativa di tutte le metamorfosi subite dal simbolo del Graal e più in generale della materia che lo riguarda, dalla sua nascita letteraria fino ai nostri giorni: Metamorfosi del Graal edito da Carocci.
Oltre al paradigma generale d’interpretazione, l’opera di Zambon risulta molto valida per l’utilizzo rigoroso delle fonti in riferimento alla teologia cristiana primitiva1 e medioevale e per la ricostruzione dei precedenti precursori del Graal, i cui indizi si trovano nella storia: gli apocrifi Cristiani, le leggende legate alla figura di Giuseppe di Arimatea e il sostrato celtico, traccia, quest’ultimo, di quanto il cristianesimo si fosse sciolto nell’humus culdeo2 dell’Irlanda alto-medioevale.
Oltre alla disamina attenta ed esaustiva che Zambon fa della leggenda graaliana – dalla nascita come piatto contenente un’ostia fino alle sue involuzioni più improbabili come il ‘fantasioso’ Codice da Vinci di Dan Brown – quello che ci interessa mettere in luce del suo libro è la presentazione di una possibile chiave di lettura del ciclo graaliano, troppo spesso superficialmente ignorata dall’ambiente accademico: una lettura che Dante avrebbe chiamato nagogica” e che apre ad una pluralità di significati di maggiore o minore elevatezza.
L’interpretazione dell’Autore è riassunta significativamente in un paragrafo dell’introduzione al suo libro:
“Sotto questo aspetto il Joseph di Robert de Boron e la Trilogia in prosa che va sotto il suo nome non fanno che declinare in un senso più marcatamente iniziatico la nuova prospettiva spirituale indicata da Chrétien de Troyes. Facendo di Giuseppe di Arimatea un cavaliere (al servizio di Pilato), Robert rappresenta – come ha osservato Jean Frappier – la cavalleria ai piedi della croce, sul teatro stesso della Passione, ne fa l’istituzione che si prese cura del corpo di Cristo subito dopo la sua morte e alla quale spetta il pieno compimento della salvezza del mondo. Nel terzo custode del Graal, identificato nella Trilogia in prosa con Perceval, scorre lo stesso sangue del primo, Giuseppe di Arimatea; e la mediazione fra il personaggio evangelico e il cavaliere arturiano è assicurata da una figura – per metà biblica e per metà celtica – inventata da Robert: quella di Hebron o Bron, il Ricco [il Re] Pescatore. Il suo compito è proprio quello di trasferire il Graal dalla Giudea alle tenebrose valli di Avalon, cioè l’Inghilterra: Hebron diventa così, in qualche modo, la stessa incarnazione romanzesca della grant estoire di Robert de Boron, di quella sacra translatio che unisce l’Oriente all’Occidente, la rivelazione cristiana alla cavalleria. In questo modo il suo romanzo si presenta come un vero e proprio testo sacro, un Vangelo della cavalleria. E alle posizioni di Robert de Boron appare sotto certi aspetti vicino anche il Parzival di Wolfram von Eschenbach, un testo peraltro fortemente influenzato dalla spiritualità templare”.3
Una concezione del Ciclo graaliano, questa, di cui Zambon non fa mistero, ribadendola in diversi passaggi:
“La nozione che meglio consente di comprendere la natura di questa inedita forma narrativa è quella di “racconto mistico” (récit mystique), formulata da Henry Corbin a proposito dell’epopea islamica in Iran: la nozione, cioè, di un racconto riguardante eventi che si svolgono in un mondo rigorosamente “orientato” verso l’origine di sé e del mondo – il mundus imaginalis – e che può essere raggiunto solo quando il sapere teorico si sia trasformato in avvenimento reale, quando esso sia diventato concreta visione che nessun concetto potrebbe esprimere. È proprio questa l’acomencaille di tutte le avventure che Galaad contempla in fondo al Graal, il Volto di Dio che Guglielmo di Saint-Thierry vede – o almeno intravede – nei brevi istanti dell’unitas spiritus o dell’excessus mentis”.4
Una nota di merito dell’indagine di Zambon consiste in effetti nel peso e nello spazio – in una disamina senza buchi né riduzioni parodistiche – dedicati ad autori come Corbin, Ponsoye, Evola, Onofri e Guénon, peculiarità che distingue i suoi studi da quelli ben più approssimativi di altri accademici, come Umberto Eco. Quest’ultimo ha perseguito un intento di svuotamento radicale del contenuto del mito del Graal, a partire dalla moderna rivisitazione della versione wagneriana:
“il Graal è per entrambi [Wagner ed Eco] un centro o un principio vuoto, un nulla postulato come perno intorno a cui si combinano e si disfano incessantemente gli elementi fisici e i racconti […]”5.
Nonostante la pretesa di una interpretazione oggettiva e scientifica, Zambon mostra come Eco non si sia spinto molto al di là della moderna vulgata occultistica, ignorando quasi del tutto i romanzi medioevali che lo hanno originato.
Il saggio di Zambon, pertanto, risulta utile per chi cerca un contraddittorio al decostruttivismo che va di moda al giorno d’oggi: una critica letteraria intenta a voler dimostrare che il mondo non sia composto altro che di segni arbitrari e che oltre al segno non ci sia alcun significato, alcuna profondità, alcuna realtà che faccia da referente e che valga la pena indagare. In questo modo tutti i testi medievali si appiattiscono: la cerca del Graal si riduce ad un “racconto che si costruisce” e la Divina Commedia ad una prosopopea della poesia di Dante. Il simbolico viene ridotto al fantastico, l’iter iniziatico al fiabesco, mentre la dimensione della trascendenza – e il contenuto teologico-sapienziale che ne dischiude l’accesso – ignorata o ridotta a mera occasione letteraria, a topos o pretesto. In mezzo a questo decostruzionismo, il saggio di Zambon apre uno scenario non nuovo, ma sicuramente di respiro per un ciclo medioevale che è stato troppe volte letto in modo partigiano.
Il rigore di questo saggio, tuttavia, si riscontra nella puntualità con la quale l’Autore mette in luce anche le debolezze delle interpretazioni novecentesche dei ‘perennialisti’. Il rischio, infatti, è di cadere in una logica di opposizione tra posizioni sclerotizzate, quella esoterico-occultista da una parte e quella accademica e ‘snaturata’ dall’altra, ciò a causa dell’arbitrarietà dei primi nell’approcciare i testi medievali (il cui merito consiste invece nell’intuizione della profondità e della vera portata del mito) e dell’incomprensione dei secondi, in merito a tutto ciò che non sia mera letteratura.
Il merito maggiore di quest’opera, dunque, è stato quello di utilizzare il paradigma guénoniano, sì, ma alla luce delle categorie interpretative teologiche medioevali e non attraverso modelli ricostruiti ad hoc come quelli otto-novecenteschi. Certo, Zambon è consapevole del merito che bisogna riconoscere a Guénon per aver rilevato il significato simbolico, l’”orizzonte” del Graal, e averne cercato una interpretazione “d’insieme”, indicando i suoi rapporti fondamentali con altri simboli – come quelli del vaso, della coppa, del cuore, della pietra celeste, della “parola perduta”, del centro del mondo, e così via. Tale prospettiva, infatti, è alla base di diversi studi successivi sul mito, più corposi e sistematici, come quelli di Evola, di Corbin, di Eliade, di Ponsoye: alla luce di tali aperture, ora, risulta evidente come qualsiasi ricerca puramente storico-letteraria sul tema non possa che essere gravemente limitata nella propria capacità esplicativa. Altro merito che Zambon riconosce a Guénon è quello di aver messo in luce le relazioni fra i romanzi del ciclo graaliano e le correnti di esoterismo cristiano che attraversano l’epoca medievale, mostrando la dipendenza di questi testi da una visione “mistica” e “simbolica” – ma tuttavia pienamente ortodossa – del cristianesimo. Nondimeno, “la lezione di Guénon conserva tutto il suo valore per quanto riguarda i princìpi generali di interpretazione, ma appare ormai irrimediabilmente superata nei suoi riferimenti alle fonti e alle sue concrete applicazioni ai testi medioevali”.6
A conferma di ciò, la storia riportata da Guénon sull’origine del Graal non corrisponde affatto a un testo o a un corpus di testi medievali, ma è quella che si potrebbe definire una ‘compilazione’ moderna basata su alcuni romanzi medievali, liberamente combinati e arricchiti di nuovi simboli: nella versione guénoniana – dopo la descrizione di come gli angeli intagliarono la coppa nello smeraldo – si aggiunge che lo smeraldo richiama sorprendentemente l’urna, “la perla frontale che, nell’iconografia indù, occupa spesso il posto del terzo occhio di Śiva”. Questa associazione permetterebbe così di spiegare il simbolo alla luce del ‘senso dell’eternità’ che è riferito alla visione della Divinità, e poi di accostarlo ai vasi o ai recipienti di numerose tradizioni antiche che contengono il ‘cibo’ o la ‘bevanda d’immortalità’. Il Graal, insomma, simboleggerebbe per Guénon la perfetta conoscenza della Verità tradizionale. Non solo, aggiunge anche che Adamo fosse il custode del Graal nel Paradiso e che, dopo la cacciata dall’Eden, il Graal sia rimasto lì. Descrive, poi, il recupero del Graal a opera di Seth, rientrato temporaneamente nel Paradiso, e la sua conservazione da parte dei successori di Seth, successori che secondo Guénon rappresentano la costituzione di un “centro spirituale destinato a sostituire il Paradiso perduto” e “la conservazione della tradizione primordiale nella sua integrità in un simile centro spirituale”.
Questo è il sunto, nel suo tipico linguaggio, che Guénon fa nei vari articoli sul tema. Zambon si interroga sulla provenienza dei dati leggendari da lui esposti e interpretati simbolicamente. La risposta che dà è che, non essendo riportata in nessuno dei romanzi del ciclo graaliano una storia corrispondente a quella riassunta da Guénon, se ne deduce che il suo sia un abile montaggio di episodi e di temi ricavati da testi diversissimi per epoca e ispirazione, con l’aggiunta di elementi completamente rielaborati e di provenienza dubbia (occultistica), peraltro senza mai citare alcuna fonte. Ad esempio, la storia raccontata da Guénon sul ritorno nel Paradiso Terrestre da parte di Seth per recuperare la coppa, e il riferimento a Adamo e Seth come i primi custodi del Graal, non si trova in alcun testo medioevale, a parte due apocrifi veterotestamentari: l’Apocalisse di Mosè e la Leggenda di Adamo ed Eva, i quali ebbero comunque una certa fortuna nel medioevo. Secondo questa leggenda, tuttavia, un certo tempo dopo la cacciata dal Paradiso, Seth fu inviato insieme a Eva nel Paradiso in cerca di un olio miracoloso stillante da un albero e in grado di lenire le sofferenze di Adamo, ormai prossimo alla morte. Ma i suoi sforzi risultarono vani: l’arcangelo Michele gli annunciò, infatti, che ‘l’olio della misericordia’ sarebbe stato concesso solo negli ‘ultimi tempi’, quando sarebbe avvenuta la resurrezione; il racconto prosegue, poi, fino alla morte di Adamo e di Eva, entrambi sepolti nei pressi del Paradiso terrestre. Qui è piuttosto evidente che la storia dell’olio miracoloso sia stata ripresa sostituendo l’olio con il Graal. Poi, il fatto che Guénon parli del Graal come di una coppa intagliata nello smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, per Zambon, deriva “da una combinazione fra i passi appena citati [Parzival, IX, 454, 24-30] di Wolfram von Eschenbach7 e le tradizioni riguardanti il Sacro Catino di Genova che si pretendeva fatto di smeraldo”8 e trovato dai templari a Cesarea nel 1101. Questa leggenda è stata riportata da Iacopo da Varazze nella sua Chronica civitatis Ianuensis (fine XIII secolo), nella quale lo scrittore afferma di aver letto in “alcuni libri inglesi” che Nicodemo raccolse il sangue di Gesù in un vaso di smeraldo miracolosamente preparato da Dio e chiamato Sangraal.
