Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja
20. La luce della Realtà
135. È possibile conoscere la Pura Coscienza
Risposta al quarto dubbio: è possibile conoscere correttamente la Pura Coscienza?
Risposta: di fatto non c’è necessità di conoscere la Pura Coscienza, perché è la nostra propria natura; invece l’uomo cerca generalmente ciò che è altro da sé (BhGŚBh II.16). Tuttavia a causa dell’interferenza predominante del punto di vista della veglia, la nostra natura essenziale ci è diventata estranea. Sebbene siamo Pura Coscienza, abbiamo la perseverante conoscenza erronea di essere divisi tra io e il resto; l’io conosce il resto con la sua consapevolezza. Nel sonno profondo non c’è questo concetto, dato che c’è solo Pura Coscienza senza alcuna divisione, quindi non c’è alcuno strumento per conoscerlo. È come bendare una persona e porla davanti a un bellissimo palazzo.
Proprio come la gente non sa di calpestare una miniera d’oro, così chi ha il pregiudizio della veglia non conosce Brahman nel sonno profondo, sebbene s’immerga nella Pura Coscienza del sonno profondo giorno dopo giorno (ChU VIII.3.2).
In altre parole, sebbene ciascuno sia per sua natura Pura Coscienza e vi si immerga nel sonno profondo, non è affatto consapevole di ciò. Perciò andare in sonno profondo non è sufficiente. Ciascuno deve avere questa conoscenza proprio in veglia e la può ottenere solamente indagando dal punto di vista universale.
Risposta al quinto dubbio: se la Pura Coscienza diventa un oggetto di conoscenza di veglia, ciò non significa che la natura della conoscenza è cambiata? Come si può conoscerla con questa conoscenza?
Risposta: mettendo da parte la Pura Coscienza per un po’, discutiamo dapprima sulla coscienza di veglia. Per questa coscienza è necessariamente richiesto un oggetto, come tutti sappiamo. Per esempio, quando conosciamo un libro, sorge nella nostra mente il pensiero del libro chiamato conoscenza del libro. Ovviamente il libro è fuori della mente, ma non del pensiero. Forse che la mente si stanca e diminuisce concependo il pensiero del libro per conoscere il libro? No, se vogliamo, possiamo abbandonare il pensiero del libro e concepire un pensiero diverso, come quello di una penna. Ciò prova che la mente non si logora per il numero dei pensieri e rimane intatta. Diciamo pure che questa conoscenza cerca di conoscere se stessa senza alcun oggetto esterno. In questo caso, la mente concepisce un pensiero d’un oggetto che è se stessa. In questo caso, la mente è oggetto e anche soggetto; in altre parole, conosce come soggetto e genera un pensiero come oggetto. Quindi, il pensiero della mente è reale quanto un oggetto esterno come il libro. Ciò non può essere negato, essendo materia della nostra esperienza. Dato che la conoscenza di veglia necessariamente ha bisogno d’un oggetto, se non può avere un oggetto esterno, deve oggettivare se stessa. Per coloro che non sono sādhaka è difficile continuare a oggettivare a lungo la propria conoscenza, poiché la natura della mente è estroversa. Quindi, così facendo, la maggior parte si addormenta. Alcuni entrano ogni tanto in samādhi o transe a causa di questa concentrazione. Non entreremo in dettagli dato che abbiamo deciso di esaminare solo l’esperienza o intuizione universale e non le rare personali esperienze come il samādhi.
