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27 Dicembre, 2020

1. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

    1. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    Nonostante che su queste pagine sia già stato trattato approfonditamente il tema del mahāvākhya Tattvamasi1, riteniamo di doverci tornare per chiarire particolari che alcuni tra i nostri lettori potrebbero non aver colto. Dai loro messaggi si evince, infatti, la difficoltà di liberarsi da schemi precostituiti dovuti a una formazione culturale tutta occidentale e dalla lettura di testi che solo parzialmente li ha edotti sulla realtà del Vedānta. Per cercare di comprendere la dottrina śaṃkariana è infatti necessario aver esercitato la mente nel suo complesso (antaḥkaraṇa) alla flessibilità, al distacco da qualsiasi condizionamento sistematico e al riconoscimento dell’intuizione qualora si presenti; cosa, altresì, estremamente difficile, per la quale è evidente che sia qualificato solamente chi ha raggiunto un alto grado di maturità e nella via della purificazione mentale. A questo scopo, ci avvarremo anche di un illuminante upadeśa che ci è stato trasmesso direttamente.

    I mahāvākhya rappresentano l’essenza di tutto l’insegnamento delle Upaniṣad. Nella Grande Frase che è argomento di queste righe non è sintetizzato un solo aspetto della dottrina, ma, in verità, la totalità della conoscenza intuitiva che gli advaitin usano come ‘metodo’ per la realizzazione (sākṣāt sādhana). Usiamo le virgolette in quanto tale parola può indurre la mente a pensare falsamente a qualcosa che debba essere agito al fine di raggiungere una meta. Se questo è vero per le vie iniziatiche del karma kāṇḍa, ‘metodo’ nell’ambito della conoscenza pura è del tutto svincolato da qualsiasi azione. Non ci si deve lasciare ingannare dal fatto che il ‘metodo’ del Vedānta vicāra procede per discriminazione (viveka). L’intelletto individuale (buddhi), infatti, è lo strumento usato per discriminare, e l’intelletto, per sua natura prākṛtika, è composto dai tre guṇa, principi di motilità, azione e divenire. Come tale, il viveka appare agli ignoranti come fosse un’attività della mente (mānasa kriyā). Tuttavia questa è pura apparenza. La smṛti, infatti, afferma:

    Chi vede l’azione nella non azione e la non azione nell’azione è il vero saggio tra gli esseri umani. Qualunque azione compia, egli rimane uno yogi (BhG IV.18).

    Azione significa ciò che si fa, un atto in generale. La non-azione può essere vista nell’azione, e l’azione nella non-azione, poiché sia la non azione (nivṛtti) sia l’azione (pravṛtti) presuppongono un agente. Infatti tutta la nostra esperienza di cose come l’azione e l’agente è possibile soltanto in uno stato di desiderio, quando non abbiamo ancora raggiunto la Realtà (vastu). Colui che vede la non-azione nell’azione e vede l’azione nella non-azione, è saggio tra gli uomini, è uno yukta (yogin), è chi ha esaurito ogni azione. Quindi sia elogiato chi vede l’azione nella non-azione e viceversa (BhGŚBh IV.18).

    C’è un tipo di inazione in cui le persone considerano gravosi i loro doveri sociali e vi rinunciano per indolenza. Rinunciano fisicamente alle azioni, ma la loro mente continua a essere attratta dagli oggetti dei sensi. Queste persone possono sembrare non-agenti (akartṛ), ma la loro pigrizia, in realtà, è pur sempre un’azione anche se non manifestata (avyakta) all’esterno, perché è comunque mossa da desiderio. Quando Arjuna pensava di sottrarsi al suo dovere di combattere, Śrī Kṛṣṇa gli spiegò che quella inerzia sarebbe stata un demerito che lo avrebbe condotto alla perdizione. L’inerzia è della natura di tamas e non della pacificazione (śānti).

    Ben altro tipo di akarma è quello del karma yogin. Costui compie i doveri rituali (svadharma) e i riti iniziatici (sādhanī prakriyā) senza attaccamento ai risultati, dedicando gli eventuali frutti delle sue azioni a Īśvara. Sebbene apparentemente impegnato in un’attività, costui non ha attaccamento per i risultati del karma, non soltanto non avendo alcun desiderio di fruizione (bhogya kāma), ma neppure una semplice inclinazione (kāma saṃkalpa) al desiderio. Chi riconosce che l’inerzia è karma e l’azione priva di desiderio è akarma è un saggio (paṇḍita) che ha purificato la mente. Infatti:

    Gli illuminati (jñāni) chiamano sagge (paṇḍita) quelle persone che, in ogni loro azione, sono libere dal desiderio delle fruizioni e che hanno bruciato gli effetti del karma nel fuoco della conoscenza” (BhG IV.19).

    Il jīvātman che ha realizzato la verità sopra descritta, le cui opere sono tutte libere dal desiderio e dall’inclinazione (samkalpa) al desiderio, che compie azioni semplici senza alcuna ricaduta, se è impegnato in azioni mondane, lo fa soltanto per dare l’esempio agli altri. Il Brahmajñāni riconosce come vero paṇḍita colui che ha rinunciato alla vita mondana e agisce solo per la manutenzione del corpo, le cui azioni [passate] tese al merito e al demerito sono state consumate nel fuoco della saggezza che consiste nella realizzazione dell’akarma” (BhGŚBh IV.19).

    La mente purificata, infatti, è akartṛ proprio perché ha rinunciato ai frutti delle azioni (karma phala). Tuttavia bisogna comprendere chiaramente il significato vedāntico di purificazione della mente (bauddhī śuddhi o śuddhadhī) e di karma yoga. Infatti, percorrere fino in fondo una delle vie del non-Supremo spinti dal desiderio di avvicinarsi o di raggiungere una meta altra dal Sé, per quanto elevata questa sia, fosse pure il proprio Signore, non è karma yoga. Similmente, il risultato finale di una tale sādhanā, definito nei diversi linguaggi di quelle vie come samādhi (unificazione), aiśvarya (signoria), vyāpti (universalità), upasthiti (prossimità intima) o yoga (unione), prescinde dalla purificazione della mente. Infatti si tratta di un fine postumo che si raggiunge o in cui ci si modifica, come effetto finale degli atti rituali compiuti in vita, siano essi compiuti con il corpo, con la parola e con la mente.

    La morte cambia il suo sé ed egli diventa uno con queste divinità2 (BU I.2.7). Questa morte è la Fame [il desiderio] ed è chiamata in molti modi: Intelletto cosmico (Mahat), aggregato di vita (jīva ghana), primo nato, soffio ed energia cosmica, Satya e Hiraṇyagarbha. Quello che è l’essenza dell’intero mondo, individuale e universale, che è il sé interno o il corpo sottile di tutti gli esseri, l’essenza di ciò che è sottile, in cui si sviluppano le azioni di tutti gli esseri e che è il massimo risultato dei riti e delle loro corrispondenti meditazioni, ha come dominio il mondo manifestato (BUŚBh III.3.1).

    A questo proposito Pūjya Svāmī Satcidānandendra Mahārāja sottolineava che:

    Alcune persone pensano che se il karma da solo non è un metodo per raggiungere la mukti, allora il karma associato al jñana può diventare un mezzo valido. Anche ingerire dello yogurt non è adatto a chi è malato con febbre alta, ma allorché è mescolato allo zucchero può essere assunto. Pure il veleno, quando è associato al mantra [di Garuḍa], non provoca la morte: similmente il karma mischiato al jñana può aiutare a raggiungere o a far sorgere l’eterno mokṣa. Questa teoria è sbagliata. Śaṃkara non solo l’ha dichiarato, ma ne ha anche spiegato il perché: ciò che è effetto, per forza è non-eterno (anitya) e questo strumento logico (yukti) è applicabile proprio alla teoria appena menzionata. I sostenitori della teoria che vuole assemblare karma e jñana (samuccayavādin) non hanno chiaro cosa intendono con jñana. Se vogliono sostenere che solamente la meditazione (upāsanā) è conoscenza, allora, nel migliore dei casi, il karma potrà rendere più efficace il risultato della sua associazione con l’upāsanā; ma non ci sono affatto mezzi validi di conoscenza (pramāṇa) per affermare che il karma avrà una capacità superiore, tale da produrre un risultato eterno (La via della conoscenza e le altre vie).3

    La ipotizzata mescolanza di karma e jñāna è l’obiezione che sogliono sollevare contro i vedāntin i sādhaka delle vie del non-Supremo il cui metodo arriva fino all’utilizzo della meditazione4. Tuttavia l’abbinamento di rito e conoscenza non deve essere confuso con il puro jñāna dell’Advaita: si tratta, infatti, solamente di un’azione conoscitiva o indagine informativa (jñāpti) che si sviluppa a partire dal soggetto conoscitore (pramātṛ), per mezzo degli strumenti di conoscenza (pramāṇa) al fine d’indagare l’oggetto da conoscere (prameya). Questo tipo di indagine dualistica è un’azione mentale (mānasa karma) nel vero senso della parola, ovvero è sempre e soltanto un karma. Al massimo livello, un simile metodo può consistere in una upāsanā al di là dell’uso di un simbolo, ma sempre praticata con il desiderio di raggiungere l’oggetto della propria meditazione come altro dal proprio Sé. In questo caso l’oggetto della propria meditazione prende la forma del Brahman non-Supremo in quanto creatore del mondo5.

