15 Agosto, 2021

🇮🇹🇬🇧 Carlo Rocchi: Alātaśānti – L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti

🇮🇹 Carlo Rocchi: Alātaśānti – L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti, Durham, Ekatos Edizioni, 2021. DID 3133793. Pp. L + 499.

È con grande soddisfazione che annunciamo la pubblicazione di un libro, il cui autore è da qualche anno un nostro stretto collaboratore. Il dott. Carlo Rocchi è stato particolarmente colpito dalle invereconde reazioni che una rivista di ispirazione guénoniana ha riservato al sito web Veda Vyāsa Maṇḍala fin dalla sua nascita. Il nostro sito ha lo scopo di esporre in favore dell’ambiente occidentale interessato, la dottrina indiana della non dualità (Advaitavāda) e di altre vie iniziatiche più particolarmente intellettuali della medesima Tradizione Primordiale (Sanātana Dharma), con l’apporto e l’autorizzazione di un certo numero dichiarato di Guru, Ācārya e Saṃnyāsin. Le reazioni di alcuni ambienti ottusamente guénoniani è stata particolarmente scomposta e volta soprattutto a delegittimare la persona degli autori di lavori riguardanti il Vedānta, non soltanto occidentali, ma perfino gli stessi esponenti delle catene iniziatiche di Brahma Vidyā, che non raramente producono degli scritti affinché appaiano su Veda Vyāsa Maṇḍala. Evidentemente la comparsa di un centro che rappresenta una tradizione di metafisica pura ha disturbato il clima di presunto monopolio della tradizione in chiave guénoniana che alcuni gruppi di convertiti all’islam pensano aver consolidato in Italia.

L’Autore del libro recensito ha voluto ribattere alle critiche sul blog di Ekatos, riportando la discussione al livello della dottrina, con un articolo, intitolato Advitīya Caitanyavāda: fu accolto con una valanga di improperi. Tuttavia, poiché il dott. Rocchi aveva sfidato i nostri detrattori sul piano dottrinale, alcuni hanno voluto rispondergli per le rime, avventurandosi in campi a loro ignoti. Tutti i loro sforzi sono stati indirizzati al tentativo di dimostrare che l’insegnamento metafisico del Taṣawwuf è esattamente uguale a quello dell’Advaitavāda. A tal fine, consapevoli di non essere all’altezza per una simile discussione, si sono rivolti ad accademici che essi hanno ritenuto esperti di Taṣawwuf, Vedānta e persino di Buddhismo, dimentichi che l’erudizione priva della vera conoscenza conduce a concatenati errori d’interpretazione. Tuttavia, poiché in molti casi la differenza tra le dottrine sufiche e la dottrina di Śaṃkara è sin troppo evidente, quei pseudo ṣufi si sono permessi di correggere il grande Ācārya arrivando anche a modificare il senso di diversi passaggi upaniṣadici. La loro ignoranza di Vedānta è solo seconda alla sicumera con cui espongono le loro fantasie antitradizionali. Inoltre, è evidente che il loro incontrollato furore polemico sorge dal timore che i loro lettori possano riconoscere che la nostra è stata una asettica messa a punto dottrinale e non un desiderio di svalutazione delle vere dottrine sufiche. Infatti, se si legge ciò che è stato scritto su Veda Vyāsa Maṇḍala circa il Taṣawwuf si constaterà che in nessuna parte i collaboratori hanno dimostrato disprezzo o volontà di interpretarne in modo scorretto gli insegnamenti. Ciò che si è evidenziato, testi alla mano, è che le dottrine più elevate del sufismo appartengono comunque a ciò che in India è definito conoscenza del non-Supremo. Deve, dunque, essere inteso nel senso che il percorso iniziatico sufico può efficacemente essere intrapreso per purificare la mente al fine di accedere alla via della conoscenza, purché, ovviamente, il maestro sia vero e il discepolo qualificato a raggiungere tale scopo. Questo, tuttavia, non consente a nessuno di forzare le caratteristiche delle dottrine islamiche al fine di sostenere che esista una via della conoscenza sufica paragonabile all’Advaitavāda.

