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Śrī Ramaṇa Maharṣi

Considerazioni Vedantiche

a cura di John Grimes

Vogliamo esprimere tutta la nostra gratitudine all’Editore della Casa editrice Indica Books di Benares per averci concesso di pubblicare un florilegio di citazioni tratte dal Libro “Keywords of Vedānta”1. Il libro, recensito in questo stesso Sito nella sezione “Recensioni di Libri”, è un’importante raccolta di aforismi, risposte e insegnamenti rilasciati da Śrī Ramaṇa Maharṣi ai suoi discepoli in occasioni e tempi diversi, riuniti e commentati da John Grimes nel corso dei più recenti anni. È l’ennesima occasione per ribadire, sull’autorità indiscussa del Grande Saggio di Aruṇācala, la correttezza della dottrina vedāntica da noi rigorosamente riportata in questa sede. In questo modo, è confutata qualsiasi altra “interpretazione” difforme dell’Advaita Vedānta che circola presso ambienti occidentali che si vogliono “tradizionali”.

1. Sulle intuizioni folgoranti e la loro integrazione nell’Intuizione del Sé:

I cercatori si chiedono se sia possibile avere una folgorazione sul Sé (Ātman) e poi perderla. Questo problema è importante non solo per i cercatori, ma anche per coloro che si ritengono completamente illuminati. Bhagavān Ramaṇa disse: “Realizzazione parziale? Se è parziale, non è realizzazione, e se è realizzazione non è parziale.” Il termine aham sphuraṇa (intuizione folgorante dell’“Io”) chiarisce questo dubbio. Riferendosi a questo termine, Bhagavān disse: È un’anticipazione della realizzazione.” (p. 13) […] Immaginate un lago con uno strato verde di alghe che ricopre la sua superficie. Se si lacera quello strato, all’improvviso si ha una chiara visione della pura acqua sottostante. L’acqua pura era stata sempre lì, ma era nascosta dallo strato di alghe. Bhagavān disse:

Anche se aham sphuraṇa è sempre dappertutto, tuttavia lo si sente in un particolare centro e in particolari occasioni. È associato a cause antecedenti e confuso con il corpo. Invece è tutto, solo e puro, è il Sé. Fissare la mente sullo sphuraṇa e sentirlo continuamente è la realizzazione.

Il termine aham sphuraṇa, come altri termini che Bhagavān ha usato, quali l’Ātman, il jñāna o il sahaja samādhi, è difficile proprio perché l’io vive nel mondo di soggetti-oggetti. Tuttavia, questi termini non si riferiscono a un’esperienza oggettiva, ma al soggetto conoscitore. Invero, il linguaggio è un impedimento quando tratta della Realtà. Qualsiasi lingua ha un suo posto nella vita degli individui a livello empirico, ma Bhagavān ‘parla’ la lingua del Sé, il silenzio. Aham, l’io: in certi contesti si riferisce all’ego individuale e in altri al Sé; in questo caso si riferisce al Sé. Sphuraṇa: che appare come un ‘flash’, che diventa visibile, la folgorazione, l’illuminazione. Il termine aham sphuraṇa solleva due domande: che cos’è questo io (aham) e che cosa folgora (sphuraṇa)? Quasi tutti conoscono un io individuale (aham vṛtti) come quel nodo che misteriosamente sorge tra la Coscienza e il corpo fisico insenziente. Noi siamo il soggetto conoscitore e gli oggetti, da noi differenti, sono quanto è conosciuto. D’altro canto il termine aham si riferisce talvolta alla Realtà suprema, alla Coscienza stessa. Quando l’aham sphuraṇa improvvisamente e spontaneamente appare folgorante, non c’è soggetto conoscente né oggetto conosciuto. Non è un’esperienza, ma l’esperienza stessa, il Sé autoluminoso, come è sempre stato e come sempre sarà. (pp. 13-14) […]

