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Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja

Considerazioni sull’insegnamento di Yājñavalkya a Maitreyī1

a cura di Gian Giuseppe Filippi

La rinuncia di Yājñavalkya

Ci fu un tempo in cui in ogni parte dell’India c’erano persone che ardevano dal desiderio di conseguire la conoscenza della Verità e della Realtà2. Ci furono cercatori pronti a recarsi in capo al mondo, se fosse stato necessario, per trovare un maestro sapiente che li potesse iniziare ai misteri di Dio, del Sé e del mondo. Le corti dei Sovrani erano gremite di saggi, e i Re si deliziavano a organizzare discussioni e dibattiti che avevano come oggetto la Realtà. Re e Imperatori sedevano umilmente ai piedi dei sapienti, poiché consideravano che la loro compagnia fosse fonte d’ispirazione e di elevazione.

Fu in occasione di uno di quegli animati dibattiti che Yājñavalkya, un grande saggio, decise di rinunciare alle ricchezze e agli onori della vita mondana per ritirarsi in solitudine. Aveva vinto un invidiabile premio che era stato messo in palio per il migliore tra i conoscitori del Brahman nel dibattito indetto da Janaka Re di Videha, un sapiente Sovrano, assai famoso per il suo interesse nei confronti del Vedānta. Gli allori vinti quella volta da Yājñavalkya consistevano in mille vacche con le corna ornate d’oro.

Quel saggio aveva due mogli, Maitreyī e Kātyāyanī. Era un kulapati3 e insegnava a numerosi discepoli che studiavano il Veda sotto la sua guida. Era arrivato però alla conclusione che la contemplazione in solitudine sul Brahman era molto più proficua di tutte le ricchezze e comodità della vita mondana, e così decise di diventare un saṃnyāsin pārivrājaka, ovvero un rinunciante itinerante, della categoria dei paramhaṃsa4.

Il brāhmaṇa di Maitreyī5 narra l’episodio in cui si svolge il dialogo tra questo grande sapiente e sua moglie Maitreyī.

Yājñavalkya e Maitreyī

Il racconto preliminare è pregno di significato e del tutto confacente alla serietà dell’argomento trattato nel brāhmaṇa. Il saggio propose di dividere i suoi beni fra la sua prima moglie Maitreyī e l’altra moglie Kātyāyani, prima di lasciare la casa. Tuttavia la virtuosa moglie Maitreyī gli chiese se avrebbe potuto sperare di diventare immortale qualora fosse entrata in possesso di tutte le ricchezze del mondo.

Yājñavalkya le rispose: «No, potrai vivere comodamente come chiunque sia in possesso di tutti i mezzi per avere una vita senza problemi. Quanto all’immortalità, non avrai alcuna possibilità di raggiungerla per mezzo della ricchezza.» Maitreyī allora disse: «Or dunque, che cosa me ne farò di quello che non mi permette di diventare immortale? Ti prego di istruirmi nella sapienza in cui tu stesso, o venerabile, sei così grandemente competente.»

Yājñavalkya (fu immensamente compiaciuto da questa risposta e) così le disse: «Ora con questa risposta sorprendentemente gradita mi sei diventata ancora più cara; vieni qua, siediti accanto a me e sforzati di capire ciò che t’insegnerò su questo argomento.»6

Significato del racconto

Qual è lo scopo di questo racconto preliminare posto all’inizio del brāhmaṇa? In tutta evidenza l’Upaniṣad7vuol farci sapere che c’è una cosa degna di esser conosciuta, che vale più di tutte le ricchezze di questo mondo messe insieme. Le sostanze accumulate in questo mondo possono procurarci una vita comoda e, inoltre, possiamo sperare di raggiungere il più alto dei cieli (Brahmaloka) grazie ai sacrifici compiuti con l’aiuto di questa ricchezza. Ma solamente la conoscenza dell’Ātman supremo, la rinuncia, la visione diretta dell’Ātman e null’altro ci possono procurare l’immortalità. È del tutto evidente che Yājñavalkya era pronto a rinunciare a tutte le sue ricchezze desiderando entrare in contatto con l’Ātman. Ciò dimostra in modo incontestabile che la rinuncia all’idea di possesso8 è il mezzo più immediato per raggiungere il più alto scopo della vita umana. Il rifiuto di Maitreyī alla sua parte di ricchezza, preferendo la conoscenza dell’Ātman, e la trasmissione da parte di Yājñavalkya della conoscenza sacra a una donna, che in quanto tale non è adatta a compiere sacrifici, è un’ulteriore conferma che la rinuncia e il distacco permettono di rivolgere l’attenzione all’interno di sé e di vedere l’Ātman che è in tutto.

Il più caro di tutto

È di grande interesse sottolineare con quanta abilità Yājñavalkya introduca l’argomento dell’amore coniugale, che è quello più familiare all’uomo ordinario. Così induce facilmente sua moglie a considerare come il sé individuale, jīvātman, sia ciò che tutti gli esseri umani amano al di sopra di tutto.

