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Śrī Śrī Svāmī Jñānānandendra Sarasvatī Mahārāja

4. Vedānta Jijñāsa

Capitolo III – Chiarimento su alcuni concetti vedāntici in accordo con Śaṃkara

1.Domanda: Qual è la natura di avidyā e māyā secondo Śaṃkara?

Risposta: Śrī Śaṃkara ha chiaramente affermato che avidyā è una conoscenza errata, un fraintendimento che consiste nel confondere Ātman con il corpo e il corpo con Ātman. Questa confusione o sovrapposizione, cioè la conoscenza erronea che confonde il Sé con il non-sé e il non-sé con il Sé e che è sperimentata direttamente da tutti, è avidyā o adhyāsa. In tutti i suoi commenti al Prasthānatraya ha utilizzato il termine avidyā con il medesimo significato, anche se, allo stesso modo, ha anche considerato come avidyā soltanto l’assenza di conoscenza della Realtà e la conoscenza dubbiosa della Realtà.

“I saggi conoscono ciò che è stato definito sovrapposizione (adhyāsa), come ignoranza (avidyā), mentre l’affermazione dell’autentica natura della Realtà, che emerge dalla discriminazione da quella, essi la chiamano conoscenza (vidyā)” (Adhyāsa Bhāṣya). “Si chiama adhyāsa la cognizione di qualcosa come qualcos’altro” (Adhyāsa Bhāṣya), cioè attribuire qualità a ciò che ne è privo. “L’ignoranza si manifesta nella cognizione di Sé nella forma: ‘Io sono così e così’, che viene connessa a oggetti come il corpo, ecc. i quali non sono il Sé” (BSŚBh. I.3.2). “L’Ātman, sebbene non sia soggetto ad alcun processo modificante, per colpa dell’ignoranza (avidyā), cioè a causa di una conoscenza che non [Lo] discrimina dalle modificazioni dell’intelletto (buddhi), viene immaginato come il soggetto percipiente di oggetti quali il suono e di altri prodotti dall’intelletto e da altre funzioni mentali. Esattamente allo stesso modo, chi discrimina l’Ātman, affatto esente da qualsiasi processo modificante, dall’anātman, per mezzo della conoscenza (vidyā), consistente [ancora] in una modificazione dell’intelletto, dunque attraverso una conoscenza che, pur essendo anch’essa affatto non-reale dalla [prospettiva della] realtà suprema, viene chiamato saggio” (BhGŚBh. II. 21).

Egli ha usato il termine māyā nel senso di radice di nomi e forme (ovvero, la causa materiale del mondo) immaginata a causa di avidyā. La definizione di māyā fatta nel Bhāṣya è: “essa è nama-rūpa in quanto seme del saṃsāra, immaginato a causa dell’ignoranza; questa māyā è considerata come eterna e se ne parla come se fosse eterna” (II.1.4). “È chiamata māyā quella che, seppur non esistente, appare come se fosse esistente (ed è definita esistente da parte dei non-discriminanti): questa è detta essere la natura di non esistenza di māyā”. “«Quella che no (non c’è)», quella è māyā”1, è detto nel commento alle kārikā (MUGKŚBh. IV.58). È qui importante ricordare che dovunque ci sia un riferimento alla māyā, la cosiddetta causa materiale del mondo, Śaṃkara l’ha sempre e invariabilmente menzionata come un’immaginazione proiettata dalla ignoranza (avidyākalpitā, avidyāpratyupasthapitā, avidyāthmikā, avidyā kṛtā2, ecc.).

2. Domanda: è il jīva l’āśraya (il locus, il supporto) di avidyā oppure il Brahman è l āśraya di avidyā? O, ancora, il Brahman è l’āśraya di māyā immaginata da avidyā? (Śrī Śaṃkara ne ha parlato in BSŚBh. I.4.3 come “Parameśvaraśraya”).

Risposta: Il jīva invero è il luogo di avidyā, non Īśvara; dicesi avidyā quella vṛtti dell’antaḥkaraṇa del jīva che ha natura di illusione. A causa di questa avidyā uno prende Se stesso come se fosse un individuo. L’individualità (jīvatva) avviene solo come risultato di adhyāsa. Māyā è una materia immaginata, proiettata da avidyā. Īśvara proiettato da avidyā ha māyā come condizione limitativa (avidyākalpitā māyopādhir Īśvaraḥ)3; māyā è l’āśraya di Parameśvara, non avidyā; l’āśraya di Parameśvara è la māyā proiettata da avidyā. Questa è l’affermazione corretta.

