2. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru
Il nome è, dunque, dovuto semplicemente all’apparenza. Perciò l’apparenza è un pensiero: lo si usa per un determinato scopo, lo si osserva da una certa angolatura e gli si attribuisce un nome.
Mio caro, conoscendo il solo (ekena) oro si conoscono tutte le cose fatte d’oro. Ogni assunzione di una forma [od ogni trasformazione, vikāraḥ] ha nella parola il suo supporto (abhidheyam) e questa è solo il nome (ChU VI.1.5).
E Śaṃkara nel breve commento aggiunge: “[cose] trasformate in collana, diadema, bracciale d’oro”.
Mio caro, riconoscendo nelle forbici solo (ekena) il ferro si conoscono tutte le cose fatte di ferro. Ogni assunzione di una forma [od ogni trasformazione, vikāraḥ] ha nella parola il suo supporto (abhidheyam) e questa è solo il nome. La realtà è il ferro in quanto tale. Mio caro, questo è l’insegnamento (ChU VI.1.6).
Se si guarda lo stesso oggetto da un altro punto di vista, gli si dà un altro nome. Perciò la stessa cosa appare in modi diversi. È possibile conoscere veramente un oggetto? Si può osservare un libro da diverse angolazioni; davanti, di costa, di dietro, di taglio, ed esso appare in forme diverse. Ma nessuno ha mai visto il libro intero. Quando lo si guarda da una angolatura si perdono di vista le altre angolature. La mente costruisce l’immagine dell’oggetto osservando la parte che è visibile nel presente. La presente angolatura è una percezione, le altre angolature, con cui ricostruiamo l’intera apparenza dell’oggetto, sono ricordi. Si combina la percezione attuale con ciò che si trae dalla memoria. Perciò non possiamo vedere mai un oggetto completo, ma ne costruiamo l’immagine artificialmente. Questo vale anche per l’immagine d’una persona: cambia vestito, si lascia crescere la barba, invecchia, ingrassa ecc. La persona in piedi, seduta e sdraiata sono tre persone diverse? Perciò il cambiamento è dovuto alla forma e al suo utilizzo e, a seconda dell’apparenza, si denominano le persone con attributi diversi: giovane-vecchio, magro-grasso, sano-malato. Perciò di una stessa cosa ci sono molteplici apparenze che noi sommiamo nella nostra immaginazione come fossero una. Similmente, in ogni momento l’‘io’ è associato a differenti forme, e quindi cambia continuamente. Quando la śruti dice “tu sei Quello”, con ‘tu’ a che ‘io’ allude? A quale ‘io’ si riferisce? La risposta sarà come segue:
La frase “tu sei Quello” allude al Sé interiore, come nel conosciuto apologo “tu sei il decimo” (Śaṃkara, Upadeśa Sāhasrī, 172)1.
Ma proseguiamo con ordine. Il guru indicò al figlio che solo l’argilla è reale e che quello a cui si attribuisce il nome di vaso è soltanto una forma, un’apparenza osservata da una particolare angolazione. Si può osservare l’argilla a partire da molti angoli, e dare alle sue diverse apparenze molti nomi: vaso, giara, coppa, brocca ecc. Tutti i punti di vista da cui s’osserva, tutte le forme che appaiono, tutti i nomi che s’attribuiscono loro, sono il mondo. Prapañca, il mondo, ha il significato di quintuplice: qui, in particolare vuol significare ‘molte angolature’, alludendo ai vari significati e ai nomi che si suole assegnare a quelli che appaiono come oggetti2. In verità l’unica cosa reale è l’argilla. Così, chi sa cos’è l’argilla, conosce tutte le sue forme. Allo stesso modo, quando si conosce l’acqua si conoscono tutte le onde, le gocce e la schiuma di ogni dove e di tutti i tempi. Quelle forme non hanno alcuna realtà, la realtà è l’acqua. La forma non è un oggetto indipendente, altro dall’acqua. Nessuno può affermare: «Questa è l’argilla e quell’altra cosa è il vaso». Una sola ‘cosa’ esiste.