    Tutto ciò è Brahman: ciò che ha origine e si dissolve esiste in Lui. Perciò, si deve meditare in pace. Ciò che l’uomo desidera in questo mondo, quello egli diventa quando se ne diparte. Perché ci s’identifica con ciò che si desidera. Perciò si prende la forma di ciò che si desidera (ChU III.14.1).

    In conclusione, il compimento di una via del non-Supremo, comportando ancora desiderio di fruizione, non coincide con la purificazione della mente, nonostante che apparentemente la via percorsa sia stata la medesima6. Perciò la restaurazione della perfezione dello stato individuale umano può limitarsi al raggiungimento della meta prefissata senza che nel sādhaka emerga alcun ‘desiderio’7 della conoscenza del Sé.

    Abbiamo stabilito così che la purificazione della mente è ottenuta soltanto se è maturata la rinuncia (vairāgya) a ogni desiderio di raggiungere altro da Sé. Solamente se si è purificata la mente si può accedere alla via della conoscenza:

    L’illuminazione stessa consiste nel giungere alla meta suprema, che è come essere travolti da un diluvio, e che ha inizio dalla purificazione della mente quale risultato del karma yoga (BhGŚBh II.51).

    Ciò che śuddhadhī permette è un affinamento delle capacità conoscitive tale da facilitare la discriminazione tra reale (sat) e irreale (asat) o, se si preferisce, tra Sé (Ātman) e non-sé (anātman). È a questo punto che il sādhaka può essere accettato come discepolo da un jñānaguru. L’insegnamento (upadeśa) del maestro sarà basato sulle Upaniṣad, ovvero sul Vedānta, sulla sua esperienza intuitiva già realizzata, tramite una esposizione in accordo con la logica śrauta. L’insegnamento udito (śrāvaṇa) corrisponde all’apprendimento (pāṇḍitya) che è già una forma di attenzione contemplativa (adhyavasāya), la quale, per individui eccezionalmente qualificati, può essere sufficiente per condurre alla realizzazione istantanea della Liberazione (mokṣa sampatti).

    Tutta la śruti è contenuta in un mahāvākya8. Qualsiasi mahāvākya è l’essenza stessa del Veda. Nella nostra paramparā è particolarmente in uso il Tattvamasi; essere in grado di capire questa Grande Frase vuol dire comprendere il significato di tutte le Upaniṣad. Tutte le Upaniṣad cercano di spiegare per esteso questo (e altri) mahāvākya. Tvam vuol dire tu, asi sei, e Tat vuol dire Quello9. Quello sei tu. Questo è il suo semplice significato. Tuttavia, quando l’Upaniṣad usa queste parole intende un qualche significato preciso. Quando dice ‘tu’, a quale tu si riferisce? Perché io non sono sempre la stessa persona. Quando il guru si rivolge a me come ‘tu’, io non penso d’essere ‘tu’, ma di essere ‘io’. Ma chi è realmente questo ‘io’? Quando si è seduti si dice: «Io sono seduto». Dov’è l’io in quel frangente? È nel corpo. Quando si dice «Io vedo», si identifica l’‘io’ agli occhi. A seconda che dica: «Io ascolto, io scrivo», l’‘io’ si riferisce all’ascolto, alla scrittura, e così via. Quando si dice: «Io vedo» si fa riferimento soltanto agli occhi; quando si dice: «Io sento», l’io è associato agli orecchi. Quando si dice: «Io cammino», si è associati alle gambe. Perciò questo ‘io’ non è sempre la stessa persona. Questo vale per le percezioni (jñānendriya), per le azioni (karmendriya) e per i sentimenti (bhāva), vale a dire per tutte le modificazioni della mente (cittavṛtti). Quando si dice: «Mi piace o non mi piace», non ci si identifica a un indriya, ma a una sensazione prodotta dalla fruizione (bhoga) di qualcosa. Quando si pensa, ci si identifica con il manas. Quando si discrimina, ci s’identifica con la buddhi; dentro all’‘io’ ci sono varie parti a cui ci si identifica a seconda di cosa si sta sperimentando. Ogni momento l’‘io’ è associato a differenti forme, e quindi cambia continuamente. Quando la śruti dice “tu sei Quello” a che ‘io’ allude, a quale ‘io’ si riferisce? E cosa s’intende con Quello? Il possibile errore d’interpretazione che riguarda il ‘tu’ come parte dell’equazione del mahāvākya è indicato nella seconda metà di uno śloka dell’Upadeśa Sāhasrī:

    Se, invece, si discriminasse un soggetto empirico dal puro Testimone e si attribuisse il ‘tu’ del mahāvākya all’ego, allora vi si insinuerebbero i summenzionati errori d’interpretazione (US XVIII.78).

    Per comprendere appieno il senso del Tattvamasi è, dunque, opportuno riferirsi direttamente alla śruti da cui il mahāvākya è tratto, la cui argomentazione occupa tutto il sesto prapāthaka della Chāndogya Upaniṣad.

    Śvetaketu, perciò, all’età di dodici anni si recò al gurukula. Dopo aver studiato a fondo il Veda, tornò a casa autocompiaciuto, altezzoso e pieno di sé per la conoscenza acquisita (ChU VI.1.2).

    Il ragazzo non salutò nemmeno suo padre, il celebre ācārya Uḍḍālaka Āruṇi10. Con infinita pazienza il padre gli si rivolse dicendo:

    «Śvetaketu, poiché sei così sicuro di te, superbo e compiaciuto della tua conoscenza, hai chiesto al tuo maestro quell’insegnamento grazie al quale tutto ciò che non si è mai ascoltato appare ascoltato, tutto ciò che non è mai stato pensato appare pensato, tutto ciò che non è mai stato conosciuto appare conosciuto?» «Mio venerato Signore, cos’è questa conoscenza?» (ChU VI.2-3)

    La conoscenza ordinaria si riferisce a un determinato campo d’indagine, non è universale. Ma questa conoscenza è possibile e, quindi, Uḍḍālaka iniziò impartendo il suo upadeśa a Śvetaketu Āruṇeya con queste parole:

    «O mio caro, conoscendo l’argilla, tutte le cose fatte d’argilla diventano conosciute. Ogni cambiamento di forma è descritto da una parola che è il suo nome. Ma solo l’argilla in quanto tale è reale» (ChU VI.1.4).

    L’argilla, di cui i diversi oggetti sono fatti, rimane immutata: ciò che cambia sono solo la forma e il nome. La forma (rūpa) è dunque il principio di divisione e di limitazione, mentre il nome (nāma) è il modo con cui l’individuo descrive un oggetto che appare sotto una determinata forma per distinguerlo da un altro oggetto11. Così anche il cotone, intessuto in una o in altra forma, cambia apparenza, ma non la sostanza di cui è fatto. Perciò la forma non è un’entità. Il muro è un mucchio di mattoni messi in una certa forma. E il mattone è fango che assume quella forma. Quando conosci la sostanza, tutte le forme sono solo apparenze. Vaso è un nome, altrimenti è solo argilla. Vikāra significa forma, un’apparenza che viene in esistenza. Il nome identifica oggetti di forma mutevole. Per questa ragione li si descrive con vari nomi. Cosa si chiama con un altro nome? Un’altra forma. Un singolo oggetto può, quindi, anche essere chiamato con nomi diversi: la penna si chiama così, quando la si usa per scrivere; ma se la si usa sopra a dei fogli perché il vento non li porti via, non è più una penna, ma un poggiacarte. Un altro esempio è quello d’una panca: se ci si siede sopra è un sedile; se ci si monta sopra per raggiungere qualcosa posto in alto è uno sgabello; se ci si scrive sopra è una scrivania, se ci si dorme è un letto. L’oggetto ha per caso subito un cambiamento? No, è la stessa cosa usata in modo diverso. Si tratta di nomi che corrispondono all’uso dell’oggetto. Così la maggior parte delle cose appare sotto una certa forma e ottiene un certo nome.

