Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja
21. La luce della Realtà
147. Nel sonno profondo tutto è Ātman, Pura Felicità
Che tutto sia solo Felicità sarà più chiaro se teniamo a mente il sonno senza sogni. Nel sonno profondo non c’è alcun mondo, nessuna tripuṭi (triplice divisione), quindi non c’è possibilità per vari gradi di felicità. Tuttavia non possiamo dire che il sonno profondo sia uno stato senza alcuna felicità. Lo si può capire dalle argomentazioni come quelle fatte riguardo alla Coscienza (§ 105).
Obiezione: nel sonno profondo non c’era felicità di alcun tipo o grado e neppure c’era infelicità a causa dell’assenza dei sensi e della mente.
Risposta: ciò non è per niente esatto. Perché la memoria o il riferimento al sonno profondo, dopo essersi svegliati, sono in forma di ‘ero felice in sonno’ e non che ‘lì non c’era alcuna infelicità’.
Obiezione: tuttavia, come hai sostenuto in precedenza, essere felice lì non è un ricordo del sonno nella veglia.
Risposta:
- Sì, non può essere un ricordo. È esperienza di tutti che non c’era divisione di io e felicità. Non ero lì come io né la felicità era una mia qualità. In tal caso, come può sorgere il ricordo nella veglia che ‘io ero felice’?
- Proprio il fatto che ognuno ama avere un sonno profondo, prova che esso non è una semplice assenza di infelicità. Se non fosse una felicità positiva non ci affanneremmo tanto per avere un sonno indisturbato. Se compariamo il triste aspetto di una persona che soffre d’insonnia con il volto lieto di chi ha avuto un sonno profondo, l’importanza del sonno diventa evidente.
- La felicità della veglia dipende da vari fattori, come l’umore della mente, il benessere, l’età, l’energia, la salute e ciò che ci circonda. Quindi varia in base a questi fattori. Se il godimento dura a lungo ne siamo annoiati. Ma ci manca e ci sentiamo tristi se non lo otteniamo o lo perdiamo. Invece la felicità del sonno profondo è diversa. Non dipende da qualcosa, non fluttua, non è mai perduta, esiste sempre. Essendo la nostra natura, nulla può impedirla o influenzarla. L’esistenza di una seconda cosa è la causa della paura. In assenza di una seconda cosa non si conosce paura.
- Nessuna delle esperienze della veglia, piacere, esaltazione o quiete, può eguagliare questa felicità. In sanscrito la felicità è detta sukha, che può essere etimologicamente spiegata in due diversi modi, riferendosi ai due diversi livelli di felicità. La felicità della veglia è sukha nel senso che è su, ‘bene’, e kha, ossia ‘ricavato’ dagli oggetti. Invece la felicità del sonno profondo è sukha nel senso che è sutārakha (magnificamente stellato), che significa infinita come lo spazio, perché è libera dalle limitazioni di tempo, luogo e causa ed è la nostra natura essenziale. Perciò è giusto chiamarla in sanscrito con il grande nome di Ānanda, che è la Beatitudine totale.
- Così la śruti loda il sonno profondo in quanto Beatitudine:
- Il Testimone, uno senza un secondo è trasparente come l’acqua. Questo è il Brahmaloka1. Questo è il supremo scopo del jīva, la più grande conquista, il più alto godimento, la suprema Beatitudine. Gli altri esseri vivono solo in una particella di questa Beatitudine. (BU IV.3.32)
- Però, questo cosiddetto sonno profondo, in realtà non è uno stato, ma solo Pura Felicità. Non sapendo questo, la gente lo guarda dal punto di vista della veglia e lo chiama stato di sonno profondo.
148. Neppure la felicità della veglia ha variazioni
Domanda: nel sonno tutto si trasforma in felicità e nella veglia si divide in io, oggetti, felicità e infelicità. Come accade questa cosa misteriosa?