Poi dovremmo cercare di oggettivare solo la Pura Coscienza. Come fare? La Pura Coscienza dovrebbe essere contemplata esattamente com’è sperimentata in sonno profondo. Questa contemplazione è diversa da quella della coscienza di veglia. Per conoscere la coscienza di veglia è sufficiente che la stessa veglia diventi il soggetto e l’oggetto. L’intera coscienza di veglia funziona solo mantenendo la relazione soggetto-oggetto, perciò ogni conoscenza deve avere un oggetto. Il caso della Pura Coscienza è differente. Per contemplarla dobbiamo portare l’esperienza del sonno profondo alla mente abbandonando la soggettività della conoscenza di veglia. Non appena perde la sua soggettività, essa stessa va oltre la relazione soggetto-oggetto e diventa Pura Coscienza. Non c’è altro modo per contemplare la Pura Coscienza ovvero il non duale sonno profondo. Sappiamo bene che una larva (kīṭaka) diventa un’ape (bhramara). Sembra quasi impossibile credere che la larva si trasformi in un insetto così diverso. Qui, però, non è affatto impossibile, perché la coscienza di veglia è in realtà anche ora la Pura Coscienza. La sua soggettività è una falsa apparenza dovuta ai nomi e alle forme, che in realtà sono solo Pura Coscienza e si dissolvono nel sonno profondo. Se una persona cerca di capire la Pura Coscienza questa non diventa il suo oggetto; ma quando capisce che essa non è un oggetto, egli stesso perde la sua soggettività e diventa Pura Coscienza. L’Upaniṣad dice
Chiunque conosca il Brahman Supremo, diventa veramente Brahman (MuU III.2.9).
Quindi è veramente possibile conoscere la Pura Coscienza e la dottrina vedāntica non contraddice l’esperienza.
136. Peculiarità della conoscenza della Realtà
Dato che è solo la Pura Coscienza ad apparire dal punto di vista della veglia, assumendo la forma di ogni cosa,
Perfino l’ignoranza è in realtà solo Pura Coscienza (BV II.1.74).
Per questo anche la conoscenza erronea, finché appare, sembra conoscenza vera (samyaj jñāna). Quando cambia la sua forma e assume quella di un’altra conoscenza, di nuovo appare come se fosse conoscenza corretta. Perciò è vero che ogni conoscenza, essendo nella sua reale natura Pura Coscienza, appare reale finché appare. Tuttavia la conoscenza finale della Realtà ha una peculiarità. Questa conoscenza, infatti, dissolve il conoscitore, la conoscenza e l’oggetto di conoscenza in modo che non rimane alcun pensiero di averla capita e anche la conoscenza che dissolve diventa solo Pura Coscienza.
Non c’è alcuna dualità in quella conoscenza (MUGK I.18).
Non ci sarà alcun dubbio se la conoscenza è corretta o meno. Essendo certa è esatto chiamarla vidyā,le altre conoscenze sono solo ignoranza.
137. La suprema Realtà è Esistenza, Coscienza e anche Beatitudine
Finora abbiamo prestato attenzione alla non differenza fra Esistenza e Coscienza nella discussione sulla Realtà dal punto di vista della Coscienza. La Pura Esistenza è Pura Coscienza ed è la nostra natura essenziale per la quale abbiamo massimo rispetto e amore. In sonno profondo la nostra natura non è soltanto Esistenza e Coscienza, ma anche Felicità. Ciò è ben noto dalla sensazione di felicità e soddisfazione della mente che proviamo al risveglio. Se si ritiene che la Pura Felicità nel sonno profondo sia la sorgente e la verità di tutte le esperienze della veglia, sarà utile indagare anche questo aspetto. Se la nostra natura essenziale, oltre a essere Coscienza ed Esistenza, è anche Felicità, con la sua conoscenza otterremo lo scopo ultimo della vita umana. Si discuterà di questo nel prossimo capitolo.
5. Fonte e verità della Felicità
A. Solo l’Ātman è Felicità
138. L’importanza dell’indagine sulla Felicità
È bene studiare il punto di vista della Felicità paragonandolo a quello dell’Esistenza e della Coscienza. Si può prendere in esame qualsiasi cosa solo per curiosità. Generalmente s’intraprendono varie attività per curiosità o per passare il tempo. Ma presto o tardi si provano piacere, avversione o perdita d’interesse, quando la curiosità viene meno. La gente è attratta dai divertimenti per combattere la noia. È impossibile intraprendere un’attività senza avere un’aspettativa o una speranza. L’utilità, dunque, è l’ultimo fine degli sforzi degli uomini.
Domanda: alcuni sostengono che non si dovrebbe avere altro fine se non la ricerca della verità, scopo della filosofia.
Risposta: se non c’è altro vantaggio che quello di conoscere le cose, s’impegnerà su un argomento così futile soltanto chi pensa che la speculazione sia lo scopo della vita. Invece, chi crede che ci sia uno scopo più elevato non sarà interessato a passare il tempo a filosofare.