Egli [Yājñavalkya] disse: «Non è per amore del marito, o mia cara, che si ama il marito, ma per amore del proprio sénon è per amore della moglie, o mia cara, che si ama la moglie, ma per amore del proprio sénon è per amore dei figli, o mia cara, che si amano figli, ma per amore del proprio sénon è per amore delle ricchezze, o mia cara, che si amano le ricchezze, ma per amore del proprio sénon è per amore del bestiame, o mia cara, che lo si ama, ma per amore del proprio sénon è per amore della [propria] casta brāhmaṇica, o mia cara, che si ama la casta brāhmaṇica, ma per amore del proprio sé; non è per amore della [propria] casta guerriera, o mia cara, che si ama la casta guerriera, ma per amore del proprio sé; non è per amore dei mondi celesti, o mia cara, che si amano i mondi celesti, ma per amore del proprio sé; non è per amore degli Dèi, o mia cara, che si amano gli Dèi, ma per amore del proprio sénon è per amore dei Veda, o mia cara, che si amano i Veda, ma per amore del proprio sé; non è per amore degli esseri, o mia cara, che si amano gli esseri, ma per amore del proprio sé; non è per amore di tutto, o mia cara, che si ama tutto, ma per amore del proprio sé.9

Il summenzionato passaggio dimostra che il sé individuale di ciascuno è ovviamente più caro di ogni altra cosa. È ben noto che una moglie è pronta a sacrificare qualunque cosa per amore di suo marito, che ella, beninteso, dichiara esserle carissimo. Tuttavia, il saggio richiama l’attenzione di Maitreyī sul fatto che il marito è caro alla moglie non perché lei lo ami di più, ma solamente perché si tratta del suo proprio marito ed ella ama il suo proprio sé individuale anche di più del marito, sebbene usi sempre chiamarlo ‘carissimo’. A sua volta, il marito chiama sua moglie ‘amatissima’ e la ama soltanto dopo se stesso. Certamente la moglie non può essergli più cara di se stesso10.

Quindi, i figli, che consideriamo più cari di qualsiasi altra cosa, ci sono cari perché sono generati dal nostro matrimonio, precisamente perché sono i nostri propri figli. I figli sono cari al padre se questi li considera suoi11, o cari alla madre se è lei che li considera suoi. In ogni caso, all’uomo è più caro il proprio ego che non i suoi figli e persino sua moglie. Dopo i figli viene la ricchezza che si considera propria e che si ha più cara di tutto il resto. È inutile precisare che la ricchezza viene dopo la famiglia, dato che essa è stata accumulata a beneficio di quest’ultima. La famiglia è, infatti, pronta a sacrificare tutta questa preziosa ricchezza, se fosse necessario, per salvaguardare gli interessi dei famigliari; e la famiglia stessa, come abbiamo appena visto, ci è cara solamente perché riguarda il nostro proprio ego. In secondo ordine, il bestiame ci è caro perché è necessario per la propria famiglia e per il suo benessere, ma molto meno di quanto ci sia caro il nostro Io. L’appartenenza a una casta elevata, come a quella sacerdotale brāhmaṇica o alla casta aristocratica, kṣatriya, ci è cara di più delle altre caste; ci è cara perché si tratta della nostra casta, il che ci permette di compiere i nostri propri rituali. I mondi celesti che si aspira a raggiungere per raccogliervi i benefici dei rituali che si sono compiuti quaggiù, ci sono cari perché essi sono possibili grazie ai privilegi della propria casta d’appartenenza. E gli Dèi, che ognuno compiace per mezzo dei sacrifici avendo in animo di ottenere la salvezza nei cieli12, ci sono ugualmente cari per amore di noi stessi e non per amore degli Dèi in quanto tali. Persino i Veda, che ci ingiungono di adorare gli Dèi, non ci sono cari di per sé, ma per l’amore che proviamo verso noi stessi. Né ci sono cari gli altri esseri, a partire dal più elevato, Brahmā (Hiraṇyagarbha)13, via via scendendo fino al più umile filo d’erba, se non per amore del proprio ego. In poche parole, tutte le cose che amiamo, da quelle più distanti a quelle più prossime e familiari, non ci sono care per loro stesse, ma per amore di noi stessi.

È dunque chiaro che l’uomo ha del tutto dimenticato e trascurato il proprio Sé perché ha la mente assorbita dagli esseri e dalle cose del mondo esterno14.

Solamente l’Ātman è degno d’esser visto

Dopo aver richiamato l’attenzione di Maitreyī su quanto sia cara la natura del proprio sé individuale, Yājñavalkya la esortò a compiere il più severo sforzo per ottenere la visione del suo proprio Sé più elevato15.

Solo il Sé, mia cara Maitreyī, deve essere visto, deve essere udito, deve essere pensato, deve essere conosciuto. Allorché, o cara, l’Ātman è visto, udito, pensato e conosciuto, tutto questo universo diventa conosciuto.9

Il senso di questa parte dell’insegnamento [di Yājñavalkya] deve essere compreso prima di procedere oltre, perché solamente con la sua corretta comprensione si sarà capaci di seguire la successiva argomentazione. Anzitutto che cosa s’intende esattamente con l’affermazione che “solo l’Ātman deve essere visto (dṛṣṭavyaḥ)”? E qual è quell’Ātman che qui s’esorta di vedere? Si tratta di quel ben noto sé che è concepito dall’uomo ordinario, oppure quello che è insegnato dalla parte ritualistica dei Veda,o ancora qualcos’altro? E, comunque, come si fa a vedere quell’Ātman?

Il problema

Questo interrogativo è della massima importanza, perché Yājñavalkya, proprio all’inizio, ha dichiarato che quell’Ātman deve essere visto al fine di raggiungere l’immortalità; inoltre, egli ha affermato che per mezzo della conoscenza di questo Ātman si riesce a conoscere ‘tutto questo universo’, ossia l’intero dominio della conoscenza oggettiva16. Ciò è, a dir poco, un rompicapo, perché come si può pensare di raggiungere l’immortalità con la conoscenza di se stessi? E inoltre, come può la conoscenza del conoscitore, ossia la nostra conoscenza soggettiva, aiutarci a conoscere anche tutto ciò che è oggettivo?

Qual è l’Ātman che deve esser visto?

A questo proposito la conoscenza del Sé com’è intesa dall’uomo ordinario non può mai portare a nessuno dei due risultati. È invero ben noto che l’uomo ordinario ha un’idea troppo vaga del proprio Sé. Senza dubbio egli sa di esistere e di avere qualcosa che chiama Sé, ma non si interroga mai sulla vera natura di quel Sé; dalla nascita alla morte [durante lo stato di veglia], si dedica ai fenomeni oggettivi, con alcuni dei quali di tanto in tanto s’identifica17, eccezion fatta per quando si trova negli stati di sogno e sonno profondo.