Risposta: questa ipotesi è una concezione erronea, perché non c’è trasformazione. Si è già spiegato nel § 84, come non ci sia alcuna relazione di causa-effetto tra il sonno profondo e la veglia. Che la felicità si divida nella veglia in tutte queste molteplici cose, è una errata supposizione che ha dato origine a questa domanda.
Domanda: quando ci si sta addormentando, perché non si sperimenta che tutto questo mondo di molteplicità si dissolve nella felicità?
Risposta: anche questa domanda proviene dalla stessa errata supposizione. Il fatto è che, com’è stabilito nel § 108, c’è solo la Pura Felicità e non c’è nulla oltre a quella. Tuttavia, quando la guardiamo dal punto di vista sbagliato della veglia, la vediamo divisa in io, oggetti, felicità e infelicità. Questo è il punto di vista di avidyā. Per poterlo vedere nel modo corretto dobbiamo osservarlo dal punto di vista dell’Ātman che è il Sākṣin di tutti e tre gli stati. Allora capiamo che la felicità non è mai divisa e che l’apparenza dei tre stati in essa è dovuta all’errore della veglia. Anche l’errore che la felicità della veglia emerga nuovamente a causa di fattori esterni, è dovuto soltanto alla dimenticanza che la nostra natura reale è la Felicità e che essa non può venire da fuori.
149. Come la Felicità appare molteplice e varia
- Ogni qualvolta la mente vede un oggetto che le piace, il velo sopra la mente scompare ed essa diventa pura come uno specchio. Allora la Felicità del Sākṣin si riflette nel pensiero della mente. Coloro che mancano di discriminazione pensano erroneamente che ci sia una luna in ogni onda dell’Oceano, sebbene tutte siano i vari riflessi dell’unica luna. La loro molteplicità non inficia né cambia la verità dell’unicità della luna. Anche noi, in mancanza di discriminazione, chiamiamo esperienze di felicità i riflessi della Felicità del Sākṣin nei vari pensieri della mente (TaiUŚBh II.5.1). Alcuni vedāntin definiscono gli stessi pensieri di felicità, qualità del jīva. Proprio come non ci sono vari riflessi della luna in assenza di onde, così, in assenza di pensieri, non ci sono vari gradi di felicità in noi come si vede negli stati di sonno profondo, come transe, coma ecc.
- Soltanto la diversità di pensieri della mente fa sì che la Felicità appaia molteplice e classificabile in sāttvika, rājasa e tāmasa e che appaia come opposte esperienze di felicità e infelicità.
- Se consideriamo due esperienze di felicità e cerchiamo di capire cosa le renda differenti, ci renderemo conto che nella stessa natura di Felicità è impossibile vedere alcuna divisione o differenza. Quello che vi appare a causa del pensiero della mente è solo un’apparenza (upādhi) che sembra causata dall’oggetto esterno. Saremo convinti di questo quando capiremo che ogni cambiamento (vikāra) nel pensiero (vṛtti) non può toccare la natura di Felicità di cui la vṛtti è un’associazione apparentemente limitante.
- Se fosse possibile dimostrare con il ragionamento che la molteplicità che appare nella Felicità del Testimone è dovuta solo ai pensieri, allora immaginare una reale varietà di Felicità sarebbe soltanto un difetto logico. Ciò è dovuto all’erronea supposizione di coloro che sostengono la molteplicità nella felicità. Per esempio, quando un succo puro è versato da una brocca in bicchieri fatti di diversi materiali e di diverse misure, lo stesso succo può avere differenti colori, gusti e forme, ma non si considerano tutti questi colori, forme e gusti come appartenenti al succo originale. Similmente la varietà nella felicità è dovuta a varie condizioni della mente e non appartiene all’originale Pura Felicità. Per tutte queste ragioni è giusto dire che la Pura Felicità appare solo come moltiplicata in gradi e divisa in fruitore-fruizione.