Quando si è in sonno profondo non si conosce nulla perché non c’è alcun ego e la mente è inattiva. Nella veglia insorge l’io personale percepito e associato al corpo, al mondo e al non-Sé in generale. Tale io associato è conosciuto come modificazione mentale (aham vṛtti). L’io individuale è instabile. Ma quando l’aham rappresenta il solo Sé, allora è stabile (aham sphuraṇa). Questo è lo stato naturale del jñãni ed è chiamato jñāna dai jñãni. Pur sempre presente anche nel sonno, non è percepito chiaramente. Non appare alla persona quando persiste l’ego. In quanto propria vera natura soggiacente alla veglia, al sogno e al sonno profondo, deve essere realizzato nello stato di veglia. Questo è l’importante valore della condizione della veglia. Lo sforzo deve essere fatto nello stato di veglia e il Sé deve essere realizzato qui e ora. Dopo gli iniziali flash dell’aham sphuraṇa, questo sarà in seguito realizzato come continuità del Sé, ininterrotta negli stati di veglia, sogno e sonno profondo. Nel Vedānta questo aham sphuraṇa è descritto come una folgorazione ininterrotta… (pp. 15-16) […] L’“Io” è il Sé; “io sono così e così” o “io e quello” è l’ego. Il Sé è sempre presente, l’ego è transitorio. La folgorazione dell’aham sphuraṇa è il segnale corretto per indicare che la Realtà sta per apparire chiaramente. Ma, dato che in questo stato c’è ancora un senso di attenzione al Sé, questo sphuraṇa non è il completo ed eterno affioramento del Sé, la Realtà. La Realtà è la fonte da cui procede questo sphuraṇa. Quando perfino questo senso di presenza del Sé si placa, lo stesso sphuraṇa si placa e rimane solo Essere. Questo stato, in cui anche la più piccola traccia di ego o individualità è stata completamente annullata, è la Liberazione, la diretta esperienza della Realtà. L’aham sphuraṇa è qui presentato come il termine per descrivere la visione autentica del Sé che risplende chiaramente. Bhagavān ha detto che molti individui hanno questa visione (sebbene per breve durata), durante certi momenti drammatici della loro vita, per esempio durante un momento di grande paura. Tuttavia, questo stato è generalmente confuso con il complesso mente-corpo e, anche se genuino, è temporaneo. Quando un individuo è maturo e qualificato, questa folgorazione durerà più a lungo e, infine, diventerà lo stato permanente di realizzazione del Sé. (pp. 17-18)

2. I metodi dei tre stati di Coscienza e dei cinque kośa:

Il metodo dell’indagine sul Sé appare per primo nelle Upaniṣad. L’Advaita Vedānta usa l’indagine sui tre stati di esperienza (avasthātraya vicāra) per rivelare la reale natura del Sé. Un’analisi sullo stato di veglia mostra che il sé individuale risiede nel corpo fisico e usa i suoi strumenti per fruire degli oggetti del mondo esterno. Ma il Sé non è il non-sé: il primo è cosciente, mentre il secondo è inerte. L’analisi dello stato di sogno rivela che il Sé non agisce realmente ed è distaccato. In sogno il Sé appare agire con una miriade di cose, ma, dopo il risveglio si realizza che non c’erano oggetti di sogno né interazione; invece, l’analisi dello stato di sonno profondo mostra che il Sé è senza relazione. Qui non c’è alcuna distinzione, non ci sono soggetti conoscitori né oggetti conosciuti. Non c’è né dentro né fuori [né sogno né veglia], perché tutte le distinzioni empiriche sono svanite. La coscienza degli oggetti è scomparsa, sebbene la Coscienza rimane. (p. 34) […] Allo stesso modo, un’analisi dei cinque involucri (pañca kośa viveka) che avvolgono il Sé, rivelano che esso persiste in tutti e cinque, mentre essi variano e cambiano. Questa analisi consiste nello svelare ciò che è più grossolano e più esterno e meno pervadente, è meno reale di quello più sottile e più interno e più pervadente. Perciò il Sé si rivelerà il più sottile, il più interno Essere e, quindi, il più reale. Impermanenza e oggettivazione si trovano a partire dall’involucro fisico [annamaya kośa], che è il più grossolano, fino all’involucro più sottile di fruizione [ānandamaya kośa]; ma il Conoscitore di tutti questi è il più sottile e più pervadente di tutti. Il Conoscitore non può essere conosciuto, perché allora diventerebbe il conosciuto ad infinitum. Il Sé è autoluminoso e non richiede alcuna altra sorgente di luce. Non è un oggetto che si deve sperimentare. Così, quando l’oggettivazione è rimossa dai cinque involucri, ciò che rimane è la pura Coscienza, l’Ātman. (pp. 34-35)