È evidente che Yājñavalkya non ha mai pensato a questo sé apparente quando affermava che tramite la conoscenza dell’Ātman tutto diventa conosciuto.

Supponiamo che quel saggio si fosse riferito al sé trasmigrante, quando chiese a Maitreyī di conoscere l’Ātman, di raggiungere l’immortalità e la conoscenza di tutte le altre cose. Questa interpretazione appare per la prima volta nel Vakyānvaya Adhikāraṇa18.Poiché è risaputo che nella vita ordinaria tutto ciò che è altro da noi ci è caro per amore di noi stessi, anche in questo contesto si potrebbe pensare che qui s’intenda il sé individuale, l’ego. L’affermazione secondo la quale con la conoscenza dell’Ātman tutto diventa conosciuto, potrebbe allora essere interpretata come puramente figurativa, in quanto si può considerare che le cose oggettive siano conosciute tramite l’esperienza percettiva a cui esse sono sottoposte. Ma nemmeno questo punto di vista è sostenibile perché non si trova da nessuna parte che con la conoscenza del sé individuale si possa ottenere l’immortalità, né è possibile intenderlo in senso primario, vale a dire che attraverso la conoscenza del sé individuale tutto diventi conosciuto. Non è corretto, quindi, usare il senso [secondario o] figurato quando è disponibile quello primario19. Infatti è noto dalla śrūti e dalla smṛti che l’immortalità si raggiunge solamente con la conoscenza del supremo Ātman.

Brahman in quanto Ātman supremo

A questo punto siamo obbligati ad ammettere che qui s’intende soltanto il Brahman o l’Ātman supremo, come si legge nella kaṇḍikā successiva, che dice così:

La casta brāhmaṇica respinge colui che considera la casta brāhmaṇica diversa dall’Ātman; la casta kṣatriya respinge colui che considera la casta kṣatriya diversa dall’Ātman. I mondi celesti respingono colui che considera i mondi celesti diversi dall’Ātman. Gli Dèi respingono colui che considera gli Dèi diversi dall’Ātman. I Veda respingono colui che considera i Veda diversi dall’Ātman. Gli esseri tutti respingono colui che considera gli esseri tutti diversi dall’Ātman. Il tutto respinge colui che considera il tutto diverso dall’Ātman. Questa casta brāhmaṇica, questa casta kṣatriya, questi mondi, questi Dèi, questi Veda, questi esseri tutti, questo tutto è ciò che è realmente Ātman.20

Questa citazione dimostra chiaramente che ciò che è ritenuto comunemente diverso dall’Ātman è realmente solo Ātman e null’altro. È quest’Ātman la cui conoscenza, secondo Yājñavalkya, conduce a conoscere la realtà che soggiace a tutto.

L’ Ātman può esser visto davvero?

Ma com’è possibile vedere veramente l’Ātman? Questa è la domanda cruciale. Yājñavalkya afferma che una volta che l’Ātman sia visto, udito, pensato e compreso, allora ogni cosa diventa conosciuta, in quanto considera che non c’è null’altro di diverso da Ātman. Ma cosa s’intende quando si afferma che Ātman deve essere visto? La parola Ātman significa il proprio se stesso. Se è così, come si fa a vedere, udire, pensare e comprendere la vera natura del proprio Sé? È certo che il Sé in quanto soggetto possa diventare oggetto di se stesso? Questa dottrina della non dualità del soggetto e dell’oggetto appare così evidentemente in conflitto con se stessa che i vedāntin di altre scuole dicono che è assurdo pensare che il Brahman debba conoscere Se stesso per raggiungere lo scopo ultimo, e quindi sostengono che le Upaniṣad insegnano una sorta di dualismo, secondo cui l’anima individuale, per raggiungere l’immortalità, deve conoscere il Brahman e meditare devotamente su Dio, che è distinto e diverso dal devoto21. Quindi dobbiamo considerare quale soluzione possano offrire i non dualisti per ovviare a questa apparente difficoltà.

La dottrina della visione diretta

11. I maestri che sostennero la perfetta identità del sé individuale liberato con il Sé supremo, avevano propugnato la dottrina della visione diretta, sākṣātkāra, molto tempo prima di Śaṃkara.

Bhartṛprapañca22, per esempio, le cui dottrine sono sovente criticate nel Bṛhadāraṇyaka Bhāṣya, sostenne questa dottrina. Nella sua spiegazione del passaggio upaniṣadico:

Possa venire a te abhaya [assenza di paura], o Yājñavalkya, a te, o venerabile, che ci hai insegnato l’abhaya,23

questo maestro, discutendone il possibile significato, s’interroga:

Com’è che il re Janaka augura al suo maestro d’ottenere l’abhaya, ch’egli avrebbe dovuto aver già raggiunto, in quanto aveva insegnato al Re l’assenza della paura?

Bhartṛprapañca trovò la soluzione a questa difficoltà affermando:

In verità Yājñavalkya non era privo di abhaya, in quanto l’aveva già ottenuto, ma non ne aveva avuta ancora la visione diretta.24

12. Autori di commentari al Bhāṣya di Śaṃkara sostengono con ostinazione il principio per cui non è sufficiente conoscere il significato del testo upaniṣadico che insegna l’identità dell’individuo e del supremo Ātman, ma che sopra e al di là di quella conoscenza è assolutamente necessario avere l’esperienza diretta di quell’identità. Per esempio l’autore della Pañcapādikā25, afferma quanto segue:

Qui (nel Bhāṣya) con avagati26 s’intende l’esperienza diretta; jñāna, la semplice conoscenza, è pur sempre possibile anche nel caso di una cosa remota e fuori della portata dell’esperienza diretta. Però abbiamo sottolineato altrove che, anche nel caso di ciò che è vicino27, quando l’oggetto non è provato [dall’esperienza diretta], il giudizio [della conoscenza] non è certo28.