D. Le varie forme di Felicità
150. I tre livelli di Felicità rispecchiano il punto di vista della veglia
È chiaro ora che l’affermazione per cui solo la Felicità di Ātman è tutto non è contraria all’insegnamento dei tre livelli di felicità. Abbiamo diviso la Felicità in empirica, considerando la felicità della veglia come metro di misura, definito apparente ciò che è più basso e veramente Reale ciò che è più alto. Sebbene questa divisione sia sufficiente per la vita empirica, non è utile per accertare la verità. Quando ci poniamo dal punto di vista del Sākṣin (§ 75) per determinare la Realtà, si capisce che tutti questi livelli sono di fatto solo l’unica Felicità della Realtà. Le varie forme che appaiono soltanto dal punto di vista della veglia, non possono essere veramente reali. Se fossero prese come appartenenti alla realtà, sarebbe come accettare che il serpente s’immerga realmente e che rimanga nella corda dopo che è stata portata la luce.
151. In veglia la Felicità appare con distinzioni
Obiezione: ci sono differenze tra la felicità del sonno profondo e quella della veglia. La prima è senza gradazioni o divisioni, mentre nella seconda c’è la divisione della felicità in qualità e suo possessore; o, in altre parole, tra fruito e fruitore. In essa c’è aumento e diminuzione. Ci sono anche diversità in base alle variazioni di soggetto e di oggetti. La felicità riguardante lo stesso oggetto varia da persona a persona, da comunità a comunità. Per un cambiamento negli oggetti varia anche nella stessa persona. Così, quando sono presenti due tipi di felicità opposte per natura, come possiamo definirle una sola?
Risposta: la risposta è data nel § 108. Dal punto di vista comprensivo del Sākṣin si capisce che c’è una Felicità indivisa in tutte le esperienze apparenti e che l’argomentazione dal punto di vista della veglia non ha alcun peso. La varietà nella felicità della veglia è dovuta alla varietà delle associazioni limitanti, che appaiono solamente a causa dell’ignoranza e che non hanno alcuna esistenza indipendente. Nella Realtà anch’esse sono solo Felicità. Come l’acqua dell’oceano che, rimanendo com’è, appare in forma di iceberg galleggianti sulla sua superficie, così, a causa delle associazioni limitanti, l’oceano di Felicità, rimanendo sempre Felicità, appare alla mente della veglia diviso in acqua e ghiaccio. Nonostante questo, ogni cosa è soltanto ambrosia di Felicità.
E. Divisione fra felicità e sofferenza
152. Nella Felicità non c’è molteplicità
Domanda: se tutto è solo Felicità senza distinzione, perché c’è divisione tra felicità e sofferenza?
Risposta: perché si guarda col pregiudizio della veglia. Dal punto di vista del Sākṣin c’è solo Felicità non duale, non molteplice, non c’è stato né divisione tra felicità e sofferenza. È dal punto di vista della veglia che s’immaginano i tre stati e molti jīva che sperimentano una varietà di gioie e dolori (§ 67).
153. Alcune domande sulla felicità dal punto di vista della veglia
Ci sono ulteriori considerazioni da fare sulla varietà di felicità, la divisione tra felicità e sofferenza e fra felicità e fruitore, prodotte dalla mente che non è in grado di determinare la natura della Felicità nella veglia.
- Cos’è la felicità?
- La felicità è differente se proviene da differenti oggetti? Se è così, qual è la caratteristica che differenzia la loro natura?
- Se c’è una caratteristica differenziante nella loro natura, dovrebbe essere qualcosa di diverso dalla felicità e ciò potrebbe essere soltanto la sofferenza. Ma può la mente accettare la sofferenza come un attributo della felicità?
- Se questa differenza non insorge dalla natura della felicità, dovrebbe provenire da un fattore estraneo chiamato upādhi. Cos’è l’upādhi? È l’oggetto di felicità o il soggetto, cioè il jīva stesso?