Allora il figlio disse:
«Il mio venerato maestro certamente non aveva questa conoscenza. Infatti, se l’avesse conosciuta, perché non me l’avrebbe insegnata? O mio signore, sii tu a insegnarmela» (ChU VI.1.7).
Śvetaketu addossa al maestro la responsabilità della sua ignoranza. Non riconoscere la propria mancanza di conoscenza e persino la propria assenza di desiderio di conoscenza, che è un atteggiamento diffuso tra gli ignoranti. “Certamente il guru non lo sapeva.” Invece i maestri vogliono che i discepoli pongano loro domande. Dalle domande il guru capisce il livello del discepolo. Certe volte il guru può insegnare cose troppo elementari o troppo difficili. Dalle domande dello śiṣya, il guru capisce il suo grado di comprensione; oppure s’accorge se il discepolo ripete ciò che ha letto nei testi senza averne colto il senso. Anche il modo in cui la domanda è posta offre al maestro lo strumento per sondare il grado della sua comprensione. Lo Śāstra ammonisce il guru ripetutamente: “Non insegnare a nessuno se non chiede. Se non ti domandano, non rispondere.” Sebbene Śvetaketu ancora conservasse un po’ della sua boria accusando il suo maestro di brahmacarya, tuttavia si era reso conto dell’elevatezza dell’insegnamento appena ricevuto dal padre. Ciò dimostra la sua qualificazione intellettuale3. Perciò il figlio gli chiese: «Insegnami tu ciò che ignoro». Anche Naciketas chiese a Yama d’insegnargli la conoscenza. Yama cercò di dissuadere Naciketas, ma il giovane brāhmaṇa insisté nella sua richiesta. Aveva intuito, infatti, due cose: anzitutto che non doveva porre la domanda a nessun altro; in secondo luogo aveva capito che il Re dei morti aveva quella conoscenza, proprio perché aveva affermato che gli dei non la possedevano.
«Naciketas non ti chiede nient’altro se non il dono di penetrare nel mistero insondabile.» (KU I.1.29)
Uḍḍālaka cominciò a insegnare che ogni oggetto si distingue da un altro a causa dell’apparenza illusoria di nomi e forme che si proiettano in quello che Śvetaketu chiamava mondo (prapañca).
Il nome e la forma, che sono la causa seminale dello sviluppo dell’intera esistenza fenomenica e che sono falsamente immaginati dall’ignoranza (avidyā kalpita), sebbene non siano differenti dal Signore Īśvara onnisciente né siano definibili come identici a Īśvara né da lui distinti, sono menzionati nei Veda e nelle smṛti come Māyā, Śakti o Prakṛti4 (BSŚBh II.1.14.)
Rūpa, la forma, infatti, è il principio di differenziazione e di molteplicità con cui funziona la mente. Nāma, il nome, è il modo in cui la mente descrive l’apparenza di ogni oggetto differenziato dalla forma5. Le apparenze dipendono dalle cinque percezioni trasmesse dai sensi (jñānendriya). Le cinque percezioni, coordinate tra di loro dal manas, formano l’apparenza degli oggetti. Ma sono soltanto apparenze della mente. Infatti:
Quell’etere in cui si collocano i cinque gruppi di cinque6 è quello stesso Ātman che io so essere l’immortale Brahman. Sapendo ciò, io sono immortale (BU IV.4.7).
A questa apparenza la mente attribuisce un nome. Prendiamo per esempio l’apparenza d’un limone: lo si percepisce di forma ovale, giallo, acido, profumato ecc. Ogni senso può fornire più d’una informazione e, in questo modo, la descrizione (abhidhānam) minuziosa d’un limone potrebbe occupare un intero libro. Tutti i risultati delle percezioni sono coordinati dal manas che, tramite le diverse apparenze, identifica il concetto dell’oggetto a cui, poi, attribuisce un nome. Le apparenze sono di tutti i cinque sensi. Ogni senso, dunque, ha un suo modo di percepire: ma al di là del nome e della forma c’è una sola Esistenza, l’Ātman. Il resto sono solo variazioni di un’unica Esistenza, sono solo apparenze.
