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June 29, 2025

Alcune note sulla differenza tra religioni e dharma

    Gian Giuseppe Filippi

    Alcune note sulla differenza tra religioni e dharma

    L’argomento di questo breve articolo muove dalla constatazione che il senso del termine sanscrito dharma è ancora oggetto di gravi confusioni. Che in ambito del missionarismo cristiano i termini dharma e religione siano stati identificati o, perlomeno, parificati, non è motivo di stupore: lo scopo di tanta approssimazione era semplicemente quello di prospettare un campo comune sufficientemente mellifluo in modo da far scivolare nella forma meno traumatica possibile il maggior numero di convertiti dal dharma alle religioni dell’Occidente. Naturalmente, ciò ebbe successo soprattutto tra le classi sociali meno coltivate, tra le caste più umili e, soprattutto, tra i cosiddetti tribali che vivono ai margini della società hindū. Questa assimilazione di religione e dharma, strumentale per le missioni della Chiesa latina e delle numeroso eresie e sette che da esse si dipartirono a seguito della riforma luterana, è un fatto acquisito. Tuttavia, con la fine dell’era coloniale e, ancor più, con l’abbandono di qualsiasi velleità di proselitismo da parte di un Cattolicesimo religiosamente defunto, tale equivoco pare essere stato in gran parte messo in disarmo. La voluta confusione tra religione e dharma, invece, appare attualmente ancora virulenta nell’ambiente accademico per colpa della nefasta pseudo scienza delle religioni. Lo scopo, in questo caso, è la diffusione dell’agnosticismo assunto quale Corte Suprema di giudizio sul “fenomeno religioso”. E tra i “fenomeni religiosi” si annovera anche il dharma, affiancato pariteticamente alle religioni dell’Occidente, dell’Estremo Oriente, allo sciamanismo, alla magia e a tutte le altre “superstizioni pretecnologiche”. Tutta questa costruzione è facile da demolire e rappresenta un problema soltanto per chi dà credito a simili fandonie.

    Più preoccupante è, invece, quando la confusione persiste tra gli occidentali che hanno assunto un punto di vista che si dice “tradizionale”1 o che siano perfino arrivati ad aderire a una particolare religione che fa del proselitismo una componente dovuta e predestinata. Precisiamo che in quest’ottica non ha alcuna rilevanza se tali persone siano rimaste nell’essoterismo o se abbiano avuto accesso al corrispondente esoterismo. Va tuttavia rilevato che l’Occidente annovera un preoccupante proliferare di false vie iniziatiche, fondate e controllate da occidentali ad usum di occidentali, con rituali presi in prestito e la cui teoria riposa esclusivamente nei libri di R. Guénon, considerati aprioristicamente “indiffettibili”. In questi ambienti settari, dharma e religione sono soltanto due differenti “forme tradizionali”, del tutto equiparabili tra loro, entrambe dotate di cosmologia e metafisica pura. Da ciò la teoria delle “tradizioni complete”. Ciò, come dimostreremo, è del tutto falso; tuttavia, se tutte le “tradizioni complete” sono paritetiche, contraddittoriamente costoro affermano che l’ultima “tradizione completa” è destinata a integrare in sé tutte le altre all’imminente fine dei tempi, svolgendo così una funzione privilegiata. In questo ultimo caso è diffusa l’abitudine di considerare il dharma dell’Induismo2 non per quello che è, ma per come appare dalla prospettiva religiosa. E tale valutazione è, di conseguenza, sempre sfavorevole al dharma3. È a queste persone che si dirige la presente correzione, ben consapevoli che essa rimarrà inascoltata da chi rifiuta di capire o ne è incapace.

    La questione fondamentale consiste nel fatto che il termine sanscrito dharma non corrisponde a ciò che per gli occidentali è la religione: oggi, anche la religio4 dei romani risulta incomprensibile nella sua vera natura persino agli occidentali colti, dacché la sua interpretazione è sempre riferita alla sua applicazione cristiana e da essa modificata. Certo, le religioni cristiane e i dharma dell’India5 hanno tra loro alcuni punti di contatto che li distinguono dalle credenze profane che riempiono le menti degli occidentali dalla fine del medioevo. Infatti, il perseguimento delle virtù e la repulsione del vizio tramite azioni sacre codificate non hanno in vista semplicemente una ricaduta pragmatica immediata, ma il raggiungimento, dopo la morte, di una condizione migliore6. In entrambi i casi si stabilisce una mediazione rituale tra il visibile e l’invisibile per mezzo del sacerdozio. Tuttavia poche altre caratteristiche possono essere riconosciute comuni a religione e dharma. Oltre all’adesione fideistica7 ai dogmi, richiesta da ogni istituzione religiosa e assente nel dharma, le religioni occidentali8 sono strutturate in modo tale da presentarsi eguali nei modi e nelle forme ai suoi fedeli. Per questa ragione, tutti, perlomeno a partire dall’età della ragione, dai sei o sette anni, sono tenuti a compiere gli stessi rituali obbligatori, obbedire alle medesime regole di comportamento legale o morale e aderire ai precetti di fede imposti dogmaticamente, pena sanzioni che a partire dalla scomunica possono arrivare fino alla pena capitale. Inoltre, poiché le religioni sono sorte in epoche relativamente recenti a partire da un fondatore storico9, che rimane punto di riferimento imprescindibile per la fede, e dalla sua cerchia ristretta di discepoli diretti, le religioni hanno l’ansia di diffondersi e di far prosperare la propria comunità con qualsiasi mezzo lecito e illecito10. Infatti, tutto ciò che è ritenuto utile per la sua diffusione e difesa è moralmente e legalmente promosso, compresa la violenza fisica e psicologica nei confronti altrui. Basta leggere i loro testi sacri, per esserne edotti11. Per tutte le religioni semitiche12, a partire dall’Ebraismo mosaico, si impone necessariamente l’inedito giudizio, precedentemente sconosciuto, secondo cui il proprio Dio, differentemente concepito (e reciprocamente escludentesi) in ognuna, è l’unico “vero” Dio, mentre gli altri Dèi sarebbero solo falsi Dèi. La distinzione che prima di Esodo si imponeva era quella tra i “propri” Dèi e gli Dèi “altrui”, mentre in seguito, con il monoteismo, s’impone nella considerazione delle altrui tradizioni esclusivamente la dialettica di vero-falso, secondo cui ovviamente il Dio di Israele sarebbe l’unico vero. Il monoteismo assume la forma di un “anti-dharma”: non si contrappone solo un Dio unico a molti Dèi, ma il vero Dio a quelli falsi degli altri pantheon politeisti. Ciò ha delle serie conseguenze pratiche, che si sono tradotte in tragedie storiche purtroppo celebri. L’obbedienza assoluta al comandamento divino rovescia la morale convenzionale: se solo il proprio Dio, quello cioè con cui si avrebbe un rapporto privilegiato, di “elezione”, è quello vero, ciò significa che si impone anche la necessità di liberare il mondo dalla proliferazione di false divinità che lo contaminerebbe. L’altrui culto diviene perciò “idolatria”, ed è comando divino sradicarla ovunque la si incontri, perché si dà il caso che il Dio vero sia anche un “Dio geloso”, che non tollera che l’uomo si rappresenti il sacro in altre forme. Ciò dà seguito a uno stupefacente comportamento morale, che scade inevitabilmente nel fanatismo e quasi nella bipolarità: infatti, ciò che, in via generale, è considerato un comportamento morale non adeguato e ingiusto (per esempio uccidere), in questo specifico caso, come in altri simili, ogni qual volta l’ordine divino lo comandi, diviene ingiusto e inadeguato non farlo. Iddio benedice lo sterminio di nemici e idolatri. L’omicidio diventa “sacro dovere”. Ciò che prima era male, ora diviene male non farlo, ciò che sarebbe proibito diventa obbligatorio, e viceversa il rifiutarlo diviene una colpa: si tratta evidentemente di un paradosso etico, di un doppio comportamento morale per cui non è che qualcosa sia bene in sé e perciò amata dalla Divinità, ma viceversa è bene solo in quanto voluta dal Dio. Obbedire ai supposti arbitri divini diviene la suprema virtù, anche quando ciò comporta atti altrimenti esecrati. Disobbedire a Dio, nella logica del monoteismo, è l’unica vera colpa, e perciò ogni azione ordinata da lui, benché normalmente vista come “male”, è di per ciò stesso trasformata in “bene”. Ciò mostra tutta la distanza tra la nozione di Volontà divina propria al monoteismo e le nozioni di dharma hindū o del Logos greco.