- Innanzitutto, la vera natura dell’oggetto non può essere determinata come abbiamo già discusso nel § 69. Possiamo forse affermare che la divisione della felicità provenga dagli oggetti?
- Questo vale anche per la natura del soggetto di felicità cioè il jīva. Dato che l’identità dell’io continua a mutare tra il corpo, il prāṇa, la mente, l’intelletto e l’io, non si può nemmeno determinare se il jīva esista o meno. È vero che non c’è alcun dubbio sul fatto che io esisto; tuttavia, riguardo alla reale natura dell’io ci sono molti dubbi.
- Se questo è il caso dell’io che è direttamente evidente, cosa dire degli altri jīva che non possono essere conosciuti direttamente? In definitiva, la natura del jīva che è il soggetto o il fruitore della felicità, non può essere accertata dal punto di vista della veglia. Quindi non si può affatto determinare che cosa sia la felicità e come in essa avvengano le divisioni. Tuttavia, la mente della veglia parla con sicurezza come se la conoscesse.
154. La divisione tra felicità e sofferenza è solo illusoria
Domanda: è possibile dire che la sofferenza è solo felicità?
Risposta: anche in questo caso dovremo usare la stessa argomentazione di prima. Se poniamo la domanda: «Dal punto di vista della veglia, che cos’è la sofferenza? Ci sono divisioni, gradi o differenze nella sofferenza?» La mente della veglia non ha risposte. Senza dubbio le definizioni che ‘un sentimento favorevole è felicità e uno sfavorevole è sofferenza’, è utile e sufficiente per la vita empirica. Tuttavia valgono quanto le indicazioni di direzione. Per esempio: «Il campo di Rāma è a est di quello di Kṛṣṇa, ma è a ovest di quello di Śaṃkara». Se l’ascoltatore pone la domanda: «Il campo stesso è a est o a ovest?», a questo non si può dare una risposta, perché est e ovest sono relativi e si possono determinare solo riferendoli a qualcosa e non indipendentemente.
Così, quando a un sentimento favorevole se ne paragona uno sfavorevole, questo dovrebbe essere chiamato sofferenza. Questa definizione è esatta solamente nella misura in cui è relativa.
Domanda: che cos’è la sofferenza in sé senza paragonarla a qualcos’altro? Qual è la sua vera natura? È realmente differente dalla felicità?
Risposta: qui di nuovo il nostro intelletto non riesce a rispondere; perché ciò che rende felice uno può rendere infelice un altro. Ciò che causa felicità a qualcuno in un certo momento può causare sofferenza in un altro.
Domanda: ciò che appare alla maggioranza come sofferenza è sofferenza?
Risposta: il difetto in questa definizione è evidente. Chi è questa maggioranza? Quanti sono? Chi dovrebbe identificarli e radunarli in assemblea? E, dopo averli riuniti, come possiamo determinare che ciò che appare come loro sofferenza sia sofferenza? Se ciò deve essere determinato soltanto in base alla loro descrizione, questo sarà sufficiente per aiutarci a definire la natura della sofferenza senza conoscere la loro esperienza? È possibile per una persona fare l’esperienza altrui? Quindi la conclusione è che la divisione tra felicità e sofferenza è solo un’apparenza nell’ottica della veglia in assenza di indagine: non è veramente reale, ma illusoria.
155. La felicità della veglia e del sogno è la stessa
Ora paragoniamo gli stati di veglia e di sogno per capire la natura della felicità. Nel sogno, come anche in veglia, sembra esserci una differenza nella felicità e una divisione tra felicità e sofferenza. Quando si sogna, il sogno pare veglia e quindi non si può decidere quale stato particolare sia la veglia (discusso in §§ 71-81 riguardo all’esistenza e nei §§ 118-119 riguardo alla Coscienza). Se applichiamo le stesse argomentazioni al presente contesto, sarà evidente che in veglia e in sogno la felicità è la stessa.
