Śrī Śrī Svāmī Jñānānandendra Sarasvatī Mahārāja
2. Vedānta Jijñāsa
VI Risposta:
Se il mondo non ha esistenza, che cos’è questa creazione che tu ed io vediamo? L’advaitin replica che la creazione, che è vista attraverso i condizionamenti aggiuntivi della natura di avidyā associati al jīva, è il Brahman stesso. “Tutto questo è in verità il Brahman” (Chāndogya Upaniṣad III. 14. 1). L’advaitin sostiene che se il mondo esiste [cioè se lo si accetta, per ignoranza, come esistente], allora il Brahman è sia la causa materiale sia la sua causa efficiente. Śrī Śaṃkarācārya, sull’autorità di passi dell’Upaniṣad e dei Brahma Sūtra come “Quello, da cui questi esseri sono nati, sul Quale una volta nati vivono, e nel quale morendo rientrano, Quello è il Brahman” (Taittirīya Upaniṣad III. 1), e “[il Brahman deve essere] anche la causa sostanziale [oltre che efficiente]” (Brahma Sutra I. 4. 23), sostiene che il Brahman, che è immutabile, senza parti, pura Coscienza, puro Essere, pura Beatitudine, è sia la causa materiale sia la causa efficiente del mondo, per non contraddirne l’affermazione e l’esempio.
Il Brahman è immutabile, senza parti; non è una sostanza, ma pura Coscienza etc. Come può tale Brahman diventare la causa materiale del mondo? L’advaitin replica che il mondo è immaginato, concepito in modo erroneo sul Brahman dalla nostra ignoranza. Ogni volta che una cosa viene immaginata, allora il suo sostrato deve essere ritenuto causa materiale e strumentale di quella cosa. Per esempio, la causa materiale e determinante della corda-serpente è la sola corda. Similmente, la causa strumentale e materiale del mondo è il Brahman, in quanto il mondo è sovrapposto e proiettato in esso.
VII Risposta:
Tuttavia, in ultima analisi, il jīva individuale, il mondo e Dio si dissolvono nell’unica Realtà, cioè nel Brahman, ovvero quando si realizza se stessi come Brahman, una spiegazione a domande sul perché il mondo è creato e come, è ricercata dall’individuo finché li vede. Quando le persone, che si identificano al corpo e alla mente, vedono il mondo, sono inclini a supporre che debba esserci una causa materiale per il mondo, e credono che il mondo debba essere un effetto di questa causa. Per soddisfarli, l’advaitin ancora una volta graziosamente acconsente a rispondere a quella supposizione dicendo che, allora, la causa materiale che essi ricercano è “māyā”; tuttavia, questa māyā è immaginata a causa di avidyā. È detta essere il seme, o la forma potenziale, del mondo. Ma non deve mai essere dimenticato che la teoria di Māyā–Satkāryavāda è sostenuta da Śrī Śaṃkarācārya dal punto di vista del jīva. Māyā è una sostanza immaginata, architettata dall’ignoranza, e non ha una reale esistenza. Śrī Śaṃkara, ancora una volta, definisce māyā come ciò che appare, ma che non esiste (MUGKŚBh IV. 58). Dunque sia il mondo sia la sua causa, la māyā, sono ritenuti illusori.
Non appena diventiamo esseri individuali, a causa dell’ignoranza iniziamo a vedere il mondo e a presumere per esso un creatore, una causa, Dio. Non appena il jīva perde la sua individualità ottenendo la conoscenza, il mondo perderà il suo creatore, Dio. Non appena il jīva perde la sua individualità ottenendo la conoscenza, il mondo perderà la propria stessa mondanità, e non ci sarà più né il soggetto conoscitore né l’oggetto conosciuto, ma l’unica, indivisa, omogenea, infinita Esistenza risplenderà da se stessa. Il jīva, il jagat (mondo) e Īśvara si dissolveranno allora nel Brahman, l’unica e sola Realtà senza secondo. Dice Śrī Śaṃkarācārya nel Bhāṣya ai Brahma Sūtra (II. 1. 22): “Quando la [consapevolezza della] non-distinzione viene risvegliata da tali dichiarazioni d’identità, come la sentenza «Tu sei Quello» e altre simili, allora la [falsa nozione della] natura trasmigratoria del jīva viene rimossa dall’evidenza della natura di Colui che manifesta [l’universo], la quale è propria del Brahman. Infatti, tutto ciò che costituisce una differenza di ordine relativo empirico è una conseguenza dell’ignoranza, la quale ha natura illusoria, e viene completamente dissolta dall’autentica Conoscenza. In tale stato, donde mai può più scaturire una disputa in merito alla manifestazione? […] In effetti, noi abbiamo ripetutamente detto che il saṃsāra non è altro che una visione erronea dovuta all’assenza di discriminazione delle varie sovrapposizioni [dal Sé]; queste, essendo delle limitazioni soggettivamente imposte [all’Ātman libero per natura], sono costituite innanzitutto dal complesso di corpo e sensi e questi, a loro volta, consistono di nome e forma sovrapposti attraverso l’ignoranza: tuttavia noi non abbiamo mai asserito che tale saṃsāra esista realmente. Tale [nozione del saṃsāra] è analoga alle varie idee di indebita identificazione di Sé con eventi come nascita, invecchiamento, morte, e così via”.
