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Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

3. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

Rimane ancora da specificare che cosa intende il mahāvākya con ‘tu’ (tvam). Non ci produrremo in lunghe spiegazioni, in quanto l’argomento è già stato trattato a fondo1.

È come quando Brahmā rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole: “Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu”. Egli non fece riferimento ad alcuna azione che Rāma dovesse compiere per risvegliare la sua natura come Viṣṇu. A Rāma bastò soltanto ascoltare quelle parole. Allo stesso modo, senza che sia richiesto nient’altro che ascoltarla, la parola ‘tu’ rivela il Sé interiore autoluminoso del mahāvākya tu sei Quello il cui ‘risultato’ è la Liberazione. (US XVIII.100-101)

Alla luce di quest’ultima specificazione, il significato del mahāvākya è il seguente: ‘tu’-Ātman sei Quello-Brahman, in cui il verbo essere (asi) stabilisce l’identità non duale tra i due termini2.

* * *

A questo punto lasciamo la parola a Gurujī:

Quando si dice “tu sei Quello”, cos’è quell’‘io’? Se si identifica l’‘io’ al corpo, quando il guru insegna che l’‘io’ è l’intero universo, quell’insegnamento appare contrario alla propria esperienza: come può il corpo essere l’intero universo? Tuttavia non è possibile concepire che il maestro e la śruti sbaglino. Sorge perciò doverosamente il dubbio che l’errore sia da riconoscere in ciò a cui si identifica l’‘io’. Allo stesso modo si esclude l’identificazione dell’‘io’ con i sensi. Se il discepolo è intento a vedere e il guru dice “Tu sei Quello”, cioè l’‘io’ vedente, si ricade nel medesimo errore. Infatti non si può vedere tutto l’universo. Così è impossibile anche per l’udente; ed è impossibile a livello della mente identificarsi all’‘io’ pensante, impossibile a livello dell’intelletto identificarsi all’‘io’ intelligente. Allora cosa è mai il vero ‘io’? Prima si deve determinare cosa si è davvero, comprendere cosa si è. Solamente dopo, quando il guru insegna che tutto l’universo ‘sei tu’, quel tu cosciente, allora è facile capire. Perciò si deve arrivare a riconoscere il proprio vero ‘io’, il Sé, come testimone, Sākṣin.

Con la parola ‘Quello’ s’intende il Brahman di cui stiamo parlando, il Testimone (Sākṣin), origine dell’universo, come s’apprende dai testi che seguono: “Brahman è Verità, Conoscenza e Infinito” (T.U II.1.1), “Conoscenza, Beatitudine, Brahman” (BU III.9.28), “Questo immutabile non è mai testimoniato poiché è il Testimone; non è mai conosciuto poiché è il Conoscitore” (BU III.8.11) “senza nascita, vecchiaia né morte […] né grosso né sottile, né breve né lungo” (BU III.8.8) e così via. (BSŚBh IV.1.2).

La parte più importante del Vedānta, la sādhanā del Vedānta, è capire il vero Sé, il Sé centrale, il Sé reale, il Sé essenziale. Il vero Sé deve essere rintracciato perché l’individuo ha accumulato tanti non-Sé; i molti non-Sé si sono ‘mescolati’ con il tuo Sé e questi non-sé si confondono con il vero Sé e viceversa. Questo, che è lo stato naturale3 dell’ignoranza, è definito ‘reciproca sovrapposizione’ (anyonyādhyāsa). Perciò tutti i non-Sé devono essere discriminati, rimossi, e allora rimane il Sé reale. Questo Sé reale comprende l’intero universo. Per capire il proprio Sé, il Sé essenziale, bisogna usare il metodo (prakriyā o sādhana) per investigare (vicāra) com’è insegnato dal jñānaguru. Del metodo si possono descrivere due aspetti: il primo è denominato dṛg dṛśya viveka, cioè la discriminazione tra il vedente (dṛś) e ciò che è visto (dṛśya). Dṛś è il Sé che conosce, il Sākṣin, e dṛśya è il non-Sé conosciuto ossia ciò che è testimoniato (sākṣimat). Il Sé conosce e quello che è da lui discriminato è riconosciuto come non-Sé. L’altro aspetto del metodo è noto come āgama apāyin ed è usato per discriminare ciò che è stabile da ciò che va e viene: āgama, infatti, vuol dire che viene e apāyin che va. Nella nostra esperienza, ci sono due elementi mescolati: il vero ‘io’ e quello che non è il vero ‘io’. Questo non-sé ci rende saṃsāri. Bisogna capire qual è il vero Sé e quello che non lo è. Come si fa? Non si fa: fare è azione, è karma. Si deve guardare, osservare, contemplare e rimuovere quello che non è l’Ātman. Qualunque cosa si conosca non sei tu. Se il ‘tu’ è il conoscitore di questo (idam), questo che il ‘tu’ conosce non è il vero tu (tvam), perché il conoscitore non può conoscere se stesso. L’occhio non può vedere se stesso, la mano non può afferrarsi,