    1. V. G. G. Filippi, Il Serpente e la Corda, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2017-18, 2 voll.[]
    2. Si tratta delle divinità (iṣṭadevatā) a cui l’iniziato a quelle vie ambiva unirsi in vita tramite una sādhanā rituale.[]
    3. Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020, pp. 91-93.[]
    4. Non tutte le vie del non-Supremo conducono al medesimo grado di reintegrazione dell’individuo: per esempio lo haṭhayoga è una pratica preliminare, oltre la quale si dovrà procedere attraverso il mantrayoga e il rājayoga. L’iniziato dovrà dunque procedere cambiando guida nell’avanzamento del suo percorso a tappe. A meno che il primo guru non sia anche maestro di rājayoga: in tal caso sarà qualificato a fortiori per trasmettere l’insegnamento di tutte le altre discipline inferiori. Evidentemente le vie iniziatiche che prendono il loro appoggio su mestieri (kriyā mārga) castalmente più bassi, avranno un raggio d’azione più limitato e rappresenteranno anch’esse una preparazione per metodi più elevati del karma kāṇḍa. Questi ultimi sono in uso presso quelle vie del non-Supremo che consentono la meditazione puramente mentale svincolata dall’uso del simbolo (aliṅga mānasī upāsanā).[]
    5. Anche se si tratta dello stesso non-Supremo, gli si attribuisce una forma (rūpa) ed è perciò definito nella śruti come rūpin, formale. Infatti la divinità personale non è altro che una proiezione mentale concepita dall’individuo, per la qual ragione è definito anche Kriyā Brahman, Brahman-effetto. Solamente il Supremo Brahman è realmente privo di forma (arūpin): “Si deve conoscere Brahman come il solo informale (arūpin) e non come se fosse dotato di forma (rūpin) […] quando ci sono passi della scrittura che trattano di entrambi, si deve considerare solo l’arūpin e non l’altro [il non-Supremo]” (BSŚBh III.2.14). Poiché la sola causa che produce qualsiasi forma è la māyā proiettata dall’ignoranza della mente individuale, è impossibile attribuire al Supremo qualsiasi causalità. Perciò il termine Kāraṇa Brahman (Brahman-causa) non esiste affatto nel Vedānta. Solamente in qualche Purāṇa si trova il termine di Kāraṇa Brahman, ma usato per designare la Mūla Prakṛti quale causa materiale dell’universo.[]
    6. Ciò risulta ancor più evidente considerando la condizione postuma delle cosiddette ‘anime liberate’ (mukta jīvātman). Esse si sono dirette verso Hiraṇyagarbha, identificandosi con il Dio reggente dell’attuale kalpa a conclusione del devayāna. Alla fine del ciclo, assieme a Hiraṇyagarbha, al suo mondo e al Brahmaloka, esse s’immergono nel pralaya, per poi rimanifestarsi in un kalpa successivo assieme a quella stessa divinità che manifesterà un altro Uovo del mondo. Tuttavia, alcuni di quei defunti stazionanti nel Brahmaloka, invece di limitarsi a godere della visione beatifica nel loro involucro individuale di fruizione (ānandamaya kośa), possono raggiungere anche la purificazione della mente e rendersi conto dello stato condizionato, per quanto meraviglioso possa apparire, in cui continuano a vivere. Dedicandosi quindi al viveka possono accedere alla via della conoscenza e ottenere la krama mukti. In quel caso chi funge da guru è direttamente il maestro interiore, il Sākṣin. Gian Giuseppe Filippi, Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020.[]
    7. Poniamo tra virgolette questo termine in quanto si riferisce al desiderio di Sé e non di altro da Sé. Per questa ragione non si può confondere il desiderio di conoscenza (jijñāsa) con il desiderio di fruizione (bhogya kāma).[]
    8. Gli indologi hanno stabilito che i mahāvākya sono soltanto quattro. In realtà ogni Upaniṣad ha la propria Grande Frase e alcune Upaniṣad ne contengono più d’una. Tanto per citarne alcuni: Tattvamasi, tu sei Quello (ChU VI.8.7); ekam evadvitīyam brahma, Brahman è uno e non duale (ChU VI.2.1); sarvam khalvidam brahma, tutto questo è Brahman (ChU III.14.1); aham brahmāsmi, io sono Brahman (BU I.4.10); ayam ātmā brahma, l’Ātman è Brahman (MU I.2); etad vai Tat, questo, invero, è Quello (KU II.1.3); so ‘ham, io sono Lui (ĪU 16); prājñānam brahma, Brahman è Coscienza (AiU III.3); prājñātman, l’Ātman è Coscienza (KauU III.5) e altri ancora. Lo Śiva Purāṇa ne enumera ventidue.[]
    9. Nelle Upaniṣad con Tat, Quello, si intende il Brahmātman. Per evidenziarlo lo scriviamo qui con la maiuscola iniziale. Tutto ciò che non è il Brahmātman è reso con idam, questo. Quello (Tat) e questo (idam) perciò corrispondono esattamente ad Ātma-anātman.[]
    10. Secondo Śaṃkara, Uḍḍālaka fu anche padre di Naciketas e guru del veneratissimo advaitin Yājñavalkya.[]
    11. In altri termini il nome è la descrizione (abhidhānam) con cui è descritta la forma (abhidheyam). C’è chi, condizionato dal concetto di causalità aristotelico, ha voluto interpretare nāma e rūpa come corrispettivi di forma (είδος) e materia (ὕλη). Ciò è profondamente sbagliato perché dà realtà agli oggetti, cosa che l’Advaita Vedānta nega fermamente. Infatti il nome e la forma sono del tutto illusori, essendo identici alla māyā, ossia una immaginazione della mente (bhāvana rūpa, mānasa kalpita o manasarga) che copre la realtà. Soltanto la sostanza, ovvero il sostrato (adhiṣṭhāna), è reale: solamente l’argilla esiste. Purché questo sostrato-sostanza reale non sia ulteriormente confuso con la causa materiale (upādāna kāraṇa) che è un concetto nyāya-vaiśeṣika e sāṃkhya (Prakṛti), generalmente accettato dalle dottrine dualistiche in relazione con una causa efficiente (nimitta kāraṇa) identificato a Puruṣa. Anche la concezione della causalità è del tutto estranea all’Advaitavāda. “I jñāni, cioè coloro che seguono l’Advaitavāda, parlano invero della dottrina della causalità solo per rivolgersi a coloro che, dotati di mediocri facoltà di discriminazione, dimostrano tuttavia interesse per la conoscenza e sono animati da una fede ardente. Quei jñāni, in realtà, sanno che ai seguaci del karma kāṇḍa gli oggetti esterni paiono esistere solo perché li percepiscono” (MUGKŚBh IV.42).[]

    🇮🇹🇪🇸🇫🇷🇬🇧 Stephen C. Meyer – Darwin’s Doubt

      🇮🇹 Stephen C. Meyer: Darwin’s Doubt [Il dubbio di Darwin], New York, HarperCollins Pbls., 2014. ISBN 978-0-06-207148-4. Pp. xiii-540.

      La pubblicazione di questo libro da parte del colosso editoriale HarperCollins Publications e il suo riconoscimento come bestseller da parte del New York Times, sta a dimostrare che anche l’Avversario ogni tanto si distrae dalla sua infaticabile attività di diffusione dell’ignoranza e dell’errore a livello planetario. Infatti questo libro rappresenta una delle più potenti bastonate alle sempre risorgenti teorie evoluzionistiche darwiniane e neo-darwiniane. Recentemente abbiamo pubblicato la recensione a un libro di Giuseppe Sermonti che confuta l’evoluzionismo con argomenti troppo intelligenti e con dimostrazioni scientifiche troppo sottili per penetrare l’ottusità mentale dei seguaci di tale teoria e delle sue più recenti modificazioni. Stephen C. Meyer, infatti, è uno scienziato che ragiona secondo il “metodo scientifico”, e che quindi parla lo stesso linguaggio dei suoi colleghi: le sue argomentazioni sono, perciò, alla portata della loro comprensione e le sue dimostrazioni si basano su dati condivisi da tutti, specialisti o meno. Il fatto è che il risultato del suo ponderoso volume ribalta totalmente le teorie evoluzionistiche, mettendo in campo evidenze del tutto indiscutibili.

