Śrī Śrī Svāmī Jñānānandendra Sarasvatī Mahārāja
7. Vedānta Jijñāsa
27. Domanda: nel Mūlāvidyābhāṣya Vārtikaviruddhā si sostiene che nei commentari al Prasthāna traya è mostrata la non-dualità della vera natura di Ātman, la quale in sonno profondo (suṣupti) è completamente scevra dalle limitazioni di avidyā. Ma, nell’opera Māṇḍūkyarahasya Vivṛti, Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī Mahārājā ha affermato che: “tale avidyā ha una duplice natura, quella della causa (kāraṇa) e quella dell’effetto (kārya): tra esse quella tramite cui c’è non comprensione (agrahaṇa) dell’essenza del Sé è chiamata ignoranza causale (kāraṇāvidyā), quando sul Sé sono sovrapposte le caratteristiche (dharma) dello stato di sonno profondo e di colui che vi si trova”. E Śaṃkarācārya afferma: “dunque questa condizione consiste nell’ attingere la Realtà (Sat) nella quale sono presenti i semi causali [a causa dei quali si ritorna al mondo fenomenico]”.
Perciò, come si può sostenere che non ci sia avidyā nel sonno profondo? Come si può sostenere la non-dualità rispetto una tale condizione?
Risposta: avidyā esiste in tre forme: 1) assenza di conoscenza (agrahaṇa), 2) conoscenza erronea (anyathāgrahaṇa), 3) conoscenza dubbiosa (saṃśayagrahaṇa). Queste sono modificazioni mentali della natura di nozioni o pensieri erronei. Sono chiamate upādhi del jīva. A causa di questi upādhi, uno prende erroneamente Sé stesso per un individuo. Questi upādhi vanno e vengono senza alcuna ragione. La questione della ragione e della causa sorge solo dopo la venuta di questi upādhi. Poiché l’individuo è il risultato di questi upādhi (chiamati adhyāsa), egli non può concepire la causa di adhyāsa. Se questi upādhi sono rimossi dalla reale conoscenza dell’Ātman, allora non ritornano più. In sonno profondo è sperimentata da tutti l’assenza di questi upādhi. Di converso, la presenza di questi upādhi è esperita da tutti in veglia e in sogno. “Ciò che è inesistente non può essere trovato” (BSŚBh IV. 1. 2). L’individuo è sempre Brahman. A causa di questi upādhi, quest’ultimo è frainteso e scambiato per il jīva. “Ora, poiché sia nella veglia sia nel sogno, in virtù dell’identificazione con le sovrapposizioni come corpo, ecc. è come se si verificasse l’acquisizione di un’altra natura, è proprio in considerazione di ciò che si parla della realizzazione della propria autentica natura, dato che si ha la cessazione di quello [stato di erronea associazione con una falsa natura sovrapposta] determinato appunto dal sonno profondo. Pertanto, non è conforme a ragione sostenere che nello stato di sonno profondo l’identificazione con l’Essere a volte si verifica e a volte non si verifica” (BSŚBh III. 2. 7). L’individuo appare come fosse differente dal Brahman negli stati di coscienza di veglia e di sogno a causa degli upādhi con cui sembra essere associato. In sonno profondo non ci sono upādhi e perciò si dice che l’individuo è uno con il Brahman. In verità, egli è sempre il Brahman, ma, a causa di adhyāsa, conosce erroneamente se stesso come se fosse un individuo. È dunque errato dire che l’individuo è riassorbito in Brahman in un dato momento e che non lo è in un altro. Egli è sempre il Brahman per natura. La propria medesima natura non può andare e venire. “La condizione di sonno profondo invero è Ātman” (ātmaiva suṣūptisthānam, BSŚBh III. 2. 7). Il sonno profondo dell’individuo è in realtà Brahman o Ātman. Questa risposta è data tramite la visione che rimuove la sovrapposizione provvisoria (apavādadṛṣṭyā).
Il jīva individuale non sapeva di essere già il Brahman prima di andare in sonno profondo, cioè prima di immergersi (apparentemente) nel Brahman. La “non-conoscenza” dell’Ātman non era stata rimossa dalla reale conoscenza di Brahman nello stato di veglia. Questa “non-conoscenza” è il “seme” [del ritorno da suṣupti].
