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60. Il Missionarismo – II

Lutero aveva sostenuto che la salvezza1 non poteva essere raggiunta per mezzo dei doveri religiosi né per opera dell’intenzione o libera volontà dell’individuo. Ciò comportava come conseguenza l’abbandono dei riti in quanto strumenti di salvezza. Le cerimonie protestanti, infatti, sono soltanto commemorazioni laiche di accadimenti evangelici. Tuttavia egli riconosceva una certa efficacia alla fede, considerata come un trasporto emotivo individuale rivolto a Dio. Dio poteva esserne compiaciuto e ricompensare il suo fedele tramite benedizioni gratuite. Calvino, invece, negava perfino questa possibilità. Perciò la salvezza per l’essere umano era, dunque, una elargizione arbitraria da parte della divinità. In un modo o nell’altro, la salvezza dell’anima era regolata secondo la teoria della predestinazione. Ciò ha comportato l’assunzione di conseguenze comportamentali e di pregiudizi presso le popolazioni che hanno abbracciato le varie sette del protestantesimo. Menzioniamo l’idea per la quale il successo mondano, la fortuna e il benessere dell’individuo siano il segno esteriore della benevolenza divina; e, ugualmente, la convinzione per cui la nascita in un determinato status di razza, nazione e confessione religiosa, sia indice di una certa elezione celeste2. Ciò dimostra le strette relazioni intercorrenti tra le ideologie capitalistiche e il protestantesimo.

La teoria della predestinazione si basa sul fatto che, in questa prospettiva, Dio è onnisciente e, come tale, conosce in anticipo qualsiasi cosa avverrà. Tutto quanto avviene è dunque scritto nel destino ab æterno e si sviluppa nel tempo secondo la Sua volontà a partire da quando crea il mondo3. Nel cristianesimo cattolico e ortodosso, invece, la predestinazione è equilibrata dal riconoscimento del libero arbitrio umano. Dio conosce tutto in principio e determina l’andamento dei destini umani e universali, ma l’essere umano ha libera scelta di seguire un percorso piuttosto che un altro, proprio fruendo di questa ignoranza del proprio destino4. Fino alla fine del Medioevo la teologia cristiana si è dibattuta tra correnti di pensiero che, pur accettando sia la prescienza divina sia il libero arbitrio, si inclinavano più verso l’uno o verso l’altro dei due poli determinanti i destini umani. Effettivamente era estremamente difficile che lo stesso teologo mantenesse il giusto equilibrio tra i due punti di vista tanto opposti tra loro5.

La teoria della predestinazione, nell’ottica protestantica, ebbe l’effetto di togliere gran parte del peso della responsabilità individuale alle azioni prodotte. Lo stesso peccato si ridusse a una infrazione moralistica e comportamentale di dimensione sociale, ma che comunque era prevista e voluta da Dio. Perciò anche il peccatore, purché avesse fede, partecipava ai misteriosi piani divini di salvezza6.

La controriforma cattolica respinse come eterodossa la tesi protestante, sottolineando la fondamentale importanza della libera volontà umana nella scelta tra bene e male. Il Gesuitismo rappresentò il movimento religioso che maggiormente valorizzò il libero arbitrio contro la predestinazione, fino a rischiare di limitare il concetto stesso di onniscienza divina. Paradossalmente queste due tendenze, la protestantica e quella gesuitica, pur tra loro opposte, rappresentarono due facce del medesimo individualismo rinascimentale.

