Maria Chiara de’ Fenzi
Qualche correzione all’idea corrente di Darśana
Questa breve nota è rivolta ai nostri lettori, i quali hanno già una solida base della dottrina advitīya e non a studiosi accademici delle discipline indologiche. La maggior parte di quest’ultimi, inquadrati in un approccio agnostico, che si definisce ‘scientifico’ e si vuole ‘distaccato’, hanno subito una deformazione mentale tipica della cultura atea, utilitarista ed evoluzionistica che, negli ultimi due secoli, si è allontanata viepiù dalle sue radici illuministe per assumere definitivamente l’indelebile marchio dello storicismo marxista. Ciò spiega l’accanito e sordo odio degli ambienti accademici per la Tradizione Primeva, il Sanātana Dharma1, e per tutto ciò che un sapere aristocratico come quello brāhmaṇico comporta: non a caso in quelle sedi prevale lo studio del buddhismo, del jainismo, delle correnti materialiste lokāyata e delle banalità del neo-induismo, che essi considerano eterodossie anti-brāhmaṇiche e a cui, dunque, va tutta la loro simpatia2.
Oggi, molti giovani che hanno sentito l’attrazione intellettuale per le dottrine hindū e, di conseguenza, per l’apprendimento del sanscrito al fine di avere accesso diretto ai testi, si sono rivolti a strutture universitarie dell’India. Nelle Americhe e in Europa, dunque, comincia a esserci una nuova generazione di docenti e ricercatori che hanno studiato presso Atenei indiani, a differenza dei loro predecessori che non si spostavano mai dalle biblioteche dei loro Istituti. Tuttavia, come nel resto del mondo, anche quelle Università sono state capillarmente infiltrate dal marxismo, al fine di acquistare alla causa dell’eversione planetaria anche gli strati borghesi della società indiana; perciò al migliore apprendimento della lingua sanscrita da parte di questi nuovi docenti occidentali, non corrisponde affatto una interpretazione corretta delle dottrine tradizionali3. Solamente coloro che, dopo aver appreso i vari aspetti del dharma come sono insegnati nelle università dell’India, si sono avvicinati a un autentico maestro o a un dotto paṇḍita tradizionale, possono averne corretto l’interpretazione, abbandonando la critica ideologica e aderendo alla dharmya dṛṣṭi4.
Per entrare nel tema che ci siamo prefissati, gli studi accademici occidentali considerano i classici sei darśana dell’Induismo come fossero rami o discipline della filosofia, essendo influenzati da un’impostazione aristotelica dura a morire. Il termine filosofia, nel caso dell’induismo, è del tutto inadeguato, a meno che, in linea di principio, non lo si usi nel suo senso strettamente etimologico di “amore per σoφíα”, la sapienza. Ma qui è necessario fare un distinguo. È ben noto che nei testi della śruti, amore (kāma) è l’atteggiamento della mente umana di attrazione (rāga) verso un oggetto desiderato, che non prescinde da uno speculare atteggiamento di repulsione (dveṣa) per l’oggetto indesiderabile. Tuttavia, jijñāsā, quale desiderio di conoscenza, non è affatto il desiderio del soggetto per un oggetto altro da Sé, bensì il desiderio del soggetto di riconoscer Se stesso in quanto non-duale. Se fosse possibile attribuire alla parola ‘filosofia’ il significato di cerca di conoscenza5, allora in questo caso corrisponderebbe a jijñāsā. Ma, se dal punto di vista morfologico, cioè formale, filosofia potrebbe stare a sophìa come jijñāsā sta a jñāna, certamente per la semantica, ossia per il suo significato, tale equazione è del tutto inadatta. Infatti è la stessa concezione filosofica di ‘metafisica’ che, da Platone in poi, appare limitata e parziale6. Proprio significando ‘al di là della fisica’ e ponendosi in una relazione di superiorità rispetto alla dimensione fisica, il termine ‘μετὰ τὰ φυσικά’ si distingue nettamente dal sanscrito pāramārthika. Paramārtha è la negazione del dominio di relazione (vyavahāra), è l’annullamento dell’illusoria realtà del mondo. Chi conosce paramārtha e si riconosce paramārtha, realizza la non realtà del dominio fisico. Inoltre, dalla fine del medioevo in poi, salvo rare eccezioni quali Meister Eckhart e i suoi predecessori, la ‘metafisica’ è stata circoscritta a un orizzonte ancor più ristretto, facendola coincidere con la teologia. Ciò dimostra che si era perduta del tutto anche l’idea di una possibile cerca di conoscenza.
Come è noto ai nostri lettori, il termine sanscrito darśana significa letteralmente visione, punto di vista, prospettiva. Di che cosa? Certamente non d’una filosofia, per le ragioni appena esposte. Tuttavia, è anche errato considerare che i darśana rappresentino angolature diverse volte a descrivere una dottrina unica. Questo è un errore che non va più imputato all’approccio indologico, sul quale non abbiamo alcun interesse d’insistere, ma bensì a un malinteso assai diffuso negli ambienti occidentali dell’esoterismo “tradizionale”. Infatti ogni darśana corrisponde a una dottrina che si definisce completa in quanto non affronta soltanto una teoria speculativa, ma anche si propone per condurre alla Liberazione, al mokṣa. A questo si aggiunge che ogni singolo darśana è rappresentato da correnti o scuole di diverse interpretazioni, spesso, incompatibili tra loro. Fatta chiarezza sul fatto che i darśana non sono affatto punti di vista di una stessa dottrina, affrontiamo ora in cosa consiste l’oggetto o lo scopo della loro indagine. I darśana sono dottrine per spiegare la Realtà ultima (antya satya, vastu o tattva) e insegnamenti su come raggiungerla; ovviamente, ognuno di essi ha una spiegazione differente e un insegnamento pratico coerente con la loro impostazione dottrinale. Ma ciò che si intende con Realtà ultima varia enormemente per ciascuno di loro. Al fine di comprendere le specificità d’ogni singolo darśana, affronteremo una sintetica disamina nell’ordine in cui è consuetudine enumerarli.