      Per dare la massima potenza d’urto alla sua esposizione, l’Autore ha voluto porre al centro delle sue considerazioni un unico argomento demolitore; quell’argomento che lo stesso Charles Darwin ammetteva essere il principale scoglio insuperabile alla sua ipotesi, lo stesso che gli evoluzionisti evitano accuratamente di affrontare, o di cui trattano malvolentieri, imbrogliandone consapevolmente i dati. Si tratta dell’esplosione delle forme viventi del Cambriano. Cinquecento e trenta milioni d’anni fa, come da evidenze fossili, molti animali apparvero improvvisamente senza che negli strati geologici più profondi ci fosse la minima traccia di loro antenati. Per la verità ‘esplosioni’ del tutto simili sono attestate in altri passaggi da un’era geologica a un’altra, come l’improvvisa comparsa degli scorpioni marini, delle stelle marine e dei tetracoralli all’alba dell’Ordoviciano, degli anfibi al Devoniano e delle tartarughe e dinosauri all’inizio del Triassico. Ma l’esplosione del Cambriano è più stupefacente perché è preceduta da poche e troppo semplici forme di vita.

      Darwin delegava la soluzione di tale difficoltà alle future generazioni di suoi seguaci. Stava a loro trovare i fossili dei predecessori delle forme animali del Cambriano, scaricando sulla scarsezza di scavi e ricerche della sua epoca la responsabilità di tale assenza. Affidava dunque la fede nell’evoluzionismo a future scoperte che avrebbero riconosciuto la sua ipotesi come una legge naturale, paragonabile a quella della gravitazione newtoniana o a quella della conservazione della massa di Lavoisier. Dal 1859 a oggi sono passati centosessant’anni, ma le tanto attese scoperte non si sono mai verificate. Anzi, poiché indagini e ricerche si sono moltiplicate a dismisura, tutti i ritrovamenti continuano a smentire Darwin e i suoi epigoni. L’“anello mancante”, soprattutto in questo caso, si è dimostrato non solo mancante, ma del tutto inesistente.

      C’è una ulteriore considerazione importante da fare. Secondo l’ipotesi darwiniana, le differenze nella forma biologica dovrebbero gradualmente aumentare, moltiplicando costantemente nel tempo il numero di schemi corporei differenziati e di phyla. Per chi non lo ricordasse, un phylum costituisce la più ampia categoria della classificazione biologica nel regno animale, ognuno con un’architettura unica, un progetto organizzativo o uno schema strutturale. Ora, è vero che nel Precambriano erano presenti tre categorie di phyla, ma all’inizio del Cambriano, con l’esplosione di nuove forme viventi, si arrivò a contarne ventitré. Di questi ventitré phyla, due furono la prosecuzione dei phyla precambriani (giacché uno s’estinse), che permasero per tutto il Cambriano (60 milioni d’anni!) senza alcuna mutazione. Altri diciotto phyla apparvero ex abrupto senza alcuna forma precambriana che ne rappresentasse una fase meno evoluta. Questo abbatte il primo postulato dell’ipotesi darwiniana, secondo il quale tutte le forme viventi, in definitiva, discendono da un singolo antenato comune; quella forma primordiale gradualmente si sarebbe sviluppata in nuove forme di vita, che a loro volta si svilupparono in altre, producendo poi, dopo molti milioni di generazioni, tutta la complessità della vita che s’osserva attualmente.

      Così nacque l’idea dell’albero genealogico dell’evoluzionismo darwiniano come ci è stato confitto nella mente fin dagli studi elementari, e che risulta essere una mera invenzione della fantasia. Ma la simultanea comparsa di tanti phyla nel Cambriano mina anche le fondamenta del secondo postulato dell’ipotesi evoluzionistica, ossia la selezione naturale, processo messo in atto dalla casuale variazione dei caratteri degli organismi attraverso la loro discendenza. I cambiamenti ambientali avrebbero permesso l’adattabilità alle nuove condizioni climatiche per i soli individui più forti e capaci di assuefarsi assumendo forme nuove, segnando la scomparsa di quelli più deboli e dotati di forme ormai inadeguate. Con l’andare del tempo, questi individui resistenti avrebbero generato specie nuove e poi, man mano, attraverso analoghe modifiche in miliardi d’anni, sempre casualmente, si sarebbero prodotti generi, famiglie, ordini, classi e, alla fine, anche nuovi phyla. Invece l’evidenza dei fossili dimostra che all’inizio del Cambriano erano già presenti ventitré phyla, già suddivisi in classi, ordini e in tutte le ulteriori suddivisioni.

      Per comprendere l’enormità di questa ‘esplosione’, si consideri che la somma di tutte le forme di vita attuali o fossili contano ventisette phyla, tra cui il solo phylum dei cordati comprende tutti i vertebrati. Questa esplosione di vita, che è avvenuta spesso all’inizio di altri cicli geologici più recenti, ma non in forma così stupefacente, demolisce anche un altro postulato, quest’ultimo sostenuto dai neo-darwiniani. Vale a dire che per permettere tali lenti mutamenti casuali di forme viventi, era necessario prolungare al massimo la durata temporale del processo di selezione naturale. Infatti la datazione dell’origine della vita nell’ultimo secolo si è sempre di più dilatata, anche per permettere che avvenisse l’ultima demenziale teoria: l’origine dell’organico dall’inorganico. Ma per meglio capire l’insuperabilità dell’ostacolo rappresentato dall’esplosione di vita cambriana si devono esaminare i concetti biologici di diversità e di disparità.

      Secondo il darwinismo la diversità è rappresentata da una lieve distanza morfologica. Per esempio il lupo e la volpe si sarebbero separati in due specie a un certo stadio dell’evoluzione. La distanza morfologica tra loro è minima. Ma con l’andare del tempo i loro discendenti si sarebbero ancor più allontanati, assumendo la forma di generi, la cui diversità tra loro è maggiore. In questo modo nel corso di un tempo lunghissimo i loro discendenti si distanzierebbero sempre di più, formando famiglie, ordini, classi e phyla. Alla fine del lungo processo la distanza morfologica diventa disparità. La comparsa pressocché simultanea di ventitré phyla senza il graduale distanziamento morfologico previsto da Darwin è davvero un ostacolo insopportabilmente insuperabile per la fede evoluzionistica. Contra factum non valet argumentum, dicevano i nostri antenati. “Se un fatto contraddice la nostra argomentazione, tanto peggio per il fatto” sostiene la nuova logica evoluzionistica!

      Il phylum è determinato tenendo in conto l’unitarietà dell’architettura corporea, il modello organizzativo o piano strutturale: vale a dire dall’esame sulle somiglianze della base morfologica comune. Gli evoluzionisti hanno seguito due ipotesi per spiegare l’improvvisa comparsa all’inizio del cambriano di tanti phyla. La prima pare un gioco di prestigio: si mette perciò in dubbio il valore scientifico della classificazione dei phyla. Essendo basata sull’osservazione delle forme corporee, a loro parere appare come una classificazione “superficiale” ed “estetica”. Perciò essi propongono una classificazione che permetta una riduzione del numero dei phyla, basata sul riconoscimento delle affinità tra le specie di ciascun phylum in quanto proveniente da un antenato comune precambriano. Vale a dire una classificazione basata su ciò che non c’è se non nella loro fantasia!

      La seconda ipotesi si appella all’intervento della geologia. Nel cambriano il livello dei mari era molto più alto, com’è dimostrato che gli strati contenenti fossili di quell’era appaiono a diverse altezze montane. Invece nel precambriano la superficie delle acque era molto più bassa. Perciò gli antenati fossili dei ventitré phyla cambriani dovrebbero trovarsi sul fondo degli oceani e, per tale ragione, non sarebbero stati ancora ritrovati. Anche se più ragionevole, questa ipotesi è una ripresa della speranza già espressa da Darwin, di future scoperte che certamente avrebbero confermano la sua tesi. Tuttavia nel 2000, nei pressi di Chengjiang, sotto i sedimenti cambriani, furono scoperti giacimenti di strati precambriani. La scoperta, presa con molta cautela a causa delle tendenze ideologico-sensazionaliste della scienza cinocomunista, attirò un numero cospicuo di esperti stranieri. Essi tuttavia dovettero confermare l’esattezza della scoperta. L’ipotesi delle prove nascoste sul fondo degli oceani era definitivamente distrutta. Nel fondo precambriano erano presente solo spugne, alghe e microrganismi. In totale emersero i tre phyla già noti. Ovviamente le riviste accademiche, pur segnalando la scoperta, si astengono dal darne une giusta valutazione, in attesa di qualche altro gioco di prestigio per ritornare a sostenere l’evoluzionismo.