Domanda: se gli śāstra non offrono alcun beneficio ci si può chiedere che vantaggio ne trarrà il lettore.
Risposta: il Vedānta non è una conoscenza che riguardi vuote speculazioni teoriche al solo fine di soddisfare la curiosità. È uno śāstra per esaminare eper raggiungere un’esperienza. Se lo śāstra afferma che il più alto fine della vita umana può essere raggiunto con doveri rituali o che può essere ottenuto con la cerca del Sé, questa conclusione non ci appaga. Invece il Vedānta insegna che la perfetta Felicità, che tutti cercano, è già nella nostra esperienza se ci rivolgiamo al nostro interno. La si ottiene solo con l’intuizione. L’indagine sul Sé tende a tale scopo e l’esame della Felicità è importante affinché l’indagine sulla Realtà sia completa e fruttuosa.
139. L’opinione corrente sulla Felicità
È ragionevole aspettarsi che anche la Felicità sia la nostra natura essenziale, esattamente come l’Esistenza e la Coscienza. Tuttavia la felicità non è continuamente in noi come l’Esistenza e la Coscienza. Per esempio, siamo felici solo quando vediamo una bella cosa o ascoltiamo un suono piacevole, odoriamo una fragranza, mangiamo una prelibatezza, tocchiamo una cosa morbida o quando abbiamo buoni pensieri. Nel complesso possiamo dire che, diversamente dall’Esistenza e dalla Coscienza, sperimentiamo la felicità solo con qualche associazione (upādhi). Quindi dobbiamo investigare se la Felicità sia veramente la nostra natura o se venga per contatto con oggetti esterni. Dato che il godimento è in noi, possiamo dire che anche la Felicità è in noi; essa necessariamente dipende anche da oggetti esterni, almeno come supporto. Pensiamo che la felicità venga dagli oggetti di godimento in base alla loro qualità, quantità ecc., e quindi li accumuliamo. Ma è solo opinione dei profani che la felicità provenga dal godimento degli oggetti. La gente di un livello un po’ più elevato dice che se è vero che per la felicità si richiede un’associazione esterna, tuttavia non è necessario che si tratti di un oggetto grossolano come un suono ecc.
Anche un’idea, un’immaginazione la rendono possibile, perché è un pensiero o una particolare condizione della mente. È evidente che la gente più colta trae felicità dalla letteratura, dalle scienze o dalla pratica di arti e musica, diversamente da quella della gente comune che trae godimento solo da oggetti esterni.
140. Il Sākṣin è l’essenza di tutta la Felicità
In entrambe le opinioni precedenti sono impliciti due punti:
A) la felicità è un tipo di pensiero o condizione della mente;
B) la felicità dipende da qualche associazione.
Ora è importante discutere se la felicità sta nell’associazione o se viene attraverso quella. Anche in questo caso sarà utile seguire l’esame dei tre stati come si è fatto per l’Esistenza e la Coscienza. Non siamo interessati a conoscere soltanto come sorga la felicità nello stato di veglia, ma anche a identificarne la fonte e la verità. Solo il ragionamento basato sull’esperienza universale potrà scoprirlo. Consideriamo gli stati uno alla volta.
- Nello stato di veglia, come nel caso della conoscenza ‘io conosco questo’ (§ 19), c’è la triade conoscitore, conosciuto e conoscenza; similmente anche il godimento ha queste tre divisioni: lo sperimentatore, lo sperimentato e l’esperienza.
- Come usiamo gli organi di senso per conoscere, così usiamo gli organi di conoscenza e quelli d’azione per godere.