Tutto questo voluminoso scritto di Carlo Rocchi è inteso a dimostrare testualmente, logicamente e intuitivamente questa realtà incontrovertibile. In questo modo l’Autore demolisce con ampie citazioni e con l’uso della logica i più gravi errori di metafisica sostenuti come verità di fede dai nostri contestatori e dai loro consulenti accademici: per esempio che l’Assoluto sia un ‘Principio’; che esista una realtà assoluta e una ‘relativa’; che l’Advaita sostenga una dottrina della causalità; che l’informale sia una manifestazione reale come sonno profondo e non un pensiero illusorio della mente della veglia; che la māyā sia una entità che manifesta positivamente il mondo e non una immaginazione creata dall’individuo; che il tribhuvana sia identico all’avasthātraya e altre numerose concezioni errate. Qualcuno dei nostri denigratori, un po’ più colto, ha anche verificato che il tribhuvana appare nel Mahābhārata, mentre è assente nella śruti. Il fatto è che se il termine è effettivamente non śrauta, la dottrina dei tre loka è ben presente nelle Upaniṣad. Non ci si può improvvisare esperti di Vedānta partendo da una teologia islamica radicata nella mente e da una preparazione libresca, senza aver mai avuto il minimo contatto diretto con maestri di tale tradizione. Qualcuno ci ha chiesto com’è che noi siamo tanto sicuri della assenza di tali loro contatti. La risposta è che è del tutto evidente poiché di Advaita non ne sanno nulla.

Ovviamente, essendo Alātaśānti un documento in risposta ai spesso grossolani e derisori attacchi di cui è stato bersaglio, ogni tanto l’Autore non ha potuto astenersi da sottolineare l’incapacità di comprensione, l’ignoranza e la malafede dei suoi contraddittori. Il risultato è un godibilissimo testo di studio sull’autentico Advaita Vedānta, scevro dalle limitazioni mentali accademiche e dal guénonismo retto a sistema dogmatico. Gli occidentali che si sono avvicinati o che sono entrati in qualche tradizione sono partiti dalla lettura dei libri di René Guénon, generalmente più attratti da quella de L’Homme et son devenir selon le Vêdânta che non dalla prospettiva islamica. Nondimeno i più qualificati hanno potuto poi verificare che l’approccio guénoniano al Vedānta era falloso in diversi punti. Altri hanno deciso di rimanere nella erronea prospettiva guénoniana di un Vedānta-Sāṃkhya a tappe, facendo di essa il loro Forte di Masada. Tuttavia, non solo comprendiamo la psicologia dei nostri contestatori, in quanto anche noi abbiamo sofferto a lungo della medesima obnubilazione critica, ma siamo persino loro grati per la polemica sgangherata che hanno voluto scatenare. Infatti, erano diversi anni che non leggevamo più le opere di Guénon poiché, pur essendogli grati, non lo ritenevamo più utile, avendo a disposizione i testi della paramparā śaṃkariana e i maestri viventi di tale tradizione. La polemica ci ha indotti a riprendere in mano ciò che scrisse Guénon sull’Advaitavāda, rilevando la sua scarsa conoscenza dell’argomento e gli errori che ne sono derivati, cosa che a suo tempo ci era sfuggita. Ciò è stato di estrema utilità per bruciare le ultime scorie di un sistema che non corrisponde alla vera tradizione. Il libro del dott. Rocchi va quindi valutato come un testo che può indirizzare il lettore attento, sincero e intelligente verso la purificazione mentale propedeutica alla via della conoscenza, evitando le false interpretazioni teologiche sovrapposte al vero Advaitavāda.

