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February 21, 2021

3. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

    3. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    Rimane ancora da specificare che cosa intende il mahāvākya con ‘tu’ (tvam). Non ci produrremo in lunghe spiegazioni, in quanto l’argomento è già stato trattato a fondo1.

    È come quando Brahmā rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole: “Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu”. Egli non fece riferimento ad alcuna azione che Rāma dovesse compiere per risvegliare la sua natura come Viṣṇu. A Rāma bastò soltanto ascoltare quelle parole. Allo stesso modo, senza che sia richiesto nient’altro che ascoltarla, la parola ‘tu’ rivela il Sé interiore autoluminoso del mahāvākya tu sei Quello il cui ‘risultato’ è la Liberazione. (US XVIII.100-101)

    Alla luce di quest’ultima specificazione, il significato del mahāvākya è il seguente: ‘tu’-Ātman sei Quello-Brahman, in cui il verbo essere (asi) stabilisce l’identità non duale tra i due termini2.

    * * *

    A questo punto lasciamo la parola a Gurujī:

    Quando si dice “tu sei Quello”, cos’è quell’‘io’? Se si identifica l’‘io’ al corpo, quando il guru insegna che l’‘io’ è l’intero universo, quell’insegnamento appare contrario alla propria esperienza: come può il corpo essere l’intero universo? Tuttavia non è possibile concepire che il maestro e la śruti sbaglino. Sorge perciò doverosamente il dubbio che l’errore sia da riconoscere in ciò a cui si identifica l’‘io’. Allo stesso modo si esclude l’identificazione dell’‘io’ con i sensi. Se il discepolo è intento a vedere e il guru dice “Tu sei Quello”, cioè l’‘io’ vedente, si ricade nel medesimo errore. Infatti non si può vedere tutto l’universo. Così è impossibile anche per l’udente; ed è impossibile a livello della mente identificarsi all’‘io’ pensante, impossibile a livello dell’intelletto identificarsi all’‘io’ intelligente. Allora cosa è mai il vero ‘io’? Prima si deve determinare cosa si è davvero, comprendere cosa si è. Solamente dopo, quando il guru insegna che tutto l’universo ‘sei tu’, quel tu cosciente, allora è facile capire. Perciò si deve arrivare a riconoscere il proprio vero ‘io’, il Sé, come testimone, Sākṣin.

    Con la parola ‘Quello’ s’intende il Brahman di cui stiamo parlando, il Testimone (Sākṣin), origine dell’universo, come s’apprende dai testi che seguono: “Brahman è Verità, Conoscenza e Infinito” (T.U II.1.1), “Conoscenza, Beatitudine, Brahman” (BU III.9.28), “Questo immutabile non è mai testimoniato poiché è il Testimone; non è mai conosciuto poiché è il Conoscitore” (BU III.8.11) “senza nascita, vecchiaia né morte […] né grosso né sottile, né breve né lungo” (BU III.8.8) e così via. (BSŚBh IV.1.2).

    La parte più importante del Vedānta, la sādhanā del Vedānta, è capire il vero Sé, il Sé centrale, il Sé reale, il Sé essenziale. Il vero Sé deve essere rintracciato perché l’individuo ha accumulato tanti non-Sé; i molti non-Sé si sono ‘mescolati’ con il tuo Sé e questi non-sé si confondono con il vero Sé e viceversa. Questo, che è lo stato naturale3 dell’ignoranza, è definito ‘reciproca sovrapposizione’ (anyonyādhyāsa). Perciò tutti i non-Sé devono essere discriminati, rimossi, e allora rimane il Sé reale. Questo Sé reale comprende l’intero universo. Per capire il proprio Sé, il Sé essenziale, bisogna usare il metodo (prakriyā o sādhana) per investigare (vicāra) com’è insegnato dal jñānaguru. Del metodo si possono descrivere due aspetti: il primo è denominato dṛg dṛśya viveka, cioè la discriminazione tra il vedente (dṛś) e ciò che è visto (dṛśya). Dṛś è il Sé che conosce, il Sākṣin, e dṛśya è il non-Sé conosciuto ossia ciò che è testimoniato (sākṣimat). Il Sé conosce e quello che è da lui discriminato è riconosciuto come non-Sé. L’altro aspetto del metodo è noto come āgama apāyin ed è usato per discriminare ciò che è stabile da ciò che va e viene: āgama, infatti, vuol dire che viene e apāyin che va. Nella nostra esperienza, ci sono due elementi mescolati: il vero ‘io’ e quello che non è il vero ‘io’. Questo non-sé ci rende saṃsāri. Bisogna capire qual è il vero Sé e quello che non lo è. Come si fa? Non si fa: fare è azione, è karma. Si deve guardare, osservare, contemplare e rimuovere quello che non è l’Ātman. Qualunque cosa si conosca non sei tu. Se il ‘tu’ è il conoscitore di questo (idam), questo che il ‘tu’ conosce non è il vero tu (tvam), perché il conoscitore non può conoscere se stesso. L’occhio non può vedere se stesso, la mano non può afferrarsi,

    né il fuoco, pur possedendo il calore, può scottarsi, né l’acrobata, per quanto allenato, può saltare sulle sue proprie spalle (BSŚBh III.3.55),