È bene notare che per questo autore persino l’esperienza diretta può essere talvolta messa in discussione.

E Vācaspati Miśra, nella sua Bhāmatī, commentario al Brahma Sūtra Bhāṣya, scrive:

Non si desidera la pura e semplice conoscenza, ma ciò che conduce all’esperienza diretta, avagati o sākṣātkāra [che dir si voglia]. Ciò che culmina in avagati è l’oggetto del desiderio indicato dal suffisso ‘san’.28

Questa sarebbe la sua spiegazione del passaggio del Sūtra Bhāṣya che afferma: “La conoscenza è il mezzo con cui si desidera ottenere l’esperienza diretta [del Brahman].”29

La visione dell’Ātman secondo il Sūtra Bhāṣya e il Vārṭika

È corretta questa opinione sull’Ātmādarśana o visione dell’Ātman?

Dobbiamo attentamente distinguere il vero dal falso non soltanto sulla base dell’evidenza della śruti e delle autorità sicure30, ma anche aiutandoci con l’uso della riflessione su di essa31 e dell’intuizione universale32. Ancor oggi ci sono diversi grandi vedāntin33 di chiara fama che affermano che la conoscenza dell’Ātman, com’è descritta nei testi vedici, è soltanto una conoscenza mediata e che quindi non può essere definitiva finché essa non abbia raggiunto il livello che definiscono ‘realizzazione’.

Il vero Ātman

Ritorniamo per un attimo all’ esame sulla vera natura di Ātman, perché ciò sarà di fondamentale aiuto per chiarire la questione se l’Ātman può o non può esser visto direttamente. Abbiamo già trovato che le Upaniṣad dichiarano che il vero Ātman è uno solo, distinto dall’ātman individuale che è ciò a cui si attribuisce la nozione di ego (ahaṃpratyayaviṣayaḥ) e che è ciò di cui ciascuno di noi ha esperienza nel proprio corpo. Il vero Ātman è incontaminato da questo ātman individuale e dall’insieme delle modalità psichiche che gli appartengono. Nessun valido mezzo di conoscenza (pramāṇa) può considerare come oggetto il Sé34, e neanche il sé individuale così ben noto a tutti; ed è così per la semplice ragione che è l’Ātman a usare i mezzi di conoscenza quando indaga la natura di tutto ciò che è oggettivo.

Come dice Śaṃkara:

Com’è noto, l’Ātman non è affatto estraneo a nessuno, poiché è il Sé interiore. Ātman, perciò, non può diventare il proprio oggetto di conoscenza per il fatto che esso non può essere oggetto d’indagine da parte dei pramāṇa. Infatti è l’Ātman che usa la percezione e gli altri mezzi di conoscenza per provare l’esistenza d’un oggetto sconosciuto. Nessuno può sostenere che l’esistenza dell’etere e di altre cose possa essere provata senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza. L’Ātman, d’altra parte, essendo il substrato sia dei pramāṇa sia delle cose contingenti, deve essere considerato principiale rispetto ai pramāṇa e alle cose contingenti. E nemmeno è possibile negarlo, perché può venire soltanto negata l’esistenza di qualcosa di estraneo, ma non la propria natura essenziale. Anche perché proprio la persona che dovrebbe essere colui che nega, è in verità la sua vera natura essenziale. Può forse il fuoco negare la sua natura essenziale di fuoco? Se qualcuno pensa: «Sono io che conosco qualcosa nel presente; sono io che conobbi qualcosa nel passato e qualcos’altro in un passato ancor precedente; sono io che conoscerò qualcosa in futuro e qualcos’altro ancor dopo»; da ciò si trae che non c’è alcun cambiamento nel conoscitore, anche se ciò che si conosce è soggetto a cambiamento dal passato, al presente, al futuro. Questo perché il conoscitore è di natura eternamente presente. Allo stesso modo, quando persino il corpo è ridotto a cenere, non si può concepire distruzione o cambiamento della natura dell’Ātman35.

Ātman in quanto auto sussistente

La natura auto sussistente del vero Sé, in quanto distinto dalla modalità corporea e da quelle sottili, e il fatto ch’esso non possa essere oggetto, sono così descritti nella Śruti:

Allora Uṣasta, figlio di Cakra, gli chiese: «Yājñavalkya, insegnami il Brahman, realmente immediato, che è il Sé più interno.» «Questo è il tuo Ātman, interno a tutto.» «Yājñavalkya, cos’è questo che è interno a tutto?» «Quello che espiri con il prāṇa è il tuo Ātman, interno a tutto. Quello che aspiri con l’apāṇa è il tuo Ātman, interno a tutto. Quello che diffondi in tutte le direzioni con il vyāṇa è il tuo Ātman, interno a tutto. Quello che inspiri con l’udāṇa è il tuo Ātman, interno a tutto. Questo è il tuo Ātman, interno a tutto.»36

Allora Uṣasta, figlio di Cakra, gli disse: «Mi hai parlato di ciò come uno che abbia detto: “Questo è un bue, questo è un cavallo.” Insegnami il Brahman, realmente immediato, che è il Sé più interno.» «Questo è il tuo Ātman, interno a tutto.» «Yājñavalkya, cos’è questo che è interno a tutto?» «Non puoi vedere colui che vede con la vista; non puoi udire colui che ode con l’udito, non puoi pensare colui che pensa con il pensiero, non puoi conoscere colui che conosce con la conoscenza. Questo è il tuo Sé più interno; ogni altra cosa diversa da lui è peritura.» A questo punto Uṣasta, figlio di Cakra, si zittì.37

Nel secondo brano è stabilito nei termini più chiari possibile che il Sé più interno a ciascuno è ciò che oggettiva persino le facoltà della vista, dell’udito, del pensiero e della conoscenza. Perciò è evidente che il supremo Sé, la cui conoscenza conduce all’immortalità, non può esser visto, udito, pensato, conosciuto nel senso ordinario del termine.