Ad ogni modo, a parte i vari rimaneggiamenti della leggenda originaria, la genesi di questa ricostruzione può essere scoperta facilmente riconducendola alla storia – quasi identica – presentata nel libro sulla cavalleria Le secret de la Chevalerie di Victor-Emile Michelet (il quale fece parte dell’Ordine Cabalistico della Rosa+Croce), dunque un frequentatore degli ambienti occultisti sic et simpliciter, e al saggio di Charbonneau Lassay intitolato “Le Saint-Graal” pubblicato su Le rayonnemment Intellectuel del gennaio-marzo 1938. Entrambi gli scritti sono postumi allo studio di Guénon, dunque è improbabile che si sia riferito direttamente a loro, ma verosimilmente tutti e tre avevano come riferimento lo stesso ambiente occultista da cui attingere a piene mani. Tutti e tre gli studi, infatti, non riportano indicazioni alle fonti e lo stesso Evola si riferisce a Guénon e Michelet quando riporta la storia nel suo libro.
In riferimento alla questione dello smeraldo-ūrṇā, così rilevante dal punto di vista simbolico e nell’economia dell’interpretazione generale del simbolo del Graal, va rilevato che Guénon o aveva una traduzione sbagliata, oppure si è rifatto liberamente al testo in modo da ricollegarsi al terzo occhio di Śiva, forzando le fonti per istituire una più precisa corrispondenza e dare una spiegazione estranea ai testi e al contesto teologico specifico. Per di più, l’ūrṇā e il terzo occhio di Śiva – che Guénon ha accostato lasciando intendere che siano la medesima cosa – non lo sono affatto, e questo dettaglio è sfuggito a Zambon, non essendo un esperto di dottrine orientali: l’ūrṇā è uno dei 32 lakṣaṇa o segni corporei per riconoscere un Buddha. Nel caso specifico, non è propriamente frontale (come lo è l’occhio di Śiva), bensì è sita alla radice del naso tra le due sopracciglia, formando così con esse una linea orizzontale. Il significato etimologico del termine ūrṇā è ‘lanoso’, vale a dire glomerulo spiraliforme di peli crespi, ovverosia la caratteristica pilifera tipica dell’etnie africane e semitiche, tanto che alcuni orientalisti hanno persino pensato erroneamente a un’origine africana di Siddhārta Gautama. Nella simbologia buddhista ciascuna ūrṇā, che forma anche la chioma dell’Illuminato, rappresenta un corpo celeste. Guénon, invece, pretende che ūrṇā sia una perla incastonata nella fronte di Śiva e poi passata nel Buddhismo. Questa è una invenzione. In India c’è un unico caso di un santo medievale che è nato con un rubino incastonato nella fronte, ma non era hindū, bensì jaina: Dādā Guru Jinacandra Sūri. Alla sua morte il rubino si staccò, cadendo in una coppa di latte. La reliquia è venerata in un tempio nella Jaina Dādābaḍī di Mehrauli, alla periferia di Delhi. Nonostante questo esempio, comunque si trattava di un rubino e non di una perla. Inoltre, l’ūrṇā non può essere confusa con il terzo occhio frontale di Śiva, con cui il dio coglie l’attimo fuggente dell’eterno presente. Per questa ragione Śiva è denominato Tryambakeśvara, il Signore con tre occhi.
Pertanto, Zambon non è in errore riguardo le interpretazioni di Guénon quando afferma: “mossa dal giustificato intento di cercarne il senso esoterico e simbolico, la tradizione occultistica – di cui anche Guénon appare in questo caso largamente tributario – lo ha sottoposto a quello che si potrebbe chiamare un “eccesso di interpretazione”, tale da dissolverne quasi del tutto i contorni storici e letterari”.
Questo “eccesso di interpretazione” di cui parla Zambon ha finito per alimentare la letteratura new age che ha preso piede negli ultimi decenni in Occidente, letteratura che trova affascinante o interessante il mito graaliano per ragioni sbagliate, ognuno proiettando arbitrariamente su di esso le proprie errate impressioni o precomprensioni, senza preoccuparsi di indagare a fondo e con rigore la leggenda.
Insomma, mentre la proposta interpretativa di Guénon presenta una convincente potenza esplicativa, ma un’arbitraria e poca rigorosa attenzione alle fonti, d’altra parte le esposizioni accademiche presentano un utilizzo rigoroso delle fonti, ma mancano di capacità esplicativa per il valore di verità tramandato dalla vicenda graaliana. L’interpretazione proposta, invece, da Zambon ci sembra unire queste due dimensioni esplicative, indispensabili per un’indagine esaustiva della materia graaliana. Il paradigma esegetico proposto nel corso dell’opera di Zambon fa propria la chiave di interpretazione avanzata da Guénon, acquisendo aspetti e contenuti che la critica non aveva toccato, ma superandone l’aspetto negativo, cioè la cattiva gestione delle fonti sulla base di una personale rimodulazione. La posizione di Zambon avvalora quella visione tramite una riconsiderazione delle fonti originali alla luce delle categorie interpretative teologico-spirituali proprie della tradizione cristiana e del quadro intellettuale e politico medioevale. Questo paradigma interpretativo avallato dall’Autore fa coincidere rigore, importanza delle fonti e potenza esplicativa della vicenda graaliana, smarrita nelle interpretazioni della moderna critica.
Siamo poi dell’avviso che il lavoro di ricerca storico-letteraria e di esegesi dei contenuti fatto da Zambon possa essere compiutamente avvalorato se coniugato con una ricerca storica che lo inquadri nella più ampia cornice della cavalleria medioevale, senza la quale il suo pieno significato non può essere illuminato. Un aspetto interessante è il fatto che il nucleo originale del mito ha avuto, per la verità, un arco temporale molto breve, essendone comparse le prime testimonianze nel 1180 con Chrétien de Troyes e chiudendosi intorno al 1230 con la Queste del Saint Graal, un veloce lampo di cui nessuno si è ancora preoccupato di chiarire nel dettaglio le ragioni storiche e letterarie. Ciò che Zambon ha ricostruito a dovere è, appunto, la ‘metamorfosi’ del racconto del Graal: in questa ricostruzione è partito dal contesto delle Corti d’Amore della Provenza, cuore della composizione narrativa di storie come la Chansons de Roland o Tristano e Isotta – prive di riferimenti iniziatici riconoscibili (l’unica protagonista è la cavalleria morale) – per poi studiare come in questo contesto l’elemento iniziatico acquisisca via via sempre più rilievo, fondendo il patrimonio cristiano alla mitologia celtica. La conclusione di questa disamina è la descrizione di uno sviluppo il cui esito – per completezza, profondità e visione teologica – sarebbe la Queste del Saint Graal, a causa dell’influenza esercitata su questo testo dalla scuola cistercense e dal pensiero di San Bernardo di Chiaravalle9. Acquisito ciò, Zambon avrebbe potuto proseguire ulteriormente nella propria riflessione: prendendo atto che la letteratura del Graal si situa alla fine di una parabola temporale – è infatti parte di una più ampia letteratura cavalleresca composta di ulteriori cicli – e visto che la letteratura precedente, almeno in un primo momento, non sembra esplicitare un interesse iniziatico, sorge allora la questione se l’istituzione della cavalleria, che precede di qualche secolo la stesura di tali storie, si fosse costituita ab origine in un orizzonte iniziatico, volto alla conquista del Divino e all’approfondimento dei significati spirituali veicolati dalla Rivelazione, oppure se tale interesse interiore sia stato una aggiunta posteriore, una proiezione letteraria. Ciò permetterebbe di comprendere meglio che cosa sia stata e abbia effettivamente rappresentato la Cerca del Graal, e inquadrare ulteriormente la sua portata storica e la sua funzione reale all’interno di quel variegato fenomeno che fu la cavalleria medioevale.
A nostro avviso la Cerca del Graal, in linea di principio, rappresenta la trasposizione mitica dell’ideale cavalleresco della via iniziatica – la quale conduce l’uomo ad assimilarsi, per quanto gli sia possibile, a Dio – e dunque il culmine dell’elaborazione dottrinale, in forma simbolica e letteraria, della visione originaria della cavalleria occidentale, più che essere essa stessa una vera, propria e specifica organizzazione. È il modo in cui l’uomo medioevale decise, ad un certo momento, di rappresentare l’ideale della cavalleria, e nel cristallizzare quello che evidentemente era un patrimonio già diffuso e condiviso e una realtà plurale e variegata, scelse significativamente di inserire la milizia terrena all’interno di un orizzonte di senso ulteriore, celeste. Una tale concezione eviterebbe l’imbarazzo di finire nel consueto ginepraio della ‘caccia’ a improbabili e chimeriche vie segrete – quali la Massenia del Santo Graal (in realtà una creazione romanzesca di Albrecht von Scharfenberg) – che, come rivoli, avrebbero attraversato i secoli ereditando tale patrimonio, eredità questa che sarebbe rintracciabile in qualche richiamo presente in simboli e riti. Si tratta, invero, di informazioni inaffidabili e posticce, per lo più ricostruzioni arbitrarie, compilazioni moderne, deliberate falsificazioni, frutto di epoche di revival letterari e fascinazione per l’esotico o l’antico, quali furono il Rinascimento prima e il Romanticismo e l’Occultismo poi. Per di più, inseguire queste immaginazioni – divenute un vero e proprio mito dell’occultismo francese ottocentesco – oltre ad essere una infruttuosa perdita di tempo, significa prestare il fianco alla critica che, demolendo facilmente tali divagazioni e mostrando la totale infondatezza di certe pretese ricostruzioni e genealogie, vuole con ciò di decostruire anche l’orizzonte iniziatico e intellettuale che invece è radicato veramente nelle leggende medioevali del Graal.
Concludendo, un rilievo che è possibile fare all’indagine di Zambon è l’attenzione, a nostra opinione insufficiente, riservata al Parzifal di Wolfram Von Eschenbach e allo Jungerer Titurel di Albrecht von Scharfenberg, l’approfondimento dei quali avrebbe di certo apportato interessanti spunti, visto che queste opere presentano molti elementi capaci di arricchire la leggenda del Graal di simboli, significati e orizzonti ulteriori.
Tommaso Ribeca
🇫🇷 Francesco Zambon: Metamorfosi del Graal [Métamorphose du Graal], Roma, Carocci, 2012. ISBN 978-88-430-6575-2. Pp. 414.
Francesco Zambon, professeur titulaire de philologie romane à l’Université de Trente, est un essayiste doté d’une acuité intellectuelle peu fréquente sur la scène universitaire et philologique. En Italie, il est sans doute l’un des plus grands spécialistes de la philologie et de la littérature romanes. Le domaine de recherche dans lequel ses principales contributions sont appréciées est la littérature allégorique médiévale, il s’est notamment consacré à l’étude des bestiaires et des troubadours.
Après plusieurs articles sur le cycle du Graal et un ouvrage centré sur l’étude de Robert de Boron et de son Roman du Graal (Robert de Boron e i Segreti del Graal) – comprenant même une édition critique du roman en ancien français – Zambon a entrepris de composer une synthèse claire et explicative de toutes les métamorphoses subies par le symbole du Graal et plus généralement de la matière le concernant, depuis sa naissance littéraire jusqu’à nos jours : Metamorfosi del Graal aux éditions Carocci.
Outre le paradigme général d’interprétation, le travail de Zambon est très précieux pour l’utilisation rigoureuse des sources en référence à la théologie chrétienne primitive 10 et médiévale et pour la reconstruction des précédents précurseurs du Graal, dont les indices se trouvent dans l’histoire : les apocryphes chrétiens, les légendes liées à la figure de Joseph d’Arimathie et le substrat celtique, ce dernier étant une trace de la façon dont le Christianisme s’était dissous dans l’humus culdéen11 de l’Irlande du haut Moyen Âge.
Outre l’examen minutieux et exhaustif que Zambon fait de la légende graalienne – depuis sa naissance en tant que plat contenant un hostie jusqu’à ses involutions les plus improbables comme le ‘fantaisiste’ Da Vinci Code de Dan Brown – ce qui nous intéresse dans son livre est la présentation d’une clé de lecture possible du cycle graalien, trop souvent ignorée superficiellement par les universitaires : une lecture que Dante aurait appelée anagogique et qui ouvre une pluralité de sens plus ou moins élevés.