      Con la scoperta della genetica, sono sorte diverse correnti di evoluzionismo che si definisce neo-darwiniano. Esse prescindono dalla informazione paleontologica, ma perpetuano la credenza in tre dogmi: la selezione naturale, l’ereditarietà e la variazione o mutazione casuale nel corso di tempi lunghissimi. Paradossalmente e come ci si poteva aspettare, le scoperte genetiche e di chimica molecolare hanno smentito la validità di tali dogmi. Perciò i genetisti hanno dovuto proporre delle ipotesi alternative, sempre evoluzionistiche, ma non darwiniane, come, per esempio la simbiogenesi e la variazione facilitata. È assai godibile la lettura di questo libro per il modo incontrovertibile con cui queste ipotesi sono contraddette dalle scoperte ed evidenze scientifiche pubblicate su riviste specializzate ampiamente citate dall’Autore. Naturalmente i ‘sacerdoti’ della religione atea dell’evoluzionismo continuano a perpetuare la loro fede tramite la divulgazione scientifica e i manuali di formazione scolastica e universitaria, per mantenere i loro ‘fedeli’ nella più totale ignoranza.

      Il libro si conclude con un’interessante descrizione del Disegno Intelligente che, lungi dall’essere una fede cieca come l’evoluzionismo, è invece una teoria basata non soltanto sui fatti, ma anche sulla spiegazione razionale. Il principio da cui si sviluppa la sua argomentazione è la Vera Causa, che Darwin stesso si era proposto invano di seguire. Infatti è proprio l’informazione genetica anche nelle forme di vita considerate ‘più semplici’ ad apparire di sconcertante complessità. L’informazione genetica, invero, trova una spiegazione appropriata alla luce di una intelligenza ordinatrice piuttosto che del caos ipotizzato dalla scienza atea. Non è certo un caso che questo testo, che ha ottenuto una risonanza notevole nei paesi anglofoni, non sia stato finora tradotto in nessun’altra lingua.

      Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

      🇪🇸 Stephen C. Meyer: Darwin’s Doubt [La duda de Darwin], New York, HarperCollins Pbls., 2014. ISBN 978-0-06-207148-4. Pp. xiii-540.

      La publicación de este libro por el gigante editorial HarperCollins Publications y su reconocimiento como bestseller por el New York Times, prueba que incluso el Adversario a veces se distrae de su incansable actividad de difusión la ignorancia a nivel planetario. De hecho, este libro representa una de las más poderosas embestidascontra las siempre resurgentes teorías evolucionistas darwinianas y neo-darwinianas. Recientemente hemos publicado la reseña de un libro de Giuseppe Sermonti que refuta el evolucionismo con argumentos demasiado inteligentes y con demostraciones científicas demasiado sutiles para penetrar en la obstusidad mental de los seguidores de esta teoría y de sus modificaciones más recientes. Stephen C. Meyer, de hecho, es un científico que razona según el “método científico”, y que en consecuencia habla el mismo lenguaje que sus colegas: sus argumentos están, por lo tanto, al alcance de su comprensión y sus demostraciones se basan en datos compartidos por todos, especialistas o no. El hecho es que el resultado de su importante volumen anula totalmente las teorías evolutivas, exponiendo una evidencia totalmente indiscutible.

      Para dar el máximo poder de impacto a su exposición, el Autor quiso poner en el centro de sus consideraciones un único argumento demoledor; ese argumento que el propio Charles Darwin admitió ser el principal obstáculo insuperable para su hipótesis, el mismo que los evolucionistas evitan cuidadosamente tratar, o del que tratan de mala gana, confundiendo conscientemente los datos. Se trata de la explosión de las formas vivientes del Cámbrico. Hace quinientos treinta millones de años, como muestran las pruebas fósiles, muchos animales aparecieron repentinamente sin que en los estratos geológicos más profundos hubiese la más mínima huella de sus antepasados. De hecho, “explosiones” similares se atestiguan en otros pasajes de una era geológica a otra, como la repentina aparición de escorpiones marinos, estrellas de mar y tetracorales en los albores del Ordovícico, anfibios en el Devónico y tortugas y dinosaurios a principios del Triásico. Pero la explosión cámbrica es más sorprendente porque está precedida por unas pocas y muy simples formas de vida.

      Darwin delegó la solución de esta dificultad a las futuras generaciones de sus seguidores. Descargó a los futuros investigadores evolucionistas la tarea de encontrar los fósiles de los predecesores de las formas animales del Cámbrico, alegando que la falta de pruebas se debía solo a la escasez de excavaciones e investigaciones en su época. Por lo tanto, respaldó la fe en el evolucionismo en descubrimientos futuros que habrían de confirmar su hipótesis como una ley natural, comparable a la de la gravitación newtoniana o a la de la conservación de la masa de Lavoisier. Ciento sesenta años han pasado desde 1859, pero los tan esperados descubrimientos nunca se verificaron. Por el contrario, dado que las investigaciones y los estudios se han multiplicado inconmensurablemente, todos los hallazgos siguen contradiciendo a Darwin y sus epígonos. El “eslabón perdido”, especialmente en este caso, ha demostrado no sólo estar perdido, sino ser totalmente inexistente.

      Hay otra consideración más importante por hacer. Según la hipótesis darwiniana, las diferencias en la forma biológica deberían aumentar gradualmente, multiplicando constantemente el número de distintos esquemas corporales y de phyla a lo largo del tiempo. Para los que no lo recuerden, un phylum constituye la máxima categoría de clasificación biológica en el reino animal, cada uno con su arquitectura única, es decir con su proyecto organizativo o esquema estructural único. Ahora bien, es cierto que en el Precámbrico había solo tres categorías de phyla, pero al comienzo del Cámbrico, con la explosión de nuevas formas de vida, aparecieron repentinamente veintitrés. De estos veintitrés phyla, dos fueron la continuación de los phyla precámbricos (ya que uno se extinguió), que permanecieron a lo largo del Cámbrico (¡60 millones de años!) sin ninguna mutación. Otros dieciocho phyla aparecieron exabruptamente sin ninguna forma precámbrica que representara sus fases menos evolucionadas. Ésto rompe el primer postulado de la hipótesis darwiniana, según la cual todas las formas de vida, en última instancia, descienden de un único ancestro común; esa forma primordial se habría desarrollado gradualmente en nuevas formas de vida, que a su vez se desarrollaron en otras, produciendo luego, después de muchos millones de generaciones, toda la complejidad de la vida que se observa actualmente.

      Así nació la idea del árbol de la vida del evolucionismo darwiniano, tal como ha sido “plantado” en nuestras mentes desde la escuela primaria, y que resulta ser una mera invención de la fantasía. Pero la aparición simultánea de muchos phyla en el Cámbrico también socava los fundamentos del segundo postulado de la hipótesis evolucionista, es decir, la selección natural, un proceso implementado por la variación casual de los caracteres de los organismos a través de sus descendientes. Los cambios ambientales habrían permitido la adaptabilidad a las nuevas condiciones climáticas sólo para los individuos más fuertes y capaces de acostumbrarse tomando nuevas formas, produciendo la desaparición de los más débiles y no adaptados al cambio. Con el paso del tiempo, los individuos resistentes habrían generado nuevas especies y luego, gradualmente, a través de modificaciones similares a lo largo de miles de millones de años, siempre por casualidad, se habrían producido géneros, familias, órdenes, clases y, al final, también phyla nuevos. En cambio, la evidencia de los fósiles muestra que a principios del Cámbrico había veintitrés phyla, ya subdivididos en clases, órdenes y en todas las demás subdivisiones.