    La religione ha come centro d’attenzione l’uomo, sia quale individuo, sia in quanto organizzazione sociale. L’uomo, singolo o collettivo che sia, nella sua unicità naturale, rispecchia l’unità di Dio: come Dio è eterno, così l’anima umana è eterna, ad imaginem et similitudinem13. Il cosmo, nella sua indefinita molteplicità di esseri e di cose, è, invece, escluso da questo rapporto privilegiato, perciò esso è creato e dovrà finire14. Esso ha valore di scenario per lo sviluppo della vicenda terrena del singolo individuo umano e della comunità dei fedeli. Lo sviluppo storico della comunità dei fedeli in seno all’umanità e, spesso, in competizione violenta con comunità rivali è causato dal fatto che la religione è un fenomeno storico, con un suo storico fondatore e con testi sacri fondati sulla storia. In questa visione della storia non soltanto è diversa la “quantità” del tempo considerato, ma ne è diversa anche la “qualità”, cioè la sua propria concezione. Il monoteismo concepisce il tempo e l’avventura dell’uomo in maniera lineare, per cui a una condizione di caduta originale segue una peregrinazione, un esodo, una “risalita”, un “progresso”15 che si concluderà necessariamente come da progetto divino nella “pienezza dei tempi”, in un’escatologia che coincide con lo stabilimento di un immutabile regno di Dio in terra. La storia umana è una parentesi ristretta tra due eventi necessari, stabiliti ab æterno e al di là della responsabilità dell’uomo. La visione dharmika, di contro, è ciclica e si basa completamente su altri presupposti. Sta di fatto che l’Antico, il Nuovo Testamento e il Corano prendono come loro base la narrazione degli avvenimenti storici in cui le tre religioni sono nate e si sono sviluppate16.

    Il dharma è tutt’altra cosa rispetto a quanto descritto finora: la parola deriva da una radice √dhṛ che significa sostenere, preservare, mantenere, fissare, e si esplica come una legge, una regola, che misura e ordina l’intero universo. Dharma perciò non si riferisce alla sola umanità, ma anche a tutti gli altri esseri animati, Dèi, demoni, animali, vegetali, e a tutti gli oggetti inanimati, seguendone lo sviluppo metastorico, secondo le regole del destino (karma) e della “provvidenza” (daiva), dalle ripetute nascite alle ripetute morti. Naturalmente, in questa prospettiva, il dharma si modifica in un rivolo interminabile di regole, adattandosi ai diversi regni della natura, alle singole specie e agli individui che le formano. È, dunque una regola che governa il mondo in cui viviamo, e questa regola si adatta ai tempi e ai luoghi, per consentire alle specie, tra cui l’umana, per esempio, di svilupparsi per mezzo delle nazioni, tribù, caste, clan, famiglie e singoli individui dell’uno o dell’altro sesso. Il dharma universale, quindi, attraverso continui adattamenti alle condizioni peculiari, si particolarizza, diventando, la regola propria di un essere umano, d’un certo gruppo, d’un determinato regno. Essendo connaturato al cosmo, rappresentandone la struttura stessa, il dharma non ha origine in una determinata contingenza storica: è sānatana, permanente, coeterno al mondo. È la tradizione naturale che non ha origine né fine. Questo è un punto nodale, e da esso discendono conseguenze veramente decisive. La visione dharmika appena descritta è una visione del cosmo, dell’intero: il quid che con le tre religioni si impone non riguarda certo tanto il numero degli Dèi considerati –monoteismo contro politeismo, che è anche egualitarismo17 contro aristocrazia-, quanto piuttosto la nozione di creazione dal nulla, cioè lo iato o dualità tra creatore e creatura. Infatti, è questo genere di rapporto che condiziona tutto il resto della visione del mondo religiosa, rispetto a quella dharmika. Prima conseguenza, desacralizzazione o secolarizzazione del cosmo o natura18: una tale concezione sottrae al cosmo, all’universo, alla natura nelle sue forme cangianti e innumerevoli la propria intrinseca sacralità, per proiettarla interamente in un ricettacolo – un Dio, un “Santo” – al di fuori del mondo. Così, il mondo è desacralizzato ed è progressivamente ridotto ad oggetto di dominazione e di sfruttamento secondo i propri desiderata. L’attuale disarmonia nel rapporto con la natura è un epifenomeno necessario di tale processo. Da qui, in definitiva, il materialismo e il nichilismo moderni. Invece, nel dharma e nella religio degli antichi, il mondo, il cosmo, è eterno, senza inizio e senza fine, non è creato, ed è la totalità di ciò che esiste, del reale: e il dharma è il suo ordine eterno. Gli Dèi stessi non sono altrove, al di fuori di esso, e la stessa Realtà vedānticamente concepita ne è il fondamento, l’adhiṣṭhāna. La Realtà propriamente detta è qui; anzi, sono Io. Seconda conseguenza, desacralizzazione o secolarizzazione delle identità politiche o sociali. Si tratti delle caste, delle πόλεις, o della res publica, la concezione religiosa ne sradica la forma e i contenuti, risultando nell’egualitarismo e nell’individualismo, che perciò ha radici ben precedenti alla modernità: se ogni legame col contesto sociale, tradizionale, è solo secondario e accidentale, perché il legame vero e primario è innanzitutto quello di creazione, allora io esisto “veramente”, cioè in via prioritaria, come individuo, cioè in me e per me così come sono in quanto creato da Dio. La mia realtà, ciò che mi costituisce in senso primario, sarebbe la mia astratta relazione di creatura (uguale per ognuno) che mi lega a Dio, e ciò mi sottrae dai legami tradizionali in cui, invece, io sono costitutivamente collocato, ossia in cui mi trovo a nascere e che concretamente mi definiscono. Essere una creatura significa non bastare a se stessi, dipendendo in tutto e per tutto da Dio e solo da Dio. Con ciò, fine della tradizione naturale, perché sono proprio questi rapporti concreti, fatti di eredità e retaggi trasmessi e da conservare e ritrasmettere, a orientare l’esistenza verso i suoi fini specifici e a dotarla di significato e di contenuti unici, inimitabili, insostituibili19.