Per noi, l’Ātman è per sua stessa natura l’essenza della percezione; e quindi è distinto dal corpo; ed è eterno, perché la Coscienza è immutabile per natura. […] Quanto all’argomento secondo cui, poiché la Coscienza si verifica tramite gli organi di senso corporei, essa debba essere un attributo del corpo, ciò viene smentito nel modo che abbiamo già dimostrato. Da ciò ne consegue che la Coscienza non può affatto essere un attributo del corpo solo perché si verifica dove il corpo è presente e non si verifica dove il corpo è assente; perché, oltre all’utilizzo degli organi di senso del corpo, la percezione è possibile solo se ci sono le condizioni necessarie, come la presenza della luce, ecc. Perciò, il corpo non è un fattore del tutto indispensabile alla percezione, anche perché quando questo corpo giace inattivo mentre si sogna, si sperimentano molte altre percezioni. (BSŚBh III.3.55).
Quello che si chiama ‘questo mondo’ sono le varie apparenze divise in molteplici cose e ogni apparenza è diversa dall’altra. Tutta questa molteplicità era all’inizio l’unica Pura Esistenza. Inizio non deve essere inteso in termini di tempo, ma nel senso di al di là del mondo, in quanto tempo e spazio sono inclusi nel mondo. All’inizio o in principio significa che prima di tempo, spazio, soggetto-oggetti e di tutta questa molteplicità, è la Pura Esistenza. Che tutto questo appaia non significa che la Pura Esistenza si trovasse in una condizione temporale precedente da cui questo tempo ha avuto inizio. Non esiste alcun tempo in cui inizia il tempo e tutte le altre relazioni. All’inizio significa il punto di vista da cui si vede l’esistenza come fosse molteplice, come se si componesse di ‘questo e quello’. Cos’hanno in comune ‘questo e quello’? Questo ha una forma e quello un’altra, la disposizione spaziale è diversa, mentre il tempo è lo stesso. Oppure la disposizione spaziale è la medesima ma il periodo considerato è diverso. In definitiva l’apparenza è diversa, lo spazio è diverso, il tempo è diverso, ma, se si rimuove tutto quello che è diverso, l’Esistenza rimane la stessa. Per esempio un libro e un albero cos’hanno in comune? Il libro ‘è’, l’albero ‘è’. Qualsiasi sia l’apparenza, qualsiasi sia lo spazio, la dimensione, il periodo di vita, ciò che rimane come universale costante è l’Essere, l’Esistenza7. Se si rimuove ‘è’, ‘questo e quello’ non esistono. Tutte queste apparenze, vista, tatto, tempo, spazio, forma, ci sono perché ‘è’. A livello di essere non c’è differenza tra libro e albero. Ogni oggetto, ogni essere possono essere definiti ‘così e così’: sono definiti dalla loro collocazione spazio-temporale, dalla forma, dalla dimensione, da qualsiasi loro relazione con gli altri oggetti o esseri. Ma se si prescinde da queste determinazioni che li identificano e li individuano, tutti hanno in comune il fatto di essere.
Tutto ciò che è conosciuto come ‘mio’ (mama) e come ‘questo’ (idam) si basa evidentemente su ciò che è non-Sé. Ciò che si conosce come ‘io sono così e così’ è, dunque, attribuibile sia al Sé sia al non-Sé: ‘io’ da solo si riferisce al Sé, e ‘sono così e così’, al non-Sé (US XVIII.91).