      Para comprender la magnitud de esta “explosión”, hay que considerar que la suma de todas las formas de vida, sean actuales o fósiles, cuenta con veintisiete phyla, entre los cuales sólo un phylum, el de los cordados, incluye a todos los vertebrados. Esta explosión de vida, que a menudo se produjo al comienzo de otros ciclos geológicos más recientes, pero no de forma tan sorprendente, hecha por tierra también otro postulado, este último recientemente propugnado por los neo-darwinianos. Es decir, para permitir esos cambios lentos y casuales de formas viventes, era necesario prolongar al máximo la duración temporal del proceso de selección natural. De hecho, la datación del origen de la vida en el último siglo se ha ido dilatando cada vez más, a fin de permitir también el advenimiento de una última teoría demencial: La del origen de lo orgánico a partir de lo inorgánico. Pero para comprender mejor la insuperabilidad del obstáculo que representa la explosión de la vida cámbrica, es necesario examinar los conceptos biológicos de ‘diversidad’ y ‘disparidad’.

      Según el darwinismo, la diversidad está representada por una breve distancia morfológica. Por ejemplo, el lobo y el zorro se habrían separado en dos especies a un cierto estadio de la evolución. La distancia morfológica entre ellos es mínima. Pero con el paso del tiempo sus descendientes se habrían distanciado aún más, tomando la forma de géneros, cuya diversidad entre ellos es mayor. De esta manera, en el transcurso de un tiempo muy largo sus descendientes se distanciarían cada vez más, formando familias, órdenes, clases y phyla. Al final del largo proceso la distancia morfológica se convierte en disparidad. La aparición casi simultánea de veintitrés phyla sin el gradual distanciamiento morfológico previsto por Darwin es, en efecto, un obstáculo insoportablemente insuperable para la fe evolucionista. Contra factum non valet argumentum, solían decir nuestros antepasados. ¡”Si un hecho contradice nuestro argumento, tanto peor para el hecho”, afirma la nueva lógica evolucionista!

      El phylum se determina teniendo en cuenta la unidad de la arquitectura del cuerpo, el modelo organizativo o plano estructural: es decir, del examen de las similitudes de la base morfológica común. Los evolucionistas han seguido dos hipótesis para explicar la repentina aparición al principio del Cámbrico de tantos phyla. La primera parece un juego de prestidigitación: por lo tanto, se cuestiona el mismo valor científico de la clasificación por phyla. Estando basada en la observación de las formas corpóreas, en su opinión tal clasificación aparece como “superficial” y “estética”. Por lo tanto, proponen una clasificación que permita reducir el número de phyla, basada en el reconocimiento de las afinidades entre las especies de cada phylum como provenientes de un antepasado común del Precámbrico. Es decir, una clasificación basada en lo que no existe sino en su imaginación.

      La segunda hipótesis recurre a la intervención de la geología. En el Cámbrico el nivel del mar era mucho más alto, ya que está demostrado que los estratos que contienen fósiles de esa época aparecen a diferentes alturas montañosas. En el Precámbrico, por otro lado, la superficie del agua era mucho más baja. Por lo tanto, los ancestros fosilizados de los veintitrés phyla cámbricos hoy deberían estar en el fondo de los océanos y, por esta razón, no se habrían encontrado todavía. Aunque más razonable, esta hipótesis es un renacimiento de la esperanza ya expresada por Darwin, de futuros descubrimientos que sin duda confirmarían su tesis. Sin embargo, en el año 2000, cerca de Chengjiang, bajo los sedimentos del Cámbrico, se descubrieron depósitos de estratos precámbricos. El descubrimiento, tomado con gran cautela debido a las tendencias ideológicas-sensacionalistas de la ciencia chino-comunista, atrajo a un conspicuo número de expertos extranjeros. Sin embargo, éstos tuvieron que confirmar la exactitud del descubrimiento. La hipótesis de pruebas escondidas en el fondo de los océanos fue definitivamente desmentida. En el fondo del Precámbrico sólo había esponjas, algas y microorganismos. En total emergieron los tres phyla precámbricos ya conocidos. Obviamente las revistas académicas, aunque señalando el descubrimiento, se abstuvieron de dar una evaluación definitiva, esperando que otro juego de prestidigitación volviera a apoyar el evolucionismo.

      Con el descubrimiento de la genética, han surgido diferentes corrientes de evolucionismo que se definen neo-darwinianas. Éstas prescinden de la información paleontológica, pero perpetúan la creencia en tres dogmas: la selección natural, la herencia, y la variación o mutación casual durante un período muy largo de tiempo. Paradójicamente, y como era de esperar, los descubrimientos de la genética y de la química molecular han desmentido la validez de estos dogmas. Por lo tanto, los genetistas tuvieron que proponer hipótesis alternativas, siempre evolucionistas, pero no darwinianas, como, por ejemplo, la simbiogénesis y la variación facilitada. Es muy agradable leer este libro por la forma incontrovertible en que estas hipótesis son contradichas por los descubrimientos y las pruebas científicas publicadas en revistas especializadas ampliamente citadas por el autor. Naturalmente, los “sacerdotes” de la religión atea del evolucionismo continúan perpetuando su fe a través de la divulgación científica y los manuales de educación escolar y universitaria, para mantener a sus “fieles” en la más absoluta ignorancia.

      El libro concluye con una interesante descripción del Diseño Inteligente que, lejos de ser una fe ciega como el evolucionismo, es en cambio una teoría basada no sólo en hechos, sino también en una explicación racional. El principio a partir del cual se desarrolla su argumentación es la Vera Causa, que el propio Darwin se había propuesto en vano seguir. De hecho, es precisamente la información genética, incluso en las formas de vida consideradas “más simples”, la que parece ser de una complejidad desconcertante. La información genética encuentra verdaderamente una explicación adecuada a la luz de una inteligencia ordenadora y no del caos hipotetizado por la ciencia atea. Ciertamente no es casual que este texto, que ha adquirido una considerable resonancia en los países de habla inglesa, no haya sido traducido hasta ahora a ningún otro idioma.

      Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

      🇫🇷 Stephen C. Meyer: Darwin’s Doubt [Le doute de Darwin], New York, HarperCollins Pbls., 2014. ISBN 978-0-06-207148-4. Pp. xiii-540.

      La publication de ce livre par le géant de l’édition HarperCollins Publications et sa reconnaissance comme best-seller par le New York Times, prouve que même l’adversaire se distrait parfois de son activité inlassable de diffusion de l’ignorance et de l’erreur à l’échelle planétaire. En fait, ce livre représente l’un des plus puissants coups portés aux théories évolutionnistes darwiniennes et néodarwiniennes, toujours résurgentes. Récemment, nous avons publié le compte rendu d’un livre de Giuseppe Sermonti qui dément l’évolutionnisme avec des arguments trop intelligents et des démonstrations scientifiques trop subtiles pour pénétrer l’obtusité mentale des partisans de cette théorie et de ses plus récentes modifications. Stephen C. Meyer, en effet, est un chercheur qui raisonne selon la “méthode scientifique”, et parle donc le même langage que ses collègues : ses arguments sont donc à leur portée et ses démonstrations sont basées sur des données partagées par tous, spécialistes ou non. Le fait est que le résultat de son volumineux volume bouleverse totalement les théories de l’évolution, mettant en jeu des preuves totalement indiscutables.

      Afin de donner à son exposé le maximum d’impact, l’auteur a voulu mettre au centre de ses considérations un seul argument démolisseur ; cet argument que Charles Darwin lui-même avait admis être le principal obstacle insurmontable à son hypothèse, celui-là même que les évolutionnistes évitent soigneusement de traiter, ou dont ils traitent de mauvais gré, en trompant consciemment les données. Il s’agit de l’explosion des formes de vie du Cambrien. Il y a cinq cent trente millions d’années, comme le montrent les fossiles, de nombreux animaux sont soudainement apparus sans la moindre trace d’ancêtres dans les couches géologiques les plus profondes. En fait, des “explosions” similaires sont attestées dans d’autres passages d’une ère géologique à l’autre, comme l’apparition soudaine de scorpions de mer, d’étoiles de mer et de tétracoraux à l’aube de l’Ordovicien, d’amphibiens au Dévonien et de tortues et dinosaures au début du Trias. Mais l’explosion cambrienne est plus étonnante car elle est précédée par un petit nombre de formes de vie trop simples.

      Darwin avait délégué la solution de cette difficulté aux générations futures de ses disciples. C’était à eux de trouver les fossiles des prédécesseurs des formes animales du Cambrien; en effet il soutenait que l’absence de fouilles et de recherches en son temps était responsable de ce manque. Il a donc confié la foi dans l’évolutionnisme à des découvertes futures qui reconnaîtraient son hypothèse comme une loi naturelle, comparable à celle de la gravitation newtonienne ou à celle de la conservation des masses de Lavoisier. Cent soixante ans se sont écoulés depuis 1859, mais les découvertes tant attendues n’ont jamais eu lieu. Au contraire, comme les enquêtes et les recherches se sont multipliées de façon incommensurable, tous les résultats continuent à contredire Darwin et ses épigones. Le “chaînon manquant”, surtout dans ce cas, s’est avéré non seulement manquant, mais totalement inexistant.