    Questa concezione della naturalità del dharma è evidentemente diversa da ciò che i monoteismi definiscono “religione naturale”. Con questo termine dispregiativo essi designano il culto che le popolazioni, non toccate dalla grazia della rivelazione divina, spontaneamente rivolgerebbero alle “forze della natura”20, divinizzandole e inventando rituali per ingraziarsi potenze da loro incontrollabili. Si può facilmente riconoscere in questa valutazione superficiale l’origine storica delle aberrazioni evoluzionistiche della “Storia delle Religioni”, che altro non è se non un’ideologia laica scaturita nell’ambito delle “religioni rivelate”.

    Diversamente dalla “religione naturale” che si contrappone a “soprannaturale o di origine divina”, la naturalità (sahaj) del dharma si distingue da ciò che è artificiale (kṛtaka), vale a dire, da ciò che ha origini umane. Bisogna, in ogni modo, prestare attenzione a non equivocare sui termini. “Artificiale” qui indica qualcosa che si aggiunge alla natura ad opera dell’uomo, al fine di volerla correggere o di modificare per adattarla a nuove condizioni d’una umanità particolare. Ciò implica un apporto innaturale e, perciò stesso artefatto. Per il Sānatana Dharma, dunque, tutti i dharma e tutte le religioni fondate da un essere umano, per quanto eccezionale questi sia ritenuto, appaiono “artificiali”; e, come tali, rispecchiano mentalità, credenze e condizionamenti spazio-temporali di chi le diffonde e delle comunità che le recepiscono.

    Nel Sānatana Dharma universale si distinguono diversi livelli di partecipazione umana al dharma: il sāmānya dharma (dharma generale) è condiviso da tutti quelli che hanno avuto nascita umana e che seguono le regole naturali di perseguire il bene proprio e altrui e di respingere tutto ciò che è nocivo. Fruiscono passivamente degli effetti universali dei rituali compiuti dai brāhmaṇa in qualsiasi parte del mondo si trovino. Possono incrementare i meriti accumulati presenziando a sacrifici, alle pūjā, dedicandosi ai digiuni (upavāsa), alle opere di carità (dāna) e possono accedere a qualsiasi iniziazione purché questa non comporti il compimento di rituali vedici. In tale situazione si trova l’intera umanità, compresi gli śūdra, i mleccha e gli appartenenti alla tre caste superiori che non siano ancora dvija, ossia che non abbiano ancora ricevuto l’upanayana. All’interno del sāmānya dharma si distingue il viśeṣa dharma o dharma particolare, che corrisponde alla condizione di casta dei due volte nati (dvija) a cui si appartiene e alla fase della vita (varṇāśrama dharma) in cui ci si trova; quindi, i differenti rituali a cui si dedicano i membri di ciascuna casta (varṇa), variano anche a seconda del periodo di vita (āśrama) che si sta passando. Infine all’interno del viśeṣa dharma si distingue l’ancor più specifico svadharma, che è l’adattamento delle regole alla tradizione del proprio gotra (clan), del proprio kula (famiglia) e della regione (pradeśa) in cui risiede la famiglia. Lo svadharma comporta anche l’assunzione di rituali supererogatori e comportamenti nelle scelte di vita, liberamente adottati da ogni singolo individuo; a questi si possono aggiungere, nel caso degli iniziati (dīkṣita), i riti ingiunti da un Guru, l’adozione di una dottrina e di una devozione basata o meno sulla propria divinità d’elezione personale (iṣṭadevatā).

    Da ciò deriva che nell’Induismo non c’è un solo individuo che sia tenuto a credere ciò che altri credono, a partecipare ritualmente a obblighi collettivi, a comportarsi secondo un’unica legge morale. E quando si parla d’individui non si restringe il campo a quelli della sola umanità. L’occidentale, nella sua ecumene religiosa, riconosce solamente coloro che condividono la sua fede; e riconosce anche gli altri rappresentanti della medesima umanità, pur relegandoli nella deprecata categoria di “infedeli”. Non è così per l’hindū, il quale amplia l’orizzonte del dharma fino a comprendere gli Dèi, i demoni, gli animali, le piante, gli oggetti ed, estendendosi fuori dello spazio e del tempo in cui vive, fino agli antenati e ai discendenti21. Questo perché nel dharma sono presenti anche coloro che più non sono e coloro che non sono ancora, ma che tuttavia sono legati da una continuità psicosomatica con chi vive attualmente. Gli animali e le piante cono considerati esseri coscienti, sensibili, con un certo grado d’intelligenza, con un loro destino postumo; non esiste l’assurda credenza che abbiano un’anima che ha inizio e fine con il corpo. A questi esseri viventi in un corpo si aggiungono, come si diceva, le innumerevoli schiere di Dèi, semidèi, spiriti, demoni e anti-Dèi, ecc., che, pur essendo in generale invisibili, esistono in altri luoghi (loka), sempre partecipando all’ordine universale. E, poiché da altri loka si è provenuti, in altri loka ci si recherà per un’altra esistenza sotto la forma, umana o meno, a seconda del karma compiuto.