3. Domanda: Citando dal libro di Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī Vedānta Prakriyā Pratyabhijñā (p. 219), il Vārtikakāra afferma: “così avidyā – che ha un’esistenza naturale, innata [in quanto spontanea sovrapposizione della mente] – è rimossa dalla conoscenza successiva…”. Ma Śrī Śaṃkara ha affermato commentando BU. IV.3.20: “Questa avidyā non è una caratteristica intrinseca di Ātman” e, alla fine, ha aggiunto che “la Liberazione è considerata ciò che prova il riconoscimento di Sé”. Per favore si spieghi chiaramente se avidyā è dotata di esistenza naturale, innata (svābhāvikī) o meno.

Risposta: Avidyā non è una cosa prodotta. Nell’introduzione al Sūtra Bhāṣya viene affermato: “questa sovrapposizione è non-prodotta (naisargiko), senza inizio e senza fine”. Avidyā ha consistenza soltanto nella misura in cui v’è il jīva e per lui avidyā non è prodotta da alcunché: mūlāvidyā non è un effetto. Quando si dice: “questa avidyā non è una caratteristica intrinseca di Ātman”, per Ātman si intende Paramātman, cioè l’Ātman di tutto (sarvātman). Nel commento a BU. IV.3.20 Śaṃkara afferma: “Con ciò è stata descritta la natura propria dell’ignoranza, a causa di cui si considera il Sé di tutto come se fosse il Sé solo di qualcosa, che produce [proiettandoli] altri enti distinti da Sé come se fossero realmente esistenti, mentre riduce [apparentemente] il Sé a qualcosa che non comprende la totalità. Da questa sorge il desiderio verso tali oggetti che costringe all’azione finalizzata verso ciò da cui ci si sente separati, e da questa si ha il frutto. Ciò è quanto si è voluto esprimere. Più avanti verrà detto: «…Invero, laddove sembra esistere la dualità, là l’uno percepisce l’altro» (BU IV.5.15). Così è stata mostrata la natura propria dell’ignoranza insieme con il suo frutto, e si è mostrato anche che il frutto della conoscenza consiste nella coscienza del Sé di tutto, il quale è completamente opposto a quello dell’ignoranza. Inoltre, tale ignoranza non costituisce una proprietà appartenente per natura al Sé, poiché quando la conoscenza si va elevando, essa si smorza da sé e, allorché la conoscenza, portata al suo grado estremo, ha raggiunto la perfezione, quando cioè si risolve nella coscienza del Sé di tutto attraverso il Sé della totalità, l’ignoranza scompare completamente, come la [fallace] cognizione del serpente nella corda quando è stata riconosciuta la corda. Ciò è esposto nel passo: «…Ma quando, per lui, tutto è divenuto il suo stesso Sé, allora che cosa potrà più percepire? E attraverso che cosa?» (IV.5.15). Perciò l’ignoranza non costituisce una proprietà del Sé. Infatti non si può a ragione ammettere l’eliminazione di qualcosa che appartiene per natura a un ente, come il calore e la luce dal sole. Pertanto la liberazione dall’ignoranza è pienamente plausibile”.

4. Domanda: “A chi appartiene avidyā?” Si risponde: appartiene ai jīva. Obiezione: tuttavia il jīva non si distingue dal Brahman; questa è la verità suprema: la distinzione è solo immaginata (kalpanā); allora di chi è questa immaginazione che opera la distinzione?

Risposta: non è così. Avidyā non appartiene al Brahman che è Conoscenza-Coscienza a causa dell’inconsistenza della natura di questa immaginazione (śūnya kalpanā). Ma essa non appartiene neppure ai jīva, a causa del fatto che questi non sussistono precedentemente ad essa. Infatti il jīva si caratterizza a sua volta per essere dipendente dall’immaginazione; tuttavia, sembra, anche l’immaginazione ha come sostrato il jīva stesso, sicché l’uno è il sostrato dell’altro. Qual è la vera soluzione di questo problema?