Perché la sola indagine del Sé dovrebbe essere considerata la via diretta per la realizzazione del Sé? Ramaṇa rispose:

Ogni tipo di via, eccetto la ricerca del Sé, presuppone il mantenimento della mente come strumento per perseguirla, non potendo essere attuato senza la mente. L’ego può assumere forme diverse e più sottili in diversi stadi di quelle pratiche, ma non viene mai distrutto. Il tentativo di distruggere l’ego o la mente con metodi diversi dall’auto-indagine è come il ladro che diventa poliziotto per catturare il ladro che è lui stesso. Solo l’auto-indagine può rivelare la verità che né l’ego né la mente esistono realmente e permette di realizzare l’Essere puro e indifferenziato del Sé o Assoluto“. (pp. 39-40)

3. Ajātavāda, dṛṣṭi-sṛṣṭi vāda e sṛṣṭi-dṛṣṭi vāda:

Bhagavān Ramaṇa parlò in tempi diversi, in differenti contesti di tre punti di vista sul problema metafisico della creazione.

La stessa verità è stata espressa in modi differenti per adattarsi alla capacità dell’ascoltatore. La dottrina ajātavāda dice: nulla esiste se non la Realtà una. Non c’è né nascita né morte né manifestazione né riassorbimento né cercatore né legame né Liberazione. Esiste solo l’Uno. Per quelli che trovano difficile afferrare questa verità e che chiedono: “Come possiamo ignorare questo mondo solido che vediamo attorno a noi?” Si indica l’esperienza del sogno e si dice: “Tutto ciò che vedi dipende dal vedente. Separato dal vedente non c’è alcun visto.” Questa è chiamata dṛṣṭi-sṛṣṭi vāda, ovvero l’argomentazione per cui prima si crea con la propria mente e, poi, si vede ciò che la stessa propria mente ha creato. Alcuni non riescono ad afferrare anche questo e continuano a chiedersi: “L’esperienza del sogno è così breve, mentre il mondo esiste sempre. L’esperienza del sogno era limitata a me, ma il mondo è sentito e visto non solo da me, ma da molti altri. Non possiamo chiamare questo mondo non esistente.” Quando si pensa in questo modo, si può rispondere con la teoria sṛṣṭi-dṛṣṭi vāda: come, per esempio, Dio dapprima creò tale e talaltra cosa, tale e talaltro elemento e poi creò qualcos’altro e così via. Solo questo soddisferà questa categoria di persone. Le loro menti sono insoddisfatte da altre risposte ed essi si chiedono: “Come può tutta la geografia, le mappe, le scienze, le stelle, i pianeti e tutte le leggi che li governano e sono in relazione con essi e tutta la conoscenza di ciò essere completamente falsa?” A costoro è meglio dire: “Sì, Dio ha creato tutto questo ed è per questo che lo vedi”. Tutte queste teorie si adattano alle capacità dell’ascoltatore.

Il punto di vista più elevato è la dottrina della non origine (ajātavāda). Tuttavia anche questa prospettiva è solo una approssimazione alla verità. Gauḍapāda afferma:

Ajāti (senza nascita) ha senso solo fintanto che si attribuisce un significato alla jāti. La Realtà assoluta è che nessuna parola può designare o descrivere il Sé.

Da questo punto di vista, non c’è creazione né nascita né morte né dissoluzione né legame né Liberazione e neppure qualcuno che cerchi la Liberazione. È esperienza del Saggio che nulla sia mai accaduto, semplicemente perché esiste solo il Sé. (pp. 52-53)