- Come la conoscenza, anche il godimento è un pensiero o condizione della mente (antaḥkaraṇa vṛtti). Il problema è se l’oggetto produca sempre un pensiero di felicità (sukha vṛtti) e, in tal caso, per quale particolare qualità. Se l’oggetto può produrre felicità, dovrebbe produrla sempre ed egualmente per tutti, ma non è così. Un oggetto può rendere felice uno e infelice un altro. La stessa persona può essere talvolta felice e in un altro momento infelice con lo stesso oggetto. Se l’oggetto possedesse una capacità intrinseca di produrre felicità, perché questa alternanza? Se si dovesse essere felici senza un oggetto, perché la mente dà così tanto valore agli oggetti ed è così attaccata a essi? Non c’è risposta a queste domande. Possiamo risolvere questa intricata questione così: un oggetto ci fa felici solo se ci è caro, non altrimenti. Un dolce può attrarre Rāma e dargli felicità, ma disgustare Kṛṣṇa che può assaporare un karela (zucchina amara) e trarne felicità. Entrambi godono dei rispettivi cibi, perché li ritengono graditi. È evidente che qualsiasi oggetto può procurare felicità solo quando c’è ‘amore’ per esso. Da ciò emerge un fatto: dato che l’attrazione appartiene per natura alla mente, l’uomo la trae dal suo cuore, riveste gli oggetti con il suo amore e li rende amabili per sé. Quindi, quando pensiamo che gli oggetti sono la causa della felicità, di fatto la causa reale è l’amore della mente per gli oggetti. Ora sciogliamo un altro nodo. Se l’amore è qualità della mente, perché si ama un oggetto e si prova avversione per un altro? Se gli oggetti non hanno alcuna felicità intrinseca, perché la nostra mente è interessata a essi? Perché soltanto l’amore, che è una condizione della mente, dovrebbe far sorgere la felicità? Perché non tutti i pensieri o condizioni della mente la fanno sorgere?
141. Opinioni sulla relazione tra esperienza e Felicità
Le precedenti domande sono simili a quelle già poste (§§ 91-92) sulla Coscienza. La principale ragione di ciò è che il conoscitore, supporto della coscienza di veglia, è anche il supporto della Felicità. Nel § 97 facevamo riferimento agli antichi naiyāyika che sostenevano quanto segue:
- L’io per natura insenziente, ha la coscienza come sua qualità.
- Anche la felicità è una qualità di Ātman quando è nella forma di io.
- Anche la conoscenza, gioia, sofferenza, desiderio, odio, sforzo, dharma, adharma sono tutte solo qualità di Ātman.
Se non è ragionevole dire che l’insenziente ātman possieda la qualità di coscienza, ciò vale anche per la Felicità.
Alcuni vedāntin, seguaci di Rāmānuja e Madhva, sostengono che come la Coscienza è sia natura sia qualità di Ātman, ciò vale anche per la Felicità. La coscienza, come qualità, non può essere distinta dalla Coscienza come sua natura. Così non si può nemmeno riconoscere alcuna differenza fra qualità e natura della Felicità. Se la felicità non è la natura di Ātman, allora non si può conoscere la Felicità. Questa differenza tra natura e qualità è immaginata solo dal punto di vista della veglia.
142. La Felicità come appare nel fruitore e nella fruizione non è indipendente
1- Ora dobbiamo esaminare l’esperienza ‘io sono felice’. Qui la felicità include la relazione fruizione-fruitore, in quanto qualità e suo possessore. Questa felicità è indipendente o no? Con l’aiuto dello stesso ragionamento usato nel § 96 in riferimento all’Esistenza, sappiamo che la verità del fruitore e della fruizione è il Sākṣin che testimonia l’intero stato di veglia. La Felicità del Sākṣin non proviene da qualcos’altro, perché esso ci è sempre caro. Se essere caro è il segno del suo essere Felicità, allora il Sākṣin è il più caro di tutti. Ogni creatura sulla terra ama qualsiasi cosa altro da Sé solo per amore o per mezzo dell’amore per il Sé. Marito, moglie, figli, ricchezza, casta, dharma, potere, mondo, conoscenza, tutte queste cose ci sono care solo per amore del Sé (BU IV.5.6). Per amore di chi vogliamo gli oggetti? Per amore del proprio Sé. Anche desiderarli per gli altri è solo per il nostro interesse. Più una cosa ci è vicina, più la si ama. In definitiva si ama soprattutto ciò che è più prossimo a Sé.
2- L’amore per Sé non ha bisogno di essere insegnato perché è innato.
Domanda: perché una persona dovrebbe amare se stessa?
Risposta: la scienza dice per l’autoconservazione.
Domanda: perché una persona dovrebbe conservare se stessa?