Gian Giuseppe Filippi

🇬🇧 Carlo Rocchi: Alātaśānti – Lo spegnimento delle teste calde, Durham, Ekatos Edizioni, 2021. DID 3133793. Pp. L + 499.

It is with great satisfaction that we announce the publication of a book, the author of which has been a close collaborator of ours for some years. Dr Carlo Rocchi has been particularly struck by the unleashed reactions that a Guenonian-inspired magazine has reserved for the Veda Vyāsa Maṇḍala website since its inception. The purpose of our site is to expound the Indian doctrine of non-duality (Advaitavāda) and other among the more intellectual initiatic paths of the same Primordial Tradition (Sanātana Dharma) for the benefit of the interested Western seekers, with the contribution and approval of a number of Gurus, Ācāryas and Saṃnyāsin. The reactions of some dully Guenonian circles have been particularly discomfited and aimed above all at delegitimizing the authors of works on Vedānta, not only Westerners, but even the very exponents of the initiatic chains of Brahma Vidyā, who often produce such writings so that they might appear in Veda Vyāsa Maṇḍala. Evidently the appearance of a centre representing a tradition of pure metaphysics has sent shockwaves across some circles of Italian converts to Islam who pretende to have the monopoly of tradition from Guenonian perspective.

The author of the book here reviewed wanted to reply to their criticism appeared on the Ekatos blog, bringing the discussion back to the level of doctrine with an article entitled Advitīya Caitanyavāda. This was greeted with a great deal of abuse. However, since Dr. Rocchi had challenged our detractors on the doctrinal level, some replied to him in kind, venturing in what for them was uncharted teritory. All their efforts were focused on proving that the metaphysical teaching of the Taṣawwuf is exactly the same as that of the Advaitavāda. To this end, knowing that they were not up to such an argument, they turned to academics whom they considered experts in Taṣawwuf, Vedānta and even Buddhism, forgetting that mere erudition deprived of true knowledge leads to chained errors of interpretation. However, since in many cases the difference between the Sufic doctrines and the doctrine of Śaṃkara was too obvious, those pseudo ṣufi took the liberty of correcting the great Ācārya even going so far as to change the meaning of several upaniṣadic passages. Their ignorance of Vedānta is only second to the arrogance with which they expound their anti-traditional fantasies. Moreover, it is evident that their uncontrolled polemical fury arises from the fear that their readers might see that our doctrinal view is not biased and it is free from the intent to devalue the true sufic doctrines. Indeed, anyone indulging in the Veda Vyāsa Maṇḍala readings will soon find out that there is no contempt or wish to present the Tassawuf teachings in a denigratory fashion. What has been pointed out, texts in hand, is that the highest doctrines of Sufism belong in any case to what in India is called knowledge of the non-Supreme. This is to be understood in the sense that the sufi initiatic path can be effectively undertaken to purify the mind in order to access the path of knowledge, provided, of course, that the master be authentic and disciple qualified to achieve this end. This, however, does not allow anyone to force the characteristics of Islamic doctrines in order to claim that there is a sufic path of knowledge comparable to Advaitavāda.

Obviously, Alātaśānti being a document in response to the often crude and derisive attacks it has been the target of, the author could not refrain from pointing out the lack of understanding, ignorance and bad faith of its contradictors. The result is a very enjoyable study text on the authentic Advaita Vedānta, free from academic mental limitations and from Guenonism regimented as a dogmatic system. Most Westerners who have approached or adhered to some tradition have generally started from René Guénon’s books, certainly more attracted by L’Homme et son devenir selon le Vêdânta than by Islamic perspective. Nevertheless the most qualified ones were then able to verify that Guénon’s approach to the Vedānta was flawed in several points. Others, however, decided to remain in the erroneous Guenonian perspective of a Vedānta-Sāṃkhya in steps, making it their Masada Fortress. However, not only do we understand the psychology of our disputants, as we too have long suffered from the same critical obnubilation, but we are also grateful to them for the ramshackle polemic they have been willing to unleash. It has been a few years now since we last tapped into Guenon’s books. Although grateful to him we teamed him no longer useful having at our disposal the texts of the śaṃkarian paramparā and the living masters of that tradition. The controversy induced us to take up again what Guénon wrote on the Advaitavāda, noting his lack of knowledge on this subject and its resulting errors, something that had eluded us at the time. It has been extremely useful to depart from a system not corresponding to the pure advitīya tradition. Dr Rocchi’s book should therefore be evaluated as a text that can direct the attentive, sincere and intelligent reader towards mental purification and the path of knowledge, avoidong the false theological interpretations superimposed on the true Advaitavāda.