Nyāya: significa regola, legge, giusto giudizio. Ha come base scritturale i Nyāya Sūtra, scritti da Akṣapāda Gautama che, come tutti i Sūtra appartengono al genere della smṛti. Il Nyāya si occupa dell’indagine logica applicata al mondo, inteso come una realtà indipendente e separata dalla mente che lo percepisce e lo conosce tramite i sensi. La mente, sulla base della percezione sensoriale, trae una corrispondente nozione, concetto o idea degli oggetti esterni con cui elabora le sue argomentazioni. L’indagine razionale sul mondo com’è percepito segue una sua serie di regole logiche; tuttavia sarebbe del tutto riduttivo identificare semplicemente il Nyāya con la logica come si usa fare troppo spesso: infatti, ogni altro darśana ha una logica particolare, con i suoi presupposti, le sue regole, il suo metodo e campo d’applicazione. Per i naiyāyika, a causa della percezione empirica del mondo esterno, la mente del soggetto trae che l’esistenza mondana è dominio di sofferenza (duḥkha). Perciò la correzione della conoscenza empirica del mondo per mezzo dei corretti strumenti della logica conduce al giusto giudizio, che rimuove la sensazione della sofferenza e produce la beatitudine (niḥśreyasa o mukti). Come avviene, dunque, tale processo? Dalla percezione degli oggetti esterni, la mente del soggetto trae un concetto che è registrato nella memoria e che può essere rielaborato dal pensiero seguendo le regole caratteristiche del suo modo di funzionare. A questo fine è importante identificare i validi strumenti di conoscenza (pramāṇa) che permettono di distinguere le opinioni false che producono l’esperienza della sofferenza da quelle reali, i quali sono usati per liberarsene. I pramāṇa del Nyāya sono esattamente quattro: la percezione (pratyakṣa), l’inferenza (anumāna), la comparazione (upamāna) e la testimonianza autorevole (śābda). La conoscenza ottenuta attraverso ognuno di questi pramāṇa può, ovviamente, essere valida o non valida. Per poter comprovarne la veridicità, il Nyāya utilizza altre quindici categorie (padārtha)7 a supporto dei pramāṇa. In questo modo, il metodo d’indagine dei naiyāyika assume una tecnica logica chiaramente speculativa, ma che essi considerano una vero metodo operativo, una prakriyā.
La logica del Nyāya sostiene che la causa precede invariabilmente l’effetto. Poiché si tratta di una cronologia, un effetto non preesiste nella sua causa (asatkāryavāda). Viceversa, tale teoria della causalità definisce la causa come un antecedente dell’effetto. Da ciò deriva che, per inferenza, dalla causa si può dedurre l’esistenza dell’effetto e, reciprocamente dall’effetto è inducibile la causa. Si distinguono tre tipi di cause: la causa materiale, la causa occasionale e la causa efficiente. Īśvara8 è la causa efficiente (nimitta kāraṇa) dell’universo, mentre gli atomi che gli sono coeterni ne sono la causa materiale (samavāyī kāraṇa). Anche le anime (ātman) sono eterne e il loro numero illimitato. In altre parole, il mondo esiste non perché lo si pensa, ma perché ha una sua esistenza indipendente, percepibile e verificabile attraverso l’indagine logica e i parametri (pramāṇa) per indagare la sua realtà. È quindi evidente che si tratta di una dottrina dualista che cerca di stabilire le realtà del mondo e dei suoi aspetti particolari attraverso strumenti logici e razionali, fugando le distorsioni della percezione sensoriale e della fallibile interpretazione concettuale delle percezioni medesime.
Il Nyāya antico (Prācīna Nyāya) aveva la caratteristica di applicare effettivamente le sue argomentazioni durante la percezione diretta dell’oggetto in discussione9. Mentre il naiyāyika stava osservando per davvero del fumo alzarsi su una collina, solamente allora gli era concesso di argomentare in proposito con il noto sillogismo a cinque passaggi10. Questo fece sì che i naiyāyika condividessero diversi punti di vista con i vaiśeṣika. Nel secolo tredicesimo si sviluppò una corrente detta Nuovo Nyāya (Navya Nyāya), che volle emanciparsi dall’applicazione realistica del metodo per assumere una funzione logica del tutto teorica. La logica (tarka) così poteva essere usata anche per ragionare su entità o argomenti del tutto inesistenti, accentuando l’aspetto sofistico già presente nel Prācīna Nyāya. Le due correnti rivali si estinsero nel corso del XVIII secolo e oggi sono di studio libresco per poter comprendere la dialettica degli antichi testi sanscriti.