Risposta: non c’è nessuna risposta oppure si dice che la scienza non ne ha ancora scoperto la ragione. La vera ragione dell’amore per Sé è ‘la causa della felicità è l’essere caro’. Siccome il proprio Sé è il più caro di tutti, questo proprio Sé è il destinatario di tutta la felicità. Se non ci fosse felicità in se stessi, perché ci sarebbe così tanto amore per Se stessi?
3- L’uomo ama qualunque cosa concepisca come io. Egli s’identifica al corpo e per suo amore è pronto ad abbandonare qualsiasi cosa. Dopo una prima indagine sul Sé, pensa che il prāṇa sia più caro del corpo, perché solo quando si è vivi si possono avere piaceri e felicità fisiche. La mente è più vicina al Sé del prāṇa, quindi è più cara del prāṇa. Per amore di un sentimento o di una soddisfazione emotiva, la gente si abbandona alla vita. La soddisfazione emotiva fa vivere più felici. La buddhi è più vicina all’Ātman, quindi è ancora più cara della mente. Il senso dell’io è il più interno di tutti. Questo è ciò che s’intende come io della veglia. Chi si identifica con lo stato di veglia, concepisce erroneamente l’io della veglia o la veglia stessa come la reale natura dell’Ātman.
4- Quando si guarda dal punto di vista della veglia l’esperienza dell’io ha due qualità: la prima è kartṛtva-bhoktṛtva,cioè la qualità di essere agente e di essere fruitore. Dapprima c’è il desiderio (icchā) di ottenere qualcosa o di evitare qualcos’altro; poi il desiderio si esprime con lo sforzo (prayatna) di sperimentare gioia o dolore come risultato (kalam). Tutto questo è una proprietà dell’io. La capacità di agire è kartṛtva, e la capacità di gioire o soffrire dopo aver acquisito gli oggetti è bhoktṛtva. A causa della sua capacità di agire e di fruire, nello stato di veglia il senso dell’io assume la massima importanza. È per questa ragione che gli oggetti, i sensi, la volontà, lo sforzo e il godimento, esistono tutti in funzione dell’azione e della fruizione da parte dell’io, e non per se stessi. La seconda qualità del senso dell’io è jñātṛtva o capacità di conoscere, già discussa nel § 96.
5- Anche la capacità di conoscere è finalizzata all’agire e al fruire. Le cose si conoscono con la capacità di conoscere e, di conseguenza, ci si sforza di acquisire ciò che si desidera e si evita ciò che non si desidera. Si è felici se questi sforzi vanno a buon fine. Tutto questo, cioè conoscere, agire, sperimentare è detto vyavahāra o vita di relazioni. Perciò durante la relazione la conoscenza è mirata agli sforzi, gli sforzi sono mirati al godimento e quindi solo quest’ultimo è il più importante vyavahāra. La gente è deliziata dalla vita mondana (saṃsāra) ritenendola piena di felicità e agisce attivamente per acquisire gli oggetti di godimento, poiché il senso dell’io ha la capacità di fruire. In breve, tutti i processi della vita cessano se non c’è capacità di godimento e, attorno a questa, gira l’intero saṃsāra. Si considerano molto intelligenti coloro che hanno successo nell’ammassare ricchezza od oggetti di fruizione con il minimo sforzo, che si circondano delle persone amate tenendosi lontani da coloro che non piacciono e, se necessario, sopprimendole o mandandole in rovina.
6- Anche se si ha un così grande amore per questo senso dell’io, possiamo dire che esso è l’ultimo oggetto di tutto il nostro amore? Sì, se guardiamo dal punto di vista della veglia. Tuttavia, dal punto di vista universale del Sākṣin, si perde l’eccessiva identificazione con l’io della veglia e si resta Sākṣin, che è il Testimone dell’intero stato di veglia, compresi il senso dell’io, fruitore, fruizione e oggetto di fruizione. Come la nozione dell’io, associata alla capacità di fruire, è l’io più interno dello stato di veglia, così anche il Sākṣin è l’io più interno se lo paragoniamo all’io fruitore, se osservato dal punto di vista universale. Se si riflette in profondità, solo questo è l’ultimo fine dell’io. Quindi, l’amore più grande che abbiamo è solo per Esso che, perciò, è l’ultima fonte e la verità della Felicità.