    perché nella stessa cosa non possono esserci soggetto e oggetto. Perciò chi conosce è diverso da quello che è conosciuto. Guarda quello che puoi conoscere e quello che non conosci. È facile conoscere l’Ātman. Qualsiasi cosa pensi non sei tu. Dopo aver sentito dell’Ātman, qualsiasi cosa immagini non è Ātman, qualsiasi cosa pensi, senti, non sei tu. Quello che sei tu è il ‘Sé naturale’ (Ātmasvarūpa), questo che conosci è anātman. Prima considera di cosa sei cosciente. Sei cosciente di tutto il mondo, attraverso i sensi si possono vedere tutte queste cose. Tutto ciò che vedi è altro dalla tua coscienza. Ma lo stesso vale per la vista, per gli occhi con cui vedi. «Gli occhi sono me?» No, non lo sono. Tu conosci occhi e orecchi come oggetti. Apri gli occhi e sei cosciente. Chiudi gli occhi e sei cosciente che i tuoi occhi non stanno operando e che non vedi. Apri gli occhi e rivedi. Stato di vedere e stato di non vedere; questi due stati assieme sono gli occhi, sono la vista. Vedere e non vedere; ma dietro ai due stati della vista c’è la mia coscienza perché li conosco entrambi. Perciò ‘io vedo e io non vedo’ vogliono dire che io sono comune a tutti e due. Non sono né il vedere né il non vedere. Bisogna tener presente la sola coscienza che sta dietro quelle due apparenze. Perché se m’identifico con la vista, quando apro gli occhi penso che la coscienza negli occhi sia io. La coscienza non sta negli occhi, ma ne è il sostrato indipendente. La vista viene a me e se ne va. La coscienza che sta dietro è indipendente dall’aprire e da chiudere gli occhi. Tocco e sono cosciente, non tocco e sono cosciente: il tatto ha sei qualità da percepire, caldo-freddo, morbido e duro, liscio e scabro. Tu sei cosciente di tutte queste sei percezioni. Fa’ attenzione alla coscienza. Se sei cosciente di tutte queste sei, stai dando sei nomi alla coscienza. Ma non ci sono sei coscienze, ce n’è solo una. Dai troppa importanza alle divisioni interne alla coscienza. Può apparire come avesse nome e forma, ma è essenzialmente una. Se dai importanza all’apparenza di nome e forma cominci a pensare: «Mi piace questo, non mi piace quell’altro». Allora alla percezione hai aggiunto dei pensieri. Così perdi la capacità di osservare la coscienza perché sei distratto dal rāga e dal dveṣa. Perciò ignora le emozioni, le reazioni, le esperienze e rimani consapevole. Ignora l’esperienza, sii solo cosciente. La coscienza è jñāna, l’esperienza è mente, è saṃsāra. Il saṃsāra è continuare a operare con queste esperienze. Ignora le esperienze e sviluppa il vairāgya. Sviluppa il distacco dalle esperienze, sii cosciente. Allora ti appare evidente che il mondo non sei tu. Guarda le cose e sii solo cosciente; rimuovi i sensi come non-Sé. Fa’ così anche della mente, delle emozioni, della compassione, dell’ira: tutte queste esperienze vanno e vengono, ma tu resti cosciente. Nell’ira ti identifichi con la mente, diventi la mente. Noi advaitin facciamo una distinzione tra le emozioni positive e quelle negative. Nelle emozioni positive vi è una minore identificazione (abhimāna), in quelle negative l’identificazione è più tenace. Perciò per prima cosa cerca di non avere queste emozioni negative. Anche tra quelle positive ci sono delle gradazioni. Così anche nell’amore. Tu ami perché ti aspetti qualcosa dalla cosa o dalla persona amata. Nell’amore devi amare non per ricevere qualcosa, ma per amore di tutti gli esseri. Distribuisci l’amore su tutto il mondo, così la mente rimane semplice, non si ripartisce, non si suddivide. Anche ogni emozione è coscienza. Quando la mente è cosciente, tutte le emozioni sono coscienza. Ma quando te ne distacchi e sei la sola Coscienza, la mente diventa anātman. Sei solo Coscienza. Comportati così anche con i pensieri; non identificarti ai concetti, alle idee. Infatti, quando entri in discussione e affermi qualcosa, se l’altro non ti ascolta te ne dispiaci, te ne risenti. Invece i pensieri sono semplicemente pensieri. Non identificarti con essi: stai solo esponendo un’idea: alcuni l’accettano, altri no. È come per i cibi; a qualcuno piacciono certuni, ad altri no. Così è per tutto ciò che ha nome e forma. Le inclinazioni naturali (svābhāvika saṃkalpa) inducono a rāga e dveṣa. Se hai una conoscenza che è reale perché convalidata dall’insegnamento, dalla logica e dalla tua intuizione, esponila e l’altro la può accettare o meno; se la capisce, allora diventa un suo apprendimento. Se non può capirla, vuol dire che non è qualificato a capire. Quando hai capito, è una tua conoscenza, non è una conoscenza appartenente al guru. L’anubhava è tuo. Io, come guru, ti aiuto a capire. Nella credenza, tu accetti un’idea sulla parola di qualcuno. Io invece non do conclusioni, espongo soltanto. Invece, in generale, la gente dà conclusioni e pretende che le si accetti. Io invece ti do dei dati e lascio che sia tu a trarne le conclusioni. Anche se io t’aiuto fornendoti i dati, sei tu che arrivi alle conclusioni. La certezza che acquisisci è la tua conoscenza. Quando gli accademici studiano il Vedānta, dicono che le Upaniṣad