Il Gesuitismo

Ignazio (Iñigo) López de Oñaz y Loyola (1491-1556) nacque presso una famiglia nobile decaduta. Dopo una adolescenza in cui poté frequentare in qualità di paggio la corte di Germana de Foix, seconda moglie di Ferdinando il Cattolico, cercò la gloria militare come ufficiale nella guerra contro la Francia (1521) con risultati deludenti, ricavandone soltanto una ferita che lo costrinse alla zoppia. Durante la convalescenza Ignazio passò il suo tempo nella lettura dei pochi libri di argomento religioso della biblioteca paterna. Fu così che decise di abbandonare gli onori mondani per dedicarsi alla ricerca della santità. Dopo aver fatto voto di povertà totale, viaggiò in Terrasanta (1523) con il proposito di convertire i musulmani con la sua oratoria. Furono gli stessi francescani di Gerusalemme che lo rispedirono in Spagna, timorosi della prevedibile reazione del governatore ottomano. Questo fallimento non spense in Ignazio la sua aspirazione missionaria, ma, al contrario, l’acuì. Nel frattempo egli componeva e sperimentava su se stesso gli Esercizi spirituali che poi sarebbero stati al centro della pratica gesuitica.

Per dotarsi di una preparazione teologica, si recò a Salamanca e poi a Parigi dove studiò sotto la direzione dei domenicani nelle rispettive università. A Parigi, con la sua eloquenza e il suo esempio, cominciò a radunare attorno a sé dei seguaci. Decise così di fondare un nuovo ordine religioso e nel 1537 si recò a Venezia al fine di partire nuovamente per liberare il sepolcro di Cristo dall’occupazione islamica. Non si trattava più di una crociata cavalleresca, ma di una campagna missionaria. Non riuscì mai a partire per la Terrasanta; ma Iñigo e i suoi sei accoliti, in quel periodo, per ingiunzione papale, furono ordinati preti a Venezia. Nel 1540 la regola del nuovo ordine, chiamato in stile militare, Compagnia di Gesù, fu accettata dal papa Paolo III. Ignazio fu nominato Generale della Compagnia. La chiesa cattolica, che stava preparando la sua riscossa controriformista, accolse con favore questo nuovo ordine religioso7 organizzato rigorosamente come fosse davvero un esercito. La Compagnia di Gesù ebbe un improvviso successo e si espanse in pochi anni in tutta Europa, nelle Americhe e in Asia.

I gesuiti si sottoponevano periodicamente agli esercizi spirituali supererogatori alla liturgia classica dalla chiesa latina, sotto la guida di un confratello più esperto. È necessario capire bene in cosa consistessero queste nuove pratiche. Per sottolineare l’importanza del libero arbitrio per la chiesa della controriforma, Sant’Ignazio di Loyola diede una nuova importanza alla mente del religioso. Essa era esercitata in solitario quotidianamente per rafforzare la volontà e l’immaginazione individuale. La volontà forzava l’immaginazione a riprodurre mentalmente i diversi episodi narrati negli Evangeli: il gesuita doveva concentrarsi su ogni episodio della vita di Gesù, ricostruendone con la fantasia8 ogni minimo particolare della scena immaginata. L’individuo così era coinvolto con la mente e con i cinque sensi all’interno dell’episodio, come se illusoriamente stesse partecipando di persona all’avvenimento dal vivo. Questa esperienza mentale doveva provocare emozioni e sentimenti capaci di rendere più viva l’esperienza sacramentale. Per esempio, l’apice di questa tensione psicologica doveva essere raggiunto rivivendo mentalmente l’episodio dell’ultima cena9. Ciò provocava una intensità di sensazioni emotive nell’animo del gesuita che doveva rendere vivida esperienza mistica l’eucarestia ricevuta subito di seguito. Come si può facilmente riconoscere, questa tecnica di immaginazione volontaria non costituiva affatto un metodo iniziatico (sskrt. prakriyā), ma una disciplina (sskrt. vinaya) psicologica che a lungo andare poteva condurre a una modificazione permanente del modo di pensare. In ogni caso, si trattava di un palliativo psicologico che tentava di surrogare l’assenza dell’iniziazione e del relativo metodo (dīkṣita sādhanā). È evidente che questa pratica segnò un rafforzamento dell’individualismo e, allo stesso tempo, una diffusione dell’autoinduzione a esperienze mistiche basate sulle cinque percezioni a livello sottile.