L’interprétation de l’auteur est résumée de manière significative dans un paragraphe de l’introduction de son livre : “A cet égard, le Joseph de Robert de Boron et la trilogie en prose qui porte son nom n’ont fait que décliner dans un sens initiatique plus marqué la nouvelle perspective spirituelle indiquée par Chrétien de Troyes. En faisant de Joseph d’Arimathie un chevalier (au service de Pilate), Robert représente – comme l’a remarqué Jean Frappier – la chevalerie au pied de la croix, sur le théâtre même de la Passion, il en fait l’institution qui a pris soin du corps du Christ immédiatement après sa mort et à laquelle est dû le plein accomplissement du salut du monde. Dans le troisième gardien du Graal, identifié dans la Trilogie en prose comme Perceval, coule le même sang que dans le premier, Joseph d’Arimathie ; et la médiation entre le personnage évangélique et le chevalier arthurien est assurée par une figure – mi-biblique, mi-celtique – inventée par Robert : celle d’Hébron ou Bron, le riche [Roi] pêcheur. Sa tâche consiste précisément à transférer le Graal de la Judée aux sombres vallées d’Avalon, c’est-à-dire l’Angleterre : Hébron devient ainsi, en quelque sorte, l’incarnation très fictive de l’estoire du Graal de Robert de Boron, de cette translatio sacrée qui unit l’Orient et l’Occident, la révélation chrétienne et la chevalerie. Ainsi, son roman se présente comme un véritable texte sacré, un évangile de la chevalerie. Et les positions de Robert de Boron apparaissent également à certains égards proches du Parzival de Wolfram von Eschenbach, un texte lui aussi fortement influencé par la spiritualité templière”12.
Zambon ne cache pas cette conception du cycle graalien et la reprend à plusieurs reprises : “La notion qui permet le mieux de comprendre la nature de cette forme narrative inédite est celle de “récit mystique”, formulée par Henry Corbin à propos de l’épopée islamique en Iran : la notion, c’est-à-dire, d’un récit concernant des événements qui se déroulent dans un monde rigoureusement orienté vers l’origine de soi et du monde – le mundus imaginalis – et qui ne peut être atteint que lorsque la connaissance théorique s’est transformée en événement réel, lorsqu’elle est devenue une vision concrète qu’aucun concept ne pourrait exprimer. C’est l’acomencaille de toutes les aventures que Galaad contemple au fond du Graal, le Visage de Dieu que Guillaume de Saint-Thierry voit – ou du moins entrevoit – dans les brefs moments d’unitas spiritus ou d’excessus mentis“13.
Un mérite de l’enquête de Zambon consiste dans le poids et l’espace – dans un examen sans trous ni réductions parodiques – consacrés à des auteurs comme Corbin, Ponsoye, Evola, Onofri et Guénon, une particularité qui distingue ses études de celles, beaucoup plus approximatives, d’autres universitaires, comme Umberto Eco. Ce dernier poursuit un vidage radical du contenu du mythe du Graal, à partir de la réinterprétation moderne de la version de Wagner : “pour l’un comme pour l’autre [Wagner et Eco], le Graal est un centre ou un principe vide, un rien postulé comme pivot autour duquel les éléments physiques et les récits se combinent et se défont incessamment […]”5 Malgré la prétention d’une interprétation objective et scientifique, Zambon montre comment Eco n’est pas allé top au-delà de la vulgate occultiste moderne, ignorant presque complètement les romans médiévaux qui en sont à l’origine.
L’essai de Zambon est donc utile à ceux qui cherchent des arguments contre le déconstructivisme en vogue aujourd’hui : une critique littéraire qui veut démontrer que le monde n’est composé que de signes arbitraires et qu’au-delà du signe, il n’y a pas de sens, pas de profondeur, pas de réalité qui agisse comme référent et qui mérite d’être étudiée. Ainsi, tous les textes médiévaux sont aplatis : la quête du Graal est réduite à un ‘conte construit’ et la Divine Comédie à une prosopopée de la poésie de Dante. Le symbolique est réduit au fantastique, le processus initiatique à la fable, tandis que la dimension de la transcendance – et le contenu théologique-sapientiel qui permet d’y accéder – est ignorée ou réduite à une simple occasion littéraire, un topos ou un prétexte. Au milieu de ce déconstructionnisme, l’essai de Zambon ouvre un scénario qui n’est pas nouveau, mais certainement de souffle pour un cycle médiéval qui a trop souvent été lu de manière partisane.
La rigueur de cet essai réside toutefois dans la ponctualité avec laquelle l’auteur souligne également les faiblesses des interprétations des ‘pérennialistes’ du XXe siècle. Le risque, en effet, est de tomber dans une logique d’opposition entre des positions sclérosées, l’ésotérique-occultiste d’un côté et l’académique et ‘dénaturée’ de l’autre, en raison de l’arbitraire des premiers dans l’approche des textes médiévaux (dont le mérite consiste plutôt dans l’intuition de la profondeur et de la véritable portée du mythe) et de l’incompréhension des seconds, à l’égard de tout ce qui n’est pas que de la simple littérature.
Le grand mérite de ce travail a donc été d’utiliser le paradigme guénonien, certes, mais à la lumière des catégories interprétatives théologiques médiévales et non à travers des modèles reconstruits ad hoc comme ceux des XIXe et XXe siècles. Certes, Zambon est conscient du mérite qu’il faut reconnaître à Guénon d’avoir relevé la signification symbolique, l’’horizon’ du Graal, et d’avoir cherché une interprétation ‘globale’, indiquant ses relations fondamentales avec d’autres symboles – comme ceux du vase, de la coupe, du cœur, de la pierre céleste, de la ‘parole perdue’, du centre du monde, et ainsi de suite. En effet cette perspective est à la base de plusieurs études ultérieures sur le mythe, plus substantielles et systématiques, comme celles d’Evola, Corbin, Eliade, Ponsoye : à la lumière de ces ouvertures, il est désormais clair que toute recherche purement historico-littéraire sur le sujet ne peut être que sévèrement limitée dans sa capacité explicative. Un autre mérite que Zambon reconnaît à Guénon est celui d’avoir mis en évidence les relations entre les romans du cycle graalien et les courants de l’ésotérisme chrétien qui ont traversé l’époque médiévale, en montrant la dépendance de ces textes à l’égard d’une vision ‘mystique’ et ‘symbolique’ – mais néanmoins pleinement orthodoxe – du christianisme. Néanmoins, “la leçon de Guénon conserve toute sa valeur en ce qui concerne les principes généraux d’interprétation, mais apparaît désormais irrémédiablement dépassée dans ses références aux sources et ses applications concrètes aux textes médiévaux”14.
Pour confirmer cela, l’histoire rapportée par Guénon sur l’origine du Graal ne correspond pas du tout à un texte ou à un corpus de textes médiévaux, mais est ce que l’on pourrait définir comme une ‘compilation’ moderne basée sur quelques romans médiévaux, librement combinés et enrichis de nouveaux symboles : dans la version guénonienne – après la description de la façon dont les anges ont gravé la coupe dans l’émeraude – il est ajouté que l’émeraude rappelle étonnamment l’ūrṇā, “la perle frontale qui, dans l’iconographie hindoue, occupe souvent la place du troisième œil de Śiva”. Cette association permettrait ainsi d’expliquer le symbole à la lumière du ‘sens de l’éternité’ qui renvoie à la vision de la divinité, puis de le juxtaposer aux vases ou récipients de nombreuses traditions anciennes contenant la ‘nourriture’ ou la ‘boisson de l’immortalité’. Le Graal, en somme, symboliserait pour Guénon la connaissance parfaite de la Vérité traditionnelle. De plus, il ajoute qu’Adam était le gardien du Graal au Paradis et que, après l’expulsion de l’Eden, le Graal y est resté. Il décrit donc la récupération du Graal par Seth, rentrant temporairement au Paradis, et sa conservation par les successeurs de Seth, successeurs qui, selon Guénon, représentent la constitution d’un “centre spirituel destiné à remplacer le Paradis perdu” et “la conservation de la tradition primordiale dans son intégrité dans un tel centre spirituel”.
C’est le résumé, dans son langage typique, que fait Guénon dans les différents articles sur le sujet. Zambon s’interroge sur l’origine des données légendaires qu’il expose et interprète symboliquement. La réponse qu’il donne est que, n’étant rapportée dans aucun des romans du cycle graalien, une histoire correspondant à celle résumée par Guénon, on en peut déduire qu’il fait un habile montage d’épisodes et de thèmes tirés de textes très différents par leur époque et leur inspiration, avec l’ajout d’éléments complètement réélaborés de provenance douteuse (occultiste), de surcroît sans jamais citer de source. Par exemple, l’histoire racontée par Guénon sur le retour de Seth au Paradis terrestre pour récupérer la coupe, et la référence à Adam et Seth comme premiers gardiens du Graal, ne se retrouve dans aucun texte médiéval, hormis deux apocryphes de l’Ancien Testament : l’Apocalypse de Moïse et la Légende d’Adam et Eve, qui ont pourtant connu une certaine fortune au Moyen Âge. Selon cette légende, cependant, quelque temps après l’expulsion du Paradis, Seth fut envoyé avec Eve au Paradis à la recherche d’une huile miraculeuse coulant d’un arbre et capable de soulager les souffrances d’Adam, qui était proche de la mort. Mais ses efforts sont vains : l’archange Michel annonce que ‘l’huile de la miséricorde’ ne sera accordée qu’aux ‘derniers temps’, lors de la résurrection. L’histoire se poursuit jusqu’à la mort d’Adam et d’Eve, qui sont tous deux enterrés près du Paradis. Ici, il est bien évident que l’histoire de l’huile miraculeuse a été reprise en remplaçant l’huile par le Graal. Ensuite, le fait que Guénon parle du Graal comme d’une coupe taillée dans l’émeraude tombée du front de Lucifer, pour Zambon, découle “d’une combinaison des passages que vient de citer [Parzival, IX, 454, 24-30] Wolfram von Eschenbach15 et les traditions concernant le Bassin sacré de Gênes que l’on prétendait faite en émeraude”8 et trouvé par les Templiers à Césarée en 1101. Cette légende a été rapportée par Iacopo da Varazze dans sa Chronica civitatis Ianuensis (fin du XIIIe siècle), dans laquelle l’écrivain affirme avoir lu dans ‘certains livres anglais’ que Nicodème a recueilli le sang de Jésus dans un récipient en émeraude miraculeusement préparé par Dieu et appelé Sangraal.
Quoi qu’il en soit, en dehors des diverses reprises de la légende originale, la genèse de cette reconstruction peut être facilement découverte en remontant à l’histoire – presque identique – présentée dans le livre sur la chevalerie Le secret de la Chevalerie de Victor-Emile Michelet (qui était membre de l’ordre cabalistique de la Rose+Croix), donc un habitué des milieux occultistes sic et simpliciter, et l’essai de Charbonneau Lassay intitulé “Le Saint-Graal” publié dans Le rayonnemment Intellectuel en janvier-mars 1938. Ces deux écrits sont posthumes par rapport à l’étude de Guénon, il est donc peu probable qu’il s’y soit référé directement, mais probablement que tous trois avaient pour référence le même milieu occultiste d’où ils se sont largement inspirés. Ces trois études, en fait, ne mentionnent pas les sources et Evola lui-même se réfère à Guénon et Michelet lorsqu’il rapporte l’histoire dans son livre.