Vaiśeṣika: significa “dottrina distintiva” ed è il darśana che intende provare la Realtà del mondo tramite l’analisi dei particolari degli oggetti che lo compongono. Basato sui Vaiśeṣika Sūtra di Kaṇāda, il Vaiśeṣika determina e classifica gli oggetti esterni che si presentano alla percezione umana e le relazioni tra loro. A seconda delle sue differenti correnti, esso elenca sei o sette categorie (padārtha), vale a dire:
- Dravya, la sostanza11, il supporto (āśraya)12 su cui s’appoggiano tutti gli altri padārtha, causa materiale di tutti gli oggetti. Dravya si articola in nove elementi: terra (pṛthivi), acqua (apas), fuoco (tejas), aria (vāyu), etere (ākāśa), tempo (kāla), spazio (diś), mente (manas) e anima individuale (ātman).
- Guṇa, le qualità degli oggetti. Tra esse le cinque caratteristiche d’essere visibile, sapido, odorabile, tangibile, udibile, in accordo con i primi cinque dravya; le sette qualità d’essere misurabile per numero, dimensione, peso, separazione formale, contatto e disgiunzione; le quatto qualità di “collocato in lontananza o in prossimità” e “di consistenza fluida o stabile”, seguendo i dravya di tempo e di spazio; le sei qualità di manas di essere pensabile, di provare sensazioni di piacere, di dolore, di attrazione, di avversione, di produrre essere sforzo; infine i tre guņa di merito, di demerito, e di inclinazioni innate quale anima individuale.
- Karma, l’azione, che è un’altra categoria qualificativa in modificazione. Guņa e karma sono inerenti a dravya e non possono esistere autonomamente.
- Sāmānya, il genere, ovvero ciò che denota le caratteristiche generali comuni che permettono di raggruppare gli oggetti in una categoria unica.
- Viśeṣa, la differenza specifica, particolare, che contraddistingue tra loro gli individui appartenenti allo stesso sāmānya.
- Samavāya, o inerenza, che indica ciò per cui gli oggetti sono indissolubilmente connessi tra loro.
A questi sei padārtha in alcuni testi si aggiunge anche,
- Abhāva, l’assenza o non comparizione dell’oggetto. Ciò comporta che i primi sei padārtha sono tutti caratterizzati dalla presenza (bhāva).
Il Vaiśeṣika sostiene che la parte più piccola, indivisibile e indistruttibile del mondo è l’atomo (aṇu)13. Tutte le cose fisiche sono una combinazione di atomi di terra, acqua, fuoco e aria14. Inattivi e immobili per natura, gli atomi sono messi in movimento dalla volontà di Īśvara per mezzo dell’azione invisibile (adṛṣṭi kryā), frutto del merito e del demerito. Perciò in questo darśana gli atomi rappresentano la causa materiale e Īśvara la causa efficiente del creato: il mondo è perciò un effetto non preesistente nella causa (asatkāryavāda).
L’indagine sul mondo esterno segue le regole della logica propria di questo darśana: il Vaiśeṣika, a differenza del Nyāya, riconosce e utilizza due soli pramāṇa: la percezione sensoriale (pratyakṣa) e l’inferenza (anumāna). I cinque sensi entrano in contatto percettivo con gli elementi (bhūta) per mezzo degli atomi che li compongono. Per esempio la vista, dotata di luce, entra in contatto con l’elemento fuoco che compone gli oggetti del mondo per mezzo degli atomi ignei ugualmente condivisi; similmente, il tatto entra in contatto con l’elemento aria costitutivo degli oggetti esterni tramite gli atomi aerei, e così via. Perciò la realtà sostanziale del mondo è l’atomo che compone sia il soggetto percipente sia l’oggetto percepito; tale realtà è provata dall’esperienza diretta del pratyakṣa pramāṇa. Che tutto il mondo sia creato, mantenuto e dissolto da Īśvara è invece dedotto tramite anumāna. Il percorso che il discepolo del Vaiśeṣika compie, a partire dalla semplice percezione sensoriale della realtà del mondo e, in seguito, attraverso lo studio metodico dei padārtha sopra descritti, lo conduce, grazie ad anumāna, a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza che consistono nell’identificazione con il corpo grosso e sottile. Moksa perciò significa non riprendere un altro corpo dopo la morte (“aprādurbhāvaśca mokṣaḥ”; Vaiśeṣika Sūtra, V.2.18).
A partire dall’XI secolo il Vaiśeṣika scomparve in quanto darśana autonomo; alcune sue argomentazioni sopravvissero per alcuni secoli integrate del Navya Nyāya.