Gian Giuseppe Filippi

64. Revolutions and ‘people power’

Revolutions and ‘people power’

Until the 18th century, the word revolution meant the conclusion of a circular movement, a return to the point of origin, the restoration of a primordial order. The Latin term revolutio, in normal times, was applied both to space to especially describe the periodic orbital paths of celestial bodies, and to time to indicate the renewal of chronological situations, from the alternation of night and day to the precession of the equinoxes. The elimination of the traditional mentality has profoundly changed and even reversed its original meaning. In modern times, revolution is understood as the violent overthrow of the established order by the mercantile and servile components of society in order to establish a new political, social and economic system for the implementation of a given ideology. For instance, it became customary to define revolutions that of Cromwell, as well as, the American one, although the former was more properly a civil war and the latter a war of independence.

Also before that time, mutinies, insurrections, revolts and uprisings had occurred, but almost all of them were eventually suppressed by the legitimate power. If they succeeded, they did not affect the mentality of an entire continent, remaining a temporary, limited and local phenomenon. Therefore, without hesitation we can define as revolutions those episodes that overthrew the traditional legitimate power, and were historically imposed by consecrating their illegitimacy as a new self-proclaimed ‘rule of law’.

It must be added, however, that by the end of the Middle Ages the traditional feudal order had degenerated into absolutism, particularly in the Kingdom of France. The nobles were prompted to abandon their castles and move to Versailles, transformed into bumbling courtiers. Those who refused to live as parasites at the royal court were effectively excluded from the halls of power, their castles were turned into defenceless villas (the French chateaux) and the walls of their towns and villages were dismantled. These aristocrats, downgraded to ‘aristocratics’, began to harbour a muted hostility to absolute monarchy and this explains (but does not justify) the participation of some of them in the revolution.

The term ‘revolution’, therefore, is properly suited to the French revolution that decreed the end of the ancien régime. In fact since the French revolution the term was used (also retrospectively) to define any epochal change that was antagonistic to the previous order: Christian revolution in an anti-Roman imperial sense, scientific revolution in an anti-Tolemaic sense, industrial revolution against artisan production, cultural revolution against all wisdom of the past, sexual revolution against the common sense of decency.

Applied in this translational sense, revolution simply means the overthrow of anything conforms to the natural order recognised by all men of sound mind. In the historical-political sense, however, it means the extermination of a dominant social class and its replacement by a subordinate one. From this perspective, the Puritan revolution led by Cromwell in England and the American revolution are not really revolutions, since the former, despite the beheading of the sovereign, saw an alliance between a part of the nobility and the upper middle class united by Calvinism; the latter, on the other hand, represented the struggle of a petty-bourgeois colony against a power now considered as foreign, England. There was no real substitution of social classes in the government of public affairs, it was mainly a matter of nationality.

On the contrary, the French and the Bolshevik Revolutions can be considered as such for aiming to a partial or total extermination of the upper classes. The French revolution attempted the extermination of the aristocracy and the high clergy, and it almost achieved this by replacing them with the bourgeoisie at the head of the State. The Bolshevik revolution targeted the bourgeoisie in particular, effectively wiping it out of Russia, along with the clergy and nobility. Another notable difference is that the Anglo-Saxon revolutions were real wars, whereas the French and Communist revolutions were coups perpetrated by demagogues skilled in fomenting discontent and social agitators. The Fascist revolution in Italy and the National Socialist revolution in Germany belonged to this same category.