    Al tempo stesso il cosmo è luogo di vita e morte, di piacere e di dolore. L’esistenza in una situazione, sotto condizioni e in modalità particolari, anche la più favorevole, è pur sempre transitoria (anitya) e relativa (vyāvahārika). Solamente al di là di ogni condizionamento c’è la pienezza dell’essere, l’eternità, l’infinito. La meta di ogni essere è quella: non si tratta di ottenere la rinascita, la migrazione in un mondo migliore, in un cielo22. Anche queste stazioni rimangono relative e transitorie e vanno quindi rifiutate, trascese. Il saggio che ambisce a indiarsi, per usare un verbo caro a Dante, rimane prigioniero nel cielo supremo (Brahmaloka) dove s’è recato per unirsi all’Unità divina, o a reintegrarsi come parte nel Tutto. Chi non s’accontenta di questo yoga o samādhi supremo, tramite la conoscenza discriminante deve comprendere che il cosmo, pur retto dal dharma, è in realtà lo stesso saṃsāra, il divenire da cui ci si deve liberare. Si passa, dunque, da una visione saṃsārī alla cerca della Liberazione (mokṣa), con il superamento del pravṛtti dharma e l’assunzione del nivṛtti dharma, della rinuncia (saṃnyāsa), compiendo il percorso attraverso i quattro fini dell’uomo (paramapuruṣārtha). La liberazione dal saṃsāra, per ogni singolo essere, passa, dunque, attraverso la rinuncia del pravṛtti dharma, il dharma dell’azione rituale. Narrano i Veda che i primi a essere creati furono i saṃnyāsin. Essi si dedicavano alla rinuncia del karma per coltivare la conoscenza suprema. Il loro dharma era il nivṛtti dharma, la non azione, ossia il naiśkarmya dharma. Ma, poiché erano totalmente rinuncianti, non procreavano, perciò la divinità creatrice (Prajāpati) produsse un nuovo genere umano, i ṛṣi, che si dedicavano all’azione rituale. Costoro potevano sposarsi, diventare gṛhastha e avere l’abbondante progenie da cui deriva l’umanità. Tra i discendenti dei ṛṣi, alcuni scelgono di respingere i desideri e, perciò, rinunciano all’azione e ai suoi frutti (karma ca karmaphala) al fine di cercare la conoscenza dell’Assoluto (Brahmajñāna vicāra). Questi rinuncianti (vairāgin) abbracciano il nivṛtti dharma e diventano saṃnyāsin, allorché tutti gli altri umani rimangono nel pravṛtti dharma. Quest’ultimo corrisponde al dominio dell’azione che si espleta su tre piani distinti: azione compiuta con il corpo (kāyika kriyā), quella dei riti (kalpa, yāga), ecc., eseguiti nel mondo esterno; l’azione compiuta con la parola (vācika kriyā), l’orazione (stotra), la preghiera (mati), la ripetizione del mantra (jāpa), ecc.; e infine l’azione mentale (mānasa kriyā), la visualizzazione interiore (mānasa kalpita) la meditazione (upāsanā, dhyāna), ecc. Con l’azione, si sa, non si può sfuggire al dominio dell’azione (karma kāṇḍa). Ed è perciò che coloro che seguono una delle innumerevoli vie del pravṛtti dharma ambiscono a godere dei frutti delle loro azioni obbligatorie (nityakarma) in questa vita o nell’aldilà (paraloka). Se alle azioni obbligatorie si aggiungono le azioni metodiche (prakriyā) ingiunte da un maestro d’iniziazione (dīkṣāguru), in tal caso l’iniziato (sādhaka) sperimenterà in vita le esperienze sottili che preannunciano gli stati di cui fruirà negli stati postumi, per poi seguire le due vie del pitṛyāṇa e del devayāna fino al grado supremo di fruizione beatifica nella visione (ānandamaya darśana) della divinità creatrice (Īśvara-Hiraṇyagarbha)23. Coloro che percorrono le vie dell’azione considerano che il mokṣa consista in questo stato. Ed effettivamente questa è una liberazione da innumerevoli limitazioni aggiunte (upādhi), eccezion fatta per la dualità. Infatti, pur conoscendo il jīva come una parte del Tutto divino in esso reintegrato, ciò nonostante rimane la dualità Totalità-parte, Creatore-creatura, Signore-suddito. Sono uniti, ma, allo stesso tempo si mantiene tra loro una distinzione (viśiṣṭa). Questo è il limite delle vie dell’azione, per la qual cosa è del tutto ingannevole sostenere che possano esistere supposti risultati metafisici dei rituali. Considerata tale condizione alla luce della conoscenza, sarà evidente a tutte le persone intelligenti che ciò di cui si tratta non è la vera Liberazione (sadyomukti o mukhyamukti), bensì una libertà o immortalità “relativa” (āpekṣika mukti o āpekṣika amaraṇa), vyāvahārika. L’azione non si contrappone all’ignoranza (avidyā), perciò non può essere strumento di Liberazione dall’ignoranza24. Solamente la conoscenza libera. E la conoscenza consiste nel capire la propria vera natura: capire che l’Ātman è Brahman, che tu sei l’Assoluto (Tattvamasi), che io sono l’Assoluto (aham Brahmāsmi). La via dell’azione (karma mārga) e la via della conoscenza (jñāna mārga) non hanno nulla in comune; la prima soltanto costituisce l’avvio alla conoscenza, nel senso che attua una purificazione, predisponendo la mente alla comprensione di ciò che è incomunicabile e che è insegnano come adhyāropa. Il terzo capitolo della Bhagavad Gītā afferma che la via dell’azione (karma mārga) può servire per la purificazione della mente (buddhadhī) di coloro che desiderano ardentemente la conoscenza del Sé. Per costoro questo percorso attivo preliminare (che può anche essere stato iniziato e perfino concluso in un’esistenza precedente l’attuale) non rappresenta semplicemente lo sforzo per arrivare all’unione con la divinità, ma serve per affinare le capacità mentali in modo da saper discriminare il vero dal falso, l’Ātman dall’ānatman. In questo caso assume il nome di karmayoga. Chi s’arresta al karma mārga rimarrà soddisfatto della meta raggiunta, confondendo la sua condizione di fruitore della beatitudine acquisita (ānandamaya bhoktṛ) con la sua vera natura di Beatitudine (Ānanda svarūpa).

    Questa concezione è estremamente difficile da riconoscere da parte delle religioni occidentali, proprio per il fatto che esse ricadono pienamente (o ricadevano, nel caso di quelle che hanno perduto la loro completezza o che non sono nemmeno più viventi) nel karma kāṇḍa. Infatti in esse non esiste affatto nemmeno l’idea della rinuncia all’azione corporea, verbale e meditativa, per dedicarsi esclusivamente alla conoscenza25.