Sāṃkhya: Il significato del nome attribuito a questo darsana è “enumerazione”, alludendo alla serie delle “realtà” (tattva) che ne caratterizzano la dottrina. Lo si deve accuratamente distinguere dallo stesso termine Sāṃkhya usato nella Bhagavad Gītā e nel Vedānta in generale, che, in tal caso significa “discriminazione” o viveka, il metodo dell’Adhyātma Yoga. Il darśana di cui stiamo trattando si basa sui Sāṃkhya Sūtra attribuiti al ṛṣi Kapila, sebbene le Sāṃkhya Kārikā di Īśvarakṛṣṇa siano unanimemente considerate più antiche e più autorevoli. A differenza dei precedenti due darśana, il Sāṃkhya parte aprioristicamente da un principio primo (Pradhāna) non manifestato (avyakta), ovvero la sostanza (Prakṛti) che, modificandosi, produce da sé tutte le componenti del mondo manifestato (vyakta). Il Sāṃkhya oltre alle categorie di vyakta e avyakta enumera una terza che è il jñā, il conoscitore o Puruṣa, di cui tratteremo a parte15. Questa dottrina della modificazione (pariṇāmavāda), di conseguenza, sostiene che tutte le produzioni o effetti di Prakṛti sono contenuti potenzialmente nella loro causa (satkāryavāda): è la stessa sostanza primordiale che si sviluppa differenziandosi nei suoi effetti mutandosi in vikṛti (modificazione separata)16. La prima realtà (tattva) prodotta da Pradhāna è Mahat o buddhi. Mahat non è sostanzialmente diverso dalla buddhi, trattandosi dell’intelletto, vale a dire della realtà dotata di ragionamento, discriminazione, giudizio, capacità di scelta e di volontà. La differenza tra i due termini è che Mahat si applica preferibilmente all’intelligenza universale, identificata come Hiraṇyagarbha, mentre buddhi designa più specificamente l’intelligenza individuale, soprattutto umana17. Se il Sāṃkhya usa due diverse denominazioni per l’intelletto cosmico o per quello particolare, i rimanenti tattva sono definiti con una sola denominazione sia nella prospettiva universale (ādhidaivika) sia in quella corrispondente nel singolo individuo (ādhyātmika). La buddhi produce da sé il concetto dell’aham, l’io individuale (o dell’io universale relativo alla personalità divina di Hiraṇyagarbha) e, per tal motivo, assume il nome di ahaṃkāra (produttore dell’aham). L’aham è il concetto di essere il “tal dei tali” (aham amukaḥ asmi) dotato anche dell’idea di possesso (mama). Talvolta ahaṃkāra è concepito come coscienza individuale; tale denominazione è però ambigua, in quanto non si tratta propriamente di coscienza (come ogni produzione di Prakṛti esso è a-cit), bensì di ciò che meglio si definisce egoismo, senso dell’io (asmitā). A sua volta l’ahaṃkāra si modifica nel successivo tattva, il manas, la mente emotiva e istintiva che ha conoscenza degli oggetti esterni (bahiṣprajñā) attraverso i cinque sensi (jñānendriya) e che interviene nel mondo circostante tramite le cinque facoltà di azione (karmendriya). Ahaṃkāra produce anche i cinque tanmātra, principi sottili che, poi, a loro volta producono i cinque elementi grossi (mahābhūta). Questi ultimi, aggregandosi tra loro in forme diseguali, formano l’intera manifestazione grossolana e i corpi dei singoli esseri e oggetti. Della manifestazione e degli oggetti in cui si differenzia si dice che hanno causa (hetumat), che sono transitori (anitya) e molteplici (aneka). Prakṛti è priva di coscienza (acit) e inerte (jaḍa), ma quando dà inizio alla manifestazione, le sue tre qualità dinamiche, fino ad allora inattive, entrano in azione. Sono i guna, tamas, rajas e sattva che, presenti in gradi diversi in tutti gli oggetti manifestati, li coinvolge nel cambiamento, nel divenire. L’ultimo tattva, jñā, il venticinquesimo, non è un prodotto di Prakṛti: è un principio indipendente a essa correlato, denominato Puruṣa, coscienza pura, privo di relazioni, libero da azione e da mutamento, eterno, ma molteplice in quanto anima dei singoli esseri. Puruṣa dà origine all’universo per prossimità (sānnidhya)18 a Prakṛti; svolge cioè una funzione di causa efficiente non agente che ha il potere di indurre Prakṛti a manifestare il mondo. Quest’ultima, poi, intraprende un’attività, un lavoro (ārambha), con un unico scopo: anche se apparentemente il fine dell’intero sviluppo di vikṛti sembra essere a beneficio di se stessa, in realtà è a beneficio degli altri. Questo scopo è la liberazione (mukti) per ciascuno dei puruṣa: “Come la produzione di latte, che è acit, è la causa della crescita del vitello, così la produzione di Pradhāna è la causa della Liberazione di Puruṣa” (Īśvarakṛṣṇa Kārikā LVII). Infatti, nella prima Kārikā, Īśvarakṛṣṇa afferma che il desiderio di conoscere di ogni singolo Puruṣa-jñā è stimolato dalla sofferenza (duḥkha) che si sperimenta. L’oggetto della conoscenza desiderata (kamya jñāpti) conduce all’eliminazione del tormento causato dalla sofferenza, ossia a ciò che i sāṃkhya considerano liberazione. Nella seconda Kārikā si distinguono tre vie per raggiungere questo tipo di conoscenza: quello attraverso la percezione del mondo (dṛṣṭavat), che è fallibile; quello indicato dai Veda (ānuśravika) sotto forma di riti; infine quello della conoscenza discriminante (vijñāna), che è la via più efficace. Il jñā è indotto a discriminare da Sé, in quanto Puruṣa, i tattva che appartengono alla Prakṛti e che sembrano coprirlo e metterlo in sofferenza. Per raggiungere questo fine i sāṃkhya utilizzano tre pramāṇa: la percezione (pratyakṣa) l’inferenza (anumāna) e la śruti (śabda pramāṇa).