4. Jīvanmukti videhamukti:

Ramaṇa è stato definito saggio, jñāni, jīvanmukta, l’incorporazione del Sé non duale. Il mistero è che una persona può essere sia oltre la dualità sia nella dualità allo stesso tempo. Perciò il saggio è, come appare agli altri, contemporaneamente in due stati contraddittori. I critici affermano che il concetto di Liberazione in vita è una contraddizione in termini. Come può l’individuo che ha il corpo, coesistere con la Liberazione che, nella definizione critica, è libero dall’incorporazione? Come può il corpo, che è dovuto al cumulo delle azioni passate (prārabdha karma), continuare dopo l’ottenimento della conoscenza, quando si sa che l’ignoranza e tutti i karma sono dissolti con l’ottenimento della conoscenza? I critici contestano: 1) Se la Liberazione è la distruzione dell’ignoranza, come può il corpo fisico continuare a esistere e a funzionare (essendo quest’ultimo l’effetto dell’ignoranza)? 2) Se la Liberazione è un fatto compiuto, allora perché parliamo della distruzione dei legami e il raggiungimento della Liberazione? 3) Perché mai si fa una distinzione tra la Liberazione con la forma (jīvanmukti) senza forma (videhamukti)? Śaṃkara, come anche Ramaṇa, replica che con la realizzazione del Sé, tutti i karma sono distrutti. Il liberato non deve aspettare l’esaurimento del prārabdha karma (attraverso fruizioni e sofferenze) perché avvenga la Liberazione. Che il corpo fisico persista o no, non c’è alcuna conseguenza per il liberato. Chi è libero appare come un agente con uno scopo, solo a chi guarda dall’esterno. Ma, questi non è più soggetto a questa illusione. Non avendo alcun desiderio, egli non agisce nel senso comune del termine. Le impressioni latenti possono spingere all’azione, ma non c’è “un recettore” a cui si possano attribuire tali azioni. [pp. 70-71]

Ramaṇa sosteneva che il Sé e la Liberazione hanno lo stesso significato. Ciò implica che il termine “jīvanmukti” è relativo e ridondante. L’attribuzione di “jīvan” non è necessaria. Un mukta è un mukta, con o senza corpo. È stato detto che un conoscitore del Sé con un corpo è un jīvanmukta e che, quando si libera del corpo, ottiene la videhamukti. Ma questa differenza esiste solo per chi guarda, non per il mukta. Come ha osservato Ramaṇa:

Mukti è sinonimo di Sé. Jīvanmukti e videhamukti sono solo per gli ignoranti. Il jñāni non è consapevole della mukti o del bandha. La schiavitù, la liberazione e le altre forme di mukti sono tutte dette in favore d’un ajñāni, affinché l’ignoranza possa essergli scrollata di dosso. Esiste solo la mukti e nient’altro. (p. 72)

Alcuni ritengono che un jīvanmukta debba vivere contemporaneamente in due stati o piani di esistenza: il piano empirico e il piano metafisico. Si osserva che un mukta si muove nel mondo e che apparentemente vede gli stessi oggetti che vedono gli altri, cioè altri individui, tavoli, scimmie, ecc. Non è che il mukta non li veda. Quindi, conclude la gente, poiché il saggio vede sia il mondo e gli oggetti in esso contenuti sia il Sé, non deve forse stare su due piani contemporaneamente? Ramaṇa rispose:

Dici che il jñāni vede la via, la percorre, incontra ostacoli, li evita, ecc. In quale ottica appare tutto questo, in quella del jñāni o nella vostra? Egli vede solo il Sé e tutto nel Sé. Per esempio, vedi un riflesso nello specchio e anche lo specchio. Sai che lo specchio è la realtà e che l’immagine in esso contenuta è un semplice riflesso. È forse necessario che, per vedere lo specchio, si smetta di vedere il riflesso in esso?

Ha anche detto:

Venendo qui, alcune persone non chiedono di Sé. Chiedono: “Il jīvanmukta vede il mondo? È influenzato dal (prārabdha) karma? Che cos’è la Liberazione dopo aver lasciato il corpo? Ci si libera solo dopo aver lasciato il corpo o anche quando si è vivi nel corpo? Il corpo del Saggio dovrebbe sciogliersi in luce o scomparire dalla vista in qualche altro modo? Ci si può liberare dopo che si lascia indietro il corpo come un cadavere?” Le loro domande sono infinite. Perché preoccuparsi per tutte queste cose? Per caso, la Liberazione consiste nel sapere queste cose? Perciò io dico loro: “Lasciate stare la Liberazione. Esiste la schiavitù? Dovete capire questo. Guardate prima di tutto a voi stessi”. (p. 73)

Una volta Ramaṇa disse a un cercatore:

Qual è la tua idea di jñāni? È il corpo o qualcosa di diverso? Se è qualcosa di diverso dal corpo, come può essere influenzato dal corpo?