insegnano il “Tattvamasi”. Essi allora affermano: «Secondo Śaṃkara io sono il Brahman!» [risate]. Prendono il mahāvākya come fosse un’opinione, una teoria, non come un fatto visto direttamente. Invece noi ci interroghiamo: «Lo vedi direttamente?» Perché se non lo vedi non è la tua esperienza, è solo un’opinione altrui. Quando apri gli occhi vedi il tuo corpo. Quando li chiudi, tocchi il corpo e lo senti. Se non lo tocchi, se inibisci i sensi di percepirlo, come puoi accorgerti del corpo? Come qualcosa di pesante. Questa sensazione è dovuta alla collocazione in un dato posto, è un pensiero di ‘qui’, di qualcosa di molto pesante: quello è il tuo corpo. Per la tua coscienza cos’è il corpo? Gli altri lo vedono, per te è questo senso di pesantezza. Sthūla śarīra significa corpo pesante. Quando diventi cosciente del tuo corpo, questo peso va via. Perciò anche pratiche minori, come āsana, prāṇayāma, meditazione, ti possono rendere cosciente del tuo corpo. Chi è cosciente del corpo diventa qualcosa di diverso dal corpo. Io divento cosciente del corpo, ma non sono il corpo, e allora il corpo diventa leggero. Quel ‘qui’ dovuto al peso è la collocazione del tuo corpo nello spazio. Il luogo nello spazio appartiene al corpo. La tua mente prende questo punto di riferimento spaziale e quando si dissolve, sei solo coscienza, non hai corpo. Perciò questa coscienza deve essere distinta dal corpo, dai sensi, dalla mente e dal pensiero. Dobbiamo imparare che l’idea è solo un’idea. E, come ci sono varietà d’animali e di esseri umani, ci sono varietà di idee. L’idea non è tua o mia; l’idea è come un animale che vedi. Le idee mi vengono leggendo un libro o in altro modo, ma sono come le cose che vedo. Tra le idee, alcune sono immaginazioni, altre sono ricordi, altre credenze, altre comprensioni. Una è la memoria del passato, l’altra l’immaginazione nel futuro. Nessuno di questi pensieri è Ātman. La comprensione non può essere preconfezionata, non è l’accettazione d’un pensiero, com’è la credenza. Invece io ti posso aiutare nella comprensione: «Guarda bene, sta’ attento!» Ma la comprensione è tua. Quando hai capito, la conoscenza è tua. Ogni scoperta è di chi la scopre. Il guru solo t’aiuta a scoprire. Quando scopri, la conoscenza è direttamente il tuo anubhava. Perciò, quando hai capito puoi parlare per conto tuo. Dunque la funzione del guru è quella di aiutarti a capire. Non lo devi accettare perché lo dice lui, perché se lo accetti soltanto in base alla fede nella sua autorevolezza, allora non capisci se è giusto o sbagliato, perché tutte le credenze sono uguali, una non è diversa da un’altra. Noi diciamo che di notte tutte le vacche sono nere. Accettare qualcosa senza capirla è una credenza. L’opinione è invece non vedere tutto, ma solo una parte dell’argomento. Hai delle informazioni parziali e con un po’ d’immaginazione ricostruisci a tuo piacimento il tutto: ecco cos’è l’opinione. Perché la chiami opinione e non conoscenza? Conoscenza significa capire chiaramente da se stesso. Nella comprensione la mente non può immaginare né ricordare né usare paura, pregiudizi, ambizione, desideri. La mente deve essere pulita, cioè deve affrontare direttamente il fatto, deve aiutare ad affrontare il fatto; la mente deve essere pura e rilassata. Il maestro può aiutare la mente a guardare dalla giusta angolatura. All’inizio il discepolo è come un bambino che è chiamato e si guarda intorno smarrito perché non sa da dove proviene la voce che lo chiama. Allora il guru interviene e ti dice “tu sei Brahman” e t’insegna in quale direzione guardare. Dalla domanda del discepolo il guru capisce dove sta guardando. All’inizio gli prescrive un paio di libri di Vedānta da leggere. Poi gli chiede di porre la domanda. Dalla domanda capisce a quale livello di identificazione (abhimāna) si trova: se è a livello del corpo, dei sensi, delle emozioni, dei pensieri o dell’intelletto. Quindi lo aiuta a rimuovere l’ostacolo. Perciò rimuove e rimuove, finché non arriva alla coscienza: non sei questo, non sei questo (neti neti), sei il Brahman. A quel punto il discepolo non fa domande e dice: “Lo vedo”; ma Quello che vede non è possibile esprimere a parole. Ciò trascende tutto il mondo: “tu sei Quello”. Se, arrivato a questo punto d’istruzione il discepolo chiede: “E poi cosa devo fare?”. Allora significa che non ha capito: aveva solo creduto alle parole del maestro. Fare qualcosa è un atteggiamento corretto per il karma kāṇḍa, in cui c’è da raggiungere il Signore, un cielo, puṇya, pāpa, rinascita. A tutto questo puoi credere. Ma nel Vedānta devi capire. Le Upaniṣad devono essere capite. Non si può accettare “Tu sei Brahman”: si deve capirlo. Quando insegniamo la conoscenza la gente vuole credere. “Credo in Brahman”; ma non c’è da credere. Paradossalmente, nel Vedānta, dove si dovrebbe capire, alcuni accettano la dottrina per un atto di fede; e altri, nel karma kāṇḍa, dove tutto deve essere accettato per ingiunzione (vidhi), si vuole capire cosa, come e perché. Dove si deve capire, credono; dove si deve credere si pongono problemi.