Ben presto la pratica gli esercizi spirituali fu estesa anche ad ammiratori e seguaci laici, diventando così uno strumento di correzione morale e comportamentale per la chiesa della controriforma; tuttavia questa tendenza allontanava ancor più la chiesa di Roma dallo spirito contemplativo medievale e contribuiva a diffondere una moderna mentalità di attivismo volontaristico10. La Compagnia di Gesù divenne il braccio militante del papato, costituendosi come una ferrea organizzazione perfettamente efficiente, basata sull’obbedienza assoluta nei confronti del Superiore Generale.

Il Loyola, già anziano, volle particolarmente indirizzare i gesuiti alla funzione di confessori. Fino ad allora il sacramento della confessione consisteva nella dichiarazione dei peccati commessi dal fedele, a cui seguiva la penitenza e l’assoluzione da parte del sacerdote. Sant’Ignazio aggiunse una nuova prassi: dopo l’ascolto dei peccati, il sacerdote dedicava un certo tempo all’edificazione morale del penitente, insistendo sulla responsabilità personale e sul libero arbitrio, seguendo i parametri degli esercizi spirituali. Fu raccomandato ai religiosi di proporsi come confessori dei potenti, Imperatori, principi, papi, cardinali, ministri e banchieri. In questo modo i gesuiti potevano dedicarsi a un proselitismo elitario, che aveva effetti politici immediati e contribuiva a un cambio di mentalità guidato dall’alto.

Questa radicale modifica dell’antico proselitismo ebbe un successo enorme, facendo del nuovo ordine religioso una grande potenza trasversale agli stati, perfino ben più ampia geograficamente dell’estensione dei paesi cattolici. La scientifica applicazione pratica del libero arbitrio e la prevalenza dell’iniziativa volontaristica nelle azioni umane diminuì, in termini teologici, l’importanza dell’onnipotenza di Dio riducendo l’intervento della volontà divina. È quindi comprensibile come ben presto l’egemonia gesuitica e l’autonomia delle sue scelte desse origine a una visione della libertà umana sempre più laica. Già un secolo dopo la fondazione della Compagnia circolavano in Occidente i primi sospetti che i gesuiti perseguissero potere e ricchezza in un senso prettamente mondano al di fuori di ogni fine spirituale.

Con grande lucidità Sant’Ignazio aveva disegnato il piano per controllare i potenti della terra tramite la rete dei confessori gesuiti, piano che egli volle esclusivo per il solo Occidente “cristiano”. Ben diversamente, invece, aveva istituito un piano missionario di conquista del potere ‘dal basso’ per gli altri continenti.

Il missionarismo gesuitico

I gesuiti si comportarono in modo notevolmente differente quando rivolsero la loro opera di conversione a popolazioni scarsamente civilizzate o di alta civiltà. Per questa ragione è opportuno distinguere il loro comportamento tenuto nelle Americhe da quello in Asia.

Essi arrivarono a occuparsi delle missioni nell’America meridionale solamente a partire dal 1609. I grandi imperi del Messico e del Perù erano già stati cristianizzati a opera dei domenicani e, soprattutto, dei francescani. Le grandi città mexika, maya e incaiche ospitavano ormai splendide cattedrali e conventi in stile plateresco, rinascimentale e barocco, e già erano stati registrati i primi casi di miracoli e visioni come quella della Vergine di Guadalupe (1531). I gesuiti, perciò, si dedicarono alla cristianizzazione dei guaraní del Paraguay11. Si trattava di popolazioni scarsamente civilizzate che abitavano intricate foreste tropicali. La Spagna garantiva a tutti i nativi pari diritti a quelli degli altri sudditi del Regno. Tuttavia in quelle zone selvagge spesso coloro che avevano ricevuto in beneficio dalla corona un territorio (encomienda, commenda) di frontiera, facendosi beffe della legge, tenevano i guaraní in uno stato di semi schiavitù come forza-lavoro.