En ce qui concerne la question de l’émeraude-ūrṇā, si pertinente d’un point de vue symbolique et dans l’économie de l’interprétation générale du symbole du Graal, il faut noter que soit Guenon s’est trompé dans sa traduction, soit s’est librement référé au texte pour renouer avec le troisième œil de Śiva, obligeant les sources à établir une correspondance plus précise et à donner une explication étrangère aux textes et au contexte théologique spécifique. Qui plus est, la ūrṇā et le troisième œil de Śiva – que Guénon a juxtaposés en suggérant qu’il s’agit de la même chose – ne sont pas du tout la même chose, et ce détail a échappé à Zambon, qui n’est pas un expert en doctrines orientales : la ūrṇā est l’un des 32 lakṣaṇa ou signes corporels permettant de reconnaître un Bouddha. Dans ce cas, il n’est pas proprement frontal (comme l’est l’œil de Śiva), mais se situe à la racine du nez entre les deux sourcils, formant ainsi avec eux une ligne horizontale. Le sens étymologique du terme ūrṇā est ‘laineux’, c’est-à-dire ‘glomérule spiralé de poils crépus’, c’est-à-dire la caractéristique capillaire typique des ethnies africaines et sémitiques, à tel point que certains orientalistes ont même pensé à tort à une origine africaine de Siddhārta Gautama. Dans la symbolique bouddhiste, chaque ūrṇā, qui compose aussi les cheveux de l’Illuminé, représente un corps céleste. Guénon, quant à lui, prétend que la ūrṇā est une perle enchâssée dans le front de Śiva, puis passée dans le bouddhisme. Il s’agit d’une invention. En Inde, il n’existe qu’un seul cas de saint médiéval né avec un rubis serti sur le front, mais il n’était pas Hindū mais Jaïna : Dādā Guru Jinacandra Sūri. À sa mort, le rubis se détacha et tomba dans une tasse de lait. La relique est vénérée dans un temple de la Dādābaḍī jaïna de Mehrauli, dans la banlieue de Delhi. Cependant, malgré cet exemple, il s’agissait d’un rubis et non d’une perle. De plus, la ūrṇā ne peut être confondue avec le troisième œil frontal de Śiva, avec lequel le dieu capte l’instant fugace de l’éternel présent. Pour cette raison, Śiva est appelé Tryambakeśvara, le Seigneur aux trois yeux.
Par conséquent, Zambon ne se trompe pas sur les interprétations de Guénon lorsqu’il affirme : “pétrie par l’intention justifiée de rechercher le sens ésotérique et symbolique, la tradition occulte – dont Guénon apparaît également dans ce cas comme un large tributaire – il l’a soumise à ce qu’on pourrait appeler un “excès d’interprétation”, de nature à en dissoudre presque complètement les contours historiques et littéraires”.
Cet “excès d’interprétation” dont parle Zambon a fini par alimenter la littérature new age qui s’est imposée en Occident au cours des dernières décennies, une littérature qui trouve le mythe graalien fascinant ou intéressant pour de mauvaises raisons, chacun y projetant arbitrairement ses propres impressions ou pré-compréhensions erronées, sans souci d’étudier la légende de manière approfondie et rigoureuse.
En résumé, alors que la proposition interprétative de Guénon présente un pouvoir explicatif convaincant, mais une attention arbitraire et peu rigoureuse aux sources, en revanche, les exposés académiques présentent une utilisation rigoureuse des sources, mais manquent de capacité explicative de la valeur de vérité transmise par l’histoire graalienne. L’interprétation proposée, au contraire, par Zambon semble réunir ces deux dimensions explicatives, indispensables pour une investigation exhaustive de la matière graalienne. Le paradigme exégétique proposé au cours du travail de Zambon adopte la clé d’interprétation avancée par Guénon, en acquérant des aspects et des contenus que les critiques n’avaient pas touchés, mais en surmontant l’aspect négatif, c’est-à-dire la mauvaise gestion des sources sur la base d’un réexamen personnel. La position de Zambon corrobore cette vision par une reconsidération des sources originales à la lumière des catégories interprétatives théologico-spirituelles propres à la tradition chrétienne et au cadre intellectuel et politique médiéval. Ce paradigme interprétatif soutenu par l’auteur rassemble la rigueur, l’importance des sources et le pouvoir explicatif de l’histoire graalienne, perdu dans les interprétations de la critique moderne.
Nous sommes également d’avis que le travail de recherche historico-littéraire et d’exégèse des contenus de Zambon peut être pleinement validé s’il est associé à une recherche historique qui l’inscrit dans le cadre plus large de la chevalerie médiévale, sans laquelle sa pleine signification ne peut être éclairée. Un aspect intéressant est le fait que le noyau originel du mythe a eu, en vérité, une durée très courte, dont les premiers témoignages apparaissent en 1180 avec Chrétien de Troyes et se terminent vers 1230 avec la Queste du Saint Graal, un éclair rapide dont personne n’a encore pris la peine de clarifier en détail les raisons historiques et littéraires. Ce que Zambon a dûment reconstruit, c’est la ‘métamorphose’ de l’histoire du Graal : dans cette reconstruction, il est parti du contexte des cours d’amour de Provence, le cœur de la composition narrative d’histoires telles que les Chansons de Roland ou Tristan et Iseult – dépourvues de références initiatiques reconnaissables (le seul protagoniste est la chevalerie morale) – et a ensuite étudié comment, dans ce contexte, l’élément initiatique a progressivement acquis de plus en plus d’importance, fusionnant l’héritage chrétien avec la mythologie celtique. La conclusion de cet examen est la description d’une évolution dont le résultat – en termes de complétude, de profondeur et de vision théologique – serait celui du Saint Graal, en raison de l’influence exercée sur ce texte par l’école cistercienne et la pensée de Saint Bernard de Clairvaux16. Ceci étant acquis, Zambon aurait pu poursuivre sa réflexion plus avant : Constatant que la littérature du Graal se situe à la fin d’une parabole temporelle – elle fait en effet partie d’une littérature de chevalerie plus large composée d’autres cycles – et étant donné que la littérature précédente, du moins au début, ne semble pas exprimer un intérêt initiatique, la question se pose alors de savoir si l’institution de la chevalerie, qui a précédé de quelques siècles la rédaction de ces récits, s’est constituée ab origine dans un horizon initiatique, visant la conquête du Divin et l’approfondissement des significations spirituelles véhiculées par la Révélation, ou si cet intérêt intérieur a été un ajout ultérieur, une projection littéraire. Cela permettrait de mieux comprendre ce que la quête du Graal était et représentait réellement, et de mieux cadrer sa portée historique et sa fonction réelle au sein du phénomène bigarré qu’était la chevalerie médiévale.
Selon nous, la Quête du Graal représente en principe la transposition mythique de l’idéal chevaleresque du chemin initiatique – qui conduit l’homme à s’assimiler, autant que possible, à Dieu – et donc l’aboutissement de l’élaboration doctrinale, sous forme symbolique et littéraire, de la vision originelle de la chevalerie occidentale, plutôt que d’être elle-même une véritable organisation spécifique. C’est la manière dont l’homme médiéval a décidé, à un moment donné, de représenter l’idéal de la chevalerie et, en cristallisant ce qui était déjà, de toute évidence, un héritage répandu et partagé et une réalité plurielle et variée, il a choisi de manière significative d’insérer la milice terrestre dans un autre horizon de sens, céleste. Une telle conception éviterait l’embarras de se retrouver dans le bourbier habituel de la ‘chasse’ aux voies secrètes improbables et chimériques – comme la Massenia du Saint Graal (en réalité une création fictive d’Albrecht von Scharfenberg) – qui, comme des ruisseaux, auraient traversé les siècles en héritant de ce patrimoine, héritage dont on pourrait retrouver la trace dans une certaine référence présente dans les symboles et les rites. Ces informations sont, en fait, peu fiables et inexactes, le plus souvent des reconstructions arbitraires, des compilations modernes, des falsifications délibérées, le résultat d’époques de renouveau littéraire et de fascination pour l’exotique ou l’ancien, comme la Renaissance et plus tard le Romantisme et l’Occultisme. En outre, poursuivre ces imaginations – qui sont devenues un véritable mythe de l’occultisme français du XIXe siècle – outre qu’il s’agit d’une perte de temps inutile, c’est donner raison à la critique qui, en démolissant facilement de telles digressions et en montrant l’absence totale de fondement de certaines prétendues reconstructions et généalogies, veut aussi déconstruire l’horizon initiatique et intellectuel qui s’enracine effectivement dans les légendes médiévales du Graal.
En conclusion, une critique que l’on peut faire à l’enquête de Zambon est l’attention insuffisante accordée au Parzifal de Wolfram Von Eschenbach et au Jungerer Titurel d’Albrecht von Scharfenberg, qui auraient certainement apporté des suggestions intéressants, étant donné que ces œuvres présentent de nombreux éléments capables d’enrichir la légende du Graal de symboles, de significations et d’horizons supplémentaires.
Tommaso Ribeca
🇪🇸 Francesco Zambon: Metamorfosi del Graal (Metamorfosis del Grial), Roma, Carocci, 2012. ISBN 978-88-430-6575-2. Pp. 414.
Francesco Zambon, catedrático de Filología Románica en la Universidad de Trento, es un ensayista atento y con una agudeza intelectual poco frecuente en el escenario académico y filológico. En Italia, sin duda, puede ser considerado uno de los principales expertos en filología y literatura románicas. El área de investigación en la que se aprecian sus mayores contribuciones es la literatura alegórica medieval; en particular se dedicó con atención al estudio de los bestiarios y trovadores.
Después de varios artículos sobre el ciclo del Grial y un trabajo centrado en el estudio de Robert de Boron y su Roman du Graal (Robert de Boron e i segreti del Graal), que incluye también una edición crítica de la novela en francés antiguo, Zambon se comprometió a componen una síntesis clara y explicativa de todas las metamorfosis sufridas por el símbolo del Grial y más en general de la materia que le concierne, desde su nacimiento literario hasta nuestros días: Metamorfosi del Graal editada por Carocci.
Además del general paradigma de interpretación, la obra de Zambon es muy válida por el uso riguroso de las fuentes en referencia a la teología cristiana primitive17 y medieval y para la reconstrucción de los precursores del Grial, cuyas pistas se encuentran en la historia: los apócrifos cristianos, las leyendas vinculadas a la figura de José de Arimatea y el sustrato celta. Este ultimo, siendo el vestigio de cuánto se había disuelto el cristianismo en el humus culdeo de la Irlanda de la Alta Edad Media18.
Además del examen cuidadoso y exhaustivo que Zambon hace de la leyenda del Grial – desde el nacimiento como plato que contiene la hostia, hasta sus involuciones más inverosímiles como el “imaginativo” Código Da Vinci de Dan Brown – lo que nos interesa destacar en su libro es la presentación de una posible interpretación del ciclo grialiano, demasiado a menudo superficialmente ignorada por el ámbito académico: una lectura que Dante llamaria anagógica y que se abre a una pluralidad de significados de mayor o menor envergadura.
La interpretación del autor se resume significativamente en un párrafo de la introducción a su libro: “En este sentido, el Joseph d’Arimathie de Robert de Boron y la trilogía en prosa que lleva su nombre no hacen más que declinar en un sentido más marcadamente iniciático la nueva perspectiva espiritual indicada por Chrétien de Troyes. Al hacer caballero a José de Arimatea (al servicio de Pilato), Robert representa –como observó Jean Frappier– la caballería al pie de la cruz, en el mismo teatro de la Pasión, la convierte en la institución que se ocupó del cuerpo de Cristo inmediatamente después de su muerte y a quien pertenece la plena realización de la salvación del mundo. En el tercer guardián del Grial, identificado en la trilogía en prosa con Perceval, fluye la misma sangre del primero, José de Arimatea; y la mediación entre el personaje evangélico y el caballero artúrico está asegurada por una figura – mitad bíblica y mitad celta – inventada por Robert: la de Hebrón o Bron, el Rico [Rey] Pescador. Su tarea es precisamente la de trasladar el Grial de Judea a los oscuros valles de Avalon, es decir, a Inglaterra: Hebrón se convierte así, de alguna manera, en la misma encarnación ficticia del grant estoire de Robert de Boron, de esa sagrada traducción que une el este al oeste, la revelación cristiana a la caballería. De esta manera su novela se presenta como un verdadero texto sagrado, un evangelio de caballería. Y las posiciones de Robert de Boron, aparecen en algunos aspectos al Parzival de Wolfram von Eschenbach, un texto fuertemente influenciado por la espiritualidad templaria”.12
Se trata de una concepción del ciclo grialista que Zambon no oculta, reiterando en varios pasajes: “La noción que mejor nos permite comprender la naturaleza de esta nueva forma narrativa es la de “relato místico “(récit mystique), formulado por Henry Corbin para la epopeya islámica en Irán: es decir,la noción de una historia sobre hechos que tienen lugar en un mundo rigurosamente “orientado” hacia el origen de uno mismo y del mundo – el mundus imaginalis – y que sólo puede llegar cuando el conocimiento teórico se ha convertido en un hecho real, cuando se ha convertido en una visión concreta que ningún concepto podría expresar. Ésta es precisamente la ‘acomencaille’ de todas las aventuras que Galahad contempla en el fondo del Grial, el Rostro de Dios que Guillermo de Saint-Thierry ve -o al menos vislumbra- en los breves momentos de la unitas spíritus o del excessus mentis”.19
Una nota de mérito a la investigación de Zambon consiste en el peso y el espacio -en un examen sin agujeros ni reducciones paródicas- dedicado a autores como Corbin, Ponsoye, Evola, Onofri y Guénon, una peculiaridad que distingue sus estudios de los más bien conocidos pero aproximativos de otros académicos, como Umberto Eco. Este último persiguió un intento de vaciar radicalmente el contenido del mito del Grial, comenzando con la reinterpretación moderna de la versión wagneriana: “el Grial es para ambos [Wagner y Eco] un centro o un principio vacío, una nada postulada como un pivote alrededor del cual elementos físicos e historias se combinan y desentrañan constantemente […]”20. A pesar de la pretensión de una interpretación objetiva y científica, Zambon muestra cómo Eco no fue mucho más allá de la vulgata ocultista moderna, ignorando casi por completo las novelas medievales que la originaron.