A livello di esistenza tutti gli oggetti sono uno. È esattamente come in suṣupti, che non è solo una esperienza personale come la veglia e il sogno. In suṣupti tutto il mondo è Pura Esistenza. ‘Prima’ che tu vedessi questo mondo, esso era Pura Esistenza. Nella Pura Esistenza, quando subentra la mente, quando ci si sveglia, inizia la differenziazione soggetto-oggetto, poi spazio e tempo, poi i cinque sensi, tramite cui la mente divide tutto per cinque; s’aggiungono spazio e tempo e si vede questa molteplicità. La mente attiva in simultaneità tre cose: la relazione soggetto-oggetto, gli organi di senso con le conseguenti combinazioni di cinque; infine tempo e spazio. E, allora, si vede questo grande mondo. Procedendo all’inverso, prima si ritirano i sensi, poi la collocazione nel tempo e nello spazio, e allora rimane soltanto la relazione soggetto e oggetto; quando s’abbandona anche la mente, soggetto e oggetto svaniscono e s’arriva alla Pura Esistenza. Da questo unico sat appaiono i cinque elementi, perché all’inizio sat appare come fosse ākāśa, spazio8. Nello spazio si determina il vento, nel vento il fuoco, nel fuoco l’acqua, infine la terra. Non si possono considerare i cinque elementi (pañcabhūta) prodotti in sequenza, perché non sono nati nel tempo. Li si enumera così soltanto per spiegarne la differenziazione. Se si scioglie una pepita d’oro e se ne fa un cilindretto, poi uno stecco, poi un filo sottile e lungo. Lo si taglia in segmenti e di questi se ne fanno degli anelli. Li si concatena per farne una collana. Quanti passaggi ci sono stati? La collana è nata dopo sette passaggi. Quanto è lontano l’oro dalla collana? Si deve risalire di sette stadi per ritrovare l’oro? No, l’oro, rimanendo uguale a se stesso, ha solo cambiato apparenza. Anche la mano assume forme diverse. Per caso cambia la sua natura? Anche il volume dell’oro rimane lo stesso, come quello della mano. Tu lo guardi dal di fuori, dal limite, perché la forma non è intrinseca all’oro e perciò se ne può vedere la forma dall’esterno. È come piegare una stoffa. La sua area è sempre la stessa; solo la forma cambia. Perciò la medesima esistenza appare sotto forme diverse. Il mondo composto dai cinque elementi si vede per mezzo della percezione visiva, tattile, ecc.; esso è solamente la combinazione di queste cinque percezioni che fa vedere le variazioni degli oggetti del mondo. Ciò è applicabile anche all’osservazione dello spazio, che è relativo alla collocazione spaziale di chi è seduto a guardare. Per chi così osserva c’è qualcosa che gli è lontano e qualcos’altro che gli è vicino. Ma per lo spazio preso nel suo insieme, tutto è alla stessa distanza. Come nell’esempio della collana: l’oro è lontano nelle varie fasi di lavorazione? Quale fase è più vicina all’oro?
Perciò Uḍḍālaka chiamò Tat (Quello) la Realtà che mai cambia, l’Esistenza infinita ed eterna. Mṛtyu insegnò la stessa verità a Naciketas:
Ciò che sai essere differente da meriti e demeriti, dalla causa e dall’effetto, dal passato e dal futuro, chiamalo Quello (KU I.2.22).
E Yājñavalkya a Maitreyī:
Con cosa si potrebbe conoscere Quello per mezzo di cui si conosce tutto? (BU IV.5.15).
Tat significa Sat: Realtà, Verità, Essere. Quindi Uḍḍālaka concluse:
Questo Essere sottilissimo è ciò che fa esistere tutto questo. Esso deve essere inteso come l’Ātman. Quello è Sat, Quello è l’Ātman, Quello sei tu, o Śvetaketu (ChU VI.15.3).
Sat è l’Essere in cui tu, io e il mondo, tutto diventa Pura Esistenza, Pura Coscienza, Pura Beatitudine e in Tat si vedono proiettate tutte le varie forme. Per trattare del Sat, che è eternamente unico e non duale, si usano parole diverse: Brahman, Ātman, Coscienza, Essere, Assoluto, Esistenza, Infinito, Beatitudine. A seconda del contesto vyāvahārika in cui ci si trova a trattare di Quello, s’usano tali termini. Tuttavia deve essere ben chiaro che questi non sono per nulla suoi attributi o sue caratteristiche. Non c’è alcuna relazione dharmi-dharma9 che possa qualificare Quello e, perciò, condizionarne la Realtà. Quei termini sono assolutamente sinonimi, assolutamente identici tra loro. Con tutti questi termini Quello soltanto appare.