    Come s’è detto, un aspetto del metodo è dṛg dṛśya, conoscitore e conosciuto, in cui si deve abbandonare l’illusoria differenziazione proiettata dall’intelletto. Allora si contempla l’intero stato (sarvāvasthā) come si vede la propria mano. Quello che vede tutto lo stato è il Sākṣin. E quando ci si riconosce nel Testimone si realizza che la Coscienza è la verità di tutto l’universo. Perché la Coscienza non ha limiti e non è parte di spazio, tempo, stato. Lo stato è nella Coscienza e nulla ne è al di fuori. “Tattvamasi” e io vedo Quello, mentre tutto il resto svanisce. Con ciò si vuole intendere che il maestro come guru, tu come jīva, sādhaka e jijñāsu, e anche la relazione guru-śiṣya sono dissolti in te, non c’è altro che te. Il guru ti aiuta finché non capisci. Quando elimini il tuo jīva individuale, allora il guru, il jīva e il mondo vengono eliminati e ti risvegli in te stesso e tu sei Uno non duale. A questo punto il guru sei tu stesso. Che ci sia guru e śiṣya è solo una rappresentazione vyāvahārika. Tu sei l’Ātman e nulla c’è al di fuori di te.

    L’altro aspetto del metodo è āgama apāyin; ciò che viene e va e ciò che non muta. Quando sono sveglio sono cosciente: nella coscienza c’è lo stato di veglia. Quando sogno sono cosciente: nella coscienza c’è lo stato di sogno. Quando veglia e sogno sono stati riassorbiti nel sonno profondo, sono cosciente: tant’è che una volta risvegliato ricordo di esserci stato, anche se non so descrivere com’è suṣupti.

    Quando ritorno allo stato di veglia e asserisco di non aver visto niente durante la mia esperienza di sonno profondo nego soltanto ogni modificazione mentale di conoscitore-conoscenza-conosciuto, ma non nego affatto la presenza della mia Coscienza in quello stato (US XVIII.97).

    Lo stato di sonno profondo, in realtà, non è uno stato. Quando elimini gli stati di veglia e di sogno, non vai nel sonno profondo, tu sei il sonno profondo. Nello stato sei un individuo. Quando cancelli quei due stati di veglia e di sogno non vai da nessuna parte: tu sei suṣupti. Quando cancelli l’individualità, tu rimani solo pura esistenza, perciò gli stati appaiono e scompaiono. La Coscienza invece è comune, né va né viene. Quando uno stato se ne va, per la Coscienza diventa chiaramente anātman. Così si capisce la Coscienza come Sākṣin. Di cos’è Testimone? È Testimone della presenza e dell’assenza del mondo. Tuttavia anche questo contrasto è una relazione, per quanto sottilissima. Essa scomparirà con la comprensione del mahāvākya “Tattvamasi”. Quello che discriminavi non essere te, ciò che ti appariva anātman, non sei altro che tu. Perciò anche ciò che hai separato da te, che hai discriminato, è Coscienza. Quello che hai considerato non-te e non-Sé e che hai abbandonato, sei tu. Questa coscienza che hai separato dal tuo corpo, sensi, mente, diventa infinita, tanto da riassorbire anche l’anātman. Allora anche il Sākṣin non ha più nulla da testimoniare, ed esso rimane la tua pura Coscienza (śuddha Caitanya), il Brahmātman non duale.

    C’è da aggiungere una spiegazione che riguarda il sonno profondo. Lo si chiama suṣupti perché dal punto di vista della veglia appare come uno stato. Questo è un errore. La tua vera esistenza, il tuo svarūpa di quando sei uno che veglia, il tuo stesso svarūpa appare come passato. Perché quando io non conosco me stesso, il mio me stesso appare come un passato. L’uomo ordinario pensa che quando ci si sveglia non si è ‘più’ in sonno profondo. Perciò la mente della veglia pone l’esperienza di suṣupti al passato. Ma suṣupti non ha tempo, non è nel passato né ha alcuna altra relazione. Per questo errore di valutazione lo si considera come se fosse uno stato. Ma quando si elimina l’individualità della veglia e del sogno, sei suṣupti: tu sei Quello e la tua stessa esistenza la chiami suṣupti. Suṣupti non è uno stato, sono io, è puro Ātman. Similmente posso avere migliaia di pensieri e poi identificarmi con un pensiero. Ma qual è la reale persona che s’identifica con tutti i pensieri? Se chiedi chi è la vera persona, quella è suṣupti. Tu lo chiami “Non so”; ma non è “Non so”, sei tu; il tuo tu reale che è più vasto di migliaia di pensieri. Appare come sconosciuto a chi s’identifica a un pensiero. Quando t’identifichi a un pensiero, il sostrato reale che sta sotto a tutti i pensieri appare nascosto, appare sconosciuto, e questo sconosciuto lo chiami suṣupti, perché sei inchiodato a un pensiero. Un pensiero non può capire il sostrato di migliaia di pensieri, la Coscienza, che è la base di tutti i pensieri. Quando t’identifichi a un pensiero, questo copre e nasconde la Coscienza e perciò essa appare come vuota perché il pensiero non riesce a vederla; perciò, una volta risvegliato, l’ignorante considera suṣupti come fosse vuoto. I pensieri della mente della veglia interferiscono e dicono: “Non so, da qualche parte c’è; è lontano, è nel passato”. Non è lontano, è proprio qui. Se ti distacchi da un pensiero, ti distacchi da tutti i pensieri, tutti i pensieri sono in te, tu sei quella Coscienza. Noi, invece, lo chiamiamo Quarto quando si eliminano gli altri tre. Quarto è qualcosa di diverso. È quando cancelli i tre. La divisione in tre non esiste. Tutto è solo esistenza, per cui non ci sono enumerazioni. Quando si supera il numero, quello è il Quarto. Tre sono solo i tre modi in cui appare l’Assoluto alla mente della veglia. È l’Uno non duale che appare in tre modi. Quando essi scompaiono, il tre è riconosciuto falso. Questa realtà è difficile da capire da parte di chi ne vuole fare un pensiero, una teoria. Si deve fare manana e arrivarci per esperienza intuitiva (anubhava),

    […] la cui prova evidente consiste nella semplice consapevolezza del Sé, per mezzo della quale tutti i fenomeni scompaiono, e che è immutabile, beato e non duale. Quello è l’Ātman, Quello deve essere conosciuto (MUGK I.7).

    Perciò l’uomo ordinario continua a vedere l’unico Caitanya come veglia, sogno e sonno profondo. Conta l’Ātman come fosse triplice.

    Tutto quello che precede, secondo le esperienze dell’uomo ordinario, è il rovescio della realtà. Per chi non ha capacità di discriminare, ogni cosa esiste in quanto tale. Ma per coloro che hanno capacità discriminante niente di questo esiste davvero, eccetto il Sé (US XVIII.95).

    Per chi si rende conto di stare enumerando sempre lo stesso Sé, i tre scompaiono.