Ātman in quanto Testimone

Possiamo ora rivolgere l’attenzione a un altro testo che chiarisce ampiamente la natura intrinseca del Sé:

Quel Deva (luminoso) nascosto in tutti gli esseri, onnipervadente, Sé interiore a ogni essere, che sovrintende a ogni azione, che dimora in tutti gli esseri, il Testimone, il cosciente, l’Uno, senza qualità.38

Qui apprendiamo che questo Ātman è ‘Deva’, autoluminoso, ed è ‘Uno’ comune a tutti gli esseri esistenti, sarvabhūteṣu, non solamente a tutti gli esseri umani. Inoltre, è gūḍhaḥ, ‘nascosto’, almeno fino a quando non si riesce a conoscerlo immediatamente. Esso è onnipervadente, sarvavyāpī, non costretto in un punto o in un particolare attimo. Non soltanto è in tutti gli esseri, ma è anche “il Sé interno a tutti gli esseri,” sravabhūtāntarātma. Non è come il sé apparente che è un agente di azioni e sperimentatore dei frutti delle azioni: esso è colui che sovrintende alle azioni, karmādhyakṣaḥ, che dispensa i risultati delle azioni a coloro che agiscono empiricamente, limitati dalle loro molteplici azioni e dai conseguenti risultati di queste. È l’abitante primordiale che sta nei corpi di tutti esseri, sarvabhūtādhivasaḥ, incontaminato dai difetti e dai pregi di quei corpi. È Sākṣī, il Testimone eternamente immutabile di tutte le cose mutevoli, buone, cattive o indifferenti, alte o basse, felici o miserabili, mai affetto dalle caratteristiche di questi esseri. È cetā, il cosciente, differente dai non-sé. Oltre a tutto, esso è kevala, l’Uno senza secondo, perché le cose obiettive, oggetti della sua testimonianza, non sono altro che apparenze di cui esso è l’unico substrato reale. È nirguṇa, privo di ogni attributo che lo qualifichi e perciò non dipendente da alcun cambiamento nella sua natura essenziale.

L’interpretazione della śruti che insegna la Visione dell’Ātman

Ora arriviamo alla questione cruciale. Come dobbiamo interpretare i testi della śruti che insegnano che l’Ātman deve essere visto, udito, pensato e conosciuto com’è? Come può esserci una relazione di soggetto-oggetto in un Principio che non può nemmeno esser pensato come composto di parti? Così è la risposta di Śaṃkara a questo problema:

L’ātman [il jīvātman], che pur non si differenzia mai dalla sua vera natura di Ātman, nella vita ordinaria è concepito erroneamente dagli uomini che, non possedendo la corretta conoscenza della sua vera natura, lo identificano con il corpo e con altre modalità diverse dal Sé. L’Ātman stesso, [ossia il jīvātman individuale, perché è stato] identificato in questo modo al corpo e ad altre cose che non sono il sé, accetta l’idea che si possa parlare dell’Ātman in termini che implicano la differenza di soggetto-oggetto, come per esempio: «l’Ātman è nascosto e deve essere cercato», «esso non è raggiunto e deve essere raggiunto», « non è udito e deve essere udito», «non è pensato e deve essere pensato», « non è compreso e deve essere compreso» e così via. Al contrario, dal punto d’osservazione della realtà assoluta, si nega che possa esserci qualcuno che vede, qualcuno che ode ecc., che sia diverso dall’onnisciente Signore supremo, come nel testo: “Non c’è nessuno che vede se non Lui”39. Il Signore supremo è conosciuto come Sé conoscente, vijñānātman, differente da colui che agisce nel corpo, sperimentatore sovrapposto dall’ignoranza, avidyā. Quest’ultimo è paragonabile al mago che in apparenza sale al cielo arrampicandosi su una corda, armato di spada e scudo, mentre il mago in realtà rimane a terra. Oppure è come lo spazio all’interno di un vaso che pare limitato da condizioni aggiunte, quando invece lo spazio non è limitato da nessuna condizione aggiunta.40.

A differenza degli advaitin che appartengono a scuole pre o post-śaṃkariane, Śaṃkara discute la dottrina del vedere, udire, pensare e conoscere il vero Ātman, senza affermare che sia possibile realmente vedere, udire, pensare e conoscere l’Ātman come un oggetto. Egli proclama che la distinzione del jīvātman dal Brahman, come pure la ricerca della vera natura dell’Ātman, appare solo nella sfera empirica proiettata dall’ignoranza, avidyā.

Citeremo ora alcuni versi tratti dall’Upadeśa Sāhasrī, che ci rivelano quello che Śaṃkara, autore di quell’opera, ha da dire a proposito di anubhava, ossia la diretta intuizione di Ātman:

Il Sé può intuire la visione dell’Ātman stesso, dal momento che esso ha la stessa natura dell’intuizione. La modificazione mentale che è prodotta della sua apparizione è definita come suo anubhava (intuizione del Sé).41

Poiché ogni cosa è conosciuta tramite la luce della coscienza, che è propriamente ciò che è detto a rigore di termini anubhava, non può esistere alcuna intuizione dell’intuizione, esattamente come non si può immaginare una luce che illumini se stessa. Dal punto di vista dell’esperienza empirica, tuttavia, la modificazione della mente che sorge quando si dice: «Ora ho conosciuto il mio Sé reale», è metaforicamente chiamata dai vedāntin ‘intuizione’.