né il fuoco, pur possedendo il calore, può scottarsi, né l’acrobata, per quanto allenato, può saltare sulle sue proprie spalle (BSŚBh III.3.55),

perché nella stessa cosa non possono esserci soggetto e oggetto. Perciò chi conosce è diverso da quello che è conosciuto. Guarda quello che puoi conoscere e quello che non conosci. È facile conoscere l’Ātman. Qualsiasi cosa pensi non sei tu. Dopo aver sentito dell’Ātman, qualsiasi cosa immagini non è Ātman, qualsiasi cosa pensi, senti, non sei tu. Quello che sei tu è il ‘Sé naturale’ (Ātmasvarūpa), questo che conosci è anātman. Prima considera di cosa sei cosciente. Sei cosciente di tutto il mondo, attraverso i sensi si possono vedere tutte queste cose. Tutto ciò che vedi è altro dalla tua coscienza. Ma lo stesso vale per la vista, per gli occhi con cui vedi. «Gli occhi sono me?» No, non lo sono. Tu conosci occhi e orecchi come oggetti. Apri gli occhi e sei cosciente. Chiudi gli occhi e sei cosciente che i tuoi occhi non stanno operando e che non vedi. Apri gli occhi e rivedi. Stato di vedere e stato di non vedere; questi due stati assieme sono gli occhi, sono la vista. Vedere e non vedere; ma dietro ai due stati della vista c’è la mia coscienza perché li conosco entrambi. Perciò ‘io vedo e io non vedo’ vogliono dire che io sono comune a tutti e due. Non sono né il vedere né il non vedere. Bisogna tener presente la sola coscienza che sta dietro quelle due apparenze. Perché se m’identifico con la vista, quando apro gli occhi penso che la coscienza negli occhi sia io. La coscienza non sta negli occhi, ma ne è il sostrato indipendente. La vista viene a me e se ne va. La coscienza che sta dietro è indipendente dall’aprire e da chiudere gli occhi. Tocco e sono cosciente, non tocco e sono cosciente: il tatto ha sei qualità da percepire, caldo-freddo, morbido e duro, liscio e scabro. Tu sei cosciente di tutte queste sei percezioni. Fa’ attenzione alla coscienza. Se sei cosciente di tutte queste sei, stai dando sei nomi alla coscienza. Ma non ci sono sei coscienze, ce n’è solo una. Dai troppa importanza alle divisioni interne alla coscienza. Può apparire come avesse nome e forma, ma è essenzialmente una. Se dai importanza all’apparenza di nome e forma cominci a pensare: «Mi piace questo, non mi piace quell’altro». Allora alla percezione hai aggiunto dei pensieri. Così perdi la capacità di osservare la coscienza perché sei distratto dal rāga e dal dveṣa. Perciò ignora le emozioni, le reazioni, le esperienze e rimani consapevole. Ignora l’esperienza, sii solo cosciente. La coscienza è jñāna, l’esperienza è mente, è saṃsāra. Il saṃsāra è continuare a operare con queste esperienze. Ignora le esperienze e sviluppa il vairāgya. Sviluppa il distacco dalle esperienze, sii cosciente. Allora ti appare evidente che il mondo non sei tu. Guarda le cose e sii solo cosciente; rimuovi i sensi come non-Sé. Fa’ così anche della mente, delle emozioni, della compassione, dell’ira: tutte queste esperienze vanno e vengono, ma tu resti cosciente. Nell’ira ti identifichi con la mente, diventi la mente. Noi advaitin facciamo una distinzione tra le emozioni positive e quelle negative. Nelle emozioni positive vi è una minore identificazione (abhimāna), in quelle negative l’identificazione è più tenace. Perciò per prima cosa cerca di non avere queste emozioni negative. Anche tra quelle positive ci sono delle gradazioni. Così anche nell’amore. Tu ami perché ti