    Oṃ  Tat  Sat


    1. G. G. Filippi, Il Serpente e la Corda, cit., II vol., pp. 131-136.[]
    2. In questo modo Tattvamasi appare identico ad “Ayam Ātmā Brahma”, l’Ātman è Brahman, il mahāvākya presente nella Māṇḍūkya Upaniṣad (I.2).[]
    3. Nel linguaggio vedāntico, naturale (svabhava) significa ‘dalla nascita’ ossia ciò con cui si nasce in quanto individui. Non si deve confondere questo termine con svarūpa, che è usato esclusivamente per indicare la “propria vera natura essenziale”, l’Ātman.[]

    2. Qual è la causa dell’ignoranza?

      Maitreyī

      2. Qual è la causa dell’ignoranza?

      Abbiamo detto che nell’adhyāsa Ātman e anātman sono reciprocamente sovrapposti, come lo sono anche le loro proprietà. Bisogna ora chiarire che usare il termine di ‘qualità’ per Ātman è un abuso: per esempio Caitanya, Kūṭasta o Satyam in realtà non sono qualità. Per parlarne, si usano termini conosciuti, come, appunto, ‘qualità’, ‘attributi’ o ‘proprietà’, spiegandone il significato che se ne vuole dare, che, ovviamente, non potrà essere completamente diverso dal senso ordinario. Questi, però, non sono dharma di Ātman; se avesse proprietà, Ātman sarebbe una sostanza (dravya) con attributi (guṇa). E sostanza e attributi sono tra loro diversi. Di fatto quelle di Ātman non sono proprietà, ma sono la sua stessa natura. Infatti Caitanya, non è una qualità, è Ātman stesso. Le qualità possono scomparire, riapparire, possono cambiare. Viṣayītvam, Kūṭastatvam, Satyatvam non sono proprietà, sono sinonimi, perché sono inseparabili dall’Ātman, sono l’Ātman stesso. Si usa pensarli come fossero dharma, in quanto ‘qualità’ è il concetto più simile a questa realtà che può essere utile per suggerirne l’idea. Non si deve, quindi, prendere dharma in senso letterale. Inoltre, le si definisce qualità differenti perché le si vede da angolature differenti, e perciò si danno loro nomi diversi. Al contrario, il fiore rosso ha il colore rosso che è un’acquisizione del fiore; il fiore, infatti, può essere anche bianco o altro. Il fiore sviluppa quel colore dovuto a particolari circostanze e la stessa qualità può esistere anche in un altro oggetto. Infatti con ‘fiore rosso’ non si vuole intendere che il fiore deve essere solo rosso e null’altro. Il rosso è la qualità del fiore o la sua natura? Quando diciamo ‘proprietà del fiore’ intendiamo due cose: quel fiore è rosso, ma lo stesso fiore, appassendo, può mutare colore. Inoltre, non si può dire che rosso significhi fiore e viceversa, perché anche altri oggetti possono essere rossi: abiti, libri, frutti. Invece, per natura si intende qualcosa che non può non essere. Per esempio: il calore è una qualità del fuoco o è la natura del fuoco? Se fosse una qualità, ogni tanto non sarebbe caldo. Ma si è mai visto un fuoco freddo? Il calore non appartiene a nessun altro se non al fuoco. Ogni volta che c’è uṣṇātā (calore) c’è agni (fuoco). Quindi sono sinonimi. Tra Ātman e le proprietà, perciò, non c’è guṇa guṇi sambandha (relazione qualità-qualificato).

      Nell’adhyāsa si trova questo scambio a causa della mancanza di discriminazione tra cose totalmente separate e opposte per natura. Quindi l’adhyāsa non è facilitato dalla loro natura. Essendoci opposizione totale, la natura dell’uno non può essere trasferita all’altro, come avviene fra luce e oscurità. L’errore è dovuto solo alla nostra mente: le diverse nature di Ātman e di anātman non possono provocare questa sovrapposizione. Quando vediamo cose simili siamo indotti a confonderle. Per esempio, ciò può verificarsi nella penombra se tra due cose c’è una certa somiglianza. Ma sia l’oppositore (pūrvapakṣin) sia Śaṃkara sostengono che le nature di Ātman e anātman sono completamente diverse. Quindi è del tutto impossibile prendere l’uno per l’altro. Essendo le nature di Ātman e anātman opposte, il vedāntin si chiede come, dove e per quale ragione avvenga questo scambio. Avviene in Ātman e anātman o nella nostra mente? L’errore tra il serpente e la corda avviene nella corda, nel serpente o avviene nella nostra mente mentre i due oggetti rimangono separati? La corda rimane corda e il serpente rimane serpente. Negli oggetti non c’è scambio: lo scambio avviene nella nostra mente. Quindi è una percezione errata in colui che percepisce. È un errore di percezione, non uno scambio reale tra fatti. Lo scambio delle loro proprietà è impossibile senza un fraintendimento. Questo avviene solo nell’adhyāsa, in quanto si pensa in modo sbagliato. Quindi è del tutto accettabile quello che dice l’oppositore,cioè che, essendo le loro nature opposte, è impossibile uno scambio reale. Non si nega questo fatto, perché un fatto non lo si può negare. Quindi i fatti universali, comuni a tutti nel proprio anubhava, non possono essere negati, perché sono esperienza comune: come suṣupti,che è esperienza di tutti. Se qualcuno vede differentemente, la differenza sta nel suo punto di vista, non nel fatto. Non si può sostenere che quello che è realtà per uno non è realtà per un altro, perché l’esistenza è universale; esistere significa propriamente esistenza di per sé, indipendentemente da chi guarda. Tu e io non sono due persone, sono due punti di vista diversi. Nonostante che ognuno veda dal suo punto di vista, la realtà non dipende da questo: ‘è’ di per sé. Questa è esistenza, cioè realtà. L’esistenza è esistenza perché esiste e non perché la si vede come esistenza. Questo è il fatto universale. Ma, poiché appare in un certo modo, si possono paragonare le diverse percezioni e modi di vedere come fanno le diverse scuole di pensiero. Quando si paragona, non si deve considerare il punto di vista altrui dal proprio, perché in tal caso c’è pregiudizio ed è evidente che non ci potrà essere accordo. L’universale, invece, è indiscutibile. Ciò che esiste nel tuo anubhava esiste anche nel mio e nell’anubhava di tutti, perché un fatto universale è un’esistenza universale, un anubhava universale. Esso deve essere preso come criterio. Su questa base si può giudicare tutto, e non dalla propria percezione e comprensione. Il modo di percepire e di capire può essere diverso, ma l’esistenza è la stessa. Il mio punto di vista lo chiamo il mio darśana. Ma non si può pretendere che un altro assuma il mio punto di vista. Non si può richiedere di accettarlo soltanto in base alla propria autorità o alla propria esperienza, perché allora è solo un anubhava personale, non è un’esperienza universale. Bisogna distinguere tra ciò che è il punto di vista universale (vastu tantram) e quello individuale (buddhi tantram). Il fatto indiscutibile e universale è il sostrato (adhiṣṭhānam). La comprensione del fatto può essere diversa a seconda della capacità (adhikaraṇam) di ognuno; in tal caso si può discutere e paragonare quello che ciascuno ha capito. Cioè, avendo osservato la stessa verità, ci si confronta e aiuta reciprocamente per fare vicāra in comune. L’indagine sull’Ātman significa verificare la nostra comprensione, sempre sulla base del fatto universale. Con anubhava, dunque, s’intende comprensione, conoscenza. Quindi non si deve ignorare l’anubhava dell’altro, perché la comprensione dell’uno può aiutare l’altro a verificare se la propria comprensione è in linea con quella universale che è il criterio di verità. Questa è la base della relazione guru-śiṣya.