Non è concepibile nessun’altra esperienza diretta dell’Ātman se non questa. Perché la śruti afferma: “Egli è sconosciuto a coloro che lo conoscono (come oggetto).”42 “Con quale mezzo, o cara, si può conoscere il conoscitore?4344

Questi due testi dichiarano che l’Ātman non può mai diventare oggetto della conoscenza. Perciò la sola intuizione dell’Ātman serve per conoscere che noi siamo l’Ātman non oggettivabile, la cui immutabile essenza coscienziale illumina tutto il resto.

Lo yogin che vede la modificazione della mente in cui si riflette l’apparizione dell’Ātman, esattamente come guarda la propria immagine nello specchio, pensa di vedervi l’Ātman.

Chi riconosce questo come un’immagine illusoria che non può essere il Testimone che tutto vede, quella persona e nessun altro è, in verità, il migliore degli yogin. E su ciò non c’è alcun dubbio.45

Lo yogin che crede di aver realizzato l’Ātman in una particolare modificazione della mente, o anubhava, non conosce la verità. Il fatto è che il conoscitore e il conosciuto sono un’apparenza dell’Ātman nella modificazione della mente. Essi sono due sovrapposizioni del Testimone e, essenzialmente, sono quel Testimone e nient’altro46.

Nella śruti [già citata]47, con ‘Tu’ s’intende il conoscitore della conoscenza. Perciò solo questo è l’intuizione dell’Ātman; ogni altra intuizione diversa da questa è falsa.48

Qualsiasi conoscenza ottenuta per mezzo d’una attività intellettuale49 può essere soltanto quella del non-sé e non può mai essere del Sé reale. Intuire il proprio Sé come il Testimone della conoscenza è l’unica intuizione degna di questo nome.

Chi pensa che l’ego è sia l’Ātman sia il conoscitore, non conosce affatto l’Ātman. Chi conosce diversamente è il vero conoscitore dell’Ātman.50

Il sé che corrisponde alla nozione dell’ego e che è conoscitore degli oggetti, non è affatto il vero Ātman. Colui che sa che l’Ātman non è né un conoscitore [di oggetti] né un agente di qualsiasi azione, conosce veramente.

Illuminato dalla luce della coscienza dell’Ātman, l’intelletto [la buddhi] immagina di essere esso stesso cosciente e che non ci sia nessun altro conoscente. Ora, questa è l’illusione propria dell’intelletto.51

La Coscienza non è un attributo di Ātman, ma è essenzialmente la natura dello stesso Ātman.

Le precedenti citazioni sono sufficienti per mostrare che, secondo la tradizione śaṃkariana, Ātman non può essere conosciuto da nessuna facoltà della mente né può essere visualizzato direttamente. Ātman è proprio l’essenza della Coscienza che non ha necessità di essere illuminato per esser visto. Intuire: questo è vedere l’Ātman.