aspetti qualcosa dalla cosa o dalla persona amata. Nell’amore devi amare non per ricevere qualcosa, ma per amore di tutti gli esseri. Distribuisci l’amore su tutto il mondo, così la mente rimane semplice, non si ripartisce, non si suddivide. Anche ogni emozione è coscienza. Quando la mente è cosciente, tutte le emozioni sono coscienza. Ma quando te ne distacchi e sei la sola Coscienza, la mente diventa anātman. Sei solo Coscienza. Comportati così anche con i pensieri; non identificarti ai concetti, alle idee. Infatti, quando entri in discussione e affermi qualcosa, se l’altro non ti ascolta te ne dispiaci, te ne risenti. Invece i pensieri sono semplicemente pensieri. Non identificarti con essi: stai solo esponendo un’idea: alcuni l’accettano, altri no. È come per i cibi; a qualcuno piacciono certuni, ad altri no. Così è per tutto ciò che ha nome e forma. Le inclinazioni naturali (svābhāvika saṃkalpa) inducono a rāga e dveṣa. Se hai una conoscenza che è reale perché convalidata dall’insegnamento, dalla logica e dalla tua intuizione, esponila e l’altro la può accettare o meno; se la capisce, allora diventa un suo apprendimento. Se non può capirla, vuol dire che non è qualificato a capire. Quando hai capito, è una tua conoscenza, non è una conoscenza appartenente al guru. L’anubhava è tuo. Io, come guru, ti aiuto a capire. Nella credenza, tu accetti un’idea sulla parola di qualcuno. Io invece non do conclusioni, espongo soltanto. Invece, in generale, la gente dà conclusioni e pretende che le si accetti. Io invece ti do dei dati e lascio che sia tu a trarne le conclusioni. Anche se io t’aiuto fornendoti i dati, sei tu che arrivi alle conclusioni. La certezza che acquisisci è la tua conoscenza. Quando gli accademici studiano il Vedānta, dicono che le Upaniṣad insegnano il “Tattvamasi”. Essi allora affermano: «Secondo Śaṃkara io sono il Brahman!» [risate]. Prendono il mahāvākya come fosse un’opinione, una teoria, non come un fatto visto direttamente. Invece noi ci interroghiamo: «Lo vedi direttamente?» Perché se non lo vedi non è la tua esperienza, è solo un’opinione altrui. Quando apri gli occhi vedi il tuo corpo. Quando li chiudi, tocchi il corpo e lo senti. Se non lo tocchi, se inibisci i sensi di percepirlo, come puoi accorgerti del corpo? Come qualcosa di pesante. Questa sensazione è dovuta alla collocazione in un dato posto, è un pensiero di ‘qui’, di qualcosa di molto pesante: quello è il tuo corpo. Per la tua coscienza cos’è il corpo? Gli altri lo vedono, per te è questo senso di pesantezza. Sthūla śarīra significa corpo pesante. Quando diventi cosciente del tuo corpo, questo peso va via. Perciò anche pratiche minori, come āsana, prāṇayāma, meditazione, ti possono rendere cosciente del tuo corpo. Chi è cosciente del corpo diventa qualcosa di diverso dal corpo. Io divento cosciente del corpo, ma non sono il corpo, e allora il corpo diventa leggero. Quel ‘qui’ dovuto al peso è la collocazione del tuo corpo nello spazio. Il luogo nello spazio appartiene al corpo. La tua mente prende questo punto di riferimento spaziale e quando si dissolve, sei solo coscienza, non hai corpo. Perciò questa coscienza deve essere distinta dal corpo, dai sensi, dalla mente e dal pensiero. Dobbiamo imparare che l’idea è solo un’idea. E, come ci sono varietà d’animali e di esseri umani, ci sono varietà di idee. L’idea non è tua o mia; l’idea è come un animale che vedi. Le idee mi vengono