143. La Felicità è l’essenza dell’io
C’è, dunque, un irresistibile amore da parte di ogni creatura per ciò che considera io. La fruizione (bhoga) e l’oggetto di fruizione (bhogya) sono desiderati solo perché in relazione con io e mio. Senza tale relazione dell’io con gli oggetti non ci può essere fruizione; è per questo che una persona non può godere al posto di un altro. L’io come fruitore, in veglia, usa a suo vantaggio tutte le cose e crea l’illusione in cui solo lui è il ricettacolo della felicità. La qualità di fruitore non è la vera origine della felicità, perché il fruitore talvolta diventa infelice, il che sarebbe impossibile se fosse la sorgente della felicità. L’uomo, che con egoismo pensa che la sua esistenza sia la cosa più importante, si deprime quando alcune cose insignificanti non seguono le sue aspettative. Quando è del tutto senza speranza è pronto a commettere suicidio. Questo prova che fruitore non è il reale significato della parola io, perché è pronto a sopprimerlo. C’è un altro significato dell’io, Testimone di questo io-fruitore: questo Sākṣin-Testimone è la nostra vera naturadi Felicità, perché non può mai essere detestato né abbandonato. Quando si guarda dal punto di vista del Sākṣin, la precedente identificazione con l’io-fruitore s’indebolisce. La felicità che appariva nell’io fruitore e, per suo tramite, nei pensieri e negli oggetti, è in realtà solo il Sākṣin, fonte originaria e verità di tutta la Felicità. La Taittirīya Upaniṣad illustra dapprima cinque ātman immaginati da avidyā: annamaya, fatto di cibo, prāṇamaya, fatto di prāṇa, manomaya, fatto di mente, vijñānamaya, fatto d’intelletto, ānandamaya, fatto di felicità. Infine insegna il reale Ātman della natura di Beatitudine, che è la sorgente e la verità di tutte le varie esperienze di felicità. In questa lista di ātman il manomaya ātman è il conoscitore (jñātā) degli oggetti, vijñānamaya ātman è il kartā che determina e agisce e ānandamaya ātman è il bhoktā, che è il più interno di tutti. Lo stesso ānandamaya è ciò a cui ci si riferiva come io, avente la capacità di fruizione. La śruti così parla di lui:
La cosa più cara è la sua testa perché il fruitore è più caro di qualsiasi altra cosa. La gioia è la sua mano destra, la letizia è la sua mano sinistra; la sua essenza è il Sākṣin della natura di Felicità (TaiU II.5.1).
Se si capisce questo non si trova differenza né divisione nella natura del Sākṣin.
B. I gradi della Felicità
144. I tre livelli della Felicità
Domanda: se la Felicità è realmente il vero Ātman senza differenze e divisioni, come avvengono gli stati e la distinzione di felicità e dolore che si ritrova in essi? Se accettiamo che felicità e dolore non sono egualmente sperimentati da tutti, ma in gradi diversi, è possibile aiutarsi o danneggiarsi reciprocamente. Se la felicità non è negli oggetti, perché il contatto con essi è diventato indispensabile per ottenerla? Questo non prova che c’è un certo tipo di felicità negli stati?
Risposta: si può dare la stessa risposta che abbiamo già dato a proposito dell’Esistenza e della Coscienza, dividendo la Felicità in tre livelli.
- La Felicità del Sākṣin che testimonia gli stati è veramente reale (pāramārthika) perché non proviene da altri. Non dipende da tempo, spazio e causa; non ha inizio né fine, ma rimane sempre la stessa.
- Il seguente livello di felicità sorge a causa degli oggetti esterni e dura fintanto che c’è relazione con essi. Questa è chiamata felicità relativa o empirica (vyāvahārika).
- Una felicità temporanea può insorgere anche da cose immaginate. Per esempio, una persona può pensare che liberarsi dal dolore sia felicità; o quando una persona toglie un peso dalla testa, può pensare che questa sia felicità; un altro può ritenere che la felicità sia superare una malattia. Se una persona invidiosa vede che un suo rivale ha perso denaro, si sente felice. Questa felicità che insorge da cose immaginate, immaginarie o apparenti è chiamata prātibhāsika, felicità immaginata. Vedendo l’argento nella madreperla della conchiglia, una persona può sentirsi felice. La divisione della felicità in questi tre livelli non si trova nei testi vedāntici tradizionali, com’è invece nel caso dell’Esistenza e della Coscienza. Tuttavia non è sbagliato seguire la stessa logica.