Nelle scritture si trovano tracce19 di diverse antiche correnti del Sāṃkhya tra loro rivali; tuttavia l’insegnamento di Īśvarakṛṣṇa ha compattato la scuola in un’unica dottrina. Il Sāṃkhya rimase un darśana ben vivo fino a tutto il XV secolo, quando in India prevalsero le correnti della Bhakti, dedite a un culto del Dio personale, particolarmente rappresentato da Rāma e Kṛṣṇa, gli avatāra di Viṣṇu, . Questo darśana fu sempre ostile alla concezione di un Dio supremo unico, tanto da polemizzare sovente con lo Yoga darśana proprio sulla nozione di Īśvara. Da allora scomparve del tutto come scuola, sebbene se la sua menzione nelle discussioni e nelle opere scritte sia frequente anche al giorno d’oggi.
Yoga: Il cui significato è ‘unione’, darśana che riordina e rende autonome dalla concezione sacrificale vedica le antichissime regole di rituali interiorizzati che costituivano le śruti chiamate Āraṇyaka. Il suo fondatore Patañjali, autore degli Yoga Sūtra, è una figura mitica, considerato manifestazione umana del serpente cosmico Adiśeṣa. Lo Yoga mantiene inalterato il dualismo del Sāṃkhya con i suoi venticinque tattva, a cui, però, aggiunge un principio comune di Puruṣa e Prakṛti: si tratta di Īśvara, il Signore, a cui si devono offrire le proprie azioni e su cui si deve meditare per liberarsi dei cinque kleśa20, le impurità (o nodi del cuore) da cui l’anima individuale (jīva o puruṣa) è afflitta in contatto con la materia e con tutte le sue produzioni. Lo Yoga propone un metodo in otto gradi (otto membri, aṣṭāṅga), di pratiche disciplinari al fine di padroneggiare progressivamente ed eludere l’identificazione con i tattva di Prakṛti; si tratta del cittavṛtti nirodha, la soppressione delle modificazioni mentali che coinvolgono la mente nel divenire provocato dai guṇa. I primi due sono yama e niyama: yama21 riguarda il comportamento dell’individuo verso il mondo circostante, mentre niyama22 è il modo di comportarsi verso se stesso. Seguono gli āsana, le posture per prendere completo controllo del corpo (śarīra), prāṇāyāma per controllare i soffi vitali e pratyāhāra, esercizi per distogliere i sensi (jñānendriya) dagli oggetti esterni, dhāraṇā, raccoglimento della mente (manas) su un unico punto (ekāgratā) per impedire l’affioramento incontrollato di emozioni, pensieri, ricordi; dhyāna, la meditazione, ossia la concentrazione dell’intelletto (dhi o buddhi) sul proprio puruṣa. Praticando dhyāna, lo yogin esperisce uno stato di completezza (samādhi) o di unione (yoga) con il proprio essere. Prima, però deve liberarsi di tutti i tattva, a partire dal corpo fatto dei cinque elementi fino all’intelletto. All’uopo fa uso di tre strumenti di conoscenza (pramāṇa), i sensi (pratyakṣa), l’inferenza (anumāna) e l’audizione dei testi yogici (āgama). Così diventa libero dalla schiavitù della Prakṛti. Questo è il concetto di liberazione dello Yoga darśana: si tratta in ogni caso di una situazione non stabile, dato che dal samādhi si ritorna ripetutamente all’esperienza ordinaria della veglia. Ciò è dovuto al fatto che una tale “mukti” è raggiunta per mezzo dell’azione corporea, verbale o meditativa. Non si tratta mai, dunque, di conoscenza pura, ma di indagine mentale.
Pūrva Mīmāṃsā: ‘Indagine preliminare’: solitamente pūrva è interpretato dagli studiosi occidentali come ‘primo’ in senso cronologico a causa del loro pregiudizio storicistico. Per essi la conoscenza è sempre successiva all’azione, quando invece è esattamente vero il contrario. Soltanto quando la conoscenza declina l’umanità si consola con l’azione. Pur esistendo i Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini, la śruti rimane la principale fonte di riferimento di questo darśana e, in modo particolare, i testi del karma kāṇḍa vedico: Saṃhitā, Brāhmaṇa e Āraṇyaka. Anche allorché citano le Upaniṣad, i mīmāṃsaka le interpretano come fossero di argomento ritualistico, ignorando e trascurando i mahāvākya e i prevalenti brani sapienziali, come fossero interpolazioni fuori tema e non l’essenza stessa del Veda. La Mīmāṃsā è una dottrina diveniristica: lo stesso Principio onnipotente (Pradhāna) è il Verbo (Vāc), il Veda celeste, che si è sacrificato per diventare, per vibrazione differenziante, la molteplicità del mondo manifestato. Il mondo molteplice è perciò la Realtà stessa in continua modificazione. Il Principio in Essere, perciò, non ha alcuna realtà immutabile e la sua esistenza all’origine dei tempi è solo