Gli oggetti, le fruizioni e l’io fruitore esistono nel sogno, ma non sono gli stessi della veglia. Sebbene uno stato non continui nell’altro, c’è un ricordo o un riferimento di aver sperimentato felicità in sogno. Ciò significa che la conoscenza in forma di ricordo che abbiamo ora, dimostra che in quel tempo c’è stata una reale esperienza di felicità. Ovvero, poiché allora avevamo una reale felicità, ora è possibile riferirsi a essa come a una conoscenza che pare un ricordo.
Abbiamo anche conoscenza della felicità sperimentata ieri in questo medesimo stato. Non c’è alcuna differenza tra queste due conoscenze; infatti, se pensiamo a un’esperienza di felicità in sogno e a un’altra nella veglia di ieri, non troviamo alcuna differenza, essendo una stessa felicità. Sebbene ci sia una certa differenza quanto alle condizioni dei due stati, questo solo conferma che la felicità è una. Qualsiasi strumento e oggetto ci fossero nel precedente stato di veglia, gli stessi esistono anche ora. Quindi si può concludere che la felicità della veglia è prodotta dagli upādhi e dagli oggetti della veglia.
Obiezione: ma nel sogno tutto è solo illusione; non c’erano oggetti né mente né upādhi, ma c’era felicità. Come spieghi questa esperienza? Se tutto è illusorio, anche questa felicità è un’illusione!
Risposta: no, non si può dire questo. Puoi rimuovere come illusori gli oggetti, la mente, perfino lo stato di sogno, ma non la conoscenza dello stato. Similmente, nemmeno la felicità può essere rimossa come falsa. Essendo comune a entrambi gli stati, nella veglia è ‘ricordata’ come sperimentata in sogno.
Obiezione: fatta eccezione per il Sākṣin,se ogni cosa è illusoria, cioè se il passato, lo stato passato e gli oggetti in esso sono illusori, come possiamo ricordarli?
Risposta: a questo è stato già risposto (§ 121).
156. Felicità e sofferenza in veglia e in sogno non si causano reciprocamente
Vediamo ora come la veglia non sia la causa del sogno né il sogno della veglia.
- Innanzi tutto dobbiamo ricordare che, durante la sua esperienza, il sogno appare veglia. Quindi, definirlo falso dimostra soltanto il nostro pregiudizio della veglia e non è il punto di vista corretto.
- L’esperienza di felicità o di sofferenza della veglia non passa al sogno né quella del sogno alla veglia. Per esempio, una persona che ha fatto un pesante pasto nella veglia può sperimentare nel sogno i morsi della fame, come se avesse digiunato per giorni. E ancora, una persona in catene può sognare di aver sconfitto centinaia di soldati in battaglia, di averli fatti prigionieri e godersi il suo momento di gloria. Oppure un eruditissimo studioso potrebbe essere uno stupido che non sa fare uno più uno. Così gli oggetti nei due stati potrebbero essere non solo completamente diversi, ma anche la loro conoscenza del tutto differente. Similmente l’esperienza di felicità e sofferenza in essi potrebbe essere una l’opposto dell’altra.
- Nei §§ 77-78 abbiamo dimostrato come non ci sia alcuna base per credere che i due stati abbiano cause reciproche. Non c’è una serie temporale comune ai due stati. Come un sogno all’interno di un altro sogno non può essere definito l’effetto del primo, così è il rapporto tra veglia e sogno.
- Quindi che conclusione ne possiamo trarre? La felicità e la sofferenza del sogno non sono meno valide o reali di quelle della veglia.
Domanda: ma, poiché nessuno desidera ottenere la felicità ed evitare la sofferenza del sogno, come possono essere valide?