      Nel vyavahāra la nostra comprensione si trova con la sovrapposizione fra Ātman e anātman. Secondo l’oppositore le loro nature sono opposte: ma fino a che punto sono opposte? Egli afferma che sono completamente opposte in ogni senso. L’oppositore, invero, è più saggio dei post-śaṃkariani; infatti questa totale opposizione implica che il vero adhyāsa è impossibile. Anche i vedāntin accettano questa totale opposizione, in quanto è un’esperienza universale innegabile. Ma quando si dice che c’è adhyāsa non lo si attribuisce al fatto, ma alla mente di colui che guarda. Perciò è un pensiero errato (mithyā pratyaya), non è un oggetto errato (mithyā padārtha). Questo punto è importante, perché è proprio in questo che i vyākhyānakāra1 sbagliano. Nella mente di tutti c’è questo adhyāsa, ma nonostante la non comprensione, la realtà rimane inalterata. Perché l’adhyāsa non influenza né modifica il fatto. Quando si confonde il serpente con la corda l’errore sta in chi guarda, non nella la corda. Similmente Brahman rimane advaita e la conoscenza errata per l’Ātma svarūpa non esiste. Nel mokṣa svarūpa non c’è adhyāsa, non c’è alcun saṃsāra; questo c’è soltanto in chi lo vede.

      Riassumendo, perché accade questo adhyāsa? La risposta è perché si è in condizione di non discriminazione (avivekena), dovuto all’aviveka. Questa però non è una causa, l’assenza di discriminazione (viveka abhava) non essendo un fattore causale. Perché ci sia aviveka ci devono essere adhyāsa e anātman: ma questi due non esistono prima dell’aviveka né prima dell’adhyāsa esistono gli anātman. La mancanza di discriminazione è solo la condizione in cui si trova l’adhyāsa senza alcuna sequenza temporale. Invece, alcuni post-śaṃkariani presentano l’adhyāsa come un prodotto dovuto a un fattore preesistente. Quindi lo descrivono come un avvenimento che ha origine nel tempo. Prima dell’adhyāsa ci sarebbe un elemento che crea l’adhyāsa. Questa è pura speculazione, un’ipotesi che non si riscontra nell’anubhava, perché anche il tempo è dovuto all’adhyāsa. Nell’adhyāsa c’è semplicemente mancanza di discriminazione: perché si vuole sostenere che la mancanza di discriminazione è nimittam per adhyāsa in senso causale? Bisogna chiedersi se la mancanza di discriminazione è precedente, contemporanea o posteriore all’adhyāsa. ‘Dopo l’adhyāsa’ non ha senso. È solo nell’adhyāsa che si trova la mescolanza tra Ātman e anātman. Prima dell’adhyāsa non c’è l’anātman, perciò il problema non si pone. Quindi anātman si trova solo nell’adhyāsa. Il serpente lo si trova solo nell’adhyāsa; prima non c’è. Prima dell’erronea conoscenza, non c’è alcun serpente. Lo si trova solo nell’errore. Affermare che la mancanza di discriminazione (viveka abhava) esiste prima dell’errore non ha alcun senso. Il viveka abhava può soltanto prolungare l’errore: finché non si discrimina, l’errore continua. Quindi, la mancanza di discriminazione è nell’ adhyāsa e finché c’è mancanza di discriminazione c’è adhyāsa. Essendo simultanei, non c’è alcuna ragione di attribuire a nimittam un senso causale. Si usa il termine nimittam solo perché lo si intende apparentemente successivo in una sequenza temporale. Lo Śāstra dice che viveka abhava è nimittam per l’adhyāsa, ma se si facesse vicāra, l’adhyāsa sarebbe corretto e scomparirebbe: quindi l’adhyāsa rimane finché c’è mancanza di viveka. Il viveka abhava è preso come nimittam per adhyāsa. Quando diciamo che la mancanza di discriminazione è nimittam intendiamo che nel viveka abhava c’è l’adhyāsa e in quella condizione l’adhyāsa permane. Ciò implica che se si fa viveka, l’adhyāsa non può permanere. Ora, se c’è l’adhyāsa che cos’è il vyavahāra? Il vyavahāra è dovuto all’adhyāsa. Non si può separare adhyāsa da vyavahāra. Quando c’è l’uno c’è l’altro. Questo è quanto. Per facilitare la comprensione del discepolo si distinguono tre fasi, ma nel proprio anubhava è solo uno. Perciò il titolo di questo articolo è puramente provocatorio: non c’è alcuna causa per l’ignoranza.