El ensayo de Zambon, por tanto, es útil para quienes buscan una contradicción con el deconstructivismo de moda hoy en día: una crítica literaria que intenta demostrar que el mundo no está compuesto más que de signos arbitrarios y que no hay sentido mas allà del signo, sin profundidad, sin realidad que actúe como referente y que merezca investigar. Así se aplanan todos los textos medievales: la búsqueda del Grial se reduce a un “relato que se construye” y la Divina Comedia a una prosopopeya de la poesía de Dante. Lo simbólico se reduce a lo fantástico, el proceso iniciático al cuento de hadas, mientras que la dimensión de la trascendencia -y el contenido teológico-sapiencial que abre el acceso a ella- es ignorada o reducida a una mera oportunidad literaria, un topos o pretexto. En medio de este deconstruccionismo, el ensayo de Zambon abre un escenario que no es nuevo, pero sin duda sobrecogedor para un ciclo medieval que se ha leído con demasiada frecuencia de forma partidista.
El rigor de este ensayo, sin embargo, se encuentra en la puntualidad con la que el autor también destaca las debilidades de las interpretaciones del siglo XX de los ‘perennialistas’. El riesgo, de hecho, es caer en una lógica de oposición entre posiciones escleróticas, la esotérico-ocultista por un lado y la académica y ‘distorsionada’ por el otro, debido a la arbitrariedad de las primeras enfrentandose a los textos medievales, cuyo mérito consiste en cambio en la intuición de la profundidad y el verdadero significado del mito, y en la incomprensión de este último, respecto a todo lo que no es mera literatura.
El mayor mérito de este trabajo, por lo tanto, fue el de utilizar el paradigma guénoniano, pero a la luz de categorías interpretativas teológicas medievales y no a través de modelos reconstruidos ad hoc como los de los siglos XIX y XX. Por supuesto, Zambon es consciente del mérito que debe reconocerse a Guénon por haber percebido el sentido simbólico, el ‘horizonte’ del Grial, y haber buscado una interpretación ‘global’, indicando sus relaciones fundamentales con otros símbolos -como los de el vaso, la copa, el corazón, la piedra celestial, la palabra perdida, el centro del mundo, etc. Esta perspectiva, de hecho, es la base de varios estudios posteriores sobre el mito, más sustanciales y sistemáticos, como los de Evola, Corbin, Eliade, Ponsoye: a la luz de estas interpretaciones, es evidente que cualquier investigación puramente histórico-literaria sobre el tema está severamente limitada en su capacidad explicativa. Otro mérito que Zambon reconoce a Guénon es el de haber destacado las relaciones entre las novelas del ciclo Grialiano y las corrientes del esoterismo cristiano que atraviesan la época medieval, mostrando la dependencia de estos textos de una visión “mística” y “simbólica” pero, sin embargo, totalmente ortodoxa del cristianismo. No obstante, “la lección de Guénon conserva todo su valor en cuanto a los principios generales de interpretación, pero ahora parece irremediablemente desactualizada en sus referencias a las fuentes y sus aplicaciones concretas a los textos medievales”.14
Para confirmarlo, la historia relatada por Guénon sobre el origen del Grial no corresponde en absoluto a un texto o a un corpus de textos medievales, lo que podría definirse como una “recopilación” moderna basada en algunas novelas medievales, libremente combinadas y enriquecida de nuevos símbolos. En la versión de Guénon – después de la descripción de cómo los ángeles tallaron la copa en la esmeralda – se añade que la esmeralda recuerda sorprendentemente a la ūrṇā, “la perla frontal que, en la iconografía hindú, a menudo ocupa el lugar de el tercer ojo de Śiva”. Esta asociación permitiría así explicar el símbolo a la luz del ‘sentido de la eternidad’ que se refiere a la visión de la Divinidad, y luego acercarlo a las copas o recipientes de numerosas tradiciones antiguas que contienen el ‘alimento’. o la ‘bebida de inmortalidad’. En resumen, el Grial simbolizaría para Guénon el conocimiento perfecto de la Verdad tradicional. No solo eso, también se afirma que Adán era el guardián del Grial en el Paraíso y que, tras la expulsión del Edén, el Grial permaneció allí. Luego describe la recuperación del Grial por Seth, quien regresó temporalmente al Paraíso, y su conservación por los sucesores de Seth, sucesores que según Guénon representan el establecimiento de un “centro espiritual destinado a reemplazar el Paraíso perdido” y “la preservación de la tradición primordial en su integridad en tal centro espiritual”.
Este es el resumen, en su lenguaje típico, que Guénon hace en los distintos artículos sobre el tema. Zambon se pregunta sobre la procedencia de los datos legendarios que exhibe e interpreta simbólicamente. Su respuesta es que, dado que no se encuentra en ninguna de las novelas del ciclo del Grial un relato correspondiente al que Guénon resume, se puede deducir que el suyo es un hábil montaje de episodios y temas extraídos de textos muy diferentes. en cuanto a edad e inspiración, con la adición de elementos completamente reelaborados y de origen dudoso (ocultista), pero sin mencionar nunca ninguna fuente. Por ejemplo, la historia contada por Guénon sobre el regreso de Seth al Paraíso Terrenal para recuperar la copa, y la referencia a Adán y Seth como los primeros guardianes del Grial, no se encuentra en ningún texto medieval, aparte en dos apócrifos del Antiguo Testamento: el Apocalipsis de Moisés y la Leyenda de Adán y Eva, que sin embargo tuvo cierta fortuna en la Edad Media. Sin embargo, según esta leyenda, algún tiempo después de la expulsión del Paraíso, Seth fue enviado con Eva al Paraíso en busca de un aceite milagroso que goteaba de un árbol y que podía aliviar los sufrimientos de Adán, ahora próximo a la muerte. Pero sus esfuerzos fueron vanos: el arcángel Miguel le anunció, de hecho, que el “aceite de la misericordia” se concedería sólo en los “últimos tiempos”, cuando tendría lugar la resurrección. La historia continúa hasta la muerte de Adán y Eva, ambos enterrados cerca del Paraíso terrenal. Aquí es bastante evidente que el aceite milagroso ha sido reemplazando por el Grial.
El hecho de que Guénon hable del Grial como de una copa tallada en la esmeralda caída de la frente de Lucifer, para Zambon, deriva “de una combinación de los pasajes recién citados [Parzival, IX, 454, 24-30] de Wolfram von Eschenbach21 y de las tradiciones relativas a la cuenca sagrada de Génova, que se decía estar hecha de esmeralda”8 y que los templarios encontraron en Cesarea en el 1101. Esta leyenda fue relatada por Iacopo da Varazze en su Chronica civitatis Ianuensis (finales del siglo XIII), en la que afirma haber leído en “algunos libros ingleses” que Nicodemo recogió la sangre de Jesús en una copa de esmeralda preparada milagrosamente por Dios y llamado Sangraal.
En cualquier caso, aparte las diversas alteraciones de la leyenda original, la génesis de esta reconstrucción se puede descubrir fácilmente si se remonta a la historia, casi idéntica, presentada en el libro de caballería Le secret de la Chevalerie de Victor-Emile Michelet. (que formaba parte de la Orden Cabalística de la Rosa + Cruz), por lo tanto frecuentador de círculos ocultistas sic et simpliciter, y al ensayo de Charbonneau Lassay titulado “Le Saint-Graal” publicado en Le rayonnemment Intellectuel de enero-marzo 1938. Ambos textos son posteriores al estudio de Guénon, por lo que es poco probable que se refiriera directamente a ellos. Probablemente los tres tuvieran como referencia el mismo entorno ocultista en el que se basaron principalmente. Los tres estudios, de hecho, no llevan ningún indicio de las fuentes y el propio Evola se refiere a Guénon y Michelet cuando relata la misma historia en su libro.
Con referencia a la cuestión de la esmeralda-ūrṇā, tan relevante desde el punto de vista simbólico y en la economía de la interpretación general del símbolo del Grial, cabe señalar que Guénon o tenía una traducción incorrecta o se rehizo libremente al texto. para conectarse al tercer ojo de Śiva, forzando las fuentes a establecer una correspondencia más precisa y dar una explicación ajena a los textos y al contexto teológico específico. Además, la ūrṇā y el tercer ojo de Śiva – que Guénon sugiere sean la misma cosa, en realidad no lo son en absolute. Este detalle se le escapó a Zambon, no siendo un experto en doctrinas orientales: la ūrṇā es uno de los 32 lakṣaṇa o signos corporales para reconocer a un Buddha. En el caso específico, no es estrictamente frontal, como el ojo de Śiva), sino que está ubicado en la raíz de la nariz entre las dos cejas, formando así una línea horizontal con ellas. El significado etimológico del término ūrṇā es ‘lanudo’, es decir glomérulo en forma de espiral de pelo rizado, que es el pelo típico característico de las etnias africanas y semíticas, tanto que algunos orientalistas incluso han pensado erróneamente en un origen africano de Siddhārta Gautama. En el simbolismo buddhista, todas las ūrṇā, que forman también la cabellera del Iluminado, representa un cuerpo celeste. Guénon, por otro lado, afirma que la ūrṇā es una perla encrustada en la frente de Śiva y que luego pasó al buddhismo. Ésto es falso. En la India hay un solo caso de un santo medieval que nació con un rubí en la frente, pero no era hindú, sino jainista: Dādā Guru Jinacandra Sūri. A su muerte, el rubí se rompió y cayó en una taza de leche. La reliquia se venera en un templo en la Jaina Dādābaḍī de Mehrauli, en las afueras de Delhi. A pesar de este ejemplo, sin embargo, era un rubí y no una perla. Además, no hay que confundir la ūrṇā con el tercer ojo frontal de Śiva, con el que el Dios captura el momento fugaz del eterno presente. Por esta razón, a Śiva se le llama Tryambakeśvara, el Señor de tres ojos.
Por lo tanto, Zambon no se equivoca respecto a las interpretaciones de Guénon cuando afirma: “movido por la justificada intención de buscar su significado esotérico y simbólico, la tradición oculta -de la que Guénon también aparece en gran parte tributario en este caso- lo ha sometido a lo que podría llamarse un ‘exceso de interpretación’, que disuelve casi por completo sus contornos históricos y literarios”.
Este ‘exceso de interpretación’ del que habla Zambon ha acabado alimentando la literatura new age que se ha difudido en las últimas décadas en Occidente. Es una literatura que encuentra fascinante o interesante el mito del Grial por motivos equivocados, cada uno proyectando arbitrariamente los suyos propias erróneas impresiones o prejuicios, sin molestarse en investigar la leyenda a fondo y con rigor.