Per limitare lo strapotere dei commendatori (encomenderos), la Corona concesse ai gesuiti di costituire delle commende religiose, dette reducciones. Nelle reducciones, i cachiques guaraní poterono continuare ad amministrare i loro beni e la giustizia; mantennero il loro sistema ancestrale comunitario12 assieme al sistema del baratto, e la lingua ufficiale rimase il guaraní. I gesuiti rimanevano come educatori e controllori13 di quelle che divennero di fatto trentatré repubbliche appartenenti al Regno di Spagna. Certamente l’efficiente organizzazione gesuitica che si sovrapponeva a quella tribale garantì un periodo di pace e di benessere. Molti indios fuggivano dalle encomiendas per chiedere rifugio presso le reducciones, le quali erano dotate di un sistema indigeno di difesa con, in più armi da fuoco in dotazione.

Se dal punto di vista civile la direzione dei gesuiti portò pace e prosperità14, rimase tuttavia molto discutibile la loro missione di conversione. Generalmente essi non richiedevano ai guaraní nient’altro se non che fossero battezzati. L’istruzione religiosa si basava su un tentativo di sincretismo tra alcuni aspetti del cristianesimo e della religione ancestrale. Per esempio il dio indio Pay Zumé veniva identificato a San Tommaso d’Aquino (padre Tomé). Oltre a queste bizzarre mescolanze compiute al fine di convincere i guaraní che le loro credenze tribali e il cattolicesimo fossero forme simili di una unica religione, i gesuiti si dedicarono a promuovere fiestas e processioni sincretistiche, con ostentazione di costumi ricchi e fantasiosi tipici della sacralità india15. Essi inventarono anche uno stile architettonico per le chiese che riproduceva in vasta scala le capanne del popolo guaraní con le loro decorazioni tradizionali. Ciò che più stupisce è che questo disinteresse per la sincerità della conversione dei nativi si accompagnava a una diffusione di tecniche della scienza rinascimentale. In ogni reducción era presente una tipografia; in molte di esse si fabbricavano orologi e, più tardi, cannocchiali. In questo interesse si riconosce facilmente il marchio del laicismo e dello scientismo rinascimentale.

Il Re Giovanni III di Portogallo volle usare le sue colonie in Asia come basi per l’attività missionaria dei gesuiti. Nel 1542 Francesco Saverio sbarcò nella colonia portoghese di Goa. Francesco (Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares, signore di Javier) era un amico intimo e il più antico allievo di Sant’Ignazio. Pur facendo base a Goa, Francesco Saverio volle esplorare l’India meridionale per cercare di comprendere in qual modo fare breccia nella società hindū per poterne convertire i seguaci. Arrivato a Kanyā Kumārī, trovò un terreno fertile per l’azione missionaria presso i pescatori di perle (paravar)16. I gesuiti in India presero perciò a svolgere la loro attività missionaria tra le caste basse e i tribali, soprattutto in Tamilnadu e sulle coste del Malabar. A un certo momento ebbero l’illusione che si aprisse anche la possibilità di conversione di sovrani: nel 1579 l’Imperatore Akbar invitò una delegazione gesuitica presso la sua corte di Fatehpūr Sikrī. Al fine di convertire più facilmente il sovrano musulmano, dei tre delegati che la Compagnia mandò a quella corte, uno era un persiano che si era convertito al cristianesimo. Ma il Gran Mughal aveva una visione sincretistica della religione e, nella sua concezione utopica, egli voleva governare il suo paese affiancato da un consiglio di esponenti di tutte le religioni. Per più di trent’anni diversi gesuiti si alternarono alla corte di Akbar, senza riuscire a convertire nessuno.

Nel Malabar esisteva una comunità della chiesa siriaca autocefala che si era rifugiata in India allorché la Siria era stata invasa dai musulmani. I gesuiti contribuirono a far circolare la leggenda che quella comunità fosse stata fondata dall’apostolo Tommaso17 per poterla trasformare in una sorta di testa di ponte per la conversione dell’India. La chiesa siriaca si era però adeguata a molte usanze e rituali di casta tipiche dell’induismo, su cui i gesuiti non vollero intervenire. Ciò fece scoppiare la polemica sui “riti malabarici” pe cui la Compagnia di Gesù fu accusata di sincretismo religioso da francescani, domenicani e persino dalla sede pontificia18.