Risposta: è vero che in veglia nessuno si preoccupa di ciò; ma fintanto che rimane nel sogno è influenzato dall’esperienza di felicità e sofferenza che prova lì e si adopera per ottenere felicità ed evitare la sofferenza. Questa è esperienza di tutti. - Perciò quello che dobbiamo capire è quanto affermato da Gauḍapāda:
Il fruitore, la fruizione, gli oggetti di fruizione del sogno e la mente che li vede non sono diversi dal Sākṣin del sogno. […] Così, il fruitore, la fruizione e gli oggetti di fruizione della veglia e la mente che vede tutti questi, non sono differenti dal Sākṣin dell’intera veglia (MUGK IV.64; 66).
Essendo tutte queste solo apparenze, non sono causate l’una dall’altra. Ma dal punto di vista del Sākṣin, esse sono solo la Felicità del Sākṣin. In quella natura non c’è affatto sofferenza per nessuno.
F. La natura della Pura Felicità
157. La Pura Felicità nel sonno profondo
Ora vediamo il risultato di quanto abbiamo discusso fin qui. Il sonno profondo è la principale prova per determinare la natura della Felicità come lo è stato per l’Esistenza e la Coscienza. C’è una grande possibilità di errore quando si considera il sonno profondo riguardo la Felicità.
Generalmente si pensa che sia uno stato vuoto, senza felicità né sofferenza. Ma questo è un errore perché nel sonno profondo non c’è possibilità di esperienza di felicità o di sofferenza come quella della veglia. Dire che lì non c’è né felicità né sofferenza è come dire che una pietra non ha esperienza di felicità. Questo è apraptaprātiṣedha, ossia negare qualcosa che non è nemmeno remotamente possibile. Parliamo così senza sapere se lì ci sia felicità o sofferenza. Una pietra non può essere felice perché non può fare alcuna esperienza. Il sonno profondo non ha esperienza di felicità perché l’Ātman non duale non ha bisogno di ottenerla come esperienza dal di fuori. Dato che sperimentiamo felicità in veglia, concludiamo che dal punto di vista della veglia lì non c’è felicità. Tuttavia io esisto lì non come l’io della veglia e del sogno, ma solo come Pura Felicità. Come può la Felicità avere un’esperienza di felicità? Ciò che chiamiamo felicità nella veglia è solo un pensiero della mente che riflette la Felicità; pensiero che può esserci solo quando c’è mente. Non può esserci senza la mente e senza un oggetto. Ma nel sonno profondo il pensiero della mente e l’oggetto sono diventati proprio l’essenza della Felicità. Quindi, nel sonno profondo, sebbene non ci sia pensiero di essere felice, pensiero dell’io, felicità, oggetto, tutti s’immergono e diventano la natura di Felicità. A questo proposito la MU dice:
L’Ātman, essendo pieno di Felicità, gode proprio della Felicità (MU 5).
Per questo è chiamato Pura Felicità.
158. Il sonno profondo non è assenza di sofferenza
Sebbene in sonno profondo non ci sia sofferenza, non è uno stato di totale assenza di qualcosa, perché lì esiste l’Ātman. Tuttavia, consideriamo erroneamente il puro Ātman come assenza di sofferenza, assenza di felicità, assenza di oggetto, assenza di io ecc. Infatti la presenza e l’assenza appartengono a un oggetto e non all’Ātman che è sempre il soggetto del Sākṣin che testimonia l’assenza e la presenza di qualsiasi cosa e di tutto. Un’assenza può essere compresa solo in contrasto con la sua controparte, cioè con un oggetto. Per esempio: senza l’idea del vaso non possiamo pensare alla sua assenza. Dove c’è la conoscenza del vaso, lì ci può essere il riconoscimento dell’assenza del vaso. Se in sonno profondo non c’è la possibilità di un oggetto positivo, o la sua conoscenza, non c’è alcuna possibilità per determinarne l’assenza o per riconoscerlo. Quindi, per sostenere che il sonno profondo è assenza di sofferenza, si usa come paragone la sofferenza della veglia. Pensare al sonno profondo come assenza di sofferenza è fatto solo dal punto di vista della veglia. Sūreśvara dice:
Solo l’Ātman rimane nel sonno profondo nella natura di Felicità che è oltre la divisione sia della presenza sia dell’assenza. Questa conoscenza di Ānanda proviene solo dal Vedānta (NaiSi III.113).