  1. Tratto da Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, Aprilia, NovaLogos, 2015.[]
  2. Il sostantivo sanscrito Satya, usato nel Vedānta per designare il Brahman, significa al tempo stesso Verità e Realtà. L’Autore l’ha tradotto usando due termini poiché l’inglese, come d’altronde l’italiano, è lingua con una minore capacità sintetica. Il lettore è perciò invitato a non considerare Verità e Realtà come una dualità, bensì in un’ottica non duale [N.d.C.].[]
  3. Maestro o guru che sta a capo di un gurukula, scuola iniziatica [N.d.C.].[]
  4. Questa categoria è definita cigno supremo e si riferisce ai rinuncianti di livello più elevato, che si dedicano esclusivamente alla conoscenza del Supremo Brahman [N.d.C.].[]
  5. In questo contesto con brāhmaṇa s’intende un sotto-capitolo d’una Upaniṣad [N.d.C.].[]
  6. Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, II. 4. 2-4.[]
  7. L’episodio del dialogo tra Yājñavalkya e la moglie Maitreyī è narrato in forma pressoché identica in due brāhmaṇa diversi della medesima Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad: il primo corrisponde al brāhmaṇa quarto del secondo adhyāya. Il secondo passaggio è contenuto in BU IV. 5 [N.d.C.].[]
  8. L’ignoranza, avidyā, produce l’egoismo, asmitā, che a sua volta genera l’attrazione per ciò che dà piacere e la repulsione per ciò che provoca sofferenza. Ne consegue l’attaccamento all’esistenza individuale che s’oppone alla conoscenza del vero Sé. “Ignoranza, asmitā, attrazione, repulsione e attaccamento all’esistenza sono i cinque ostacoli[alla realizzazione].” (Patañjali, Yoga Sūtra, II. 3.) A sua volta nell’asmitā si distinguono l’idea dell’“Io sono così e così” e la bramosia del “mio”. In questo brano del Maitreyī brāhmaṇa,citato dall’Autore, la rinuncia al possesso della ricchezza elimina il desiderio di avere, mentre l’eliminazione dell’essere come io individuale sarà trattato nel prossimo capitolo sulla base del prosieguo upaniṣadico [N.d.C.].[]
  9. BU IV. 5. 6.[][]
  10. Questa concezione è assai simile a quella della parabola del buon samaritano, esposta nel Vangelo di S. Luca (X, 25-37) per spiegare chi è il “prossimo”. In essa Gesù narra d’un mercante che, assalito da briganti, è lasciato mal ferito al bordo della strada. Passano un sacerdote e poi un levita che proseguono indifferenti. Infine passa un samaritano, eretico e impuro per la legge giudaica, che soccorre il ferito e lo porta al villaggio più vicino per farlo curare. Per il mercante il prossimo non furono né il sacerdote né il levita, ma soltanto il samaritano. Perciò il mercante, per amore di se stesso, considera “prossimo” soltanto colui che lo ha aiutato. A un livello superiore, che è quello insegnato da Yājñavalkya qui di seguito, ci si accorge che l’ego è soltanto un aspetto sovrapposto al Sé. Questo salto di qualità è evangelicamente espresso da “Ama il prossimo tuo come Te stesso”, ovvero come il proprio Sé. Tutte le interpretazioni social-moralistiche, oggi così di moda, per cui il prossimo sarebbe il mercante e non il buon samaritano, rappresentano un vero rovesciamento del testo evangelico [N.d.C.].[]
  11. I figli, specie se minori, sono ritenuti proprietà dei genitori, in particolar modo del padre. Partendo da questo principio sancito dai Dharma Śāstra, Naciketas chiede a suo padre che stava donando tutte le sue proprietà per rinunciare al mondo: “«E me, a chi mi donerai?»” (Taittirīya Brāhmaṇa III. 11. 8; cfrKaṭha Upaniṣad, I. 1. 4) [N.d.C.].[]
  12. A differenza del desiderio di ottenere il mokṣa, il desiderio di raggiungere la salvezza è motivato dall’egoismo [N.d.C.].[]
  13. Brahmā, principio di manifestazione degli innumerevoli mondi, depone ripetutamente un Uovo (Brahmāṇḍa) sulla superficie delle acque primordiali. Ogni Brahmāṇḍa è dunque un singolo mondo in potenza. Per passare dalla potenza all’atto è necessario che il guscio dell’uovo si spezzi in due: la calotta superiore diventa il cielo (o i sette cieli in molte versioni del mito) del nuovo mondo, mentre la calotta inferiore ne diventa la terra (o, analogamente, le sette terre). L’albume corrisponde allora all’atmosfera o regione intermedia (antarīkṣa) in mezzo alla quale splende come il sole l’embrione d’oro, Hiraṇyagarbha. Hiraṇyagarbha è sempre Brahmā nato dal suo stesso Uovo, concentrato di vita, jīva ghana, ovvero il principio che ripartisce la vita a tutti gli esseri che si manifestano nello sviluppo di quel determinato mondo. Una volta esaurite le potenzialità vitali di quel mondo avviene una catastrofe cosmica, pralaya, superata la quale Brahmā depositerà un nuovo Uovo del Mondo sulle acque diluviali e così via indefinitamente. Brahmā è dunque l’Essere creatore, il Dio altissimo, la cui funzione consiste nel dotare di vita tutti gli altri esseri. V. G. G. Filippi, Discesa agli Inferi. La Morte Iniziatica nella Tradizione hindū, Aprilia, Quaderni di Indoasiatica, NovaLogos, 2015, pp. 51-52; 227. Questa concezione cosmogonica, naturalmente, altro non è che l’illusione universale (saṃsāra) proiettata dalla Māyā negli stati di veglia e sogno [N.d.C.].[]
  14. Da questo insegnamento di Yājñavalkya s’apprende che il jīvātman, il Sé apparentemente sottoposto alla condizione della vita, immagina d’essere l’ego quando rivolge la sua attenzione agli oggetti del mondo esterno, dimentico di essere in realtà l’Ātman. Tuttavia l’amore per il proprio ego, l’asmitā di cui s’è parlato, oscuramente riflette la sua Coscienza di essere. È grazie a questa Coscienza che, quando il jīvātman rivolge la sua attenzione al suo interno, scopre di non essere affatto l’ego illusorio, bensì l’Ātman stesso. Allo stesso modo l’aspirante ricerca l’iniziazione spinto dal desiderio di diventare più saggio, più potente, conoscitore di misteri e appartenente a un’élite esclusiva. Durante il percorso iniziatico egli si renderà conto dell’illusorietà di questo desiderio, poiché la realizzazione conduce all’estinzione dell’egoCfr. G. G. Filippi, Discesa agli Inferi, cit., pp. 94-99 [N.d.C.].[]
  15. Come dalla nota precedente, finora il testo s’era riferito al sé perituro (kṣara) ossia al jīvātman che, credendosi individuale, è sottoposto all’illusione d’essere altro dall’Ātman. A partire d’ora Yājñavalkya tratterà del Sé imperituro (akṣara) quel jīvātman che, chiudendosi agli esseri e alle cose del mondo esterno, prende coscienza della sua identità con l’Ātman supremo, Paramātman. Cfr. la dottrina dei tre puruṣa, com’è insegnata da Kṛṣṇa ad Arjuna, Bhagavad Gītā, XV. 16 [N.d.C.].[]