La situazione divenne più complicata quando, nel 1606, Roberto de Nobili (1557-1656) arrivò a Madurai pieno di zelo missionario. Egli, essendo di famiglia nobile, si presentò agli hindū come un rājā. Ben presto comprese che i saṃnyāsin erano la categoria più rispettata in India. Decise perciò di camuffarsi da rinunciante hindū, vestendo l’abito ocra e impugnando la canna munita di una minuscola scure, il daṇḍa, e diventando vegetariano19. Il falso daṇḍi saṃnyāsin apprese rapidamente il tamiḷ e il sanscrito tanto bene che in breve scrisse un falso Veda allo scopo di distogliere gli hindū dal loro dharma e farli convergere verso il cristianesimo20. D’altra parte questo non fu l’unico esempio di frode.

Anche un sodale di Roberto de Nobili, fra’ Thomas Stephens, negli stessi anni aveva scritto e diffuso un Krīsta Purāṇa21 per convincere gli indiani che i loro stessi testi sacri avevano prevista la nascita di Cristo. Questi gesuiti travestiti da saṃnyāsin presenziavano ai rituali nei villaggi che visitavano, astenendosi, pare, soltanto dall’adorazione degli idoli. A loro parere i riti del sanātana dharma non avevano alcuna efficacia e rappresentavano soltanto delle cerimonie sociali; per questa ragione si sentivano autorizzati a intervenire. Da Roma il cardinale Bellarmino tuonava contro la loro partecipazione ai riti “pagani” e al conseguente sincretismo di fedi diverse. Tuttavia davanti a qualche centinaio di convertiti, provenienti da caste intoccabili o da tribù, il papa Gregorio XV finì per benedire una frode così sfacciata22.

In seguito, le due strategie di usare il denaro per indurre alla conversione i settori più poveri, incolti e fragili della popolazione e l’assunzione fraudolenta di usi e costumi del dharma hindū per farsi accettare senza sospetti, sono diventati gli strumenti usuali del missionarismo anche non gesuitico. Ancor oggi il mimetismo, la menzogna e l’elargizione ricattatoria di denaro sono largamente usati presso le tribù e le basse caste “registrate”. Inoltre i missionari fanno circolare la voce che essi sono i guru dei cristiani, che il battesimo è la dīkṣā e che la salvezza o redenzione è il mokṣa. Aiutati dai passati governi filosovietici al fine di sradicare l’induismo dalla loro stessa terra, i missionari hanno il monopolio dell’insegnamento privato e i loro prestigiosi colleges, finanziati dallo stato, occupano vergognosamente i più lussuosi palazzi dei centri delle città23.

Qualche nota ancora sul missionarismo in Estremo Oriente. Francesco Saverio si recò in Giappone, dove fu accolto con ospitalità orientale. Le conversioni al cattolicesimo non furono abbondanti: i pochi giapponesi che accettavano il battesimo erano mercanti che vedevano in quello una scorciatoia per commerciare con i portoghesi di Macao. I gesuiti che andarono poi in Giappone si travestirono da monaci zen, in base all’esperienza fatta in India. Tuttavia in Giappone, nel giro di una generazione, l’atteggiamento delle autorità si volse ostile.