Risposta: ovunque l’immaginazione si poggia su un’illusione (bhrānti) e la cosa immaginata è percepita tramite essa. Ciò che è prodotto dalla māyā appare simultaneamente e, così, essi appaiono come riflessi l’uno dell’altra. Prima c’è l’immaginazione, e subito di seguito la cosa immaginata, oppure prima c’è la cosa immaginata e subito dopo l’immaginazione? Invero, nessuno le può distinguere.

La questione è la seguente: precedentemente ad avidyā, che ha natura di adhyāsa (adhyāsarūpa avidyā), né tempo né luogo né relazione di causa-effetto sussistono: la sovrapposizione emerge proprio per l’incapacità di discernere una cosa dall’altra, come ha dimostrato il Bhāṣyakāra. Perciò chiedersi se venga prima avidyā o il jīva come suo sostrato è una domanda scorretta: essa sorge soltanto dalla confusione (bhrānti).

5. Domanda: non riesco ad afferrare pienamente il significato della proposizione: “l’ignoranza infatti è inerente, consustanziale a tutte le relazioni empiriche od operazioni mondane, è ciò tramite cui sussiste il vyavahāra e ogni cosa che sia nel vyavahāra è essa stessa ignoranza. L’ambito delle relazioni è costituito di avidyā non rimossa: finché avidyā non è rimossa c’è vyavahāra” (Vedānta Prakriyā Pratyabhijñā, p. 187). Da dove viene ciò?

Risposta: l’intero vyavahāra è l’ignoranza: qui per vyavahāra s’intende la stessa avidyā, nel senso che ciò che è vyavahāra ha come antecedente avidyā, ovvero è generato dall’illusione (bhrānti). Porsi la domanda se venga prima avidyā o il jīva è solo la prospettiva del vyavahāra, che ha avidyā come presupposto. Da ciò se ne deduce che l’immaginazione non ha né inizio (anādi) né fine (ananta) e jīva e avidyā sono per così dire l’uno il sostrato dell’altro: questa è la prospettiva vyavahāra così stabilita.

6. Domanda: nell’esempio della corda-serpente, è necessaria la conoscenza preliminare della corda per distruggere la conoscenza del serpente o invece dalla negazione del serpente, del miraggio, ecc., (tramite la scomparsa del serpente, ecc., sovrapposti a causa dell’ignoranza) sorge il discernimento della natura propria della corda? Questo è il dubbio che mi sorge in mente4.

Risposta: Śaṃkara ha detto ciò con lo scopo di abbandonare questa sovrapposizione priva di ragione (hetu), ovvero per il completo ottenimento della conoscenza dell’unità di Ātman. Adhyāsa significa conoscenza erronea, illusoria (bhrāntijñāna, letteralmente “la conoscenza che è illusione”). La conoscenza illusoria è eliminata, falsificata dalla conoscenza integrale: ciò è stabilito dall’intuizione universale (sarvānubhava). Allo stesso modo ciò che è costruito attraverso l’illusione (bhrānti) viene eliminato tramite la conoscenza: questo pure è stabilito tramite l’intuizione universale. Essendo la cognizione – illusoria – dell’argento sulla madreperla eliminata dalla cognizione della madreperla stessa, con essa viene eliminato anche l’argento immaginato a causa dell’illusione. Ugualmente, la cognizione dell’universo fenomenico immaginata sul Brahman è eliminata assieme alla molteplicità stessa – anch’essa immaginata – tramite la conoscenza del Brahman5. Con la scomparsa della sovrapposizione sorge la stessa conoscenza del Brahman che è la stessa natura propria del Sé. Per il sorgere della conoscenza non occorre alcuno sforzo, mentre per la rimozione della sovrapposizione lo sforzo è necessario.

La comprensione della natura della corda si genera automaticamente dopo la negazione della nozione errata, cioè quella del serpente, ecc. Similmente, nel caso della Conoscenza del Sé (Ātmajñāna) è necessario rimuovere solo la falsa e indebita identificazione con i non-sé (anātman), in quanto l’Ātman è auto-stabilito. Se la natura del non-sé, il quale è sovrapposto sull’Ātman o erroneamente concepito nell’Ātman, è rimossa, ciò significherà che la conoscenza dell’Ātman non-duale sorgerà da sola.

7. Domanda: non riesco a comprendere pienamente il significato dell’affermazione del Bhāṣya: “Tramite la manifestazione della natura della corda, infatti, c’è la cognizione della sua natura propria, e c’è inoltre la dissoluzione dell’universo fenomenico e del serpente ecc. che sono sovrapposti per ignoranza” (BSŚBh. III.2.21).