Inoltre proprio il sonno profondo è la nostra essenziale natura di Felicità. Non conoscendola, la chiamiamo sonno profondo.
Domanda: perché ci riferiamo a esso come a qualcosa di passato, dicendo ‘ho dormito beatamente’?
Risposta: a questo è già stato risposto a proposito della Conoscenza nel § 127. Siccome la propria natura non cambia mai, anche ora siamo nella natura di Felicità. Essendo immersi nella naturale Felicità, dopo esserci svegliati sentiamo il corpo leggero, la mente fresca e vivace e l’intelletto pronto a capire cose, a decidere azioni e il mondo ci appare pieno di felicità.
159. La veglia e il sogno sono un’altra forma della Pura Felicità
L’intero mondo ci appare pieno di felicità semplicemente perché la felicità, il suo fruitore e gli oggetti della felicità, sono tutti diventati uno nel sonno profondo. La travolgente gioia che ci riempie quando vediamo la bellezza o la meraviglia del mondo è solo un’altra forma della Felicità. La veglia e il sogno sono come grandi onde che sorgono dall’immenso oceano della Felicità. La schiuma, le bolle, le gocce appaiono tutte nelle onde e non sono nient’altro che acqua. Ciò significa che anche tutti gli altri jīva che ci appaiono sono solo la Beatitudine della nostra natura. Questa comprensione produce amicizia e amore e non riconoscerla provoca odio e vendetta. Quindi l’amicizia, l’amore, il piacere ecc. sono costituenti di questo oceano di Felicità, come lo sono l’odio e la vendetta. Se la schiuma è colorata, non cessa di essere acqua. I nomi e le forme, a causa dei quali l’amore diventa dispiacere e paura, sono di fatto solo felicità mascherata. Se vogliamo che appaiano nella loro forma originale di Pura Felicità, dovremmo smettere di guardarli attraverso le lenti colorate della veglia e cominciare a guardarli con l’occhio dell’intuizione universale. Allora capiremo che non c’è nulla se non la Pura Felicità.
160. Negare la Pura Felicità è una logica vuota
Obiezione: non sperimentiamo mai Pura Felicità senza un oggetto, senza crescita o decrescita, senza inizio o fine, senza che sia mescolata a un elemento di sofferenza o senza fruitore e oggetto.
Risposta: la stessa argomentazione data nel § 129 vale anche qui. Dato che siamo sempre solo Pura Beatitudine, non è possibile vederla come un oggetto. La nostra esperienza è prova sufficiente per mostrare che eravamo nel sonno profondo in quanto Beatitudine. Ciò dimostra che anche ora siamo il Sākṣin. In altre parole, anche ora in veglia, quando siamo testimone e testimoniato, siamo solo Beatitudine. Come Testimone, il Sākṣin non è limitato da spazio, tempo e causalità, perché è anche il Sākṣin di essi. Quello che è testimoniato, per lo stesso motivo, non è limitato da spazio, tempo e causalità, perché spazio ecc. non sono fuori da Esso. Quindi, anche nella forma di testimone e testimoniato, la Beatitudine è illimitata. Come l’esperienza di Pura Coscienza è nirvikalpa, vale a dire senza relazione di soggetto-oggetto, così è anche l’esperienza di Pura Beatitudine. Essendo libera dalle limitazioni di spazio, tempo ecc. questa Beatitudine non è né savikāra, mutevole, né nirvikāra, immutabile, com’è spiegato nel § 130. Che appaia come stati di veglia e di sogno, è solo apparenza immaginaria (vivarta) della Pura Beatitudine o sovrapposizione su di essa. Non c’è dunque alcuna ragione per l’obiezione basata sulla sola logica che gli stati, la felicità e la sofferenza in essi sperimentate sorgano dall’immutabile Beatitudine.