oggetto di fede. Tale credenza non ha alcuna rilevanza sui propri destini, al punto che il mīmāṃsaka può anche essere un ateo di fatto. Invece la realtà del Pradhāna è provata dalla sua manifestazione così come è percepita. Se tutto è movimento, tutto è azione e l’azione (karma) è l’ordine stesso dell’universo (dharma). Anche l’essere umano, che altro non è se non una vibrazione sonora precipitata e diventata materia solida, è dunque immerso nell’azione. Le azioni sono di tre tipi: dhārmika, quelle rituali e, in particolare, le sacrificali, in armonia con l’ordine cosmico e che predispongono a un felice destino nell’aldilà. Il sacrificio (yajña), per i mīmāṃsaka, è il ricongiungimento della parte con il tutto, del singolo ātman con Pradhāna nel cielo supremo (Paramavyoma o Brahmaloka). Questo è il concetto mīmāṃsaka di liberazione. Il secondo tipo d’azione sono le laukika kriyā, le azioni mondane atte a soddisfare i desideri dell’individuo in questa vita. Infine le azioni adhārmika, quelle che si contrappongono all’ordine e che condannano a rinascite indesiderate. Per garantire piena efficacia al dhārmika karma, i Brāhmaṇa stabiliscono nel minimo dettaglio la corretta gestualità e pronuncia dei mantra , riservando ai soli brāhmaṇa qualificati la messa in opera dei rituali e la pronunzia delle formule vediche. Da ciò deriva l’interdizione a tutti coloro che sono nati fuori della casta sacerdotale di compiere rituali sanciti dai Brāhmaṇa. Per riconoscere la corretta applicazione dei azioni rituali all’ordine dhārmika, i mīmāṃsaka ricorrono a cinque strumenti di conoscenza valida (pramāṇa) con cui provare la realtà del mondo. Essi sono: 1) pratyakṣa, l’indagine sensoriale; 2) anumāna, l’inferenza che rielabora i dati forniti dai sensi; 3) upamāṇa, la comparazione o analogia; 4) arthāpatti, l’ipotesi o supposizione; 5) śabda, la parola autorevole, il Veda insegnato da un maestro qualificato che ha già sperimentato tale conoscenza. Più avanti Kumārila Bhaṭṭa aggiunse un sesto pramāṇa, l’anupalabdhi, la constatazione dell’assenza di un oggetto. In tutti i casi la base per tutti i pramāṇa è la percezione sensoria, che è autoprovata (svataḥ prāmānya). Ciò significa che tutto ciò che appare vero ai sensi, deve essere accettato, a meno che gli altri pramāṇa non dimostrino il contrario. Perciò la Mīmāṃsā è eminentemente realista e ciò spiega com’è che essa sia stata un’arma formidabile contro la corrente idealista del Buddhismo, il Vijñānavāda. Come si potrà notare, il Vedānta fa ricorso agli stessi sei pramāṇa dei mīmāṃsaka, sebbene la sua pratica del “neti neti” abbia il fine esattamente contrario di dimostrare l’illusorietà cosmica. La Pūrva Mīmāṃsā è da secoli scomparsa sotto l’impatto dell’Advaita Vedānta ed è rimasta soltanto quale oggetto di studio per paṇḍita ed eruditi.
Uttara Mīmāṃsā o Vedānta: ‘Indagine avanzata’ o ‘Fine della conoscenza’. Ci asteniamo dal trattare di questo darśana in quanto i contributi in questo Sito sono dedicati in gran parte all’esposizione della sua dottrina. È doveroso, tuttavia, sottolineare che il Vedānta darśana si identifica con la dottrina Advaita come è stata insegnata ininterrottamente da Vyāsa, Śukācārya, Gauḍapāda, Śaṃkara e Sūreśvara fino al giorno d’oggi. Tutte le altre dottrine che si denominano Vedānta solo perché si rifanno come testi principali alle Upaniṣad (oltre che ai Brahma Sūtra e alla Bhagavad Gītā), sono in realtà dualistiche, dato che indicano una meta ultima che vuole essere l’unione con il Supremo Brahman. Tale “mokṣa”, però, mantiene incolmabile la distinzione distinzione tra creatore e creatura. A tal fine promuovono la pratica di yantra, mantra e tantra, tipiche dello Yoga e del Tantrismo. Perciò quei Vedānta ricadono in toto nel karma kāṇḍa e non praticano affatto il metodo diretto (sākṣāt prakriyā) della via della conoscenza non-duale (advitīya jñāna mārga).
Come si accennava in apertura, i darśana sono contati nel numero di sei “ortodossi” per un processo di sistematizzazione e schematizzazione scolastica. In realtà, proprio per il fatto che il Sanātana Dharma non ammette dogmi né canoni, non conosce le categorie di ortodossia ed eterodossia, caratteristiche dei monoteismi occidentali. Perciò i grandi Ācārya hanno trattato equanimemente anche di altri “punti di vista”, come quelli dei materialisti (cārvāka), dei buddhisti sarvāstivādin, mādhyamika, vijñānavādin e delle correnti dottrinali del Jainismo.