      Il y a une autre considération importante à prendre en compte. Selon l’hypothèse darwinienne, les différences de forme biologique devraient s’accroître progressivement, multipliant constamment le nombre de modèles corporels différenciés et de phyla au fil du temps. Pour ceux qui ne s’en souviennent pas, un phylum constitue la plus grande catégorie de classification biologique dans le règne animal, chacun ayant une architecture, une conception organisationnelle ou un schéma structurel unique. Or, il est vrai que dans le Précambrien, il y avait trois catégories de phyla, mais au début du Cambrien, avec l’explosion des nouvelles formes de vie, on arrivera à en avoir vingt-trois. Parmi ces vingt-trois phyla, deux étaient la continuation des phyla précambriens (depuis l’extinction de l’un d’eux), qui sont restés tout au long du Cambrien (60 millions d’années !) sans aucune mutation. Dix-huit autres phyla ont fait leur apparition ex abrupto sans aucune forme précambrienne qui auraient pu représenter une phase moins évoluée. Cela réfute le premier postulat de l’hypothèse darwinienne, selon lequel toutes les formes de vie, en fin de compte, descendent d’un seul ancêtre commun ; cette forme primordiale se développerait progressivement en de nouvelles formes de vie, qui à leur tour se développeraient en d’autres, produisant alors, après plusieurs millions de générations, toute la complexité de la vie que l’on observe aujourd’hui.

      Ainsi est née l’idée de l’arbre généalogique de l’évolutionnisme darwinien tel qu’il a été imposé dans nos esprits depuis l’école primaire, et qui s’avère être une simple invention de la fantaisie. Mais l’apparition simultanée de nombreux phyla au Cambrien mine également les fondements du second postulat de l’hypothèse évolutive, à savoir la sélection naturelle, processus mis en œuvre par la variation aléatoire des caractères des organismes à travers leur descendance. Les changements environnementaux n’auraient permis l’adaptation aux nouvelles conditions climatiques que pour les individus les plus forts capables de s’habituer à prendre de nouvelles formes, marquant la disparition de ceux qui étaient plus faibles et désormais inadaptés. Au fil du temps, ces individus résistants auraient généré de nouvelles espèces puis, progressivement, par des modifications analogues au cours de milliards d’années, toujours par hasard, des genres, des familles, des ordres, des classes et, enfin, de nouveaux phyla auraient également été produits. Au lieu de cela, l’évidence des fossiles montre qu’au début du Cambrien il y avait vingt-trois phyla, déjà subdivisés en classes, en ordres et dans toutes les autres subdivisions.

      Pour comprendre l’ampleur de cette “explosion”, il faut savoir que la somme de toutes les formes de vie actuelles ou fossiles compte vingt-sept phyla, parmi lesquels le phylum des chordés seul comprend tous les vertébrés. Cette explosion de vie, qui s’est souvent produite au début d’autres cycles géologiques plus récents, mais pas sous une forme aussi étonnante, démolit également un autre postulat, ce dernier soutenu par les néodarwiniens. C’est-à-dire que pour permettre des changements fruit du hasard et aussi lents des formes vivantes, il était nécessaire de prolonger autant que possible la durée temporelle du processus de sélection naturelle. En fait, la datation de l’origine de la vie au siècle dernier s’est de plus en plus dilatée, notamment pour tenir compte de la dernière théorie démentielle : l’origine de l’organique à partir de l’inorganique. Mais pour mieux comprendre l’insurmontable obstacle que représente l’explosion de vie cambrienne, il faut examiner les concepts biologiques de diversité et de disparité.

      Selon le darwinisme, la diversité est représentée par une légère distance morphologique. Par exemple, le loup et le renard se seraient séparés en deux espèces à un certain stade de leur évolution. La distance morphologique qui les sépare est minime. Mais au fil du temps, leurs descendants deviendront encore plus éloignés, prenant la forme de genres, dont la diversité entre eux est plus grande. Ainsi, au cours d’une très longue période, leurs descendants deviendront de plus en plus éloignés, formant des familles, des ordres, des classes et des phyla. Au terme de ce long processus, la distance morphologique devient une disparité. L’apparition quasi simultanée de vingt-trois phyla sans la distance morphologique progressive envisagée par Darwin est en effet un obstacle insurmontable pour la foi évolutive. Contra factum non valet argumentum, disaient nos ancêtres. “Si un fait contredit notre argument, tant pis pour le fait” soutient la nouvelle logique évolutionniste !

      Le phylum est déterminé en tenant compte de l’unité de l’architecture corporelle, du modèle d’organisation ou plan structurel : c’est-à-dire l’examen des similitudes de la base morphologique commune. Les évolutionnistes ont suivi deux hypothèses pour expliquer l’apparition soudaine au début du Cambrien de nombreux phyla. La première semble être un tour de passe-passe : la valeur scientifique de la classification des phyla est donc remise en question. Basée sur l’observation des formes corporelles, elle apparaît, selon eux, comme une classification “superficielle” et “esthétique”. Ils proposent donc une classification qui permet de réduire le nombre de phyla, basée sur la reconnaissance des affinités entre les espèces de chaque phylum comme provenant d’un ancêtre précambrien commun. C’est-à-dire une classification basée sur ce qui n’existe que dans leur imagination !

      La deuxième hypothèse fait appel à l’intervention de la géologie. Au Cambrien, le niveau de la mer était beaucoup plus élevé, car il est démontré que les couches contenant des fossiles de cette époque apparaissent à différentes hauteurs de montagne. Dans le Précambrien, en revanche, la surface de l’eau était beaucoup plus basse. Par conséquent, les ancêtres fossilisés des vingt-trois phyla cambriens devraient se trouver au fond des océans et, pour cela, ils n’auraient pas encore été trouvés. Bien que plus raisonnable, cette hypothèse est un renouveau de l’espoir déjà exprimé par Darwin, de découvertes futures qui confirmeraient certainement sa thèse. Cependant, en 2000, près de Chengjiang, sous les sédiments cambriens, des dépôts de couches précambriennes ont été découverts. Cette découverte, prise très prudemment en raison des tendances idéologiques sensationnelles de la science cinocommuniste, a attiré un nombre important d’experts étrangers. Cependant, ils ont dû confirmer l’exactitude de la découverte. L’hypothèse des preuves cachées au fond des océans a été définitivement détruite. Seules des éponges, des algues et des microorganismes étaient présents dans le fond du Précambrien. Au total, les trois phyla connus ont émergé. De toute évidence, les revues académiques, même si elles signalent la découverte, se sont abstenues de donner une évaluation correcte, attendant qu’un autre trucage revienne pour soutenir l’évolutionnisme.

      Avec la découverte de la génétique, de différents courants de l’évolutionnisme qui se déclarent néodarwiniens ont vu le jour,. Ils ignorent les informations paléontologiques, mais perpétuent la croyance en trois dogmes : sélection naturelle, hérédité et variation ou mutation accidentelle, sur une très longue période de temps. Paradoxalement et comme on pouvait s’y attendre, les découvertes en génétique et en chimie moléculaire ont réfuté la validité de ces dogmes. Les généticiens ont donc dû proposer des hypothèses alternatives, toujours évolutionnistes, mais pas darwiniennes, comme par exemple la symbiogénèse et la variation facilitée. Il est très agréable de lire ce livre pour la manière incontestable dont ces hypothèses sont contredites par les découvertes et les preuves scientifiques publiées dans des revues spécialisées largement citées par l’auteur. Naturellement, les “prêtres” de la religion athée de l’évolutionnisme continuent à perpétuer leur foi par la divulgation scientifique et les manuels d’enseignement scolaire et universitaire, afin de maintenir leurs “fidèles” dans une ignorance totale.

      Le livre se termine par une description intéressante de l’Intelligent Design qui, loin d’être une foi aveugle comme l’évolutionnisme, est au contraire une théorie basée non seulement sur des faits, mais aussi sur une explication rationnelle. Le principe à partir duquel son argumentation se développe est la Cause Véritable, que Darwin lui-même s’était proposé en vain de suivre. En fait, c’est précisément l’information génétique, même dans les formes de vie considérées comme “plus simples”, qui semble d’une complexité déconcertante. L’information génétique, en effet, trouve une explication appropriée à la lumière d’une intelligence ordonnatrice plutôt qu’au chaos supposé par la science athée. Ce n’est pas une coïncidence si ce texte, qui a trouvé un écho considérable dans les pays anglophones, n’a pas encore été traduit en d’autres langues.

      Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

      🇬🇧 Stephen C. Meyer: Darwin’s Doubt, New York, HarperCollins Pbls., 2014. ISBN 978-0-06-207148-4. Pp. xiii-540.

      The publication of this book by the publishing giant HarperCollins Publications and its recognition as a bestseller by the New York Times demonstrates that even the the Adversary sometimes distracts himself from its tireless activity of spreading ignorance and error on a planetary level. In fact, this book represents one of the most powerful beating to the ever resurgent Darwinian and neo-Darwinian evolutionary theories. Recently we have published a review of a book by Giuseppe Sermonti which confuted evolutionism with arguments too intelligent and with scientific demonstrations too subtle to penetrate the mental obtuseness of the followers of this theory and its most recent modifications. Stephen C. Meyer, in fact, is a scientist who reasons according to the “scientific method”, and therefore speaks the same language as his colleagues: his arguments are, therefore, within the reach of their understanding and his demonstrations are based on data shared by all, specialists or not.

      The fact is that the result of its ponderous volume totally overturns the evolutionary theories, putting into play completely indisputable evidence. In order to give the maximum impact power to his exposition, the Author wanted to put at the centre of his considerations a single debunking argument; that argument that Charles Darwin himself admitted to be the main insuperable obstacle to his hypothesis, the same one that evolutionists carefully avoid dealing with, or of which they unwillingly deal with, by consciously cheating its data. This is the explosion of Cambrian living forms. Five hundred and thirty million years ago, as fossil evidence suggests, many animals suddenly appeared without the slightest trace of their ancestors in the deepest geological strata. Indeed, similar ‘explosions’ are attested in other passages from one geological era to another, such as the sudden appearance of sea scorpions, starfish and tetracorals at the dawn of the Ordovician, amphibians at the Devonian and turtles and dinosaurs at the beginning of the Triassic.

      But the Cambrian explosion is more amazing because it is preceded by a few and too simple forms of life. Darwin delegated the solution of this difficulty to future generations of his followers. It was up to them to find the fossils of the predecessors of the animal forms of the Cambrian, and they were responsible for the lack of excavations and research in his time. He therefore entrusted his faith in evolutionism to future discoveries that would recognise his hypothesis as a natural law, comparable to that of Newtonian gravitation or that of Lavoisier’s mass conservation. One hundred and sixty years have passed since 1859, but the long-awaited discoveries have never occurred. On the contrary, as investigations and research have multiplied immeasurably, all the findings continue to contradict Darwin and his epigons. The “missing link”, especially in this case, has proved to be not only missing, but completely non-existent. There is one more important consideration to be made. According to the Darwinian hypothesis, differences in biological form should gradually increase, constantly multiplying over time the number of differentiated body patterns and phyla.

      For those who do not remember, a phylum constitutes the broadest category of biological classification in the animal kingdom, each with a unique architecture, organisational design or structural scheme. Now, it is true that there were three categories of phyla in the Precambrian, but at the beginning of the Cambrian, with the explosion of new living forms, there were twenty-three. Of these twenty-three phyla, two were the continuation of the Precambrian phyla (since one became extinct), which remained throughout the Cambrian (60 million years!) without any mutation. Eighteen other phyla appeared ex abrupto without any precambrian form that represented a less evolved phase. This breaks down the first postulate of the Darwinian hypothesis, according to which all living forms, ultimately, descend from a single common ancestor; that primordial form would gradually develop into new forms of life, which in turn developed into others, then producing, after many millions of generations, all the complexity of life that we see today. Thus was born the idea of the family tree of Darwinian evolutionism as it has been confined in our minds since elementary studies, and which turns out to be a mere invention of fantasy.

      But the simultaneous appearance of many phyla in the Cambrian also undermines the foundations of the second postulate of the evolutionary hypothesis, i.e. natural selection, a process implemented by the random variation of the characters of organisms through their descendants. The environmental changes would have allowed the adaptability to the new climatic conditions only for the strongest and most habit-forming individuals, marking the disappearance of the weakest and most inadequate ones. With the passing of time, these resistant individuals would generate new species and then, through similar changes over millions of years, always by chance, new genera, families, orders, classes and, in the end, new phyla would be produced. On the other hand, the evidence of fossils shows that at the beginning of the Cambrian there were already twenty-three phyla, already subdivided into classes, orders and all further subdivisions. To understand the enormity of this ‘explosion’, consider that the sum of all current life forms or fossils count twenty-seven phyla, among which the phylum of the cordati alone includes all vertebrates. This explosion of life, which often occurred at the beginning of other more recent geological cycles, but not in such astonishing form, also demolishes another postulate, the latter supported by the neo-Darwinians. That is to say, in order to allow such slow random changes in living forms, it was necessary to extend the time duration of the natural selection process as much as possible. In fact, the dating of the origin of life in the last century has become more and more dilated, also in order to allow for the last demential theory: the origin of the organic from the inorganic.

      But to better understand the unsurpassability of the obstacle represented by the explosion of Cambrian life, the biological concepts of diversity and inequality must be examined. According to Darwinism, diversity is represented by a slight morphological distance. For example, the wolf and the fox would have separated into two species at a certain stage of evolution. The morphological distance between them is minimal. But with the passage of time their descendants would become even more distant, taking the form of genera, whose diversity between them is greater. In this way over a very long period of time their descendants would become more and more distant, forming families, orders, classes and phyla. At the end of the long process the morphological distance becomes disparity. The almost simultaneous appearance of twenty-three phyla without the gradual morphological distance envisaged by Darwin is indeed an unbearably insurmountable obstacle for evolutionary faith. Contra factum non valet argumentum, our ancestors used to say. “If a fact contradicts our argument, all the worse for the fact” supports the new evolutionary logic!

      The second hypothesis appeals to the intervention of geology. In the Cambrian, the sea level was much higher, as it is demonstrated that the layers containing fossils from that era appear at different mountain heights. In the Pre-Cambrian, on the other hand, the water surface was much lower. Therefore the fossil ancestors of the twenty-three Cambrian phyla fossils should be at the bottom of the oceans and, for this reason, have not yet been found. Although more reasonable, this hypothesis is a revival of the hope already expressed by Darwin, of future discoveries that would certainly confirm his thesis. However, in 2000, near Chengjiang, under the Cambrian sediments, deposits of precambrian layers were discovered. The discovery, taken with great caution because of the ideological-sensationalist tendencies of the Cynommunist science, attracted a large number of foreign experts. However, they had to confirm the accuracy of the discovery. The hypothesis of the evidence hidden at the bottom of the oceans was definitively destroyed. Only sponges, algae and microorganisms were present in the Precambrian bottom. In total, the three already known phyla emerged. Obviously, academic journals, while reporting the discovery, refrained from giving a proper evaluation, waiting for some other trick to return to support evolutionism.

      With the discovery of genetics, different currents of evolutionism have arisen which calls itself neo-Darwinian. They ignore palaeontological information, but perpetuate the belief in three dogmas: natural selection, heredity and random variation or mutation over a very long period of time. Paradoxically and as one might expect, genetic and molecular chemistry discoveries have disproved the validity of these dogmas. Therefore geneticists had to propose alternative hypotheses, always evolutionary, but not Darwinian, such as symbiogenesis and facilitated variation. It is very enjoyable to read this book for the incontrovertible way in which these hypotheses are contradicted by the discoveries and scientific evidence published in specialized journals widely quoted by the Author. Naturally, the ‘priests’ of the atheistic religion of evolutionism continue to perpetuate their faith through scientific divulgation and manuals of school and university education, in order to keep their ‘faithful’ in total ignorance.

      The book concludes with an interesting description of Intelligent Design which, far from being a blind faith like evolutionism, is instead a theory based not only on facts but also on rational explanation. The principle from which his argument develops is the True Cause, which Darwin himself had proposed in vain to follow. In fact, it is precisely genetic information, even in life forms considered ‘simpler’, that appears to be of disconcerting complexity. Genetic information, indeed, finds an appropriate explanation in the light of an ordering intelligence rather than the chaos hypothesized by atheistic science. It is no coincidence that this text, which has gained considerable resonance in English-speaking countries, has so far not been translated into any other language.

      Devadatta Kīrtideva Aśvamitra