VIII Risposta:
La maggior parte dei pensatori delle religioni e delle filosofie, identificano se stessi con la mente, i sensi e il corpo, e iniziano a pensare come individui. Ognuno e tutti, ad esclusione dei jñāni o illuminati, interpretano erroneamente se stessi come entità diverse da Dio. Pensano di essere senza aiuto e incapaci di fare grandi cose. Ma Dio, o la Realtà, è grande e capace di fare qualsiasi cosa. È onnisciente. È Colui che conosce tutto, il creatore ecc. Dicono che devono ottenere la liberazione attraverso la meditazione su di Lui, arrendendosi a Lui e ricevendone la Sua grazia. Come dobbiamo considerare queste varie filosofie rispetto la dottrina Advaita? In quanto filosofi, non hanno distinto il loro vero Sé dagli upādhi o condizioni limitative sovrapposte a cui sono associati in veglia e sogno e non hanno appreso la vera natura del Sé. Si deve comprendere che, quando i pensatori non si liberano dall’influenza della mente e del corpo e rimangono dei sé condizionati, le loro conclusioni nel determinare le questioni decisive dell’indagine sulla Realtà debbono necessariamente rimanere imperfette. Queste persone, identificate alla mente, al corpo ecc. (mithyājñāna pratibaddhaḥ), vedono il mondo attraverso i loro occhi e gli altri sensi e dicono che il mondo è reale, proprio perché lo vedono attraverso i sensi. Non considerano che la mente e i sensi sono prodotti grossolani [cioè oggetti acit, illuminati e resi coscienti da altro da sé] e dunque come tali appartengono propriamente al mondo. I sensi non sono in grado di attestare che il mondo sia una mera apparenza in quando essi stessi sono il risultato del mondo. L’essere individuale compirà un tentativo inutile di realizzare la Realtà più elevata fintanto che continuerà ad aggrapparsi alla sua piccola individualità. Perciò, fintanto che uno si identifica al corpo e ai sensi, costui non è qualificato per scoprire la Realtà e discernerla dall’irrealtà del mondo. Egli deve per forza di cose dire che il mondo è reale perché è identificato con la mente e i sensi, che sono prodotti del mondo. Nessuno può dire: “Mia madre è una donna sterile”.
L’uomo che ha sublimato e rimosso l’identificazione e si pone come puro Essere, pura Coscienza e pura Beatitudine, è qualificato per giudicare la natura del mondo, ed egli asserisce che il mondo visto prima con l’aiuto della mente, sensi, etc., è meramente proiettato da adhyāsa; in verità non è nient’altro che il Brahman. L’ignorante, il quale ha la conoscenza errata, crede nell’esistenza del mondo, ma il mondo da lui appreso non esiste e, per come esso è in realtà, è il Brahman. L’esistenza dell’uno con l’esistenza dell’altro, e la scomparsa dell’uno con la scomparsa dell’altro, affermano la relazione di causa ed effetto tra i due. Con questa regola è provato che la conoscenza del mondo è l’effetto di avidyā (o adhyāsa) perché il mondo esiste [solo] quando avidyā esiste. Oltretutto, quando questa falsa conoscenza, della natura della confusione tra Sé e non-sé e viceversa, è sublimata e rimossa dalla vera e corretta conoscenza del saggio, la quale è della stessa natura dell’Intuizione diretta che “Io sono Brahman”, allora la dualità non è più conosciuta, né vista. Persone così sagge non vedono affatto più il mondo, ma intuiscono e sperimentano il loro Ātman in quanto Brahman senza dualità. Perciò, è stabilito che la conoscenza del mondo è il risultato della confusione del Sé con il non-sé e viceversa, e che esso non è davvero reale. I più grandi saggi, incluso Śaṃkarācārya, che hanno rimosso la loro identificazione con il corpo e la mente, restando come puro Essere, non considerarono se stessi come individui ma videro se stessi come le più elevata Realtà. Inoltre, videro il mondo come Brahman stesso, il quale è uno senza un secondo e onnipervadente.