“Perciò (in sonno profondo) l’attingimento della Realtà avviene tramite la presenza di semi”, così ha affermato il bhāṣyakāra. Questo “non-conoscere” non può appartenere alla Realtà. Appartiene al jīva. Ogni qualvolta l’individuo torna agli stati di veglia o di sogno, queste cosiddette “non-conoscenza” e “conoscenza erronea” ritornano anch’esse spontaneamente come suoi upādhi.
“… così, mio caro, seppur immersi nella Realtà, essi non sanno: «Siamo immersi nella Realtà»” (ChU VI. 9. 2); “Tramite il venir meno delle forme dovute agli upādhi, (colui che dorme) riassorbito in Sé non conosce la Realtà” (BSŚBh III.2.7). Gli individui “diventano” Brahman ma non sono consapevoli di essere Brahman o la Realtà.
Questa risposta è data dal punto di vista della deliberata sovrapposizione e attribuzione (adhyāropadṛṣṭyā) degli stati al jīva.
Gli upādhi non esistono in sonno profondo. Perciò è corretto dire che lì il jīva non conosce nient’altro in quanto è uno con Sat, cioè con il Brahman. È nell’esperienza di tutti che non c’è ignoranza nel sonno profondo. L’ignoranza, che è ciò che proietta la dualità, non esiste in sonno profondo. Śaṃkara ha affermato questo nel suo commento alla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (IV. 3. 32): “E là dove l’ignoranza, responsabile della proiezione di oggetti come altro da Sé, è sospesa, cioè ancora nel sonno profondo, dove è assente qualsiasi oggetto distinto dall’altro attraverso l’ignoranza, là che cosa e attraverso che cosa si può vedere, fiutare o conoscere? Perciò, «completamente avviluppato dal Sé autoconsapevole (BU IV. 3. 21), che per natura è autoluminoso, “egli diviene” infinito, perfettamente pacificato …»”. “Egli, libero dall’individualità, ha la natura luminosa di un Deva” (ChU VI. 8. 1). Così anche nell’espressione del commentario si dice che gli upādhi scompaiono in sonno profondo.
Nessuna affermazione contraria all’esperienza diventa valida. Le avasthā di veglia, sogno e sonno profondo dovrebbero essere considerate in accordo alle loro rispettive esperienze nei loro propri dominii, e nessuno dovrebbe immaginare o fare deduzioni sugli altri due stati dal punto di vista della veglia (sārvatrilokānubhavānusareṇaiva jāgradādyavasthāḥ).
28. Domanda: Qual è la vera natura di suṣupti? Chi è colui che entra in suṣupti avasthā? Non è il jīva. Non può trattarsi del jīva in quanto quest’ultimo non corrisponde ad alcun oggetto definito da un nome (padārtha), ossia per il fatto di essere un’immaginazione proiettata tramite l’upādhi della buddhi sulla natura propria (svarūpa)1. Il jīva, infatti, consiste nell’essere prodotto (nimitta) dagli upādhi come buddhi, ecc.: esso viene meno nello stesso momento in cui vengono meno gli upādhi. Se lì non c’è jīva, allora chi è che fa ritorno una volta che il sonno profondo è concluso? Perciò com’è possibile che il jīva faccia ritorno al proprio corpo?
Risposta: Śaṃkara ha affermato: la condizione di sonno profondo non è altro che Brahman (Brahmaiva suṣuptisthānam. BSŚBh III. 2. 7). Ciò significa che la condizione di sonno profondo è il Brahman in quanto non-conosciuto (ajñātaṃ).
C’è solo l’Ātman supremo. Invero, solamente in riferimento alla condizione avente forma di jīva – a causa del potere del mescolamento dei due upādhi di veglia e di sogno – esso verrà metaforicamente detto suddividere la propria natura unica e intrinseca. Ma in realtà il jīva è sempre Brahman. Upādhi significa adhyāsa e, ugualmente, upādhi significa agrahaṇa (non-comprensione). In suṣupti l’upādhi scompare da sé, non tramite la conoscenza: se la scomparsa dell’upādhi non è dovuta alla conoscenza allora esso scomparendo da sé, da sé di nuovo fa anche ritorno; questo è quanto stabilito dall’Intuizione. Nessuno vede nulla in sonno profondo. L’Ātman lì esiste nella sua propria natura. Appare, viene come jīva in veglia e in sogno. “Dapprima è proiettato il jīva…” (MUGK II. 16)2. Ho già detto che l’unità del jīva con la Realtà esiste sempre e io (il jīva) non ne sono a conoscenza prima di addormentarmi. Questa “non-conoscenza” appare, arriva con adhyāsa e scompare con adhyāsa. L’andare e venire di adhyāsa è sperimentato da tutti e non c’è alcun motivo per questo né alcuna spiegazione può essere addotta per ciò. “Ciò che è inesistente non può essere trovato” (BSŚBh IV. 1. 2).