Por lo tanto, mientras que la propuesta interpretativa de Guénon presenta un poder explicativo convincente, pero con una atención arbitraria y poco rigurosa a las fuentes, en cambio los planteamientos académicos presentan un uso riguroso de las fuentes, que carecen de capacidad explicativa del valor de la verdad transmitida del Grial. La interpretación propuesta por Zambon, en cambio, nos parece combinar estas dos dimensiones explicativas, indispensables para una investigación exhaustiva de la materia del Grial. El paradigma exegético propuesto en el transcurso de la ensayo de Zambon adopta la clave de interpretación adelantada por Guénon, adquiriendo aspectos y contenidos que la crítica no había tocado, pero superando su aspecto debil, es decir la mala gestión de las fuentes por su remodelación personal. La posición de Zambon confirma esa visión a través de una reconsideración de las fuentes originales a la luz de las categorías interpretativas teológico-espirituales de la tradición cristiana y del marco intelectual y político medieval. Este paradigma interpretativo avalado por el autor hace coincidir el rigor, la importancia de las fuentes y el poder explicativo del relato de Grial, perdido en las interpretaciones de la crítica moderna.
Opinamos también que la investigación histórico-literaria y el trabajo de exégesis de contenido realizado por Zambon pueden ser plenamente validados si se combinan con la investigación histórica en el marco más amplio de la caballería medieval, sin la cual no se puede esclarecer su pleno significado. Un aspecto interesante es el hecho de que el núcleo original del mito tuvo, en verdad, un lapso de tiempo muy corto, habiendo aparecido los primeros testimonios en el 1180 con Chrétien de Troyes y concluyendose hacia el 1230 con la Queste du Saint Graal. Un rápido destello, del que nadie se ha molestado todavía en aclarar en detalle las razones históricas y literarias. Lo que Zambon ha reconstruido correctamente es, de hecho, la ‘metamorfosis’ del cuento del Grial. Esta reconstrucción empeza con las Cortes de Amor de Provenza, corazón de la composición narrativa de historias como las Chansons de Roland o Tristan et Isolde – desprovistas de referencias iniciáticas reconocibles (el único protagonista es la caballería moral) – para luego estudiar cómo en este contexto el elemento iniciático adquiere cada vez más importancia, fusionando la herencia cristiana con la mitología celta. La conclusión de este examen es la descripción de un desarrollo cuyo desenlace -por completitud, profundidad y visión teológica- sería la Queste du Saint Graal, por la influencia que en este texto ejerció la escuela cisterciense y el pensamiento de San Bernardo. de Clairvaux22. A este punto, Zambon hubiera podido continuar más allá en su propia reflexión: notando que la literatura del Grial se ubica al final de una parábola temporal. De hecho es parte de una literatura caballeresca más amplia compuesta de ciclos posteriors. Ya que que la literatura anterior, al menos en un principio, no parece expresar un interés iniciático, se plantea la cuestión de si la institución de la caballería, que precede a la redacción de estas historias durante unos siglos, se constituyó ab orígenes en un horizonte iniciático, dirigido a la conquista de lo Divino y a la profundización de los significados espirituales que transmite la Revelación, o si este interés interior fue un añadido posterior, una proyección literaria. Esto nos permitiría comprender mejor lo que era la Búsqueda del Grial y lo que representaba realmente, y enmarcar aún más su significado histórico y su función real dentro de ese abigarrado fenómeno que era la caballería medieval.
En nuestra opinión, la Búsqueda del Grial, en principio, representa la transposición mítica del ideal caballeresco del camino iniciático -que lleva al hombre a asimilarse, en la medida de lo posible, a Dios- y, por tanto, la culminación de la elaboración doctrinal, en forma simbólica y literaria, de la visión original de la caballería occidental, en lugar de ser en sí misma una organización real, propia y específica. Es la forma en que el hombre medieval decidió, en un momento determinado, de representar el ideal de la caballería, y cristalizar lo que evidentemente era una herencia ya extendida y compartida y una realidad plural y variada, optando significativamente por incluir a la milicia terrenal dentro de un horizonte de mayor significado celestial. Con esto se evitaría de terminar en el revoltijo de caminos secretos improbables y quiméricos, como la Massenia del Santo Grial (en realidad una creación ficticia de Albrecht von Scharfenberg), que, como riachuelos, hvrian atravesado los siglos heredando este legado rastreable en algunas referencias a símbolos y ritos. Es, de hecho, información poco confiable y falsa, en su mayoría reconstrucciones arbitrarias, compilaciones modernas, falsificaciones deliberadas, el resultado de épocas de renacimiento literario y fascinación por lo exótico o lo antiguo, como el Renacimiento antes y el Romanticismo y el Ocultismo más tardes. Perseguir estas imaginaciones –que se han convertido en un verdadero mito del ocultismo francés del siglo XIX–, además de ser una pérdida de tiempo infructuosa, significa prestarse a la crítica que, derribando fácilmente tales digresiones y mostrando la total falta de fundamento de ciertas supuestas reconstrucciones y genealogías, quiere deconstruir el horizonte iniciático e intelectual que, en cambio, está verdaderamente enraizado en las leyendas medievales del Grial.
En conclusión, una observación que se puede hacer a la investigación de Zambon es la atención, en nuestra opinión insuficiente, reservada al Parzifal de Wolfram von Eschenbach y al Jungerer Titurel de Albrecht von Scharfenberg, cuyo estudio sin duda habría aportado ideas interesantes, dado que estas obras presentan muchos elementos capaces de enriquecer la leyenda del Grial con más símbolos, significados y horizontes.
Tommaso Ribeca
🇬🇧 Francesco Zambon: Metamorfosi del Graal [Metamorphosis of the Grail], Roma, Carocci, 2012. ISBN 978-88-430-6575-2. Pp. 414
Francesco Zambon, a full professor of Romance Philology at the University of Trento, is a sharp essayist and a keen scholar, a rarity in the academic and philological scenario. In Italy he can certainly be considered one of the leading experts in philology and romance literature. The field of research in which his major contributions are appreciated is the medieval allegorical literature. In particular, he has devoted himself to the study of bestiaries and the troubadours.
After several articles on the Grail cycle and a book focused on the study of Robert de Boron and his Roman du Graal (Robert de Boron e i segreti del Graal) – including even a critical edition of the novel in Old French – Zambon has undertaken to compose a clear and explicative synthesis of all the metamorphoses undergone by the symbol of the Grail and more generally of the matter that concerns it, from his literary birth to the present day: Metamorfosi del Graal published by Carocci.
In addition to the general methods of interpretation, Zambon’s work is valuable for the rigorous use of sources in reference to the early and medieval Christian theology23 and for the reconstruction of the previous precursors of the Grail, about which there are historical evidences: the apocryphal Christians, the legends related to the figure of Joseph of Arimathea and the Celtic substratum, the latter traces, and how much Christianity had melted into the Culdean humus24 of high-medieval Ireland.
In addition to the careful and complete examination that Zambon makes of the Grail legend – from birth as a plate containing a host to its most unlikely involutions such as the “fanciful” Da Vinci Code by Dan Brown – what interests us in highlighting his book is the presentation of a possible key to reading the Graalian cycle, too often superficially ignored by the academic environment: a reading that Dante would have called “anagogic” and which opens to a plurality of meanings of greater or lesser elevation.
The author’s interpretation is summarized significantly in a paragraph of the introduction to his book:
“In this respect, Robert de Boron’s Joseph and the Prose Trilogy that goes by his name decline in a more markedly initiatic sense the new spiritual perspective indicated by Chrétien de Troyes. By making Joseph of Arimathea a knight (in the service of Pilate), Robert represents – as Jean Frappier observed – the chivalry at the foot of the cross, on the very theatre of the Passion. He makes it the institution that took care of the body of Christ immediately after his death and to which belongs the fulfilment of the salvation of the world. In the veins of the third guardian of the Grail, identified in the Trilogy in prose with Perceval, flows the same blood as the first, Joseph of Arimathea; and the mediation between the evangelical personality and the Arthurian knight is ensured by a figure – half biblical and half Celtic – invented by Robert: that of Hebron or Bron, the Rich [the King] Fisherman. His task is precisely to carry the Grail from Judea to the dark valleys of Avalon, that is, England. Hebron thus becomes, in some way, the same fictional incarnation of the grant estoire of Robert de Boron, of that sacred ‘tanslatio’ that unites the East to the West, the Christian revelation to chivalry. In this way his novel presents itself as a real sacred text, a Gospel of chivalry. And the positions of Robert de Boron are in some respects also close to the Parzival of Wolfram von Eschenbach, a text also strongly influenced by the Templar spirituality”.25
This is a view of the Graalian Cycle of which Zambon makes no mystery, reaffirming it in several passages: “The notion that best allows us to understand the nature of this unprecedented narrative form is that of the “mystical tale” (récit mystique), formulated by Henry Corbin about the Islamic epic in Iran: that is, the notion of a narrative concerning events taking place in a world strictly “oriented” towards the origin of the self and the world – the mundus imaginalis – and which can only be reached when theoretical knowledge has become a real event, when it has become a concrete vision that no concept could express. This is precisely the acomencaille of all the adventures that Galaad contemplates at the bottom of the Grail, the Face of God that William of Saint-Thierry sees – or at least glimpses – in the brief moments of unitas spiritus or excessus mentis”.26
A note of credit of the Zambon research consists in fact in the importance – in an examination without parodistic visions – dedicated to authors such as Corbin, Ponsoye, Evola, Onofri and Guénon, peculiarity that distinguishes his studies from those much more approximate of other academics, such as Umberto Eco. The latter has pursued an intent of radical emptying the content of the myth of the Grail, starting from the modern reinterpretation of the Wagnerian version: “the Grail is for both [Wagner and Eco] a centre or an empty principle, a postulated nothingness as a pivot around which the physical elements and the stories are constantly combined and unravelled […]”5. Despite the claim of an objective and scientific interpretation, Zambon shows that Eco did not go much further than the modern vulgate of occultism, ignoring almost entirely the medieval novels that originated it. The essay of Zambon, therefore, is useful for those seeking a contradiction to deconstructivism that is so popular nowadays: a literary criticism intent on demonstrating that the world is composed of nothing but arbitrary signs and that in addition to the sign there is no meaning, no depth, no reality that acts as a referent and that is worth investigating. In this way all the medieval texts are oversimplified: the search for the Grail is reduced to a “a made-up story” and the Divine Comedy to a prosopopoeia of Dante’s poetry. The symbolic is reduced to the fantastic, the initiatic process to the fairy tale, while the dimension of transcendence – and the theological-wisdom content that opens the access – ignored or reduced to a mere literary occasion, a topos or pretext. Amid this deconstructionism, the essay of Zambon opens a scenario not new, but certainly of wider breath for a medieval cycle that has been read too often in a partisan way.
The rigour of this essay, however, is found in the punctuality with which the author also highlights the weaknesses of the twentieth-century interpretations of the “perennialists”. The risk, in fact, is to fall into a logic of opposition between sclerotic positions. The esoteric-occultist on the one hand and the academic and “distorted” on the other. The arbitrariness of the former in approaching medieval texts (whose merit consists instead in the intuition of the depth and the true scope of the myth) and of the misunderstanding of the latter, about all that is not mere literature.
The greatest merit of this work, therefore, was indeed to use the Guénonian paradigm, but in the light of medieval theological interpretative categories and not through models reconstructed like those of the nine-twentieth century. Of course, Zambon is aware of the merit that must be recognized to Guénon for having noted the symbolic meaning, the ‘horizon’ of the Grail, and having tried to offer a more complete interpretation and widespread over view, indicating its fundamental relations with other symbols – such as those of the vassel, of the cup, of the heart, of the celestial stone, of the “lost word”, of the centre of the world, and so on. This perspective, in fact, is the basis of several subsequent studies on the myth, more substantial and systematic, such as those of Evola, Corbin, Eliade, Ponsoye. In the light of such openings, now, is evident how any purely historical research on the subject can only be severely limited in its explanatory capacity. Another merit that Zambon recognizes to Guénon is that of having highlighted the relations between the novels of the Grail cycle and the currents of Christian esotericism crossing the medieval era, showing the dependence of these texts on a “mystical” and “symbolic” – but still fully orthodox – vision of Christianity. Nevertheless, “the lesson of Guénon retains all its value with regard to the general principles of interpretation, but it now appears irretrievably outdated in its references to sources and its concrete applications to medieval texts”.14
To confirm this, the story reported by Guénon on the origin of the Grail does not correspond at all to a text or to a corpus of medieval texts, to what could be called a modern “compilation” based on some medieval novels, freely combined and enriched with new symbols. The “guénonian” version – after the description of how the angels carved the cup into the emerald – adds that the emerald surprisingly recalls the urn, “the frontal pearl which, in Hindu iconography, often occupies the place of the third eye of Śiva”. This association would thus allow the explanation of the symbol in the light of the “sense of eternity” which refers to the vision of the Divinity, and then to put it next to the vessels or containers of numerous ancient traditions which contain the “food” or the “drink of immortality”. The Grail, in short, would symbolize for Guénon the perfect knowledge of traditional Truth. Not only that, he also adds too that Adam was the guardian of the Grail in paradise and that, after the expulsion from Eden, the Grail remained there. He, then, goes on describing, then, the recovery of the Grail by Seth, temporarily returned to paradise, and its conservation by the successors of Seth, successors who according to Guénon represent the constitution of a “spiritual centre destined to replace the lost paradise” and “the preservation of the primordial tradition in its integrity in such a spiritual centre”.