IX Risposta:
Sorge allora l’obiezione: come può tale Brahman, che costituisce il nostro vero Sé, non essere universalmente conosciuto e riconosciuto, laddove invece il mondo, che si dice essere non-esistente, è percepito da tutti? La risposta è la seguente: l’Ātman (in altre parole puro Essere, pura Coscienza e pura Beatitudine) è sempre il soggetto e non può mai essere ridotto allo stato di oggetto; vale a dire che, nel nostro caso, non può mai diventare l’oggetto della conoscenza. Non può essere percepito dalla mente o dai sensi, perché presiede e pervade la mente e i sensi. La Śruti dice: “Ciò che la vista non può vedere, ma dal quale, come si dice, la vista è vista; ciò che la parola non può esprimere, ma dal quale, la parola è espressa; ciò che la mente non può pensare, ma dal quale la mente è pensata, quello è l’Ātman”. È impossibile negare la sua esistenza perché anche chi la negasse sarebbe lo stesso Sé. Śaṃkara dice nel Brahma Sūtra Bhāṣya: “La vera natura del Sé è quella di essere assolutamente non-agente” (BSŚBh I.1.4; II.3.7). Questo Ātman deve essere intuito come il proprio stesso Sé, negando tutte le sovrapposizioni limitative associate in veglia e in sogno, cioè il corpo, i sensi, la mente, l’intelletto e l’ego, il mondo e il suo seme, i quali sono immaginati e proiettati da una conoscenza erronea, e non perseguendoLo come se fosse un oggetto fenomenico. Gli Śāstra stabiliscono l’Ātman semplicemente eliminando le distinzioni proiettate e sovrapposte dall’ignoranza su di Esso. Così si esprime Śaṃkara: “L’intento fondamentale delle Scritture consiste proprio nell’estinzione della [nozione-percezione di] differenziazione concepita attraverso l’ignoranza. Viceversa, le Scritture non intendono affatto dimostrare che il Brahman sia un ente la cui natura possa essere espressa dicendo “è questo”, come fosse un oggetto. Qual è allora lo scopo? Dichiarando che il Brahman non è un oggetto di conoscenza in quanto è l’intimo Sé di ogni essere, esse intendono rimuovere la distinzione che viene erroneamente concepita tra il conosciuto, il conoscitore e la conoscenza a causa dell’ignoranza” (BSŚBh I.1.4). Così il Brahman non può essere stabilito in altro modo.
È stato già detto che il mondo è semplicemente proiettato o immaginato dall’ignoranza sul Brahman e che, come tale, è percepito soltanto dall’ignorante. La conoscenza del mondo non è reale; è solo il risultato della confusione tra il Sé e il non-sé e tra il non-sé e il Sé.
X Risposta:
L’Ātman, o il Brahman, è sempre libero da tutte le tare della dualità chiamate corpo, sensi, mente, ego e mondo. Ma, non appena ci identifichiamo al corpo e ai sensi, allora diventiamo falsi sé o individui e il puro Essere è pensato come differente da noi ed è chiamato Dio dagli ignoranti, ajñāni. Lo spazio è erroneamente ritenuto limitato in un vaso, anche se in realtà è illimitato, e noi pensiamo che questo spazio sia piccolo e il resto dello spazio grande. Lo spazio, che non può essere diviso in due in quanto è senza parti, è diviso in uno spazio interno, contenuto, e in uno grande esterno dagli ignoranti che non conoscono la natura dello spazio. Esattamente lo stesso pensano anche della Realtà una, indivisibile, onnipervadente, pura Coscienza – che reputano essere divisa in una molteplicità di anime e un Dio. Dice Śaṃkara: “A tal proposito si dice: in verità, l’essere [apparentemente] trasmigrante non è altri che il Signore stesso1. Quindi, [per quanto riguarda il Signore] si ammette anche una certa connessione [apparente] con i condizionamenti costituiti dalla [erronea e illusoria] associazione con il corpo, ecc., nello stesso modo in cui lo spazio [di per sé illimitato] viene arbitrariamente associato con fattori limitanti come vasi, giare, caverne e così via. Pertanto nel piano empirico si può constatare che tanto le parole quanto i concetti che esse esprimono, che sono entrambi prodotti da tale [connessione], vengono adoperati nell’uso corrente [in modo erroneo] in espressioni del tipo: “lo spazio racchiuso nel vaso” o “lo spazio contenuto in una giara” e così via, benché non siano affatto differenti