OṂ TAT SAT
- Un’altra stilla di veleno è stata schizzata anche su questa denominazione. Per quanto essa sia del tutto adatta, compare nell’uso comune a partire dal XIX secolo. Ciò ha indotto i più sciocchi a sproloquiare che la tradizione hindū sarebbe un’invenzione ‘unitaria nazionalistica’ ottocentesca, tradizione che, in realtà non sarebbe mai esistita omogeneamente, essendo un sincretismo composto da molteplici religioni particolari. Come ogni cosa che non ha origine nel tempo, ciò che tutte le autorità dharmiche accettano sotto la denominazione di sanātana, anticamente non aveva un nome (anāma dharma), in quanto era l’unica tradizione prima della nascita storica dei vari ‘ismi’, come il jainismo, il buddhismo, in India, l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo, ecc., altrove. Il dharma senza nome è stato da sempre suddiviso in due categorie: il sāmānya (generale) o sādhāraṇa (condiviso) dharma, che è comune a tutti gli esseri coscienti, precedentemente alla o indipendentemente dall’esistenza di nuovi dharma o di nuove religioni (Viṣṇu Dharma Sūtra II.16, 17; Vāmana Purāṇa XIV.1-2); l’altra è il viśeṣa (particolare) dharma, che comprende l’insieme di regole e dottrine valide per una singola persona, famiglia o casta (varṇāśrama dharma, kula dharma, jāti dharma, argomento sviluppato soprattutto nel Mānava Dharma Śāstra e in altri Dharma Sūtra). L’induismo, di fatto, è una tradizione assai complessa, poco accessibile alla comprensione di chi lo studi dall’esterno con una preconcetta formazione monoteistica e/o marxista. Con maggiore applicazione e apertura mentale, gli indologi più intelligenti potrebbero subodorare che l’unitarietà del Sanātana Dharma è espressa dalla metafisica non duale.[↩]
- Provenendo da una base culturale giudaico-cristiano, la critica accademica continua a ragionare pregiudizialmente secondo la logica ortodossia-eterodossia, ossia fedeltà ai dogmi o eresia. È in questo modo scorretto che sono generalmente interpretati i termini sanscriti astika-nāstika. Questo è un errore difficile da sradicare, considerate le sue profonde radici nella mentalità occidentale. Per la verità, il Sanātana Dharma non conosce questo tipo di distinzioni: ragion per cui qualsiasi corrente di pensiero hindū, vedico, tantrico, astika, nāstika (cioè basato o no sul Veda), dvitīya, advitīya, o ciò che gli occidentali definiscono, nel loro volutamente impreciso linguaggio, “monista”, “politeista” e persino “ateo”, ha il suo posto legittimo nella tradizione.[↩]
- L’insegnamento tradizionale, invece, è impartito ancora nei diversi vidyālaya annessi ai pīṭha e ai maṭha dei millenari saṃpradāya, nonostante che anche lì ci siano continui tentativi, provvidenzialmente fallimentari, di infiltrazioni promosse dai governi centrale o statali, da organizzazioni internazionali od ONG, da organizzazioni pilotate da religioni aliene all’India, indipendentemente dalla diversità delle correnti politiche che li sostengono.[↩]
- Purtroppo esistono i casi di percorso inverso di coloro che, dopo aver frequentato ambienti tradizionali hindū, hanno usato ciò che avevano appreso (e non compreso) a fini carrieristici presso istituzioni profane. Un esempio evidente, ma non l’unico, è stato quello che Jean-Louis Gabin ha denunciato in L’hindouisme traditionnel et l’interprétation d’Alain Daniélou, Paris, éd. du Cerf, 2010 e ribadito in Le Shivaïsme selon Alain Daniélou : un travestissement de l’enseignement traditionnel, Paris, L’Harmattan, 2025.[↩]
- Rifuggiamo dall’uso del neologismo ‘epistemologia’, inventato dal filosofo hegeliano scozzese James Frederick Ferrier, termine così à la page negli ambienti acculturati contemporanei, in quanto definisce esclusivamente uno studio scientifico sul processo della conoscenza mentale a cui viene ridotta e accorpata la stessa coscienza. Né il sanscrito jñāna vicāra può corrispondere a ‘gnoseologia’, altra locuzione nuova, confezionata dall’illuminista Alexander Gottlieb Baumgarten, che si limita all’indagine razionale e sensoriale e che ricade, eventualmente, nell’ambito dei pramāṇa.[↩]
- Prima di Platone non era in uso il termine ‘filosofia’. Σoφíα era la meta indicata per i sapienti, per i ‘σοφοί’, e non il semplice amore per la sapienza. A questo proposito sono di grande utilità La nascita della filosofia, Milano, Adelphi, 1975 e la trilogia La Sapienza greca, 3 vol., Milano, Adelphi, 1977-1980 di Giorgio Colli.[↩]
- Questi sono: prameya (gli oggetti dell’indagine tramite i pramāṇa), saṃśaya (il dubbio), prayojana (lo scopo), dṛṣṭānta (l’esempio), siddhānta (la conclusione finale), avayava (le parti dell’argomentazione logica), tarka (il ragionamento ipotetico), nirṇaya (basi certe per la discussione), vāda (la discussione), jalpa (il dibattito), vitaṇḍā (la discussione demolitrice), hetvābhāsa (la menzogna), chala (l’argomento fuorviante), jāti (confutazione sofistica) e nigrahasthāna (sconfitta dialettica). C’è da aggiungere che i prameya sono considerati oggetti reali e sono: il prana, il corpo, i sensi, il mondo, l’ātman, la mente, la volontà, l’ignoranza, i mondi celesti, il karma, la sofferenza e la liberazione.[↩]