leggendo un libro o in altro modo, ma sono come le cose che vedo. Tra le idee, alcune sono immaginazioni, altre sono ricordi, altre credenze, altre comprensioni. Una è la memoria del passato, l’altra l’immaginazione nel futuro. Nessuno di questi pensieri è Ātman. La comprensione non può essere preconfezionata, non è l’accettazione d’un pensiero, com’è la credenza. Invece io ti posso aiutare nella comprensione: «Guarda bene, sta’ attento!» Ma la comprensione è tua. Quando hai capito, la conoscenza è tua. Ogni scoperta è di chi la scopre. Il guru solo t’aiuta a scoprire. Quando scopri, la conoscenza è direttamente il tuo anubhava. Perciò, quando hai capito puoi parlare per conto tuo. Dunque la funzione del guru è quella di aiutarti a capire. Non lo devi accettare perché lo dice lui, perché se lo accetti soltanto in base alla fede nella sua autorevolezza, allora non capisci se è giusto o sbagliato, perché tutte le credenze sono uguali, una non è diversa da un’altra. Noi diciamo che di notte tutte le vacche sono nere. Accettare qualcosa senza capirla è una credenza. L’opinione è invece non vedere tutto, ma solo una parte dell’argomento. Hai delle informazioni parziali e con un po’ d’immaginazione ricostruisci a tuo piacimento il tutto: ecco cos’è l’opinione. Perché la chiami opinione e non conoscenza? Conoscenza significa capire chiaramente da se stesso. Nella comprensione la mente non può immaginare né ricordare né usare paura, pregiudizi, ambizione, desideri. La mente deve essere pulita, cioè deve affrontare direttamente il fatto, deve aiutare ad affrontare il fatto; la mente deve essere pura e rilassata. Il maestro può aiutare la mente a guardare dalla giusta angolatura. All’inizio il discepolo è come un bambino che è chiamato e si guarda intorno smarrito perché non sa da dove proviene la voce che lo chiama. Allora il guru interviene e ti dice “tu sei Brahman” e t’insegna in quale direzione guardare. Dalla domanda del discepolo il guru capisce dove sta guardando. All’inizio gli prescrive un paio di libri di Vedānta da leggere. Poi gli chiede di porre la domanda. Dalla domanda capisce a quale livello di identificazione (abhimāna) si trova: se è a livello del corpo, dei sensi, delle emozioni, dei pensieri o dell’intelletto. Quindi lo aiuta a rimuovere l’ostacolo. Perciò rimuove e rimuove, finché non arriva alla coscienza: non sei questo, non sei questo (neti neti), sei il Brahman. A quel punto il discepolo non fa domande e dice: “Lo vedo”; ma Quello che vede non è possibile esprimere a parole. Ciò trascende tutto il mondo: “tu sei Quello”. Se, arrivato a questo punto d’istruzione il discepolo chiede: “E poi cosa devo fare?”. Allora significa che non ha capito: aveva solo creduto alle parole del maestro. Fare qualcosa è un atteggiamento corretto per il karma kāṇḍa, in cui c’è da raggiungere il Signore, un cielo, puṇya, pāpa, rinascita. A tutto questo puoi credere. Ma nel Vedānta devi capire. Le Upaniṣad devono essere capite. Non si può accettare “Tu sei Brahman”: si deve capirlo. Quando insegniamo la conoscenza la gente vuole credere. “Credo in Brahman”; ma non c’è da credere. Paradossalmente, nel Vedānta, dove si dovrebbe capire, alcuni accettano la dottrina per un atto di fede; e altri, nel karma kāṇḍa, dove tutto deve essere accettato per ingiunzione (vidhi), si vuole capire cosa, come e perché. Dove si deve capire, credono; dove si deve credere si pongono problemi.