dallo spazio [unico e indivisibile]. Inoltre si constata che viene associata con lo spazio anche la cognizione ugualmente erronea inerente alla differenziazione, la quale deriva anch’essa da tale [apparente connessione] e si rivela in espressioni come: “lo spazio che sta dentro al vaso” [in opposizione a quello che è fuori] e altre ancora. Analogamente, anche nel caso in questione, si crea una simile falsa nozione, di carattere illusorio, la quale inerisce alla presunta differenziazione immaginata tra il Signore e l’essere trasmigrante, nozione, questa, che viene a determinarsi in conseguenza dell’assenza di discriminazione con cui vengono attribuiti al Signore tali fattori condizionanti quali l’associazione con il corpo e così via. In questo modo si può notare che, quando si verifica l’associazione con il corpo, ecc. da parte del Sé, il quale permane sempre identico a se stesso e privo di relazioni, si produce [apparentemente] una tenace identificazione del Sé reale e assoluto, con il non-sé; questa erronea identificazione non deriva da altra fonte se non da quelle precedenti cognizioni di carattere illusorio che procedono le une dalle altre. Sicché, perdurando tale stato di soggezione al saṃsāra, diviene perfettamente ragionevole ammettere che l’essere trasmigrante possa esplicare la propria capacità di conoscere solo in dipendenza dal possesso del corpo e dagli altri pramāṇa”.
Il jīva individuale normalmente ritiene di essere nato in questa o quell’altra data, in questo o quell’altro luogo e che un giorno o l’altro morirà. Sente anche o di essere prigioniero nelle calamità del saṃsāra o di goderne tutti i piaceri. Questa nozione è però contraria alle affermazioni della Śruti come “Tu sei Quello (Tattvamasi)”. Fintato che l’individuo è identificato con il corpo, la mente, etc., gli è impossibile capire il vero significato di questa grande verità. Perciò, nel Vedānta di Śaṃkara, la vera rinuncia significa la rinuncia dell’“io” e del “mio” ovvero dell’individualità. Similmente, arrendersi a Dio significa rinunciare alla falsa individualità e porsi fermamente nella propria vera natura essenziale, nella vera natura del Sé.
Che cos’è il Mokṣa, secondo la Śruti e Śaṃkara? Śaṃkara dice che è a causa dell’identificazione di corpo, sensi, ecc. con l’Ātman che la Realtà è erroneamente confusa con l’individuo. Se questa identificazione è rimossa dalla vera conoscenza che termina nella realizzazione di Sé attraverso l’insegnamento del Guru e della Śruti, allora l’Ātman, creduto essere il jīva, si rivela eternamente in quanto puro Essere, pura Coscienza, e pura Beatitudine. La vanificazione della conoscenza erronea di prendere il Sé per il non-sé e viceversa, e l’emergere della nuova conoscenza del proprio vero essere – l’Ātman onnipervadente -, sono due ‘eventi’ che avvengono simultaneamente. “Il frutto della realizzazione del Brahman è immediato e simultaneo in rapporto alla conoscenza. In che senso? Come nel piano empirico si ha la percezione di un oggetto nel momento stesso in cui l’occhio dell’osservatore entra in contatto con la luce, così nello stesso momento in cui si realizza la conoscenza del Sé si ha la cessazione dell’ignoranza relativamente a Quello” (BUŚBh. I.4.10). Il significato della dichiarazione upaniṣadica “Tu sei Brahman” è così giustificata.
Perciò, quando si realizza che il mondo, consistente in oggetti animati e inanimati, manifesti o non-manifesti, è una proiezione di avidyā e dunque non esiste veramente nella forma viene percepito in quanto mondo, ma esiste sempre nella sua reale natura in quanto Brahman; e quando si realizza che l’ignoranza è completamente dissolta dalla conoscenza, allora la liberazione è nelle proprie mani, che significa che si rimane come Brahman, come la Realtà che è puro Essere, pura Coscienza e pura Beatitudine. Il Brahman è il solo Sat o Realtà. Ciò è quanto è stabilito da Śrī Śaṃkarācārya.
- Non nel senso che il Sé è l’unico trasmigrante, come frainteso da Coomaraswamy, ma nel senso già precedentemente stabilito per cui “tutto questo è in verità il Brahman” (Chāndogya Upaniṣad III. 14. 1).[N.d.C.] [↩]