Anche tutto ciò che appare diverso dall’Ātman è ancora e sempre Sat, perché Sat non è scomparso, non si modifica. Anche se appare in forme mutevoli, l’oro è sempre lo stesso. È come correre su un tapis roulant; pare di muoversi, ma si rimane sempre allo stesso punto. Come l’attore che interpreta diversi personaggi, rimanendo in sé sempre lo stesso10. Perciò, qualsiasi forma prenda, il mondo non si è mai allontanato dall’immutabile Brahman. Azione, cambiamento, differenziazione, sono solo apparenze. Il Brahman è la verità del mondo, la realtà del mondo è Brahman; esso è il Sat e la Coscienza. Tutto questo mondo ha soltanto questa realtà che è solo il Sat, la Coscienza e la Verità. Non si deve pensare che ci sia un contenente e un contenuto. È come l’oro, che non sta dentro e la collana fuori. Perché nella collana c’è solo oro. Così si vede l’unica Pura Coscienza ed Esistenza in tutto il mondo, è la Realtà del mondo. È la stessa anche adesso, perché il tempo è un’apparenza nella Coscienza. Il tempo è una divisione artificiale nella Pura Coscienza. L’Esistenza non è divisa; lo spazio può sembrare diviso in forme grandi e piccole, ma ciò che è diviso non è realmente lo spazio. Lo spazio rimane indiviso, mentre gli oggetti che appaiono nello spazio sono divisi. Queste apparenze artificiali sono false nel senso che appaiono senza esistere in se stesse: esistono grazie all’esistenza del puro Sat. Esistono come coscienza, ma come oggetti solo appaiono. L’apparenza non ha esistenza, l’Esistenza è l’Ātman11. Questa è la ragione per cui il padre così spiega a Śvetaketu:
Quello è Sat, Quello è l’Ātman, Quello sei tu, o Śvetaketu (ChU VI.15.3).
Tutto questo (idam) ha l’Ātman-Pura Coscienza come sua esistenza. Ma dov’è questo Ātman? Questo ‘contenuto’, questa verità dell’intero universo non è in nessuna altra parte: sei tu. Sva Ātman, Quello è te stesso, Tattvamasi. Ciò significa che Quello di cui Uḍḍālaka ha parlato è esistente all’inizio del mondo. All’inizio non vuol dire un momento lontano nel passato, un inesistente inizio del tempo: all’inizio significa la realtà, la verità del mondo: Quello sei proprio tu. Perciò, “Śvetaketu, Tattvamasi. La verità dell’universo è la verità del tuo Sé. Tu sei la verità di tutto l’universo. Tu pensi di essere una parte dell’universo, un piccolo essere umano, che vive nel vasto mondo; ma quando ti distacchi dal tuo corpo, la mente e i sensi e li rigetti come non-sé; Quello che rimane come tuo vero ‘te’ (tvam) è il Sé interiore, (pratyātma) e allora tutto l’universo è quel Sé; tu sei e appari come tutto l’universo. Tutto l’universo sei tu. Perciò, Śvetaketu, Tattvamasi.”
- “Dieci giovani dovevano attraversare un fiume dalla corrente travolgente. Uno di essi ebbe l’incarico di controllare che nessuno di loro sparisse travolto dalle acque. Una volta attraversato il fiume, quel giovane contò ripetutamente i suoi compagni, ma gli risultava sempre che erano solo nove. Era preoccupato per quel decimo che mancava e che poteva essere stato portato via dal fiume sotto il suo stesso sguardo. Gli si avvicinò un misterioso estraneo [il guru] che, comprendendo la sua preoccupazione, gli disse: «Ti sei dimenticato di contare te stesso: tu sei il decimo!». Questo apologo, che Śaṃkara usa spesso, mette in evidenza che l’uomo ordinario è attratto dagli oggetti esterni del mondo della veglia e trascura il proprio Sé interiore come se non esistesse. Se invece il maestro ti insegna a guardarti dentro al di là dell’‘io’ empirico, allora riconoscerai l’‘Io’ reale [il Sé], esattamente come fece Brahmā quando rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole: «Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu»” (G.G. Filippi, Il Serpente e la Corda, cit., II vol., p. 136).[↩]