161. Per mezzo degli śāstra si può indagare la nostra natura di Beatitudine
Obiezione: se siamo sempre nella nostra natura di Beatitudine, perché è necessario indagare il Sé? Perché scrivere gli śāstra e studiarli?
Risposta: qui c’è un errore che si deve correggere. A questo proposito Śaṃkara dice:
Sebbene nella nostra vera natura siamo sempre Felicità non duale, non sapendolo e guardando dal punto di vista della veglia, c’inganniamo considerandoci limitati e infelici e, come risultato, siamo afflitti. Quindi il male prodotto dall’errore può scomparire solo con la conoscenza della propria natura (BUŚBh I.4.10).
Se qualcuno possiede molto denaro, ma non lo sa, non proverà il piacere di possederlo. Un altro esempio: un passeggero che viaggiava in treno cominciò a preoccuparsi pensando erroneamente di aver perso il suo biglietto, che in realtà aveva in tasca. Per liberarsi da tale sofferenza doveva solo sapere di averlo in tasca. Similmente, pur essendo la Beatitudine non duale, finché rimaniamo nell’errore di essere limitati e di essere un’anima sofferente (jīva), la felicità, pur essendo la nostra natura, non ci sarà di alcun aiuto e la sofferenza sorta dall’errore continuerà ad angosciarci. Se il Vedānta ci insegna a vedere il nostro Ātman dal punto di vista universale producendo la corretta comprensione, la Felicità ci apparirà appena acquisita, sebbene sia la nostra eterna natura. A questo proposito citiamo dal Bhāṣya il dibattito che segue.
Obiezione: se la mia vera natura è Felicità, qual è la necessità dell’insegnamento? Questo insegnamento non è dunque inutile?
Risposta: sì, dopo aver capito che noi stessi siamo la Felicità, l’insegnamento non è più utile.
Obiezione: ma, allora, non è inutile anche la conoscenza?
Risposta: no, perché nella nostra esperienza vediamo che l’errore scompare con la conoscenza.
Obiezione: se tutto è solo Ātman non duale, non dovrebbe avvenire nemmeno la rimozione dell’errore.
Risposta: no, ciò è contrario a quello che si sperimenta. Quando l’errore è visto scomparire con la conoscenza della non dualità, nessuno considera tale conoscenza qualcosa da rigettare, perché è contrario all’evidenza. Non è corretto chiamare improbabile ciò che è ovvio, in quanto è ovvio.
Obiezione: ma l’ovvietà non è probabile?
Risposta: la stessa ragione si addice anche a questa obiezione: poiché è ovvio, nulla può cambiarlo, dato che è già ovvio (BUŚBh I.4.10).
162. Si può conoscere la Felicità in quanto nostra natura essenziale
Obiezione: come si può conoscere la Pura Felicità che è la nostra propria natura, senza oggettivarla?
Risposta: ci si deve riferire all’argomentazione § 135 che riguarda la Coscienza. Nella nostra vita empirica abbiamo l’idea della Pura Felicità solo dall’esperienza del sonno profondo. Quindi, per capirla, dobbiamo pensare alla nostra natura come esiste nel sonno profondo. Allora la conoscenza della veglia sarà cancellata e la nostra identità individuale della veglia, come pure la coscienza della veglia, s’immergerà in quella natura. Diventeremo proprio la vera Felicità libera dalla relazione soggetto-oggetto. Così, quando un conoscitore della Felicità diventa proprio la Felicità, dopo non gli rimane né la relazione soggetto-oggetto né la possibilità di pensarla oggettivata. La śruti dice:
Chi conosce la Beatitudine di Brahman non ha paura di nulla (TaiU II.9).
Perché egli stesso è il Brahman infinito e non c’è nulla differente da lui, non ha paura di nulla poiché non c’è un secondo oggetto (BU I.4.2).
- In questo caso si tratta del sonno profondo considerato dalla veglia come uno stato [N.d.C.]. [↩]