      Come si è detto sopra, per l’Atman non c’è guṇa-guṇi bhava (relazione di qualità e qualificato). Per esempio, Caitanya non èun guṇa di Ātman. Ātman non può perdere Caitanya, e Caitanya non può esistere in qualcos’altro. Quindi è veramente la sua natura, lo svarūpa di Ātman. È uno, definito con due parole. Vale a dire che non è una cosa divisa (vastu bheda), è un unico vastu. Lo stesso dicasi per i termini Kūṭasta e Nirvikāra, immobile e immutabile, che quindi sono anch’essi sinonimi di Ātman. Questo si applica a tutte le altre ‘qualità’ di Ātman. L’uso di ‘qualità’ esiste solo per poter esprimere questa realtà2. Quando i dharma dell’Ātman si attribuiscono all’anātman e viceversa, allora c’è adhyāsa. Tuttavia, nemmeno all’anātman si possono attribuire dei dharma. Questo è l’errore che fanno i vaiśeṣika e altri dualisti, che considerano Ātman una sostanza (dravya). Per loro anche anātman è un dravya e quindi dotato di qualità come, per analogia inversa rispetto ad Ātman, jaḍatvam (essere insenziente), acetanatvam (essere privo di coscienza) e vikāritvam (essere mutevole) ecc. Ma questi dharma di anātman sono davvero proprietà? Tutti parlano di guṇa-guṇin anche per anātman, eccetto gli advaitin. Facciamo l’esempio di acetanatvam che i non advaitin considerano come proprietà di anātman: ciò non corrisponde alla nostra esperienza. Le qualità di una sostanza (dravya) cambiano; ma se non cambiano non le si può definire qualità. Per esempio il colore del fiore è una qualità e, come tale, è mutevole. Una qualità è tale se l’oggetto ne può avere varie e se la stessa qualità può esistere in altri oggetti. Invece acetanatvam non può essere una qualità perché è anātman, e anātman è acetanatvam. Acetanatvam si trova solo nell’anātman. Quindi non sono due: sono la stessa cosa. Perciò nemmeno qui c’è guna-guni sambandha. Lo stesso dicasi per vikāritvam, mutabilità, in quanto solo anātman è mutevole (vikārin) e vikārin è anātman: sono un’unica cosa. Il dravya e i guṇa (la sostanza e gli accidenti) di cui parlano i vaiśeṣika, non sono una relazione, sono un’unica cosa vista da due punti di vista diversi. Guṇa e dravya sono solo due punti di vista, non sono due cose. Per i vaiśeṣika sono due entità separate: sostanza e qualità, fiore e colore. L’oggetto e la sua qualità sono visti come due cose separate. Per noi non sono due cose, sono la stessa entità considerata da due angolature differenti.

      La mancanza di discriminazione non produce adhyāsa, ma nell’assenza di discernimento (viveka abhava) si trova adhyāsa. La mancanza di discriminazione non può produrre l’adhyāsa perché è assenza: e l’assenza non può produrre nulla. Inoltre l’adhyāsa non è un prodotto di alcunché, lo si trova presente spontaneamente. Abbiamo già parlato di guṇa-guṇi sambandha: perché ci sia relazione le due cose devono essere separate. Nella stessa cosa non ci può essere relazione, perciò Ātman è nitya nirviśeṣam (eternamente senza distinzione). I saguṇavādin, pensano che non aver qualità sia squalificante. In realtà, avere una qualità è una limitazione. Anche la qualità positiva è un limite. Se Īśvara avesse la qualità della compassione, avrebbe necessità di qualcuno che abbisogni della sua compassione; quindi sarebbe dipendente, non sarebbe autonomo (svatantra). Dio dipenderebbe da qualcun altro, sarebbe vincolato alle necessità del jīva, non sarebbe indipendente. Īśvara, invece, è di per sé perfetta pienezza (paripūrṇa), senza bisogno di poveri e di infelici per dimostrare la sua compassione. In altri termini è per sua natura beatitudine (ānanda svarūpa). Le qualità appaiono solo dal punto di vista del jīva. Quindi sono adhyāsa upādhika (limitazioni caratteristiche della sovrapposizione). Ogni qualità appare così al jīva, mentre per Īśvara è la sua stessa natura. Anche gli advaitin ammettono che Īśvara abbia qualità, ma solo dal punto di vista del jīva, in quanto sono necessità per quest’ultimo. È come il sole che pare sorgere e che invece resta fermo. Anche i suoi colori e le sue dimensioni cambiano dall’alba, al mezzodì, al tramonto: ma il sole è sempre lo stesso. Si tratta dunque solo di un anuvāda, una interpretazione;queste qualità appaiono a noi, ma il sole non muta. Un altro esempio è quello del calore del fuoco che vale per gli uomini, ma non per se stesso: il fuoco non sente il calore né si scotta. Alla dottrina Advaita i dvaitin contestano: «Ma come? Allora i jīva non possono essere protetti da Dio e non Lo possono pregare?» Invece i jīva ricevono benedizioni, compassione e anugrāha (influenze spirituali) dal loro punto di vista, ma per Īśvara sono la sua natura, come il calore per il fuoco, come la luce per il sole. Tutte quelle che il jīva considera qualità, sono invece la stessa natura (svarūpa) di Īśvara. Quindi a un certo livello il Signore ha qualità, in assoluto è la sua natura. In questo modo si trascende il problema di saguṇa e nirguṇa e, in quanto nirguṇa, non perde le qualità: le trascende. Nirguṇa non significa privo di qualità, ma che trascende le limitazioni dovute ai guṇa. I dualisti non capiscono, non vogliono capire, rifiutano di assumere questo punto di vista. Vorrebbero imporre agli advaitin la loro visione limitata. Ciò è del tutto inaccettabile, perché affermare le qualità conduce a una dipendenza di Īśvara dal jīva e del jīva da Īśvara. Questa dipendenza contraddice l’assoluta autonomia (svatantratā) di Īśvara. Le Upaniṣad in certe parti parlano dei guṇa diĪśvara in quanto saguṇa e, altrove, parlano del nirguṇa, cioè di Brahman con qualità o senza. Come si spiega ciò che può sembrare una contraddizione della śruti? I seguaci del dvaitādvaitavāda (dottrina della dualità-non dualità) affermano che Īśvara ha due facce, una con qualità e l’altra senza. Accettano i due i punti di vista, quindi devono immaginare due aspetti per cui Īśvara parzialmente è libero e parzialmente non lo è. I dvaitin, da parte loro, dicono che le Upaniṣad affermano che Īśvara ha solo qualità e che i testi in cui si parla dei guṇa sono quelli veri in senso primario. Trascendere i guṇa lo interpretano come trascendere le qualità negative. Ma questo la śruti non lo afferma, dichiarando chiaramente che Īśvara non ha proprio alcuna qualità. Per affermare che Īśvara è compassionevole non occorre dire che non è crudele, perché la compassione lo implica eminentemente. Perciò non ha senso sostenere che le Upaniṣad con nirguṇa intendano che Īśvara è solo privo di qualità negative. Il puro Advaita insegna che dal punto di vista del jīva ci sono le qualità, ma che in sé Īśvara ne è libero. Ognuno, in base alle proprie capacità e qualifiche, può esaminare queste tre dottrine e assumere quella che più gli si confà.