[…] Alcuni potrebbero sostenere che c’è attività anche per i liberati, cioè che un jīvanmukta può sembrare impegnato in varie attività. Tuttavia, questa tesi si basa su una visione errata. Poiché l’ignoranza, che è la causa della schiavitù, è stata distrutta, lo stato incorporato del liberato e le cosiddette attività in cui si suppone sia impegnato dal punto di vista degli altri, non lo vincolano più. Poiché la causa principale dell’azione è stata distrutta, i karma residui che giustificano la permanenza del suo corpo sono già stati annullati. (p. 74)

Ramaṇa ha detto che l’indagine sulla fonte del pensiero dell’io farà estinguere tutte le abituali tendenze (vāsanā). Sorge quindi una domanda: se tutte le vāsanā sono distrutte, perché è necessaria la dissoluzione della mente? In altre parole, la mente non è altro che l’intero insieme delle sue vāsanās? La risposta è che la vita del sé inferiore forma un tipo di schiavitù, cioè le vāsanā causano direttamente l’infelicità, ma un altro tipo di schiavitù, cioè il semplice senso di dualità, rimane nella mente. Pertanto, non solo le vāsanā, ma anche la mente deve essere dissolta. In secondo luogo, quando la mente si dissolve, si dissolvono anche gli effetti di tutte le azioni passate accumulate (prārabdha karma). Quando la mente si dissolve, anche la ricorrenza di qualsiasi vāsanā cessa per sempre. (pp. 80-81)

5. Il Testimone:

Il Sé è chiamato Testimone (Sākṣin) quando rivela direttamente le varie modalità mentali interne. Nel caso della conoscenza della mente, non c’è altro da meditare tra il Sé e la mente. Si dice quindi che la mente viene rivelata direttamente dal Sé-Testimone. Tuttavia, in qualsiasi modo si dica che funzioni la Coscienza, essa non è mai oggetto di nulla. Non esiste nulla che possa conoscere la Coscienza. Gli oggetti materiali sono insenzienti e non possono conoscere nulla. Anche gli organi di senso e la mente sono insenzienti e non possono agire senza la luce della Coscienza. La Coscienza nemmeno può conoscere se stessa, perché è una e non duale e non può dividersi in un soggetto conoscente e in un oggetto conosciuto. Così, la Coscienza è dichiarata essere auto-luminosa nel senso che, mentre la Coscienza rivela tutto, essa stessa non è rivelata da nulla. Se si parlasse di conoscenza del Sé, dovrebbero esserci due Sé: uno che conosce e l’altro che è conosciuto, così come il processo di conoscenza. Poiché il Sé, in quanto Coscienza, è non-duale, chi deve conoscere cosa? Una persona può essere solo il Sé. Non si raggiunge la Coscienza, non si ottiene qualcosa di nuovo né si raggiunge una meta lontana. La coscienza è sempre stata lì, persistendo nei tre stati dell’esperienza. Tutto ciò che è necessario è abbandonare le proprie false nozioni su cosa sia la Realtà. Nelle parole di Ramaṇa:

Chi è questo Testimone? Se parli di “Testimone”, ci devono essere un oggetto e un soggetto che testimoniano. Ma queste sono creazioni della mente. L’idea di Testimone è nella mente. Se ci fosse il Testimone dell’oblio, direbbe forse: “Io testimonio l’oblio”? Voi, con la vostra mente, avete appena detto che deve esserci un Testimone. Chi è il Testimone? Dovete rispondere “io”. Chi è questo “io”? Vi state identificando con l’ego e dite “io”. Il Testimone è questo ego, l’”io”? È la mente che lo dice. Non può esistere il Testimone di se stesso. Con le limitazioni che vi siete imposti, pensate che esista un Testimone della mente e dell’oblio. Dite anche: “Io sono il Testimone”. Chi testimonia l’oblio deve dire: “Io testimonio l’oblio”. Una tale posizione diventa quindi insostenibile. La Coscienza è illimitata. Si arroga questa posizione semplicemente quando diventa limitata. In realtà non c’è nulla da testimoniare. È semplicemente Essere. (pp. 132-133)

Ramaṇa consigliava ai cercatori di considerare ogni cosa nel mondo come dotata dello stesso valore. Ha detto che se il mondo è visto come un sogno contenente oggetti da sogno, è meno probabile che un individuo promuova desideri e si sforzi di accumulare beni. Così diceva:

Un sognatore sogna un sogno. Vede il mondo dei sogni con i piaceri, i dolori, ecc. Ma si sveglia e perde ogni interesse per il mondo dei sogni. Così è anche per il mondo della veglia. Come il mondo dei sogni, essendo solo una parte di voi stessi e non diverso da voi, cessa di interessarvi, così anche il mondo attuale cesserebbe di interessarvi se vi svegliaste da questo sogno della veglia (saṃsāra) e vi rendeste conto che è una parte di voi stessi e non una realtà oggettiva. Poiché pensate di essere separati dagli oggetti che vi circondano, desiderate qualcosa. Ma se capiste che quella cosa è solo una forma del pensiero, non la desiderereste più. (p. 160)

Lo stato di sogno indica la possibilità che lo stato di veglia sia solo un sogno. Perché? Perché finché il sogno dura tutto sembra abbastanza reale. Ma al risveglio ci si rende conto che non è successo nulla di simile, anche se il sognatore sembra averne fatto esperienza. Il dono dello stato di sogno ci rivela, necessariamente e logicamente, che il mondo non è reale né esterno a noi stessi e che nulla accade veramente. (p. 161) […] Ramaṇa disse:

Il tuo pensiero che devi fare uno sforzo per liberarti dal sogno dello stato di veglia e il tuo sforzo per raggiungere o realizzare il risveglio sono tutte parti del sogno. Quando raggiungerai il jñāna vedrai che durante il sonno profondo non c’era né il sogno, né lo stato di veglia, ma che c’eri solo tu nel tuo stato reale. (p. 167)

Oṃ Śāntiḥ Śāntiḥ Śāntiḥ

Postfazione

René Guénon, nella recensione del libro Études sur Ramana Maharshi, ha convalidato le illazioni che Jean Herbert aveva scritto nella sua prefazione. Guénon così affermava: “Il est d’ailleurs tout à fait exact que celui-ci [Śrī Ramaṇa] « n’accepte aucun disciple » au vrai sens de ce mot, quoique beaucoup de gens revendiquent trop facilement cette qualité ; nous doutons même qu’il y ait lieu d’« espérer qu’un jour viendra où il acceptera d’assumer le rôle de guru », car il semble bien que, s’il n’exerce que ce que nous avons déjà appelé une « action de présence », ce soit en raison même du caractère très exceptionnel de la voie qu’il a suivie” (Études sur l’Hindouisme, Saligny, Les Éditions Traditionnelles, 1989, II éd., p. 180). Al contrario, Śrī Ramaṇa esercitò appieno la funzione di dīkṣāguru oltre a quella di jñānaguru che la sua realizzazione completa gli consentiva (vedasi, a questo proposito l’articolo del Jagadguru Śaṃkarācārya Śrī Śrī Candraśekharendra Sarasvatī Mahā Svāmīgal intitolato “L’educazione nel Gurukula”; https://vedavyasamandala.com/sulleducazione-nel-gurukula/). Bhagavān rilasciava regolari dīkṣā e teneva upadeśa per favorire lo śrāvaṇa nei suoi discepoli, basandosi su testi śaṃkariani o sullo Yoga Vasiṣṭha. Lo scadente ambiente umano che si era radunato ad Aruṇācala, soprattutto per l’afflusso fastidioso di curiosi occidentali, certamente non è una prova che Śrī Ramaṇa non svolgesse la funzione di Guru: diversi saṃnyāsin di grande sapienza che servirono il Guru, ne stanno a dimostrare l’efficacia magistrale. Siamo, inoltre, a conoscenza che Arthur Osborne, con l’approvazione del Maharṣi, inviò una lettera a Guénon per correggerlo. In essa lo informava che Śrī Ramaṇa esercitava pienamente il ruolo di Guru, a cui non seguì alcuna rettifica. Ciò che il recensore ha definito “azione di presenza”, invece, con maggiore o minore potenza, è esercitato da qualsiasi iniziato vero, o da qualsiasi oggetto caricato di anugraha: ciò non ha nulla di straordinario. Perciò l’affermazione che l’“action de présence” possa ostacolare l’esercizio del gurutva non ha alcun senso. Infine, l’eccezionalità di Bhagavān non fu dovuta certamente alla “voie qu’il a suivie”, ma piuttosto alla perfezione della sua nascita umana che gli permise di ottenere il mokṣa direttamente e non attraverso una via a tappe.

GGF

  1.  John Grimes, Keywords of Vedānta in the light of the teachings of Sri Ramana Maharshi, Varanasi, Indica Books, 2023.[]