- Il Nyaya, tuttavia, ha un modo d’indagine che prescinde dall’idea di un Dio personale. Si può dire che la sua attenzione è rivolta esclusivamente al mondo (jagat) percepito e che è un darśana ateo di fatto. L’esistenza di Īśvara è semplicemente il risultato dell’indagine deduttiva indotta dall’esigenza di identificare una causa efficiente del mondo. Perciò la Realtà ultima non è un’idea di Dio, ma rimane sempre quella del mondo percepito e concettualizzabile.[↩]
- In ragione di questa prassi rivolta al “mondo esterno”, spesso il Nyāya ha preso in prestito dal Vaiśeṣika esempi e argomenti naturalistici.[↩]
- Si tratta del celeberrimo sillogismo: “Sulla collina c’è fuoco, dacché c’è fumo sulla collina. Dove c’è fumo c’è fuoco. Sulla collina c’è fumo, perciò sulla collina c’è fuoco”.[↩]
- È del tutto errato affermare che nell’Induismo non esista il concetto di sostanza-materia e che non ci sia un termine sanscrito per definirlo. L’arbitrarietà di certe affermazioni di chi si presenta quale portavoce autorevole della tradizione è spesso davvero stupefacente.[↩]
- Non si confonda il supporto (āśraya) con il sostrato (adiṣṭhāna). Āśraya è il punto di partenza, come il simbolo su cui si medita è il punto di partenza per conoscere ciò che è simboleggiato. Adiṣṭhāna, invece, è la vera natura, soggiacente alle apparenze.[↩]
- Anche in questo caso alcuni occidentali, ossessionati dai preconcetti religiosi e filosofici su cui si sono formati, hanno voluto vedere nella spiegazione atomistica della sostanza una certa eterodossia parziale o totale di questo darśana. In realtà, come vedremo in seguito, la teoria atomistica del Vaiśeṣika è stato criticata non perché eterodossa, cioè in contrasto con indiscutibili dogmi di fede, ma semplicemente perché è non è sostenibile logicamente (BSŚBh II.1.29). Infine c’è da osservare che è impossibile affermare che, atomismo a parte, il resto della dottrina vaiśeṣika sarebbe del tutto ortodosso: gli atomi, aggregandosi tra loro, sono i costituenti di ogni oggetto e, quindi, sono la stessa realtà sostanziale del mondo. Sono perciò inseparabili dal Vaiśeṣika.[↩]
- Alcuni hanno ipotizzato che i primi filosofi greci, che conoscevano soltanto quattro elementi, potessero essere stati al corrente della dottrina del Vaiśeṣika. In realtà i vaiśeṣika consideravano cinque bhūta, com’è dimostrato dall’elencazione dei dravya sopra prodotta. Quando, però, dovevano trattare di atomi, essi escludevano l’etere, in quanto questo bhūta, a differenza degli altri, è omogeneo, onnipervadente e privo di parti.[↩]
- È, comunque, significativo che Īśvarakṛṣṇa nella sua seconda Kārikā dichiari esplicitamente che jñā non fa parte del non manifestato, smentendo così tutti coloro che hanno definito erroneamente Puruṣa “un principio non manifestato”. Avyakta e vyakta sono le due modalità in cui la stessa cosa non appare oppure appare, come la potenza e l’atto. Non manifestato non significa mai “che trascende” o che è “al di là” del manifestato. Questa osservazione conferma che l’Assoluto vedāntico, denominato di volta in volta Brahman, Ātman, Puruṣa o altro, non è né manifestato né non manifestato, in quanto trascende entrambe le due modalità. Nell’Induismo, e non solo nel Sāṃkhya, con avyakta s’intende solo e sempre Prakṛti e con vyakta il mondo, vikṛti.[↩]
- Pur se la manifestazione prodotta dal Pradhāna richiama alla mente l’emanazionismo neoplatonico, in realtà quest’ultimo si distingue per due particolari importanti: anzitutto perché l’Uno (τό Πρῶτον), a differenza della Prakṛti, è essenziale e, in secondo luogo, perché emana il mondo senza modificarsi, come il sole illumina rimanendo immutato.[↩]
- Che l’intelligenza sia una facoltà “sovraindividuale” o “informale” capace di indagare i “principi metafisici” è dovuto a falsa conoscenza (mithyā jñāna), poiché mahat e buddhi sono ambedue sottoposti a nome e forma, vale a dire proiezioni della Māyā.[↩]
- Questo è un punto debole del Sāṃkhya in quanto, per definizione, Puruṣa non può entrare in relazione con alcunché.[↩]
- Si devono però valutare con grande cautela queste tracce quando sono identificate da studiosi accademici. Infatti la menzione di Prakṛti, dei guṇa o di altri tattva non è prova determinante che tali termini siano indicativi della dottrina sāṃkhya. Quelle parole possono essere state usate da qualsiasi corrente dell’induismo, anche con accezioni diverse, per il semplice fatto che fanno parte della lingua sanscrita.[↩]
- Avidyā, l’ignoranza che provoca una conoscenza errata della realtà; asmitā, l’egoismo, il senso di essere un ‘io’ (aham) e di possedere un ‘mio’ (mama); rāga, l’attrazione per altro da sé; dveṣa, la repulsione per tutto ciò che contraria l’asmitā; abhiniveśa, l’attaccamento a questo corpo e la relativa paura della morte.[↩]
- Gli yama comprendono: ahiṃsā, non nuocere, satya, non mentire; asteya, non rubare; brahmacarya, astensione dai piaceri; aparigraha, non essere invidioso dei beni altrui.[↩]
- I niyama comprendono: śauca, pulizia, purezza; santoṣa, contentarsi del necessario; tapas, ascesi; svādhyāya, introspezione; praṇidhāna avere la mente sempre rivolta a Īśvara.[↩]