Before going any further, however, it is necessary to point out that all revolutions, from the puritanical English one to the present day ones, have been inspired and led by bourgeoisie, skilful manipulators of the emotions of the people, i.e. ‘useful idiots’. This is the continuous common thread linking liberalism, democracy, socialism and totalitarian regimes, all inspired by the middle class. In reality, the common people are unable to elaborate or allow themselves to become involved in ideologies due to a lack of education and culture. The servile classes, too busy with daily survival, are alien to deformations and vicious cerebral lucubrations; they are, however, easily incited by ‘committed’ demagogues to envy and class hatred. Once wrath has died down, the common people return to submit to their new masters with servile obedience.

Like the American Revolution, the French one began as a protest against the excessive taxation used by the crowns of England and France to balance their public finances. Undoubtedly these rebellions gave rise to the delinquent democratic and popular political systems now predominant throughout the world, that, instead of the infamous medieval tithes, can take up to fifty per cent of a citizen’s income from direct taxation alone.

The French Revolution claimed more than six hundred thousand victims among its own citizens, slain for their loyalty to the monarchy or to the Catholic Church. Thisis yet another ruthless legacy inherited by the bloody popular regimes of the 20th century, that it is always shamefully praised by liberal democrats and socialists. In fact, this aberration still goes on in the French republican regime, that even nowadays provides asylum and protection to guerrillas and terrorists of other nationalities.

Many revolutionaries were Freemasons. In reality, the majority of Freemasons remained loyal to the monarchy, precisely because they were involved in high “knightly” ranks that harked back to a medieval type of loyalty. Certainly the agnostic and atheistic Enlightenment was a fundamental source of the French Revolution: the cult of the “Goddess of Reason” with its farcical rituals was merely an insult to the Catholic and monarchical tradition of France.

In fact, the secular, anti-religious mentality came from the circles of so called Hermeticists, Rosicrucians, alchemists and Christian Qabbalists already described in the previous chapters. Their hidden influence made even French ecclesiastical circles sceptical, and from 1740 onwards these stopped prosecuting e the crimes of magicians and sorceresses. As a result of this laxity, there was a spread of magic at all levels: country witchcraft, collective possessions, and, at salon and lodge level, animal magnetism and somnambulism. The Enlightenment in this manner confirmed its scepticism, atheism and anti-religionism, but it was at the same time imbued of experiments based on the most frightening psychism, the indisputable heir of Renaissance occultism. The climate of Terror, the unleashed madness of popular rituals addressed to the Goddess Reason and the Tree of Liberty, the spread of country witchcraft and ceremonial magic in the drawing rooms, could only end in a dictatorship with which Napoleon Buonaparte tried to institute some bourgeois order. In reality, his intervention in history completely unhinged the equilibrium in the rest of Europe. In fact, even after his fall, the continent was never able to return to normal and the restoration of the status quo ante was a complete failure.