  16. Con questa espressione si deve intendere il mondo che appare nelle avasthā di veglia e di sogno che, essendo sottoposto alle condizioni del vyavahāra, è conosciuto come oggetto [N.d.C.].[]
  17. L’Autore qui allude a tutto ciò che corrisponde al ‘mio’ dell’asmitā, ossia alla mente, al corpo, alla propria moglie, alla famiglia, alle ricchezze di famiglia, ecc. [N.d.C.].[]
  18. Argomento di discussione in Vedānta-Mimāṃsa I. 4. 19, p. 169.[]
  19. Per il Nyāya ogni termine che designa esattamente una cosa o una persona è definito primario o principale, mentre il medesimo termine può essere usato in un senso trasposto ossia in senso secondario o figurato. Nell’esempio: “Quel cane scodinzola”, cane è inteso in senso primario. Nel secondo esempio: “Quell’uomo è un cane”, cane è usato in senso figurato. In tutte le dimostrazioni logiche è necessaria la cautela per accertare definitivamente che un termine non sia usato nel senso primario, prima poter passare a considerarlo nel suo senso secondario [N.d.C.].[]
  20. BU IV. 5. 7.[]
  21. Questa immortalità che l’Ātman raggiunge mantenendo una distinzione (viśeṣa) dal Brahman deve essere intesa in senso trasposto e non in quello primario com’è il caso, invece, del mokṣa. Essa rappresenta la meta di quella via conosciuta come conoscenza del non-Supremo, Aparabrahman vijñāna [N.d.C.].[]
  22. Antico maestro del Bhedābheda Vedānta [N.d.C.].[]
  23. BU IV. 2. 4.[]
  24. Citiamo questi due frammenti di Bhartṛprapañca estraendoli dalla Ṭīkā (lett. commentario d’un commentario o sotto-commentario) di Ānandagiri (135) sulla Bṛhadāraṇyaka Vārṭika.[]
  25. “Le cinque sezioni”, commento di Padmapāda al Sūtra Bhāṣya di Śaṃkara [N.d.C.].[]
  26. Letteralmente avagati significa comprensione: erroneamente, dunque, Padmapāda considerava che jñāna fosse la semplice conoscenza teorica basata sulla deduzione [N.d.C.].[]
  27. Questa osservazione allude all’esempio del serpente sulla corda che, evidentemente, è oggetto d’una percezione visiva errata. Tuttavia l’autore della Pañcapādikā forza i termini dell’esempio: infatti i sensi di conoscenza, jñānendriya, riportano alla mente, se privi di difetti dei loro organi, la percezione corretta dell’oggetto. È la mente a sovrapporre alla corda l’immagine del serpente. Quindi il jñāna dell’indriya della vista è esperienza diretta, mentre è erronea solamente l’interpretazione mentale [N.d.C.].[]
  28. Pañcapādikā, XXI. 78, pp. 773-774 [L’Autore si rifà all’introvabile edizione Pañcapādikā, with comms. of Ātmasvarūpa & Vijñānātman, Madras, Śrīrāma Śāstrī & Krishnamurthi Śāstrī, 1958. In alternativa, indichiamo, per chi volesse approfondire, The Pancapadika of Padmapada, tr. by D. Venkataramiah, Baroda, Oriental Institute, 1948, p. 225].[][]
  29. Śaṃkara, commentando Brahma Sūtra, I. 1. 1, (athāto brahmajijñāsā, “dopo di ciò, quindi, c’è il desiderio di conoscere il Brahman”), afferma che il suffisso san unito alla radice verbale jñā, conoscere, esprime il senso desiderativo. Quindi per Śaṃkara, san esprime il desiderio di conoscere il Brahman, vale a dire l’avagati, che non è altro da jñāna [N.d.C.].[]
  30. Śravaṇa, come si ricorderà, consiste nelle śruti, ovvero nelle Upaniṣad, insegnate autorevolmente da parte del guru [N.d.C.].[]
  31. La riflessione su śravaṇa è propriamente manana [N.d.C.].[]
  32. Nididhyāsana: universale perché agisce al di fuori dei condizionamenti individuali imposti dal nome e dalla forma, nāma-rūpa. [N.d.C.].[]
  33. L’Autore significativamente non definisce questi vedāntin come advaitin [N.d.C.].[]
  34. I principali mezzi di conoscenza per l’Advaita Vedānta sono: śabda, l’autorità testuale, pratyakṣa, la percezione e anumāna, la deduzione; a essi possono essere aggiunti upamāna, la comparazione; arthāpatti, la supposizione o ipotesi; anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto. Ātman non è mai l’oggetto dei pramāṇa, ma sempre e soltanto il soggetto cosciente che li usa come strumenti d’indagine conoscitiva [N.d.C.].[]
  35. I principali mezzi di conoscenza per l’Advaita Vedānta sono: śabda, l’autorità testuale, pratyakṣa, la percezione e anumāna, la deduzione; a essi possono essere aggiunti upamāna, la comparazione; arthāpatti, la supposizione o ipotesi; anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto. Ātman non è mai l’oggetto dei pramāṇa, ma sempre e soltanto il soggetto cosciente che li usa come strumenti d’indagine conoscitiva [N.d.C.].[]
  36. BU III. 4. 1.[]
  37.  BU III. 4. 2.[]
  38. Śvetāśvatara Upaniṣad, VI. 11.[]
  39. BU III. 7. 23.[]
  40. BSŚBh I. 1. 17[]
  41. Upadeśa Sāhasrī, XVIII. 195 [in alcune edizioni XVIII. 205; N.d.C.].[]
  42. Kena Upaniṣad, II. 3.[]
  43. BU II. 4. 14;IV. 5. 15.[]
  44.  US XVIII. 210 [in alcune edizioni XVIII. 220; N.d.C.].[]
  45. US XII. 6-7.[]
  46. La sovrapposizione, adhyāsa, è una falsa apparenza di qualcosa di reale. L’esempio più classico è quella della corda e del serpente. L’uomo vede una corda, ma la sua mente sovrappone alla corda l’immagine illusoria di un serpente. In questo errore di valutazione, bhrāma, consiste l’illusorietà del mondo manifestato. Ma quando si comprende che il serpente è una sovrapposizione mentale, si riconosce la realtà della corda. Applicando questo processo conoscitivo a quanto è qui affermato dall’Autore, la modificazione mentale (mānasa vṛtti), effetto della percezione, è la sovrapposizione (il serpente), mentre soltanto l’intuizione (anubhava) è reale (la corda). E questa intuizione è il Sé di chi desidera conoscere il Brahman (Brahmajijnāsu); ossia, scartata come illusoria la modificazione mentale in quanto è falsa conoscenza, e scartata anche l’idea erronea che ci sia un conoscitore di tale oggetto, rimane solo la realtà non duale dell’Ātman, l’unico conoscitore o Testimone [N.d.C.].[]
  47. Questo è il tuo Sé più interno; ogni altra cosa diversa da esso è peritura BU III. 4. 2 [N.d.C.].[]
  48. US XII. 8.[]
  49. Attività prodotta dalla buddhi, che è pur sempre un oggetto (padārtha) [N.d.C.].[]
  50. US XIV. 24.[]
  51. US XVI. 60.[]