Risposta: “dissoluzione” (vilayana)6 è spiegato in due modi. Nella prima prospettiva: la materia è indistruttibile – ad esempio il burro, tramite il contatto con il fuoco, si scioglie e muta in una sostanza liquida: ciò che scompare è la solidità. Così, secondo questa prospettiva, la dissoluzione della molteplicità è tale per cui il cosmo si trasforma secondo la forma di Prakṛti.

Nella seconda prospettiva: il serpente nella corda non c’è mai stato affatto, in alcun modo. C’è soltanto nella mente, è un errore mentale. Quando viene eliminato tramite la cognizione della corda allora sorge la conoscenza tale per cui il serpente non c’è mai stato, non c’è ora né mai ci sarà. Ugualmente, quando tramite la conoscenza del Brahman scompare la molteplicità immaginata – o costruita – attraverso avidyā e che ha per carattere l’essere sia vyakta sia avyakta, allora sorge la conoscenza che la molteplicità, o l’universo dotato di causalità (sākāraṇaḥ prapañcaḥ), non c’è mai stata, non c’è né mai ci sarà7.

Se il mondo fosse un effetto di una materia indescrivibile come mūlāvidyā, esso potrebbe cambiare solo nella forma. Deve persistere nella forma di mūlāvidyā. Ma questo non ha a che fare con Advaita.

Invece, se il mondo è un’immaginazione prodotta dall’ignoranza, allora la conoscenza può vanificarlo completamente. E così l’Advaita diventa reale.

8. Domanda: è stato detto che la conoscenza erronea (mithyājñāna) o avidyā o adhyāsa è “la proprietà specifica della mente di ogni essere vivente fin dalla nascita” (jātamātrasya prāṇino manodharmaḥ). Se è così, come si può dire che la mente è un prodotto fatto di cibo? Si spieghi chiaramente se la mente è prodotta da adhyāsa o se adhyāsa è un prodotto della mente, o ancora se la mente è la stessa cosa di adhyāsa. Se la mente è il prodotto del mondo o della materia primordiale, allora come potrà la māyā, o la Prakṛti, essere avidyākalpitā?

Risposta: Quale viene prima, avidyā o la mente? Sollevare una simile questione è futile e irrilevante. Il Bhāṣyakāra ha detto: ciò che si chiama adhyāsa in questo contesto è buddhi. La sovrapposizione alla natura propria dell’intuizione, che è il sostrato comune di tutti i viventi, viene suggerita dalla seguente proposizione: “si può notare che, quando si verifica l’associazione con il corpo, ecc. da parte del Sé, il quale permane sempre identico a se stesso [e privo di relazione con checchessia], si produce una tenace identificazione del Sé, che è reale e assoluto, con il non-sé, e questa identificazione non deriva da altra fonte se non da quelle precedenti cognizioni mentali di carattere illusorio che procedono le une dalle altre. Sicché, perdurando tale stato di soggezione all’esistenza trasmigratoria, diviene perfettamente ragionevole ammettere che l’essere trasmigrante possa esplicare la propria capacità di conoscere solo in dipendenza del possesso del corpo e degli altri strumenti di conoscenza” (BSŚBh. I.1.5).

I vedāntin post-śaṃkariani dicono che la buddhi è una forma mentale. Per l’esistenza della mente deve esserci un corpo. Per l’esistenza del corpo debbono esistere i cinque elementi, e perciò deve esserci qualcosa come loro causa materiale. Questa causa è mūlāvidyā. Perciò prima viene mūlāvidyā, e poi viene avidyā o adhyāsa (un’idea sbagliata, un giudizio erroneo). Questo processo è necessario per la vera evoluzione della materia.