    L’essoterismo religioso può (o poteva, nei casi summenzionati) offrire un supporto esteriore a un esoterismo che, comunque, non ripudia mai l’azione in favore della cerca puramente conoscitiva, opzione di cui ignora perfino l’esistenza, e il cui abbandono condanna sulla base della legge essoterica26. Le religioni sono strutturate a due livelli, quello essoterico, aperto a tutti i credenti, e quello esoterico, riservato a coloro che hanno ricevuto una iniziazione corredata da una dottrina e da un rituale metodico. Anche il Sānatana Dharma è strutturato a due livelli, ma essi sono il karma kāṇḍa e il jñāna kāṇḍa. Il dominio dell’azione comprende sia le azioni rituali esteriori (vaidika kriyā) sia le azioni rituali metodiche ricevute da un Guru (sādhanā prakiyā) per via iniziatica (sampradāya mārga); ciò significa che il karma kāṇḍa è comprensivo dell’intero dominio religioso sia della sua componente essoterica sia di quella esoterica. Invece il dominio della conoscenza è la via della rinuncia all’azione e al desiderio (naiśkarmakāmya vairāgya), che comporta la libertà da ogni rito. I due kāṇḍa compongono il Sānatana Dharma fin dalle origini dell’umanità: il karma kāṇḍa è il pravṛtti dharma e il jñāna kāṇḍa il nivṛtti dharma, di cui abbiamo già trattato. Che il dominio delle religioni nelle sue due componenti sia classificabile tra le diverse vie del karma kāṇḍa è provato dall’esempio della tradizione del Tantra (“tecnica”, soprattutto sottile) o Āgama (“finalità da raggiungere”). Pur facendo parte integrante del Sānatana Dharma, il Tantra non si rifà all’autorità del Veda27. Esso si appoggia su una concezione paragonabile a quella di “rivelazione”. Poiché l’umanità era decaduta a causa della degenerazione ciclica, la conoscenza e i sacrifici brāhmaṇici erano diventati astrusi e inefficaci soprattutto per le caste servili. Presi da compassione per un’umanità così decaduta, Śiva, la Devī o Viṣṇu, a seconda delle differenti correnti tāntrika, rivelarono il Tantra quale strumento iniziatico semplificato, mentre era in corso il diluvio universale che separò il dvāparayuga dal kaliyuga. Poiché perfino la tradizione ritualistica esteriore brāhmaṇica (vaidika dharma) era ormai inintelligibile, gli Dèi insegnarono all’umanità del kaliyuga anche una versione semplificata del sacrificio vedico, che rappresenta ciò che si può passabilmente definire essoterismo tāntrika (bahiraṅga Tantra). Invece il metodo interiore del Tantra rimane personale e segreto, tanto da somigliare molto all’esoterismo celato all’interno delle religioni. La meta del Tantra è quello di integrare l’ātman individuale nell’Ātman universale tramite un complesso uso di rituali compiuti con il corpo, con la parola e con la mente. Vale a dire che il Tantra ricade pienamente nell’ambito del karma kāṇḍa. Tuttavia, nel caso dei sādhaka del Tantra, se qualcuno tra loro decidesse che ciò gli era servito solo per la preliminare purificazione della mente, costui potrà sempre rivolgersi a un jñānaguru di Advaita Vedānta al fine di conoscere la propria vera natura di Brahmātman28.

    Questa digressione sul Tantra è stata motivata dal desiderio di indicare un caso paragonabile, per alcuni versi, a quello delle religioni occidentali. Non deve però essere interpretata in modo capzioso. Infatti tale “rivelazione”, come tutte quelle che si sono succedute dall’inizio del kaliyuga, non vuole affatto dimostrare che la tradizione tāntrika abbia perfezionato o perfino abrogato il più antico Dharma vedico, come pretendono, invece, le religioni contendendosi fra di loro la palma della verità rivelata più recente (come se “più recente” fosse un miglioramento e non una semplificazione ad usum d’una umanità più decaduta). In India l’umanità più qualificata ha continuato a seguire il sacrificio vedico e la conoscenza upaniṣadica e nessun Tantra ha mai preteso di ritenersi superiore al Veda. L’adattamento ai tempi è necessario per coloro che subiscono le conseguenze del decadimento ciclico, non per chi non ne risente. Ed è necessario anche comprendere che ogni ulteriore semplificazione comporta necessariamente un abbassamento di livello, una riduzione di consapevolezza, l’adozione di un rituale sempre più rudimentale e limitato e una perdita dei suoi strumenti d’azione (kāraka). A questo proposito faremo notare che il Giudaismo era strutturato attorno alle due tribù di Levi e di Giuda. Da Levi, per diritto di nascita, provenivano i sacerdoti (kohanīm), e da Giuda i Re (melākīm), in un ordine che ricorda molto da vicino il sistema castale hindū. La funzione sacerdotale, d’altra parte, si coniuga strettamente con il sacrificio animale, vegetale o per sostituzione simbolica, che aveva sempre come luogo d’esecuzione il Tempio. Il sacrificio, per essere tale, deve essere giustificato e spiegato da una dottrina corrispondente, in cui si ripercorre all’inverso quello che insegna la cosmogonia graduale. Come l’Uno si è fatto molteplice con il sacrificio, così il sacrificio tende a riportare per restituzione il donatore del rito all’unità primordiale. Ci sono tre narrazioni vediche che illustrano questo atto rituale definito in sanscrito yajña o yaga. La prima narra l’origine del creato tramite il simbolo dell’autosacrificio (ŚB XI.1.8.2 et alia): Prajāpati, rendendosi conto di essere unico, decide di diventare molteplice. Il Tutto-Prajāpati si divide in innumerevoli parti (aṃśa) che costituiscono il cosmo (jagat). Il secondo racconto descrive come lo stesso Essere primordiale, questa volta denominato Puruṣa, fosse stato sacrificato dagli Dèi (ṚV X.90 et alia) dando così origine al mondo. Il terzo racconta come, al principio del tempo, il dragone primordiale Vṛtra trattenesse in sé le acque feconde delle possibilità di manifestazione; e come Indra, in questo caso in funzione di demiurgo, squarciasse il suo ampio ventre, permettendo alle acque di dilagare per ogni dove, dando inizio al cosmo molteplice e differenziato. I tre miti devono essere considerati come tre punti di vista diversi della stessa dottrina del sacrificio. Il molteplice appare per differenziazione sacrificale della Divinità creatrice. Il primo illustra una autoimmolazione; ma, a ben vedere, anche il secondo e il terzo, perché infatti gli Dèi o Indra non sono esterni alla Divinità primordiale. Gli Dèi non sono altro che gli indriya che, rivolgendosi verso l’esterno, proiettano le percezioni che appaiono come molteplici oggetti, l’universo cosmo. E il demiurgo altro non è se non la personificazione della volontà creatrice del Creatore, che segna così il passaggio dall’eternità allo sviluppo temporale. Naturalmente, salta alla vista di tutti coloro che seguono con intelletto attento i contributi che appaiono su questo Sito, che una simile dottrina non ha nulla da spartire con la metafisica del jñāna kāṇḍa, che nega ogni realtà alle teorie creazioniste, emanazionistiche o di manifestazione. Ciò fa parte del circolo della presupposizione, come ogni teoria di “derivazione” o produzione del molteplice: la stessa nozione di “derivazione”, infatti, implica già quella stessa molteplicità che essa, invece, intenderebbe fondare. L’unità che produce la dualità, l’uno che genera il due, è già ab origine dualità. È proprio del karma kāṇḍa tradurre tali teorie sotto forma di rituali corrispondenti. Per questa ragione, il sacrificio è per l’uomo il più solenne ed efficace tra i molti atti rituali possibili, tanto da avere ripercussioni sull’intero universo. Il sacrificio, infatti, è un rituale che opera la reintergazione della molteplicità nell’unità, della parte nel tutto, del relativo nell’Assoluto.