In Cina il tentativo di conversione di Francesco Saverio fallì. Solamente alla fine del XVI secolo la Compagnia di Gesù riprese la sua azione missionaria con fra’ Matteo Ricci. In questo caso Ricci scelse di affascinare i cinesi per mezzo delle scoperte scientifiche europee, arrivando perfino a insegnare le teorie di Galileo Galilei, condannate negli stessi anni da Roma. In questo modo il missionarismo diventò anche il canale per trasmettere in Asia la mentalità scientifica laica, avamposto della scienza positivista atea. Ricci apprese rapidamente il mandarino e partecipò agli esami imperiali diventando così un Letterato confuciano. In questa veste fece partecipare suoi gesuiti ai rituali confuciani. Questo scatenò una polemica con la sede pontificia, simile a quella che era in corso per i rituali malabarici. I gesuiti sostenevano che i rituali confuciani erano semplicemente delle cerimonie civili e laiche, perciò partecipare a essi non costituiva una incompatibilità con i riti del cattolicesimo. Tuttavia, come nel caso dei riti malabarici, la posizione dei gesuiti rivelava una scoperta malafede, dato che essi erano ben consapevoli che quei riti erano utilizzati dagli hindū e dai cinesi allo scopo di raggiungere, nell’aldilà, i cieli dei beati.

In definitiva il missionarismo controriformista diede inizio a una grande impostura, a cui non soltanto i gesuiti si adeguarono, ma anche i francescani e gli ordini missionari successivi. Questi erano e sono impegnati più a diffondere l’idea di superiorità civile, la tecnologica ed economica dell’Occidente, sotto l’immagine amorevole di Gesù Cristo.

Con grande ritardo, ma con maggiori supporti politici, economici e militari, anche le innumerevoli sette protestanti entrarono in concorrenza con il missionarismo cattolico24. Esse ebbero una funzione essenziale nella penetrazione capillare del colonialismo, in India soprattutto quello britannico. Al giorno d’oggi le sette protestanti nordamericane, ancor più aberranti nelle credenze, più fanatiche e irrazionali, ma ben pasciuta di dollari, stanno invadendo l’intero pianeta, sostituendosi anche alle missioni cattoliche, ormai svuotate di ogni significato a causa della morte di tale forma religiose.