This is the summary that Guénon makes, in its typical language, in his various articles on the subject. Zambon questions the origin of the legendary data that he exposed and interpreted symbolically. The answer he gives is that, the story corresponding to the one summarized by Guénon is not reported in any of the novels of the Graalian cycle. One can easily deduce that his work is a skilful editing of episodes and themes derived from texts very different in time and inspiration, with the addition of elements completely reworked and of dubious origin (occultist), without however ever mentioning any source. For example, the story told by Guénon about Seth returning to the Garden of Eden to retrieve the cup, and the reference to Adam and Seth as the first custodians of the Grail, is not found in any medieval text, apart from two apocryphal of the Old Testament: the Apocalypse of Moses and the Legend of Adam and Eve, which had a certain fortune in the Middle Ages. According to this legend, however, sometime after the expulsion from Paradise, Seth was sent with Eve to Paradise in search of a miraculous oil dripping from a tree that could soothe the sufferings of Adam, who was close to death. But his efforts were in vain: the archangel Michael announced, in fact, that “the oil of mercy” would be granted only at the ‘end of time’ when the resurrection would take place. The story continues, then, until the death of Adam and Eve, both buried near the Garden of Eden. So, it is clear that the story of the miraculous oil was borrowed by replacing the oil with the Grail. Then, the fact that Guénon speaks of the Grail as a cup carved from the emerald fallen from the forehead of Lucifer, for Zambon, derives “from a combination of the above-mentioned passages [Parzival, IX, 454, 24-30] by Wolfram von Eschenbach27 and the traditions concerning the Sacred Basin of Genoa which was claimed to be made of emerald”8 and found by the Templars in Caesarea in 1101. This legend was reported by Iacopo da Varazze in his Chronica civitatis Ianuensis (late 13th century), in which the writer claims to have read in “some English books” that Nicodemus collected the blood of Jesus in an emerald vessel miraculously prepared by God and called Sangraal.
However, apart from the various reworkings of the original legend, the genesis of this reconstruction can be easily discovered by leading it back to the almost identical story presented in the book on chivalry Le secret de la Chevalerie by Victor-Emile Michelet (who was part of the Kabbalistic Order of the Rose+Cross), therefore a frequenter of the occultist environments sic et simpliciter), and in the essay by Charbonneau Lassay entitled “Le Saint-Graal” published in Le rayonnemment Intellectuel of January-March 1938. Both writings are posthumous to Guénon’s study, so it is unlikely that he referred directly to them, but most likely all of them referred to the same occultist environment from which to draw. All three studies, in fact, make no references to the sources, and Evola himself refers to Guénon and Michelet when he reports the story in his book.
Concerning the question of the emerald/ūrṇā – so relevant from the symbolic point of view and in the economy of the general interpretation of the symbol of the Grail – it should be noted that Guénon or had a wrong translation, or had freely referred to the text in order to reconnect to the third eye of Śiva, forcing the sources to establish a more precise correspondence and give an explanation that had nothing to do with the texts and the specific theological context. What is more, the ūrṇā and the third eye of Śiva – which Guénon approached by suggesting that they are one and the same thing – are not the same thing at all Zambon, whom is not an expert about oriental doctrines, missed this detail: the ūrṇā is one of 32 lakṣaṇa or bodily signs to recognize a Buddha. In the specific case, it is not properly frontal (as is the eye of Śiva), but is located at the root of the nose between the two eyebrows, thus forming a horizontal line. The etymological meaning of the term ūrṇā is “spiral of frizzy hairs”, like the hair belonging to the African and Semitic ethnicity, this translation had led some orientalists to think mistakenly about an African origin of Siddharta Gautama. In Buddhist symbology each ūrṇā, making up also the hair of the Enlightened One, represents a celestial body. Guénon, on the other hand, claims that ūrṇā is a pearl embedded in Śiva’s forehead and then passed into Buddhism. This is an invention. In India there is only one case of a medieval saint who was born with a ruby set in his forehead, but was not Hindu, but Jain: Dādā Guru Jinacandra Sūri, at his death the ruby broke off, falling into a milk cup. The relic is worshipped in a temple in Jaina Dadabari in the outskirts of Delhi. Despite this example, however it was a ruby and not a pearl. Moreover, the ūrṇā cannot be confused with the third frontal eye of Śiva, with which the god captures the fleeting moment of the present. For this reason, Śiva is called Tryambakeśvara, the Lord with three eyes.
Therefore, Zambon is not mistaken about Guénon’s interpretations when he states: “moved by the justified intent to seek its esoteric and symbolic meaning, the occult tradition – with which Guénon also appears in this case largely in debt – has subjected it to what could be called an “excess of interpretation” which almost completely dissolves its historical and literary contours”.
This “excess of interpretation” of which Zambon speaks ended up fuelling the New Age literature that has taken hold in the last decades in the West, literature that finds fascinating or interesting the graalian myth for the wrong reasons, each one projecting arbitrarily on its own erroneous impressions or preconceptions, without worrying about thoroughly and rigorously investigating the legend.
In short, while Guénon’s interpretative proposal has a convincing explanation, although with an arbitrary and little rigorous attention to sources, on the other hand the academic expositions present a rigorous use of sources that lack of explanatory capacity concerning the value of truth handed down by the Graalian story. The interpretation proposed by Zambon seems to unite these two explanatory dimensions, which are essential for a thorough investigation of the Grail matter. The exegetical paradigm proposed by Zambon makes its own the key of interpretation advanced by Guénon, acquiring aspects and contents that the critics had not considered, while overcoming the negative aspect of the mismanagement of sources on the basis of personal remodulation. Zambon’s position confirms this vision through a reconsideration of the original sources in the light of the theological-spiritual interpretative categories proper to the Christian tradition and the medieval intellectual and political framework. This interpretative paradigm endorsed by the author makes the rigour coincide with the importance of the sources and the evocative power of the Graalian story, lost in the interpretations of modern criticism.
We are then of the opinion that the work of historical-literary research and exegesis of the contents made by Zambon can be fully corroborated if conjugated with a historical research that includes it in the broader framework of medieval chivalry, without which its full meaning cannot be illuminated. An interesting aspect is the fact that the original core of the myth had, in truth, a very short time span, appearing first in 1180 with Chrétien de Troyes and closing around 1230 with the Queste del Saint Graal, a quick flash whose historical and literary reasons no one has yet bothered to clarify in detail. What Zambon has properly reconstructed is, in fact, the “metamorphosis” of the story of the Grail. In this reconstruction he started from the context of the Courts of Love of Provence, that is the heart of the narrative composition of stories such as the Chansons de Roland or Tristan and Isolde – devoid of recognizable initiatic references (the only protagonist is moral chivalry). He then goes on studying how in this context the initiatic element has acquired more and more importance, merging the Christian heritage with Celtic mythology. The conclusion of this examination is the description of a development whose outcome – for completeness, depth and theological vision – would be the Queste del Saint Graal, because of the influence exerted on this text by the Cistercian school and the thought of Saint Bernard of Clairvaux28. Having acquired this, Zambon could have continued his reflection even further: considering the Grail literature is at the end of a temporal parable – it is in fact part of a wider chivalric literature composed of further cycles. Since the earlier literature, at least initially, does not seem to express an initiatic interest, the question then arises as to whether the institution of chivalry, which precedes by a few centuries the writing of such stories, had been established ab origine in an initiatic horizon, aimed at the conquest of the Divine and the deepening of the spiritual meanings conveyed by the Revelation, or if such an inner interest was a later addition, a literary projection. This would allow for a better understanding of what the Quest for the Grail was and represented, and for figuring out its historical aim and real function within that varied phenomenon that was medieval chivalry. In our view, the Quest for the Grail, in principle, represents the “mythical” transposition of the chivalric ideal of the initiatic way – which leads man as far as possible to assimilate himself into God – and thus the culmination of doctrinal elaboration, in symbolic and literary form, of the original vision of the western chivalry, rather than being itself a real, proper, and specific organization. It is the way in which the medieval men decided, at a certain moment, to represent the ideal of chivalry and, by crystallizing what was evidently an already widespread and shared heritage and a plural and varied reality, significantly chose to introduce the earthly militia within a horizon of further, celestial meaning. Such a conception would avoid the embarrassment of ending up in the usual jumble of the ‘hunting’ for improbable and fanciful secret initiatic organisations – such as the Massenia of the Holy Grail (actually, a fictional creation by Albrecht von Scharfenberg) – which, like rivulets, would have crossed through the centuries inheriting this heritage, of which some present symbols and rites seem to be reminiscent. They are, indeed, unreliable and false information, mostly arbitrary reconstructions, modern compilations, deliberate falsifications, the result of periods of literary revival and fascination for the exotic or the ancient, which were the Renaissance first and Romanticism and Occultism then. Moreover, not only is the pursue of these imaginations – which have become a true myth of nineteenth-century French occultism – a waste of time, but also as opportunity to lend itself to modern criticism that, by easily demolishing these digressions and showing how unfounded certain alleged reconstructions and genealogies are, wants to deconstruct even the initiatic and intellectual horizon that is truly rooted in medieval legends of the Grail.
In conclusion, an important point that can be made to Zambon’s investigation is the insufficient attention given to Wolfram von Eschenbach’s Parzifal and to Albrecht von Scharfenberg’s Jungerer Titurel, the deepening of which would certainly have brought interesting notions, since these works have many elements capable of enriching the legend of the Grail with symbols, meanings and further horizons.
Tommaso Ribeca
- Cfr. anche F. Zambon, Robert de Boron e i segreti del Graal, Leo S. Olschky Editore, Firenze, 1984.[↩]
- Il neo-druidismo è una nuova forma di druidismo che ha assorbito la religione cristiana, dunque il cristianesimo nelle zone interessate (la Britannia, la Scozia e l’Irlanda) viene chiamato cristianesimo celtico. I monaci cristiano-celtici, i quali praticavano l’eremitaggio, venivano chiamati Culdei, dal gaelico Céilí Dé letteralmente “compagni di Dio”. Ognuno seguiva le istruzioni del suo maestro, senza che ci fosse una regola comune; per quest’ultima ragione alcuni sostengono che non fossero propriamente dei monaci. Ma finché S. Benedetto non istituì la regola monastica nell’Impero d’Occidente, ogni monaco faceva parte per se stesso, come indica la parola greca μόνος, solitario. Per quello che riguarda l’Irlanda, S. Finnian fondò il monastero Clonard di cui egli fu maestro. Egli mandò i suoi dodici discepoli a istituire altri cenobi in tutte le isole britanniche. Tra loro menzionamo S. Columba di Iona, che aperse una sua scuola in Scozia, S. Brendano, protagonista del viaggio iniziatico Navigatio sancti Brendani, S. Colombano, fondatore di numerosi cenobi nei regni dei Franchi e dei Longobardi assieme al suo discepolo San Gallo. Tutti i Santi della Chiesa culdea sono riconosciuti anche dalla chiesa ortodossa.[↩]
- F. Zambon, Metamorfosi del Graal, Roma, Carocci, 2016; pp. 17-18.[↩]
- Ibid. p. 22. Non possiamo affrontare nel breve spazio di una recensione la questione “annosa” del comparativismo tra le forme di cavalleria spirituale in seno alle differenti tradizioni; basti qui ricordare che mai è stata provata la presunta dipendenza iniziatica della cavalleria cristiana dalla ‘cavalleria’ musulmana (futuwwa). Ciò non dovrebbe essere dimenticato specialmente tra chi si pretende critico della teoria degli imprestiti.[↩]
- Ibid. p. 363.[↩][↩][↩]
- Metamorfosi del Graal, p. 330.[↩]
- Per l’appunto, nel testo in antico tedesco che riporta una parte della storia raccontata da Guénon non si parla di uno smeraldo che cade dalla fronte di Lucifero, bensì dalla sua corona (Der Warburgkriegs a cura di K. Simrock, Stoccarda, 1858, pp.174-178, §§ 142-145):
«E così la corona risultò gloriosa:/Dopo il desiderio di sessantamila angeli,/ Volevano spingere Dio dal regno dei cieli./Guarda Lucifero, è così che è stata sua!/Ovunque siano, degni e saggi maestri e sacerdoti,/Sanno che dico solo la verità./L’Arcangelo/Michele vide l’ira di Dio per un tale orgoglio:/La corona gli spezzò dalla testa con la spada:/Vedi, una pietra è caduta da essa,/Successivamente l’ha raccolta Perceval sulla terra.»