Secondo Śaṃkara, l’ordine dell’evoluzione è fisso e immutabile: prima c’è avidyā o ignoranza e poi l’intellezione8. Egli dice che tutte le relazioni umane cominciano per prima cosa da un’idea erronea. Prima c’è avidyā, e poi arriva il corpo, la mente, il mondo, ecc. Anche nell’esperienza, Ātman è per prima cosa identificato al corpo, mente, etc., e diviene jīvātman. A causa di questa avidyā uno concepisce erroneamente Se stesso prendendosi per un individuo. In seguito sorge la questione di tempo, spazio e causalità. Prima di adhyāsa, non c’è affatto tempo, spazio o causalità. Nulla esiste se non l’Ātman reale. Dal punto di vista di questa realtà cosciente e testimone, non c’è né causa né effetto, ecc. Tutte le nozioni di causa ed effetto, ecc., sono in avidyā, cioè nella nozione di “io” (sé individuale). Questa nozione di “io” è chiamata avidyā, e quello che è immaginato e proiettato, è chiamato māyā. In tutte le immaginazioni proiettate dall’ignoranza, qualunque cosa sia necessaria per tali costruzioni arriva simultaneamente. Così, jīva, la mente, la proiezione, il corpo, ecc., sono simultanei. Dubbi di questo genere (se viene prima avidyā o adhyāsa o se viene prima la mente) qui non hanno alcun luogo. Prima c’è adhyāsa o avidyā, e poi viene vyavahāra? La causalità non può precedere l’ignoranza, dal momento che presuppone l’intellezione. Śaṃkara ha chiaramente sostenuto, nella sua introduzione alla Vedānta Mīmāṃsā, che avidyā o la mutua sovrapposizione di Sé e non-sé è il presupposto di tutti i vyavahāra, inclusa la causalità.

10. Domanda9: non riesco ad afferrare il significato della seguente affermazione della Mūlāvidyābhāṣya Vārtikaviruddha: “non ci sono esempi della scomparsa di avidyā tramite la conoscenza della Realtà”. Per favore, si spieghi chiaramente questo.

Risposta: il sub-commentatore (mūlāvidyāvādin) sostiene che māyā e avidyā siano una sola cosa. La prima è una materia indescrivibile ed è anche la causa materiale di adhyāsa, che consiste nel fraintendimento dell’Ātman con il corpo e viceversa. Ora, la citazione in questione significa: la conoscenza vanifica, rimuove la conoscenza erronea. Non rimuove mai una cosa, che è anādi e che è chiamata avidyā. Essa può rimuovere una cosa se questa è un’immaginazione prodotta dall’ignoranza. Questa māyā non può essere qualcosa di immaginato, di inventato, in quanto (secondo loro) è la causa materiale dell’immaginazione stessa. Ma [noi diciamo che] mūlāvidyā in quanto finzione, invenzione di adhyāsa, non può mai essere posta prima di quest’ultima poiché questa ne è la causa. I sub-commentatori portano, come esempio, quello del serpente e della corda. Dicono che la corda-serpente è nata al tempo dell’errore, che è una materia, e che è distrutta dalla conoscenza in quanto è chiamata col nome di avidyā. Perciò māyā e avidyā possono essere distrutte dalla conoscenza. Ciò è in opposizione alle affermazioni di Śaṃkara. Nel Sūtra Bhāṣya (IV.1.5), Śaṃkara dice: “semplicemente, qualcuno lo fraintende come fosse argento”. Si tratta solo di una nozione erronea. Non c’è affatto alcun argento.

Perciò, non c’è nessun esempio per una materia rimossa dalla conoscenza. Śaṃkara dice: “la conoscenza invece fa conoscere, non fa agire” (BUŚBh. I.4.10). Se si sostiene che la conoscenza può rimuovere una materia in quanto è nominata come avidyā, ebbene ciò non è possibile. La conoscenza la porta semplicemente alla luce per come è in realtà. La conoscenza non distrugge una cosa, sia essa descrivibile o indescrivibile, dipendente o indipendente.