Maria Chiara de’ Fenzi


  1. Ricordiamo che per l’essoterismo delle religioni monoteistiche la salvezza consiste semplicemente nella conservazione postuma della propria individualità nei cieli (svarga) e nell’evitare la caduta negli inferni (naraka). I mezzi per ottenere tali destini sono i doveri rituali religiosi obbligatori, identici per tutti i fedeli. Per quello che riguarda il periodo rinascimentale di cui ci stiamo occupando, non possiamo tenere in considerazione i destini postumi concepiti dalle organizzazioni iniziatiche cattoliche, essendo queste o scomparse o in stato larvale e, perciò, del tutto assenti come protagoniste della vita religiosa. A maggior ragione la salvezza non può essere confusa con il mokṣa del sanātana dharma, come troppo superficialmente fanno alcuni autori indiani ammiratori del cristianesimo.[]
  2. È quanto viene sottinteso oggi dall’acronimo WASP (white anglo-saxon protestants) di cui si gloriano alcune masse culturalmente depresse dell’emisfero settentrionale. Non è infatti comprensibile motivo d’orgoglio l’essere nati in un ambiente eretico, barbaro e, oltre a tutto, non sono nemmeno realmente bianchi. Infatti essi legalmente si definiscono “caucasici”, termine politically correct che include le diverse popolazioni del nord, sud, est e ovest dell’Europa, il medioriente e il nord Africa.[]
  3. Questa è una ulteriore prova del ravvicinamento delle sette protestanti al giudaismo. Anche l’islam, in perfetta armonia con la mentalità semitica, partecipa alle medesime credenze.[]
  4. Naturalmente la conciliazione tra i due punti di vista opposti è impossibile in quanto la questione è semplicemente mal posta. Solamente la dottrina del karma, considerata però da un punto di vista advitīya, è in grado di darne una perfetta soluzione. Anzitutto Brahman non è né prima dopo il tempo, perché è perfettamente eterno e fuori da quella condizione. In secondo luogo, il concetto di un Dio personale dotato di proprietà antropomorfiche, quali la volontà e la conoscenza degli avvenimenti contingenti, e il fatto di essere creatore, è considerato una proiezione dell’ignoranza. In terzo luogo l’individuo è l’unico agente (kartṛ) del suo destino finché permane coinvolto nell’illusione del saṃsāra. In questo modo, per mezzo della realizzazione del proprio Sé non duale, si annullano tutte le aporie in cui si dibatte la teologia cristiana.[]
  5. Persino S. Tommaso d’Aquino, seguendo su questo argomento il pensiero ondivago di Aristotele, talora pare dare maggior peso alla prescienza divina e talaltra alla libera volontà dell’individuo. L’unica posizione perfettamente equilibrata fu esposta da Dante Alighieri in Purgatorio (XVI.52-81); tuttavia si tratta pur sempre di una prospettiva iniziatica in un contesto teologico.[]
  6. Fredrik Brosché, Luther on Predestination: The Antinomy and the Unity Between Love and Wrath in Luther’s Concept of God, Charlottesville, University of Virginia, 1978.[]
  7. Le severe regole ascetiche e pauperistiche che Ignazio si era imposto per decenni furono accantonate, al fine di rendere potente e influente il nuovo ordine. Infatti in breve tempo il suo ordine religioso, divenne il più ricco e potente della cristianità. I gesuiti e i teatini (ordine fondato dallo stesso Paolo III) così si costituirono in ‘ordini religiosi’, distinguendosi non soltanto dagli antichi ‘ordini monastici’, ma anche dagli ‘ordini mendicanti’ del tardo medioevo, quali i francescani e i domenicani.[]
  8. Il meditante non aveva sperimentato realmente gli episodi evangelici, perciò la loro ricostruzione scenografica dipendeva più dalle inclinazioni personali della propria fantasia (sskrt. vikalpa), piuttosto che dall’immaginazione (sskrt. kalpita). Per esempio, chiunque può immaginare oggi quello che avverrà domani nella sua casa che conosce nei dettagli: sebbene non possa prevedere gli imprevisti degli accadimenti futuri, l’ambientazione immaginata sarà del tutto plausibile. Invece, pur conoscendo gli avvenimenti narrati nei Vangeli, la loro ambientazione sarà frutto non di immaginazione, ma di fantasia creativa senza fondamento reale.[]
  9. René Fülöp-Miller, Il segreto della potenza dei Gesuiti, Milano, A.Mondadori ed., 1931, pp. 21-23; 95-144.[]