Maria Chiara de’ Fenzi


64. Rivoluzioni e ‘potere popolare’

64. Rivoluzioni e ‘potere popolare’

Fino al XVIII secolo la parola rivoluzione significò conclusione di un movimento circolare, ritorno al punto di origine, restaurazione di un ordine primigenio. Il termine latino revolutio, in tempi normali, era applicato allo spazio per indicare i percorsi orbitali periodici soprattutto dei corpi celesti, e al tempo per indicare il rinovellarsi delle situazioni cronologiche, a partire dall’alternanza notte-dì fino alla precessione degli equinozi. La rimozione della mentalità tradizionale ne ha mutato profondamente e persino invertito il senso. Con rivoluzione, in epoca moderna, s’intende il rovesciamento violento dell’ordine stabilito da parte delle componenti sociali mercantili e servili, al fine di fondare un nuovo sistema politico, sociale ed economico quale messa in pratica di una determinata ideologia. Per questo motivo è in uso definire rivoluzione quella puritana capitanata da Cromwell e quella americana, sebbene la prima sia stata più propriamente una guerra civile e la seconda una guerra d’indipendenza. Anche prima di allora si erano verificati ammutinamenti, insurrezioni, rivolte e sollevazioni, ma quasi tutti alla fine erano stati repressi dal potere legittimo. Qualora fossero stati coronati da successo, non avevano influito sulla mentalità d’un intero continente, restando un fenomeno temporaneo, circoscritto e locale. Perciò si può affermare senza remore che tra gli episodi di rovesciamento del potere legittimo tradizionale possono essere considerate rivoluzioni quelle che si sono imposte storicamente consacrando la loro illegittimità come un nuovo autoproclamato ‘stato di diritto’.

Si deve, tuttavia, aggiungere che alla fine del Medioevo l’ordine tradizionale feudale aveva subito una degenerazione in senso assolutistico, in particolare nel Regno di Francia. I nobili furono indotti ad abbandonare i loro castelli e a trasferirsi a Versailles, trasformati in cortigiani imbelli. Quelli che rifiutarono di vivere da parassiti presso la Corte reale furono esclusi di fatto dalle stanze del potere, i loro castelli furono trasformati in ville indifese (i chateaux francesi) e le mura delle loro città e borghi furono smantellate. Questi aristòcrati, declassati ad aristocratici, cominciarono a nutrire una sorda ostilità nei confronti della monarchia assoluta e questo spiega (ma non giustifica) la partecipazione di alcuni di loro alla rivoluzione.

Il termine rivoluzione, perciò, si addice propriamente a quella francese che decretò la fine dell’ancien régime. Fu soprattutto a causa dell’affermazione della rivoluzione francese che tale termine fu usato (anche retrospettivamente) per definire qualsiasi cambiamento epocale che fosse antagonista dell’ordine precedente: rivoluzione cristiana in senso antimperiale romano, rivoluzione scientifica in senso antitolemaico, rivoluzione industriale contro la produzione artigianale, rivoluzione culturale contro ogni saggezza del passato, rivoluzione sessuale contro il comune senso del pudore. Applicato in questo modo traslato, rivoluzione significa semplicemente rovesciamento di ciò che è conforme all’ordine naturale riconosciuto da tutti gli uomini provvisti di una mente sana. In senso storico-politico, invece, vuol significare lo sterminio di una classe sociale dominante e la sua sostituzione da parte di una subordinata.

Se si considera in questa prospettiva, quella puritana guidata da Cromwell in Inghilterra e quella americana non sono propriamente delle rivoluzioni, in quanto la prima, indipendentemente dalla decapitazione del sovrano, vide un’alleanza tra certa nobiltà e l’alta borghesia affratellate dal calvinismo; la seconda, invece, rappresentò la lotta di una colonia piccolo borghese contro una potenza ormai considerata straniera, l’Inghilterra. Non vi fu una vera e propria sostituzione di classi sociali al governo della cosa pubblica, ma di nazionalità. Al contrario, la rivoluzione francese e quella bolscevica possono essere considerate delle rivoluzioni per la volontà di sterminio parziale o totale delle classi superiori. La rivoluzione francese tentò lo sterminio dell’aristocrazia e dell’alto clero, arrivando quasi a raggiungere questo obiettivo, sostituendoli al comando dello stato con la borghesia. La rivoluzione bolscevica prese di punta soprattutto la classe borghese, facendola di fatto sparire dalla Russia, assieme al clero e alla nobiltà. Un’altra differenza notevole è che le rivoluzioni d’ambiente anglosassone furono delle vere e proprie guerre, mentre quelle francese e comunista furono dei colpi di stato perpetrati da demagoghi esperti a fomentare malcontento e da agitatori sociali. A questa stessa categoria appartennero le rivoluzioni fascista in Italia e nazionalsocialista in Germania che, in realtà, s’impadronirono del potere in forma del tutto morbida. Prima di proseguire, è però necessario evidenziare che tutte le rivoluzioni, a partire da quella inglese puritana fino a oggi, sono state ispirate e guidate da borghesi, abili manipolatori delle emozioni delle masse popolari, ovvero degli ‘utili idioti’. È questo il filo di continuità tra liberalismo, democrazia, socialismo e i regimi totalitari, tutti fenomeni di ispirazione del ceto medio. In realtà il popolino non è in grado di elaborare né di lasciarsi coinvolgere in ideologie per carenza di formazione e di cultura. I ceti servili, troppo impegnati nella sopravvivenza quotidiana, sono alieni dalle deformazioni e viziose elucubrazioni cerebrali; sono però facilmente sensibilizzati da demagoghi ‘impegnati’ all’invidia e all’odio di classe. Una volta spentasi la spinta del furore, il popolino ritorna a sottomettersi ai nuovi padroni con servile obbedienza.