    Ora non è questa la sede per esporre perché e come tutto questo sia stato perduto dal Giudaismo. Certo è che con la distruzione del tempio di Erode il Giudaismo perse quest’importante rituale e, di seguito, scomparve anche l’istituzione sacerdotale. Da molti secoli non è nemmeno certo se quelle famiglie di israeliti che portano il cognome Cohen (o le sue varianti) siano davvero discendenti dalle stirpi della casa di Levi. Nel Cristianesimo si assistette a una modifica della funzione sacerdotale che non fu più trasmessa per diritto di nascita, ma per ‘vocazione’; vale a dire che diventava sacerdote chi sentiva una forte attrazione per tale ruolo. Alla funzione per qualifica di stirpe, subentrò la funzione scelta per volontà del singolo aspirante, il che rappresenta una chiara sminuizione della funzione: insomma, un sacerdozio per supplenza. Tralasciando che il sacerdote a pieno titolo è solo il vescovo, è però importante sottolineare che nel Cristianesimo ciò che caratterizza il sacerdozio è proprio la facoltà rituale di compiere il sacrificio. Tutti gli altri carismi del presbitero dipendono dal suo potere di consacrare l’offerta sacrificale. E il Cristianesimo nelle sue forme latina e orientale ebbero un importante apparato dottrinale e liturgico riguardante il sacrificio del Cristo. Ciò fu del tutto disperso nelle “Chiese” riformate, che non accettano il sacrificio in quanto tale e considerano la messa (o, meglio, l’“assemblea”) soltanto come una commemorazione dell’ultima cena. E per tale ragione sono prive di sacerdozio: come i rabbini non sono kohanīm, così i pastori protestanti non sono preti. Per tale ragione le chiese riformate non sono nemmeno propriamente delle religioni. Le chiese orientali hanno ancora mantenuto intatto sia la versione cristiana di sacerdozio, sia il rito sacrificale. La chiesa latina è, invece, implosa in un ripugnante protestantesimo carnascialesco. Quanto all’Islām, esso è stato istituito privo di sacerdozio e, quindi, di sacrificio. Sostenere, come fanno alcuni incapaci di riflettere, che non c’è sacerdozio perché ognuno è sacerdote per se stesso è come quel bolscevico che diceva: «Non c’è lo Zar perché ognuno è zar per se stesso!» e, invece, erano tutti sudditi; dal caos, ma sudditi. Quanto allo sgozzamento in nome di Dio: fuori dall’illusione, si tratta solo di una macellazione preceduta da una formula, senza alcun rituale, senza alcuna consapevolezza, senza alle spalle alcuna dottrina del sacrificio. Certo, si tratta di regole religiose che vanno osservate ed eseguite. Ma senza farsi illusioni.