  10. Questa caratteristica comportò anche una serie di attività di utilità sociale. Anche gli ordini mendicanti avevano sviluppato una serie di iniziative a favore dei poveri. I gesuiti, e gli ordini religiosi che furono fondati in seguito, giunsero a specializzare diversi rami della loro organizzazione al recupero delle prostitute, all’istruzione professionale dei trovatelli, all’assistenza infermieristica negli ospedali, al servizio ai carcerati. Tutto ciò ha ben poco a che fare con la religione, trattandosi di settori che riguardano l’organizzazione sociale degli stati: al massimo il singolo privato può sostenere queste attività attraverso tutto ciò che è compreso nel termine di carità. Tuttavia, nel cattolicesimo post controriformista si è operata una vera distorsione mentale che considera l’organizzazione delle attività di utilità sociale come una punta avanzata della religiosità.[]
  11. Quest’area allora era molto più vasta dell’attuale stato del Paraguay, e comprendeva parte della Bolivia, la parte meridionale del Brasile, Uruguay e Paraguay e parte dell’Argentina.[]
  12. Autori luterani come Eberhard Gothein (Lo Stato cristiano-sociale dei Gesuiti nel Paraguay, Firenze, la Nuova Italia, 1987) interpretarono in senso collettivistico marxiano quella che è la struttura economica tipica delle società tribali.[]
  13. Generalmente i religiosi non furono più di 2-3 per encomienda, ciascuna delle quali contava da cinque a quindicimila indios. In totale i guaraní delle encomiendas superarono di poco il numero di centocinquanta mila.[]
  14. In Spagna, con il cambio di dinastia e l’avvento dei Borbone, cominciò a spirare un vento illuminista antireligioso. Fu così che Carlo III espulse dai suoi domini la Compagnia. In pochi anni il lavoro dei gesuiti andò in fumo. Le reducciones furono invase e annesse alle encomiendas gestite dalla nuova borghesia sudamericana fuori dal controllo di Madrid. I guaraní si rifugiarono nelle foreste dove rapidamente degenerarono a uno stadio selvatico che ancor oggi si mantiene. Grazie all’illuminismo e alla mentalità borghese, l’America meridionale entrò in quello stato di caos in cui continua a dibattersi ancor oggi. Raccolti gli echi della Rivoluzione Francese, quegli ispanici scopersero il nazionalismo e si staccarono progressivamente dalla madre Patria, con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti.[]
  15. Leopoldo Lugones, El Imperio Jesuitico, Buenos Aires, Hyspamérica Ed. Argentina, 1985, pp. 135-138.[]
  16. Le conversioni furono agevolate dalle elargizioni di denaro che i gesuiti impiegavano per ingraziarsi le caste più depresse economicamente. Giuseppe Massei, Vita di S. Francesco Saverio della compagnia di Gesù apostolo dell’Indie, Venezia, ed. Francesco Andreola, 1818, p. 131.[]
  17. Per la verità tutte le fonti più antiche assegnavano a San Tommaso l’evangelizzazione dei Parti. I primi ad attribuirgli la missione in India furono Rufino e San Girolamo, ma in tutta evidenza si trattava dell’Abissinia. La confusione dell’India con l’Abissinia continuò fino al rinascimento. Rosa Conte, “L’evangelizzazione dell’India: quale India?”, Napoli, Orientalia Parthenopea III, 2006, pp. 27-51.[]
  18. Per la verità i papi che si succedettero espressero opinioni divergenti a causa della partigianeria delle informazioni ricevute pro o contro i “riti malabarici”. La condanna definitiva fu dichiarata nel 1744, alla vigilia della soppressione dell’ordine gesuitico. William V. Bangert, Storia della Compagnia di Gesù, Marietti, Genova, 1990.[]
  19. Non essendo del tutto al corrente delle regole castali, egli però indossava anche il cordone castale (yajñopavīta) della casta kṣatriya, al cui nodo aveva appeso un crocefisso![]
  20. Pierre Dahmen, Robert de Nobili S.J.: ein Beitrag zur Geschichte der Missionsmethode und der Indologie, Münster, Aschendorff, 1924. In seguito, per far scomparire traccia di questa clamorosa mistificazione, i gesuiti dell’India fecero scomparire ogni copia del falso Veda; dichiararono così che si trattava di una calunnia degli hindū per ostacolare la loro opera missionaria. Nell’appendice A, intitolata “Robert de Nobili, The Jesuit Missionary”, del libro di Brahm Datt Bharti, Max Muller: A Lifelong Masquerade, New Delhi, Erabooks, 1992, pp. 222-244, si può trovare l’intera documentazione che prova il disonesto depistaggio operato dai gesuiti per coprire la vergognosa frode di Nobili.[]
  21. Joseph L. Saldanh (ed. by), The Christian Puranna, of Father Thomas Stephens, Mangalore, Bolar, 1907.[]
  22. William V. Bangert, cit.[]
  23. Anche le madāris islamiche usufruiscono, come le scuole cristiane, di abbondanti finanziamenti statali, perciò pagati soprattutto con le imposte della maggioranza hindū. Al contrario, il governo considera che la scuola pubblica laica, che anche in India non rappresenta certo l’eccellenza, è l’istituzione educativa per studenti hindū. Perciò le scuole per hindū non soltanto non ricevono sussidi, ma semplicemente non esistono.[]
  24. Richard D. N. Dickinson, The Christian College in Developing India, Oxford, Oxford University Press, 1971.[]