- “La parola mondo (prapañca) significa qualcosa che è somma di altre cose e, allo stesso tempo, che è suddivisibile in esse. Nel mondo esterno percepito da tutti, esistono molti oggetti ciascuno dei quali è distinto e differente dagli altri, perciò l’uno è separato dall’altro. Il mondo è quindi davvero prapañca. Invece l’Ātman non può essere in alcun caso saprapañca, cioè intaccato da questo prapañca. È, infatti, eternamente prapañcopaśama, ossia non infettato dal prapañca.” D.K. Aśvamitra “Alcune precisazioni sul metodo dell’Advaita” II; https://vedavyasamandala.com/wp-content/uploads/Alcune-precisazioni-sul-Metodo-dell’Advaita-II.pdf.[↩]
- Spesso avviene che un discepolo, di fronte a un insegnamento che supera la sua capacità di comprensione, si arrocchi nella sua mediocre conoscenza in cui prova un certo senso di sicurezza. Il rifiuto di una conoscenza più alta è dimostrazione di scadenti qualifiche intellettuali.[↩]
- Ciò esclude definitivamente la teoria secondo cui può esistere qualcosa al di là del nome e della forma che al tempo stesso sia anche manifestato.[↩]
- Per questa ragione la Liberazione emerge unicamente riconoscendo che il binomio nāma-rūpa è illusione (māyā): “Come i fiumi, fluendo a valle, raggiungono il mare e diventano indifferenziati perdendo il loro nome e la forma, così il sapiente, libero da nome e forma, raggiunge l’autoluminoso Puruṣa che è superiore a ciò che è superiore” (Muṇḍaka Upaniṣad, III.2.8).[↩]
- Il numero cinque rappresenta le cinque percezioni corrispondenti ai cinque elementi, ai cinque karmendriya e ai cinque tanmātra. Se il numero cinque è moltiplicato per i cinque gruppi del Sāṃkhya, si ottengono i venticinque tattva, ovvero l’intero stato di manifestazione (vyakta) e di non-manifestazione (avyakta) dell’universo. Per questa ragione l’universo nella sua totalità è chiamato prapañca. Pur mantenendo il simbolismo del numero cinque e del suo quadrato, Śaṃkara contesta giustamente al Sāṃkhya l’incongruenza e disomogeneità del raggruppamento comprendente Prakṛti, Puruṣa, mahat, ahaṃkāra e manas (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I.4.10-12).[↩]
- Nella dottrina advitīya essere ed esistere sono la stessa cosa. Considerare il senso originale latino di esistere (ex-sistere), nel senso di stare fuori dall’Essere, è una prospettiva duale caratteristica delle vie del non-Supremo. In questo modo si dà una realtà, seppure talora definita relativa, alla dualità Essere come Divinità ed esistenza come sua creazione.[↩]
- Per questa somiglianza con la Pura Esistenza, lo spazio, è di consueto preso a simbolo dell’assoluto Brahman. Lo spazio, infatti, è senza limiti, è onnicomprensivo e onnipervadente. Però il simbolo non è mai identico al simboleggiato. Infatti ākāśa è esistenza infinita, ma non è coscienza. È sat, ma non è cit e tantomeno ānanda. La medesima considerazione vale per il prāṇa. Anche la forza vitale è spesso usata nella śruti per simboleggiare il Brahmātman. Anche prāṇa, infatti,è infinito, onnicomprensivo e onnipervadente, ma è privo di coscienza, è acit.[↩]
- Qualità-oggetto qualificato. Il fiore rosso è un oggetto: il fatto di essere rosso è una sua qualità. Il fiore è un oggetto che può essere di un altro colore e il rosso è una qualità che può qualificare un altro oggetto, come un rubino. Il fiore non è fiore perché è rosso. Il rosso non è la natura del fiore. Invece la natura dell’Ātman è Esistenza, l’Esistenza è Coscienza e la Coscienza è Beatitudine. Sono tutti sinonimi per indicare la sua unica vera natura. È l’individuo che li usa, quando parla di Quello, come se fossero denominazioni differenziate.[↩]
- Un attore di successo e ben pagato può interpretare sulla scena un indigente. La povertà del personaggio non inficia la ricchezza dell’attore che lo impersona.[↩]
- Questo argomento è esaustivamente spiegato in Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī, La luce della Realtà. Il metodo delle tre avasthā, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020, pp. 165-183.[↩]