      Lasciamo concludere al Guru:

      Se ami la tua dottrina, sii felice con quella. Se ti fa felice, conservala, ma non sentirti offeso da una dottrina superiore. Si deve comunque riflettere se le qualità esistono per il jīva o per Īśvara. Le qualità di Īśvara sono necessarie al jīva per essere benedetto e purificato. Questo è riconosciuto dall’Advaita. Noi diciamo che le qualità di Īśvara non sono per Īśvara: sono invece per gli altri. Quindi non è richiesto che per lui siano reali. Bisogna ponderare su questa verità, perché l’Advaita richiede un attento vicāra, facendo attenzione all’anubhava e alla logica insita nell’insegnamento tradizionale. Tutte queste precisazioni servono per fare manana. Per capire i fatti, bisogna esaminarli da tutte le angolature. Indagando, si eliminano tutte le apparenze, tutte le contraddizioni sono risolte, tutti gli errori sono dissolti ed emerge il fatto nella sua realtà. In questa comprensione e certezza, la mente è pura, libera e rilassata. Questo è l’Advaita vicāra. Śaṃkara si chiede: «Come si può dire che solo l’Advaita sia la verità ultima?» La risposta è che l’Advaita è non duale e quando raggiungi il non duale non puoi avere dubbi perché non c’è nulla altro da te. È così naturale e privo di paura! Se sei non duale non puoi preoccuparti di alcunché perché non c’è nulla al di fuori di te. Quindi solo questo ti rende libero dal saṃsāra. È importante fare manana con grande pazienza e a lungo. Anche se un punto ti sembra sbagliato, abbi pazienza e continua a indagare; perché non devi credere nell’Advaita, ma devi seguire ciò che comprendi. Il vicāra ti conduce naturalmente all’Advaita, cioè a essere libero da contraddizioni, perché tu sei tutto. Perciò usa la tua mente e sii paziente. Non bisogna avere alcun attaccamento emotivo nei confronti del termine Advaita. Perché l’Advaita è l’Ātman di tutti. Quindi è Ātma Nirviśeṣa Caitanya. Se si vogliono ricevere grazie e benedizioni da Īśvara, va benissimo; ma non si può accusare il vedāntin di essere incapace di adorare solo perché definisce Īśvara nirguṇa. Si tratta di due livelli diversi. Quello che è inaccettabile è sostenere che il punto di vista inferiore possa essere imposto come l’unico vero. Anche noi possiamo partecipare alla pūjā, niente ce lo impedisce. L’Advaita non è la libertà dal pensiero, è il culmine del vicāra, dell’indagine. Io non ti chiedo di credere in base alla mia autorità, a quella di Satcidānandendra Svāmījī o di Śaṃkara, ma di provare nel tuo anubhava. Bisogna osservare con pazienza finché il fatto si rivela. Allora tutti i dubbi svaniscono e il jñāna affiora in te come intuizione.”

      Oṃ saha nāvavatu

      Saha nau bhunaktu

      Saha vīryam karavāvahai

      Tejasvi nāvadhītamastu mā vidviṣāvahai

      Oṃ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ3


      1. Con post-śaṃkariani si intendono coloro che non si rifanno direttamente all’opera di Śaṃkara, ma che seguono i suoi sub-commentatori (vyākhyānakāra), dichiarandosi così seguaci delle correnti (prasthāna) che prendono il nome dai loro sub-commentari: Pañcapādikā, Vivaraṇa e Bhāmatī (Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā. Avidyā Śaṃkara Siddhānta, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020, p. 7).[]
      2. ‘Qualità’ è un termine preso in prestito dall’esperienza che l’individuo ha nella situazione vyāvahārika. Per esempio si riconosce che un essere vivente ha apparentemente la qualità di essere cosciente (cit) e mutevole (vikāra); al contrario una pietra ha apparentemente la qualità di essere non cosciente (acit) e immutabile (nirvikāra). La correzione dell’errore tramite vicāra, invece, fa riconoscere che solo l’Ātman è cosciente e immutabile per sua reale natura.[]
      3. Oṃ, possa Egli proteggerci entrambi [guru e śiṣya trasmettendo la conoscenza]; possa Egli proteggerci entrambi nutrendoci [di conoscenza]; possiamo insieme contemplare con vigore; che il nostro intelletto sia illuminato; che tra noi non possa mai esserci alterità. Oṃ, Pace, Pace, Pace” (Kaṭha Upaniṣad, II.3.19; Taittirīya Upaniṣad, II.1).[]