Le persone che sono in veglia posseggono avidyā. Immaginano l’esistenza del “seme” del mondo in sonno profondo. In verità non c’è alcun seme lì. Se non ci fosse il seme quando gli individui diventano uno con il Brahman (Sat) in sonno profondo e nel pralaya, allora non potrebbero venire nuovamente nello stato di veglia e nella creazione. Quando tornano a tale realtà, si dovrebbe ammettere necessariamente che c’era un “seme” nel sonno profondo e nel pralaya. Ma questo “seme” è solo “non-conoscere” la Realtà. Non-conoscere la Realtà e l’esistenza della Realtà non sono affatto contrari alla dottrina della Non-dualità, perché “non-conoscere” non è una cosa, è solo una forma mentale, che va e viene con adhyāsa.
Si confronti con Brahma Sūtra Bhāṣya II. 3. 30: “L’associazione del sé con la sovrapposizione limitante (upādhi) dell’intelletto è susseguente ad una conoscenza errata e, d’altro canto, la distruzione di una conoscenza illusoria non può compiersi se non attraverso l’autentica conoscenza [che svela il Brahman come vera natura del jīva]. Pertanto, fin quando non si verifica il riconoscimento dell’identità del sé con il Brahman, sino ad allora l’associazione del sé con la sovrapposizione costituita dall’intelletto non può essere risolta”. La reale esistenza del jīva è immaginata secondo la visione vyavahāra. Tuttavia, reale è soltanto il Brahman. Per il fatto che gli upādhi non sono stati rimossi dalla conoscenza, non appena egli ritorna [alla veglia], allora egli ritorna con la forma di jīva accompagnato dagli upādhi. Anche ciò è stabilito dall’Intuizione (anubhava).
29. Domanda: In suṣupti avviene da parte del jīva l’ottenimento della Realtà (Satsampattiḥ). Se l’individuo perde la propria individualità, come può quello stesso uomo ritornare allo stato di veglia nel proprio corpo, da cui era separato?
Risposta: è detto chiaramente da Śaṃkara (BSŚBh II. 1. 9): “Questo non è affatto un punto debole, perché a questo proposito vi è un’evidenza [indiscutibile]: proprio come nel caso di chi è andato nel sonno profondo, nel samādhi o in qualsiasi altro stato simile dove c’è eterna assenza di distinzione, la distinzione riappare come prima non appena costui si sveglia, per la semplice ragione che la falsa conoscenza non è stata eliminata, così può anche accadere persino in questo caso. C’è la seguente śruti (ChU VI. 9. 2 [cfr. anche 3-4]) a confermarlo: «Tutti questi esseri sono diventati uno con l’Essere puro, ma essi non sono consapevoli d’essere diventati uno con l’Essere puro. Qualunque cosa essi siano stati in precedenza, tigre, leone, lupo, cinghiale, insetto, farfalla, tafano o zanzara, essi tornano a esserlo di nuovo»”.
Coloro che vanno in sonno profondo non hanno ottenuto la conoscenza prima di recarvisi, ragion per cui l’ignoranza non è stata rimossa. Perciò, fintanto che questa non è rimossa, chi si ridesta ritorna nuovamente al proprio upādhi (condizione avventizia). Jñāna e ajñāna non sono che modificazioni della mente (manovṛtti). A causa dell’assenza del manas in sonno profondo, non si può dire che jñāna o ajñāna in esso ci siano, né che ci sia attaccamento. Quando, nella condizione di veglia, Brahman ritorna a causa dell’influenza esercitata dagli upādhi alla propria manifestazione in quanto vivente (jīva), allora a causa del fatto che gli upādhi non erano stati precedentemente rimossi, Esso ritorna alla propria precedente forma. Anche ciò è stabilito dall’intuizione.