Qualche verso dopo viene ripetuto che la pietra è scaturita dalla corona e non dalla fronte: «La pietra che scaturiva dalla corona/L’ha trovata colui che ha sempre lottato per la dignità a caro prezzo,/Titurel, che frequentava molti cavalieri.»[↩]
- Metamorfosi del Graal, p. 324.[↩][↩][↩][↩]
- Nella Queste, privilegiando un’ottica interiorizzante e metafisica, il Graal non corrisponderebbe ad altro che al cuore – centro intimo di ogni uomo, specchio ove si riflette l’immagine divina e, dunque, ‘organo’ o luogo della Visio Dei – e in cui Galaad rappresenta l’ideale compiutamente realizzato del cavaliere, di cui il Perceval delle altre leggende sarebbe un’anticipazione, una rappresentazione in itinere, uno stadio ancora imperfetto.[↩]
- Voie aussi F. Zambon, Robert de Boron e i segreti del Graal, Leo S. Olschky Editore, Firenze, 1984.[↩]
- Le néodruidisme est une nouvelle forme de druidisme qui a absorbé la religion chrétienne. Ainsi, le christianisme dans les régions concernées (Britannia, Écosse et Irlande) est appelé christianisme celtique. Les moines chrétiens-celtes, qui pratiquaient l’ermitage, étaient appelés Culdées, du gaélique Céilí Dé, littéralement ‘compagnons de Dieu’. Chacun suivait les instructions de son maître, sans aucune règle commune, et pour cette dernière raison, certains prétendent qu’ils n’étaient pas vraiment des moines. Mais jusqu’à ce que saint Benoît institue la règle monastique dans l’Empire d’Occident, chaque moine restait seul, comme l’indique le mot grec μόνος, solitaire. Quant à l’Irlande, saint Finnian a fondé le monastère de Clonard, dont il était le maître. Il a envoyé ses douze disciples pour établir d’autres cenobia dans les îles britanniques. Parmi eux, citons saint Columba d’Iona, qui a ouvert sa propre école en Écosse, saint Brendan, le protagoniste du bien connu voyage initiatique Navigatio sancti Brendani, saint Columba, qui a fondé de nombreux cénobiums dans les royaumes francs et lombards avec son disciple saint Gallus. Tous les saints de l’Église chaldéenne sont également reconnus par l’Église orthodoxe.[↩]
- F. Zambon, Metamorfosi del Graal, Roma, Carocci, 2016; pp. 17-18.[↩][↩]
- Ibid. p. 22. Nous ne pouvons pas aborder dans le court espace d’un compte-rendu la question ‘séculaire’ du comparatisme entre les formes de chevalerie spirituelle au sein de différentes traditions ; il suffit de dire ici que la prétendue dépendance initiatique de la chevalerie chrétienne sur la ‘chevalerie’ musulmane (futuwwa) n’a jamais été prouvée. Il ne faut pas l’oublier, surtout pour ceux qui prétendent être des critiques de la théorie des emprunts.[↩]
- Metamorfosi del Graal, p. 330.[↩][↩][↩]
- En effet, dans le texte en vieil allemand qui rapporte une partie de l’histoire racontée par Guénon, il n’est pas question d’une émeraude tombant du front de Lucifer, mais de sa couronne (Der Warburgkriegs édité par K. Simrock, Stuttgart, 1858, pp.174-178, §§ 142-145) : “Et ainsi la couronne s’est révélée glorieuse:/d’après le désir de soixante mille anges,/ Ils ont voulu repousser Dieu du royaume des cieux./Regarde Lucifer, c’est ainsi que c’était à lui!/ Où qu’ils soient, dignes et sages maîtres et prêtres,/ Ils savent que je ne dis que la vérité. /L’Archange/Michel vit la colère de Dieu pour un tel orgueil:/ d’un coup d’épée lui détacha la couronne de la tête:/ Regarde une pierre en est tombée,/Et Perceval l’a ramassée sur terre.” Quelques vers plus loin, on répète que la pierre a jailli de la couronne et non du front : “La pierre qui a jailli de la couronne/C’est celui qui a toujours combattu pour la dignité au prix fort qui l’a trouvée,/Titurel, qui fréquentait de nombreux chevaliers.”[↩]
- Dans la Queste, privilégiant un point de vue intériorisant et métaphysique, le Graal ne correspondrait à rien d’autre qu’au cœur – centre intime de tout homme, miroir reflétant l’image divine et donc ‘organe’ ou lieu de la Visio Dei – et dans lequel Galaad représente l’idéal pleinement réalisé du chevalier, dont le Perceval des autres légendes serait une anticipation, une représentation in itinere, une étape encore imparfaite.[↩]
- Véase también F. Zambon, Robert de Boron e i segreti del Graal, Leo S. Olschky Editore, Florencia, 1984.[↩]
- El neodruidismo fue una nueva forma de druidismo que ha absorbido la religión cristiana, por lo que el cristianismo en las áreas en cuestión (Britannia, Escocia e Irlanda) se llama cristianismo celta. Los monjes cristiano-celtas, que practicaban la ermita, fueron llamados Culdeos, del gaélico Céilí Dé, literalmente ‘compañeros de Dios’. Cada uno siguió las instrucciones de su maestro, sin que existiera una regla común; por esta última razón, algunos discuten si en realidad eran monjes. Pero hasta que San Benito instituyó el gobierno monástico en el Imperio Occidental, cada monje era parte por sí mismo, como indica la palabra griega μόνος, solitario. En cuanto a Irlanda, St. Finnian fundó el monasterio Clonard del que fue maestro. Envió a sus doce discípulos a establecer otros monasterios en las Islas Británicas. Entre ellos mencionamos a S. Columba de Iona, que abrió su propia escuela en Escocia, S. Brendan, protagonista del viaje iniciático Navigatio sancti Brendani, S. Columban, fundador de numerosos monasterios en los reinos de los francos y lombardos junto con su discípulo San Gallo. Todos los santos de la Iglesia Culdea también son reconocidos por la Iglesia Ortodoxa.[↩]
- Ibídem. pag. 22. No podemos discutir en el breve espacio de una reseña la cuestión ‘milenaria’ del comparativismo entre las formas de caballería espiritual dentro de las diferentes tradiciones; Baste recordar aquí que la supuesta dependencia iniciática de la caballería cristiana de la “caballería” musulmana (futuwwa) nunca ha sido probada. Esto no debe olvidarse especialmente entre aquellos que afirman ser críticos con la teoría de los préstamos.[↩]
- Ibidem, pag. 363.[↩]
- Precisamente, en el texto en alemán antiguo que relata parte de la historia contada por Guénon no se menciona ninguna esmeralda caída de la frente de Lucifer, sino de su corona (Der Warburgkriegs editado por K. Simrock, Stuttgart, 1858, pp. 174-178, §§ 142-145): “Y así la corona resultó ser gloriosa: / Después del deseo de sesenta mil ángeles, / Quisieron expulsar a Dios del reino de los cielos. / Mira a Lucifer, así fue ¡suya! / Dondequiera que estén, maestros y sacerdotes dignos y sabios, / Saben que solo digo la verdad. / El Arcángel / Miguel vio la ira de Dios por tal orgullo: / La corona se rompió de su cabeza con la espada: / Mira, una piedra cayó de ella, / Más tarde Perceval la recogió en la tierra “. Unos versos después se repite que la piedra salió de la corona y no de la frente: “La piedra que salió de la corona / El que siempre ha luchado por la dignidad a gran precio / Titurel, que frecuentaba muchos caballeros, la encontró.”[↩]
- En estos, privilegiando una perspectiva interiorizante y metafísica, el Grial no correspondería más que al corazón, el centro íntimo de todo hombre, espejo donde se refleja la imagen divina y, por tanto, el ‘órgano’ o lugar de la Visio Dei, y en el que Galaad representa el ideal plenamente realizado del caballero, del cual el Perceval de las otras leyendas sería una anticipación, una representación continua, una etapa todavía imperfecta.[↩]
- Cfr. also Francesco Zambon, Robert de Boron e i segreti del Graal, Leo S. Olschky Editore, Firenze, 1984.[↩]
- Neo-druidism is a new form of druidism that has absorbed the Christian religion, so Christianity in the affected areas (Britannia, Scotland, and Ireland) is called Celtic Christianity. The Celtic Christian monks, who practiced hermitage, were called Culdei, by the Gaelic Céilí Dé literally “companions of God”. Everyone followed the instructions of his master, without there being a common rule; for the latter reason someone argue that they were not properly monks. But until St. Benedict instituted the monastic rule in the Western Empire, every monk was a part of himself, as the Greek word μόνος, solitary, indicates. As far as Ireland is concerned, St. Finnian founded the Clonard monastery of which he was the master. He sent his twelve disciples to establish other monasteries in all the British Isles. Among them we mention St. Columba of Iona, who opened his school in Scotland, St. Brendan, protagonist of the initiatic journey Navigatio sancti Brendani, St. Columban, founder of numerous monasteries in the kingdoms of the Franks and Lombards together with his disciple St. Gallus. All Saints of the Culdee Church are also recognized by the Orthodox Church.[↩]
- Francesco Zambon, Metamorfosi del Graal, Roma, Carocci, 2016; pp. 17-18.[↩]
- Ibid. p. 22. We cannot address in the short space of a review the ‘age-old’ question of the comparative nature of spiritual chivalry within different traditions; for this purpose, it is worth remembering that the alleged initiatic dependence of the Christian chivalry on the Muslim chivalry (futuwwa) has never been proven. This should not be forgotten especially among those who claim to be a critical of the theory of loans.[↩]
- In fact, in the Old German text that reports a part of the story told by Guénon there is no mention of an emerald falling from the front of Lucifer, but from his crown (Der Warburgkriegs edited by K. Simrock, Stuttgart, 1858, pp.174-178, §§; 142-145):And so the crown was glorious:/After the desire of sixty thousand angels,/ They wanted to push God out of the kingdom of heaven. /Look at Lucifer, that’s how it was his! /Wherever they are, worthy and wise teachers and priests,/They know that I speak only the truth. /The Archangel/Michael saw the wrath of God for such pride:/The crown broke from his head with the sword:/See, a stone fell from it,/Afterwards Perceval collected it on the earth.» A few verses later is repeated that the stone has sprung from the crown and not from the forehead: «The stone that sprang from the crown/It was found by the one who always fought for dignity at a high price,/Titurel, who frequented many knights.»[↩]
- In the Queste, privileging an interiorizing and metaphysical optics, the Grail would correspond to nothing but the heart – the intimate centre of every man, mirror where the divine image is reflected and, therefore, “organ” or place of the Visio Dei – and in which Galahad represents the knight’s fully realized ideal, of which the Perceval of the other legends would be an anticipation, an itinerant representation, a stage still imperfect.[↩]