    1. L’atteggiamento che ispira costoro è la parificazione di dharma e delle varie religioni con il termine livellante di “forme tradizionali”, le quali sarebbero tra loro equiparate, nonostante le differenze. In quanto ritenute “complete” conducono alla medesima meta tramite mezzi di simile efficacia. Nulla di più falso: nel vyavahāra a differenziazione corrisponde gerarchizzazione. La parità di fatto tra le “forme tradizionali” è di matrice occultista, degna del Parlamento delle religioni e perfino dello sgangherato pensiero di Jorge Mario Bergoglio.[]
    2. Eviteremo di entrare nell’oziosa discussione se quest’ultimo termine sia scientifica o meno. L’importante è che Induismo sia termine ormai consacrato dall’uso almeno da un paio di secoli presso le lingue dell’Occidente per definire nella maniera più soddisfacente ciò che in sanscrito si definisce Sānatana o Anāmaka Dharma. D’altronde l’accettazione da parte delle più elevate autorità spirituali indiane della forma hindū dharma quale sinonimo dell’espressione tradizionale ci garantisce che Induismo è un nome confacente a ciò che è il dharma ancestrale della maggioranza degli indiani.[]
    3. Portiamo come esempio questo breve estratto da Vâlsan che, in uno dei suoi articoli di “propaganda” in favore della shari‘a islamica, arriva ad affermare: “En tout état de cause, dans l’intégration finale dont il s’agit, l’Hindouisme ne peut jouer aucun rôle sur le plan formel de la tradition : sur ce plan, sa définition, conditionnée par le régime des castes, est non seulement inextensible hors le monde hindou actuel, mais aussi destinée à disparaître dans l’Inde même: ses modalités sociales et culturelles spécifiques ne pourront malheureusement pas survivre à la dissolution qui se poursuit à notre époque. Dans la phase actuelle du Kali-Yuga, les choses devant aller jusqu’à l’état, annoncé dans les Livres sacrés de l’Inde, «où les castes seront mêlées et la famille n’existera plus», la base indispensable même de la tradition hindoue, le régime des castes disparaîtra et lorsqu’un redressement traditionnel deviendra possible, il ne pourra l’être que dans la formule fraternitaire d’une législation sacrée comme celle de l’Islam.” (Michel Vâlsan, “Le Triangle de l’Androgyne et le Monosyllabe «OM»” II, Etudes Traditionnelles, mai-juin et nov.-déc. 1964). Ovviamente questa malevola “profezia” vâlsaniana fortunatamente in India non s’è verificata. È il caso, però di far notare alcuni errori dovuti a ignoranza, costanti presso i guénoniani islamizzati: per tutti e tre i monoteismi semitici la fine dei tempi è considerata prossima. Ostinandosi a pontificare su cose che non conoscono, identificano la durata profetizzata nei loro stessi testi rivelati del loro breve ciclo vitale con la lunga durata del kaliyuga, com’è prospettato nella Tradizione eterna, ignorando che secondo tutti i testi di smṛti e del tantra, l’epoca attuale corrisponde soltanto agli albori dell’“età oscura”. In secondo luogo l’Induismo, per sua stessa natura, è “inextensible hors le monde hindou actuel” proprio perché, essendo a struttura essenzialmente aristocratica, ignora ogni tipo di proselitismo, sia quello subdolamente persuasivo ed economicamente ricattatorio sia quello imposto a fil di scimitarra. Infine, la mescolanza delle caste nell’India attuale è un fenomeno del tutto marginale, nonostante le insidie del regime democratico. Al contrario, è di regola proprio presso i popoli che proclamano l’egualitarismo religioso camuffato da “formule fraternaire”, come eufemisticamente Vâlsan lo definisce . Infine, se è in seno al presente ambiente giudaico e cristiano che la famiglia si è dissolta, la famiglia poligama con le rigide segregazioni e tabù sessuali, non appare certo quale esempio d’armonia sociale e d’equilibrio mentale. Sul versante opposto, la famiglia hindū, proprio perché fondamento della casta e della società gerarchica, è a tutt’oggi esemplare verso il resto del corpo sociale, all’interno del suo nucleo e per l’equilibrio interiore del singolo, in continuità rituale con antenati e discendenti.[]
    4. La religione nella sua accezione cristiana, più che a religio, da cui pur deriva filologicamente, sembra piuttosto apparentarsi al concetto della pietas romana. La religio romana è infatti più propriamente la virtù della lealtà del cives per la res publica consacrata dai sacrifici agli Dèi. Altrettanto dicasi per il sostantivo cristiano πίστις, religione, fede, che nel greco classico significa semplicemente lealtà nei confronti della πόλις. Ed è proprio rifiutando le offerte sacrificali e il culto agli Dèi che la giovane religione cristiana dimostrava slealtà religiosa nei confronti della res publica.[]
    5. Il termine dharma definisce anche il Jainismo e il Buddhismo, sebbene quest’ultimo al giorno d’oggi sia rappresentato in India esclusivamente dai rifugiati tibetani. Ciò fa sì che gli hindū considerino l’ākālika dharma dei jaina e dei buddhisti come due correnti nāstika comprese nel dharma universale, come fossero due ulteriori darśana. Si ricordi che nāstika significa “che non si basa sul Veda” e non ha nulla a che fare con le concezioni tutte monoteistiche di eterodossia ed eresia.[]
    6. Ciò, però, non vale per il Giudaismo che presenta un preoccupante disinteresse circa i fini postumi, in favore di ricompense di benessere e di dominio, da ottenere per mezzo dei rituali compiuti nella presente vita corporea. Né suona a giustificazione che si riscontri qualche accenno al post mortem nella Qabbalah, le cui fonti sono peraltro tutte assai tarde; ma soprattutto si deve considerare che indirizzare alla salvezza ed evitare la dannazione è compito precipuo dell’essoterismo religioso, non dell’esoterismo.[]
    7. Fideistica, intendendo la fede nel senso di credenza obbligatoria nei dogmi. Altra cosa è śraddhā, generalmente tradotto con fede, ma che significa certezza del percorso imboccato, impulso interiore a raggiungere la meta prefissata, intenzione; in quest’ultimo caso è sinonimo di saṅkalpa.[]
    8. Finora abbiamo paragonato l’hindū dharma alle diverse chiese della religione cristiana, ovvero la cattolica e le altre chiese orientali. Invece, ciò che segue riguarda tutte le religioni monoteistiche di origine semitica. Perciò le caratteristiche segnalate devono essere intese come comuni al Cristianesimo, al Giudaismo e all’Islām. Quest’ultimo, talora, è erroneamente annoverato tra le civiltà orientali, soprattutto da coloro che fantasticano sull’esistenza di dottrine sufiche non dualiste identiche a quelle del Vedānta śaṃkariano. Più correttamente, fino a un recente passato, israeliti e musulmani erano entrambi classificati tra gli occidentali ‘levantini’. Guénon faceva rilevare correttamente che la radice “eber” designava l’occidente, per evidenziare l’origine atlantidea delle religioni semitiche (R. Guénon, Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Paris, Gallimard, 2005, p. 47).[]
    9. Un’altra grave confusione diffusa dagli ambienti sedicenti “tradizionali” è di propagare l’idea che patriarchi, Re-messia, profeti, avatāra, ṛṣi, bodhisattva svolgano la medesima “funzione”, differenziati soltanto dalle caratteristiche esteriori della varie “forme tradizionali”. Non è così: basti la constatazione che avatāra, ṛṣi, bodhisattva insegnarono in base alla propria Realtà cosciente e non perché “inviati” dalla “volontà” di un Dio antropomorfico.[]