145. La felicità empirica è in realtà solo Pura Felicità
La felicità empirica, infatti, è solo la reale Felicità e non qualcosa di differente (§ 99). Śaṃkara dice:
Quando vari oggetti di godimento vengono a noi a causa dei meriti (puṇya) del nostro karma passato, allora un particolare pensiero della mente lo copre e come risultato diventa puro. Allora la felicità dell’Ātman come Sākṣin si riflette nel pensiero della mente. L’oggetto esterno aiuta, ma non produce l’apparizione della felicità, anche se la gente la chiama felicità prodotta dall’oggetto. […] Inoltre la gente non riconosce che questa felicità nata dagli oggetti esterni è una qualità di Ātma. (TUŚBh II.5.1)
Tuttavia la felicità è solo l’essenziale natura dell’Ātman e non la sua qualità, perché esso non ha nascita, morte ecc. esattamente come quel che riguarda la Coscienza, com’è stato discusso nel § 102. È vero che la gente sperimenta la felicità a diversi gradi. C’è una spiegazione in questa citazione:
Più ci sono le qualità di salute, forza, conoscenza, ascesi, controllo, distacco ecc. maggiore è la felicità che appare nella mente. (TUŚBh II.5.1)
Tuttavia non si deve pensare che in questi casi la Felicità realmente vari in grado e qualità, da persona a persona o nella stessa persona in tempi diversi. Come s’è già detto, una e una sola Felicità appare in gradazione nei vari stati della mente. Perciò la śruti dice
Egli solo rende tutti i jīva felici. (TaiU II.7.1)
Tutte le creature vivono soltanto con poche gocce di questo oceano di Felicità. (BU IV.3.32)
146. Le variazioni nella Felicità sono dovute a Māyā
Obiezione:
- Il Sākṣin-Coscienza e lo stato che testimonia sono differenti.
- Nello stato c’è la divisione fra me e il resto; la felicità è a vari gradi a causa del contatto con vari oggetti. Essendo questa la nostra esperienza, come puoi dire che la felicità insorge senza alcun oggetto?
- Tu dici che la felicità è una e indivisa nella nostra esperienza. Ma, contrariamente a questo, affermi che ci sono tre livelli di felicità: reale, empirico e apparente.
- Se l’infelicità è sempre diversa dall’esperienza della felicità, non è un ottimismo irrealistico dire che tutto è solo Felicità?
Risposta: rispondiamo prendendo in considerazione anche il sogno e il sonno profondo, come nel caso della Coscienza (§ 103-104).
- Il Sākṣin non è limitato a uno stato, e gli stessi stati non possono esistere indipendentemente dal Sākṣin. Questo prova oltre ogni dubbio che gli stati e la felicità che appare in essi non sono altro che il Sākṣin.
- Sebbene in sogno vediamo felicità e infelicità causate da oggetti vari, come pure gradazioni nella loro esperienza, la triplice divisione di fruitore, fruizione e oggetto di fruizione, è una mera apparenza. Di fatto noi riteniamo che non esistano affatto. Tuttavia questo stesso Sākṣin testimonia l’apparente tripuṭi (la triplice divisione). Non c’è nessun’altra fonte per tutta l’apparente felicità e infelicità, eccetto il Sākṣin, che è della natura di Felicità.
- Quindi, anche nella veglia, i tre livelli di felicità, come pure la divisione fra felicità e infelicità, non sono altro che il Sākṣin della natura di Felicità. Questo dal punto di vista universale, cioè del Sākṣin.
- L’infelicità, immaginata da un pessimista, è in realtà solo Felicità. Quindi l’ottimista che vede ogni cosa come felicità è in armonia con la verità. Con ottimismo intendiamo il punto di vista comprensivo del Sākṣin. Se non si assume questo punto di vista, rimanendo solo nell’ottica della veglia, essere ottimisti non funziona e l’infelicità non scompare; e se diciamo che non c’è infelicità è solo un’affermazione audace che nega il fatto. L’ottimismo della mente della veglia è solo un sofisma. Così il conflitto tra l’ottimista e il pessimista non può essere rimosso solo con la logica della veglia.