Come s’è detto, un aspetto del metodo è dṛg dṛśya, conoscitore e conosciuto, in cui si deve abbandonare l’illusoria differenziazione proiettata dall’intelletto. Allora si contempla l’intero stato (sarvāvasthā) come si vede la propria mano. Quello che vede tutto lo stato è il Sākṣin. E quando ci si riconosce nel Testimone si realizza che la Coscienza è la verità di tutto l’universo. Perché la Coscienza non ha limiti e non è parte di spazio, tempo, stato. Lo stato è nella Coscienza e nulla ne è al di fuori. “Tattvamasi” e io vedo Quello, mentre tutto il resto svanisce. Con ciò si vuole intendere che il maestro come guru, tu come jīva, sādhaka e jijñāsu, e anche la relazione guru-śiṣya sono dissolti in te, non c’è altro che te. Il guru ti aiuta finché non capisci. Quando elimini il tuo jīva individuale, allora il guru, il jīva e il mondo vengono eliminati e ti risvegli in te stesso e tu sei Uno non duale. A questo punto il guru sei tu stesso. Che ci sia guru e śiṣya è solo una rappresentazione vyāvahārika. Tu sei l’Ātman e nulla c’è al di fuori di te.

L’altro aspetto del metodo è āgama apāyin; ciò che viene e va e ciò che non muta. Quando sono sveglio sono cosciente: nella coscienza c’è lo stato di veglia. Quando sogno sono cosciente: nella coscienza c’è lo stato di sogno. Quando veglia e sogno sono stati riassorbiti nel sonno profondo, sono cosciente: tant’è che una volta risvegliato ricordo di esserci stato, anche se non so descrivere com’è suṣupti.

Quando ritorno allo stato di veglia e asserisco di non aver visto niente durante la mia esperienza di sonno profondo nego soltanto ogni modificazione mentale di conoscitore-conoscenza-conosciuto, ma non nego affatto la presenza della mia Coscienza in quello stato (US XVIII.97).

Lo stato di sonno profondo, in realtà, non è uno stato. Quando elimini gli stati di veglia e di sogno, non vai nel sonno profondo, tu sei il sonno profondo. Nello stato sei un individuo. Quando cancelli quei due stati di veglia e di sogno non vai da nessuna parte: tu sei suṣupti. Quando cancelli l’individualità, tu rimani solo pura esistenza, perciò gli stati appaiono e scompaiono. La Coscienza invece è comune, né va né viene. Quando uno stato se ne va, per la Coscienza diventa chiaramente anātman. Così si capisce la Coscienza come Sākṣin. Di cos’è Testimone? È Testimone della presenza e dell’assenza del mondo. Tuttavia anche questo contrasto è una relazione, per quanto sottilissima. Essa scomparirà con la comprensione del mahāvākya “Tattvamasi”. Quello che discriminavi non essere te, ciò che ti appariva anātman, non sei altro che tu. Perciò anche ciò che hai separato da te, che hai discriminato, è Coscienza. Quello che hai considerato non-te e non-Sé e che hai abbandonato, sei tu. Questa coscienza che hai separato dal tuo corpo, sensi, mente, diventa infinita, tanto da riassorbire anche l’anātman. Allora anche il Sākṣin non ha più nulla da testimoniare, ed esso rimane la tua pura Coscienza (śuddha Caitanya), il Brahmātman non duale.