    10. Il Giudaismo, tuttavia, differisce dalle altre religioni semitiche per le caratteristiche del suo proselitismo del tutto peculiari. Infatti esso mantiene centrale un’escatologia tutta terrena, ossia la convinzione che il popolo ebraico sia stato eletto dal loro Dio a governare su questa terra e su tutte le nazioni. Perciò essi riconoscono legalmente i semi-convertiti (ger-toshav), i quali sono tenuti a seguire i sette comandamenti di Noè e che usufruiscono di alcuni diritti riservati agli ebrei di nascita, ma che sono, comunque, una classe servile della società israelitica (v. AAVV, Ab Ordine Chaos, 3 voll., Milano Ekatos, 2019, vol. I, cap. XXIV.). Oltre a ciò, gli askenaziti riconoscono anche un ulteriore passo di conversione siglato con la circoncisione, con cui i semi-convertiti diventano ger tzedek, israeliti completi. Questo si spiega probabilmente perché gli stessi ašqenazim sono per la maggior parte convertiti di origine turcomanna. I sefarditi, al contrario, non accettano volentieri convertiti e sono più attenti alla discendenza matrilineare, accentuando così la connotazione razziale della loro corrente religiosa. Questo spiega anche il motivo per cui siano minoritari in seno all’E.[]
    11. Ab Ordine Chaos, cit., vol. I, cap. XXI.[]
    12. Evitiamo la formula “religioni abramiche” perché è di uso esclusivo del linguaggio islamico, non accettata da israeliti e cristiani. Il fatto che recentemente tale formula sia stato assunta nell’ambito dell’ecumenismo cattolico e protestante non giustifica affatto il suo uso, essendo motivato da una vile volontà di dialogo con chi non ha alcuna intenzione di dialogare.[]
    13. Per questa ragione la concezione della Divinità nell’Induismo è scevra dell’antropomorfismo dei monoteismi. Il Dio semita è dotato di una personalità umorale, talvolta favorevole, talaltra cambia d’umore a capriccio e diventa avverso, ecc.[]
    14. Il problema dell’eternità dell’anima, in contraddizione con il fatto di essere creata, non si usa porre e rimane avvolta in un profondo mistero salvaguardato dal dogma.  Essa sarebbe stata creata da Dio al momento del concepimento, per poi però esistere eternamente. Ma solo quella umana; differente è il destino per gli animali e gli altri esseri.[]
    15. Non così nemmeno per la tradizione estremo orientale, la quale, pur dovendosi adattare ai tempi prendendo le forme del Taoismo esoterico e del Confucianesimo sociale, ha sempre ricordato la tradizione primordiale unica onorando Fo Hi e i Sovrani Divini come il più puro esempio di perfezione che non è errato definire “dharmika”.[]
    16. Queste caratteristiche storiche sono del tutto assenti nella śruti; compaiono qua e là nei Purāṇa e costituiscono l’argomento principe delle epiche, Rāmāyaṇa e Mahābhārata.[]
    17. Questo comporta anche un’attrazione per le basse classi della società e una tendenza eversiva verso l’ordine gerarchico. Ne è prova il successo dei missionari delle varie religioni tra le classi servili e tra i tribali. Si deve riconoscere che il Cristianesimo (Cattolico e Orientale), dopo qualche secolo, eversivo e anti-imperiale, era stato civilizzato dalla civiltà greco-romana e, nel corso del medioevo, aveva tentato di produrre una società consacrata fondata su una stratificazione per nascita, simile a quella castale dell’India. Tuttavia il tentativo abortì per l’ostilità della gerarchia ecclesiastica.[]
    18. S’arriva a definire il cosmo quale dominio del Princeps huius mundi, dando adito alla credenza gnostica che il Maligno ne sia il creatore.[]
    19. “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” si trova nella Lettera ai Galati 3.28, scritta da San Paolo. In questo versetto paradigmatico dell’atteggiamento religioso che è agli antipodi di quello qui descritto, San Paolo afferma che, attraverso la fede in Cristo, tutte le distinzioni etniche, sociali e di genere vengono superate, poiché tutti i credenti sono uniti in Cristo.  In sintesi, Galati 3.28 rappresenta un principio fondamentale dell’uguaglianza effettiva tra tutti i credenti in Cristo. Ora, una volta che l’analisi razionalista abbia rimosso il riferimento fideistico nel Dio personale, ciò che ne resta è la precisa descrizione dell’ideologia secolarizzata.[]
    20. La Natura, in quest’ottica, pare ridursi a una semplice dimensione climatica o, al massimo, ai cataclismi tettonici o vulcanici.[]
    21. Non appena un monoteismo prevale sulla precedente tradizione ancestrale, il culto degli antenati è immediatamente rimosso, essendo la relazione Creatore-creatura fondata sull’individuo privo di altra mediazione da parte della natura universale. Da ciò si procede verso una visione sempre più individualistica e priva di tutta la complessa serie di mediazioni dharmika.[]
    22. Il fine delle religioni consiste nel raggiungimento della salvezza, ossia, come quest’ultimo termine precisamente significa, la conservazione dell’individualità e la sua sopravvivenza nelle condizioni postume, in una relativa beatitudine procurata dalla maggiore o minore prossimità con la divinità, a seconda dell’elevatezza del cielo a cui l’anima individuale è destinata.[]
    23. Per una trattazione esaustiva di questi argomenti vedasi il nostro Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya, Milano, Ekatos, 2019.[]
    24. Come il fuoco ardendo trasforma in cenere il combustibile, così, oh Arjuna, il fuoco della conoscenza incenerisce tutte le azioni.” (Bhagavad Gītā, IV, 37).[]
    25. Anche presso le religioni c’è l’uso del termine “conoscenza”, sia nel campo dell’essoterismo sia in quello dell’esoterismo. Tuttavia, il concetto che le corrisponde riguarda sempre un percorso per gradi e per approssimazione del soggetto individuale verso il suo oggetto. Questa conoscenza teorica, virtuale ed effettiva, talora definita anche come studio di una meta da conoscere, sua visualizzazione e raggiungimento della sua realtà non ha nulla da spartire con il jñāna, la Conoscenza immediata dell’Assoluto. Si tratta sempre e soltanto di pramā, conoscenza di un oggetto altro da Sé, che si sviluppa nel vyavahāra attraverso la tripuṭi di pramatṛ, pramāṇa, prameya (triplicità di conoscitore-strumenti di conoscenza-oggetto da conoscere). Non è a caso che tutte e tre le religioni, durante il medioevo, fecero ricorso alla logica aristotelica per spiegare le loro concezioni riguardo la conoscenza. Infatti, pramā nell’ottica dell’induismo ricade sempre nel dominio del vyavahāra, vale a dire dell’ignoranza.[]
    26. Questo è un altro punto che distanzia irrimediabilmente dharma e religione. Nella religione i canoni che garantiscono l’ortodossia anche nel dominio esoterico sono rappresentati dalle regole dell’essoterismo. Questa è una prospettiva rovesciata rispetto a quella del dharma, in cui la dottrina dell’Assoluto è incontestabile dai punti di vista più limitati e, dunque, non è sottoposta ad alcun controllo da parte di istituzioni o autorità inferiori per conoscenza. Il Guru nel Sānatana Dharma è la Divinità Suprema. Come un Re tocca i piedi di loto di un paṇḍita o anche di un semplice brāhmaṇa, così questi toccano umilmente i piedi di qualsiasi Guru. E un Guru gṛhastha o vanaprastha si prosterna devotamente davanti a un Guru saṃnyasin. È la conoscenza che legittima la sfera dell’azione, non viceversa.[]
    27. In questo ambito comparativo, la tradizione vedica è definita nigama (punto fisso).[]
    28. Questo non può accadere all’interno delle tradizioni che sono prive di jñāna kāṇḍa. In questo caso, la persona altamente qualificata (uttamādhikārin) che ha compiuto la buddhadī con i mezzi forniti dalla sua religione d’origine, per perseguire nella conoscenza non-duale potrà avvicinare un jñānaguru di Vedānta. Oppure, appoggiandosi sulle sue innate capacità di comprensione (sahaj prabodha ādhikara), potrà intraprendere il vicāra tramite il Guru interiore. Si deve essere ben consapevoli che quest’ultimo rappresenta, comunque, un caso eccezionale.[]