  1. È un’applicazione molto interessante del Nirukta per spiegare il significato di māyā, come ciò che, seppur inesistente, appare come fosse esistente agli avivekin, ai non-discriminanti. La frase suona infatti in sanscrito: “yā mā (=nāsti) sā māyā” [N.d.C.].[]
  2. In sequenza: “un’immaginazione dovuta all’ignoranza”, “che è reso manifesto dall’ignoranza”, “della natura dell’ignoranza”, “fatto di (o anche da o tramite) ignoranza” [N.d.C.].[]
  3. Ovvero: una volta che hai māyā hai anche Īśvara; se non c’è māyā, non c’è neppure Īśvara [N.d.C.].[]
  4. Molte delle questioni affrontate in questa parte sono interessanti: si nota infatti che questo genere di domande – per certi versi penetranti e rigorose rispetto la logica del pensiero, a volte quasi puntigliose – può essere posto evidentemente soltanto da discepoli e aspiranti in qualche misura già abituati e versati nel siddhānta e nella forma del ragionamento vedāntico. Tuttavia, la maggior parte dei dubbi qui sollevati ed esemplificati sorgono qualora l’aspirante, per così dire, rimanga invischiato nella logica linguistica del dṛṣṭānta o del ragionamento specifico proposto. In questi casi infatti, le risposte di Svāmījī tendono in primo luogo a discriminare e chiarire correttamente il senso precipuo dell’espressione o della proposizione, per poi però mostrare – attraverso e al contempo oltre la logica dell’esempio – la finalità e il senso dell’insegnamento, che è l’unità dell’Ātman. Difatti, per fare un apavāda sensato bisogna senza dubbio costruire un adhyāropa preciso in ogni rispetto, secondo la metodologia classica esposta nelle Upaniṣad e chiarita dai Guru qualificati; tuttavia, per quante precauzioni si possano prendere, si deve anche comprendere la caratteristica specifica del mezzo linguistico – il solo a disposizione – il quale inevitabilmente tradurrà i contenuti di questi insegnamenti secondo le forme a priori della mente, in particolare spazio, tempo e causalità. Un esempio ne è la confusione per cui si considera avidyā secondo la relazione di causa-effetto, ossia proprio l’errore che sta a fondamento di mūlāvidyā e della concezione oggettivante di adhyāsa, per la quale essa non indicherebbe la sovrapposizione – cioè il processo mentale di sovrapporre e confondere qualcosa per ciò che non è, come insegnato inequivocabilmente da Śaṃkara nell’Adhyāsa bhāṣya – quanto piuttosto un qualcosa di sovrapposto, facendo così di avidyā un principio ontologico – e non epistemico – inteso a rendere conto della falsa apparenza del mondo empirico. Perciò è necessario che il dicepolo di Vedānta abbia una mente purificata, qualificata, attenta, elastica, sempre discriminante e libera dalle tendenze ontologizzanti tipiche del linguaggio e del pensiero dualistico, i quali hanno avidyā come loro presupposto. Il rimando, frequente, all’intuizione universale come considerata come l’unico “mezzo valido”, per così dire, per la Conoscenza pāramārthika va inteso in questa prospettiva. Non dubitiamo, comunque, che – per quanta precauzione si abbia e per quanta fatica si faccia per discriminare il più possibile il senso corretto da quello inadeguato o provvisorio – le menti persuase dalle vāsanā di una educazione creazionista e dualista estranea alle Upaniṣad, tenderanno inevitabilmente a leggere i contenuti esposti nel Vedānta in un’ottica deformata dalla propria particolare lente [N.d.C.].[]
  5. Con la scomparsa della cognizione erronea scompare anche la cosa illusoria: ossia venendo meno la sovrapposizione mentale viene rimossa anche la falsa apparenza sovrapposta, non essendo due atti differenti [N.d.C.].[]
  6. Letteralmente significa: “il processo di qualcosa che si scioglie in una sostanza prendendone la natura” [N.d.C.].[]
  7. Śrī Sūreśvara afferma: “Appena insorge la vera conoscenza generata dal mahāvākya “Tu sei Quello”, l’ignoranza con tutti i suoi effetti non è mai stata, non è e non sarà” (Saṃbandha Vārtika, 183).[]
  8. Ovviamente non bisogna immaginare questa relazione in senso temporale o causale: il senso, invece, è che l’intellezione e la causa avvengono nell’adhyāsa, cioè hanno questo errore di fondo come loro presupposto; e, allo stesso modo, “nell’adhyāsa” non va inteso neppure in senso “spaziale” (a proposito delle determinazioni linguistiche di cui si diceva). Ugualmente, quando si dice che la sovrapposizione è dovuta alla mancanza di discriminazione, non bisogna intendere con ciò un vero e proprio rapporto di causalità o produzione, ma soltanto che quando questa assenza di discriminazione viene meno attraverso la conoscenza, la sovrapposizione scompare del tutto, ovvero si rivela essere stata sempre asat [N.d.C.].[]
  9. È stata tralasciata la traduzione della breve domanda 9 perché di particolare dettaglio e non presenta un generale interesse per il lettore [N.d.C.].[]