C’è da aggiungere una spiegazione che riguarda il sonno profondo. Lo si chiama suṣupti perché dal punto di vista della veglia appare come uno stato. Questo è un errore. La tua vera esistenza, il tuo svarūpa di quando sei uno che veglia, il tuo stesso svarūpa appare come passato. Perché quando io non conosco me stesso, il mio me stesso appare come un passato. L’uomo ordinario pensa che quando ci si sveglia non si è ‘più’ in sonno profondo. Perciò la mente della veglia pone l’esperienza di suṣupti al passato. Ma suṣupti non ha tempo, non è nel passato né ha alcuna altra relazione. Per questo errore di valutazione lo si considera come se fosse uno stato. Ma quando si elimina l’individualità della veglia e del sogno, sei suṣupti: tu sei Quello e la tua stessa esistenza la chiami suṣupti. Suṣupti non è uno stato, sono io, è puro Ātman. Similmente posso avere migliaia di pensieri e poi identificarmi con un pensiero. Ma qual è la reale persona che s’identifica con tutti i pensieri? Se chiedi chi è la vera persona, quella è suṣupti. Tu lo chiami “Non so”; ma non è “Non so”, sei tu; il tuo tu reale che è più vasto di migliaia di pensieri. Appare come sconosciuto a chi s’identifica a un pensiero. Quando t’identifichi a un pensiero, il sostrato reale che sta sotto a tutti i pensieri appare nascosto, appare sconosciuto, e questo sconosciuto lo chiami suṣupti, perché sei inchiodato a un pensiero. Un pensiero non può capire il sostrato di migliaia di pensieri, la Coscienza, che è la base di tutti i pensieri. Quando t’identifichi a un pensiero, questo copre e nasconde la Coscienza e perciò essa appare come vuota perché il pensiero non riesce a vederla; perciò, una volta risvegliato, l’ignorante considera suṣupti come fosse vuoto. I pensieri della mente della veglia interferiscono e dicono: “Non so, da qualche parte c’è; è lontano, è nel passato”. Non è lontano, è proprio qui. Se ti distacchi da un pensiero, ti distacchi da tutti i pensieri, tutti i pensieri sono in te, tu sei quella Coscienza. Noi, invece, lo chiamiamo Quarto quando si eliminano gli altri tre. Quarto è qualcosa di diverso. È quando cancelli i tre. La divisione in tre non esiste. Tutto è solo esistenza, per cui non ci sono enumerazioni. Quando si supera il numero, quello è il Quarto. Tre sono solo i tre modi in cui appare l’Assoluto alla mente della veglia. È l’Uno non duale che appare in tre modi. Quando essi scompaiono, il tre è riconosciuto falso. Questa realtà è difficile da capire da parte di chi ne vuole fare un pensiero, una teoria. Si deve fare manana e arrivarci per esperienza intuitiva (anubhava),

[…] la cui prova evidente consiste nella semplice consapevolezza del Sé, per mezzo della quale tutti i fenomeni scompaiono, e che è immutabile, beato e non duale. Quello è l’Ātman, Quello deve essere conosciuto (MUGK I.7).

Perciò l’uomo ordinario continua a vedere l’unico Caitanya come veglia, sogno e sonno profondo. Conta l’Ātman come fosse triplice.

Tutto quello che precede, secondo le esperienze dell’uomo ordinario, è il rovescio della realtà. Per chi non ha capacità di discriminare, ogni cosa esiste in quanto tale. Ma per coloro che hanno capacità discriminante niente di questo esiste davvero, eccetto il Sé (US XVIII.95).

Per chi si rende conto di stare enumerando sempre lo stesso Sé, i tre scompaiono.

Oṃ  Tat  Sat


  1. G. G. Filippi, Il Serpente e la Corda, cit., II vol., pp. 131-136.[]
  2. In questo modo Tattvamasi appare identico ad “Ayam Ātmā Brahma”, l’Ātman è Brahman, il mahāvākya presente nella Māṇḍūkya Upaniṣad (I.2).[]
  3. Nel linguaggio vedāntico, naturale (svabhava) significa ‘dalla nascita’ ossia ciò con cui si nasce in quanto individui. Non si deve confondere questo termine con svarūpa, che è usato esclusivamente per indicare la “propria vera natura essenziale”, l’Ātman.[]