Come la rivoluzione americana, anche quella francese ebbe inizio dalla protesta contro l’eccessiva tassazione con cui le corone d’Inghilterra e di Francia cercavano di riequilibrare le finanze pubbliche. Certamente da questi atti di ribellione ebbero origine i delinquenziali sistemi politici democratici e popolari attualmente predominanti a livello planetario, che arrivano a sottrarre al cittadino fino al cinquanta percento del reddito soltanto con le imposte dirette, al posto delle vituperate decime medievali.

La rivoluzione francese fece più di seicentomila vittime tra i suoi stessi cittadini, uccisi per fedeltà alla monarchia o alla chiesa cattolica.

Anche questo è una spietata eredità, raccolta dai sanguinari regimi popolari del XX secolo, vergognosamente sempre inneggiata da democratici liberali e socialisti. In questa aberrazione eccelle il regime repubblicano francese che ancor oggi assicura asilo e protezione a guerriglieri e terroristi di altre nazionalità. Molti rivoluzionari furono massoni. Per la verità la maggioranza dei framassoni rimase fedele alla monarchia, proprio perché coinvolta in alti gradi “cavallereschi” che si richiamavano a una lealtà di tipo medievale. Certamente l’illuminismo agnostico e ateo fu una fonte fondamentale per lo scatenamento della rivoluzione francese: il culto per la “Dea Ragione”, con i suoi rituali caricaturali, fu soltanto uno sfregio inflitto alla tradizione cattolica e monarchica dei francesi.

In realtà la mentalità laica e antireligiosa proveniva da ambienti formati da pretesi ermetisti, rosacruciani, alchimisti e qabbalisti cristiani di cui si è trattato nei capitoli precedenti. La loro influenza invisibile rese scettici perfino gli ambienti ecclesiastici francesi che, a partire dal 1740, tralasciarono di perseguire maghi e fattucchiere. A seguito di tale lassismo si verificò un dilagare della magia a tutti i livelli: stregoneria di campagna, possessioni collettive, e, a livello salottiero e di loggia, magnetismo animale e sonnambulismo.

L’illuminismo, così, si confermò scettico, ateo e antireligioso, ma, al tempo stesso, pregno di sperimentazioni basate sullo psichismo più temibile, chiaramente erede dell’occultismo rinascimentale.

Il clima di terrore, la follia scatenata dei rituali popolari indirizzati alla Dea Ragione e all’albero della libertà, il dilagare della stregoneria di campagna e della magia cerimoniale nei salotti, non poteva che finire in un regime totalitario con cui Napoleone Buonaparte cercò di riportare un po’ di ordine borghese con la sua dittatura personale. In realtà il suo intervento nella storia scardinò del tutto la situazione europea: infatti, anche dopo la sua caduta la situazione non poté più ritornare normale e la restaurazione dello status quo ante fu del tutto fallimentare.

Maria Chiara de’ Fenzi