Il jīva è difatti sempre identico al Brahman. Ma in associazione agli upādhi come la mente, il corpo, etc., appare come fosse differente dalla Realtà. Poiché questi upādhi non esistono in sonno profondo, si dice che in esso l’anima si riassorbe in Brahman. Questa indebita identificazione dell’Ātman con il corpo, mente etc. è sperimentata da tutti negli stati di veglia e di sogno, e anche l’assenza di questa disidentificazione è sperimentata da tutti nello stato di sonno profondo. Se essa è rimossa completamente da quella conoscenza che si conclude nella realizzazione di Sé, allora essa non si presenterà nuovamente. E ciò poiché le nozioni stesse di tempo, spazio e causalità sorgono solo dopo che si manifesta adhyāsa. Inoltre, gli stati non sono affatto eventi che si avvicendano nelle medesime serie temporali che durano per tutto il periodo. Perciò è inutile domandare come o perché il Brahman sia diventato il jīva e allo stesso modo come il jīva ritorni in veglia dal sonno profondo, dove era identificato al Brahman. Ho già affermato che nessuno dovrebbe immaginare o trarre deduzione sugli altri due stati di sogno e sonno profondo dal punto di vista dello stato di veglia.
30. Domanda: avidyā è immaginata nel sonno profondo soltanto allo scopo di distinguere il jīva dal Brahman. In BSŚBh II. 1. 9, Śaṃkara afferma: “Durante il periodo di mantenimento [e sviluppo] dell’universo, a causa della falsa conoscenza, si constata che la vita empirica si sviluppa nella differenziazione, sebbene l’Ātman sia sempre privo di distinzioni; il che conferma che si tratta di una percezione illusoria simile a quella d’un sogno. Così, connessa con la medesima falsa conoscenza si inferisce che una potenza di differenziazione persista anche durante il pralaya. Ciò confuta l’obiezione che considera possibile la rinascita perfino per i liberati, perché nel loro caso la falsa conoscenza è stata distrutta del tutto dalla vera Conoscenza”. Da queste sentenze del bhāṣya non è forse inevitabile trarre [la conclusione] che la Liberazione sussiste nel sonno profondo, pur permanendo lì una differenziazione?
Risposta: La rimozione di avidyā in quanto upādhi avviene soltanto grazie alla Conoscenza e non altrimenti. Nel sonno profondo non c’è conoscenza, perciò non è possibile la rimozione della non-conoscenza attraverso il mero sonno profondo. L’assenza di conoscenza della realtà di adhyāsa è priva di causa efficiente e non ha alcuna causa; ciò è stabilito dall’anubhava. In suṣupti non c’è alcuna distinzione tra jīva e Brahman; in sonno profondo, tuttavia, la natura propria del Brahman è ignota. Una siffatta natura propria è sperimentata da tutti: come, dunque, si può lì immaginare una distinzione tra jīva e Brahman? Questa posizione è sostenuta dal Vivaraṇa ma non si trova nel Bhāṣya di Śaṃkara. Dagli uomini comuni, soggetti ad adhyāsa, nella visione ordinaria vengono poi avanzate anche queste pretese: “siccome non c’è effetto senza causa, considerando il mondo fenomenico quale effetto, dovrà esserci la sua causa anche nel sonno profondo”. Per questo “viene inferita una potenza di differenziazione connessa con la falsa conoscenza”. In realtà, tuttavia, non c’è alcuna potenza di differenziazione: la differenziazione è soltanto immaginata a causa di adhyāsa, e la sua causa è soltanto l’incomprensione e null’altro. La differenziazione che è immaginata per via di adhyāsa, con adhyāsa viene e con adhyāsa se ne va.
In tale condizione, la Liberazione procede solamente dal sorgere della Conoscenza, e su ciò non v’è dubbio. Il jīva è eternamente della stessa natura propria di Brahman. Siccome la rimozione dell’ignoranza viene soltanto con la percezione della natura propria del Brahman, proprio così la Liberazione seguirà la percezione della natura propria.
C’è notevole differenza tra lo stato di sonno profondo e la Liberazione, anche se è solo il Brahman senza un secondo a esistere in entrambi. In sonno profondo c’è l’ignoranza nella forma di “non-conoscenza” della Realtà, mentre non c’è affatto ignoranza nella Liberazione, anche se l’essere è diventato uno con il Brahman in entrambi. Prima di andare in sonno profondo, l’individuo non comprende l’unità con Brahman. Tutti, senza sapere di essere uno con il Brahman, lo diventano naturalmente in sonno profondo. Anche se c’è una naturale non-dualità in sonno profondo, il fraintendimento del Brahman con il jīva non è (in quel caso) annullato dalla corretta conoscenza. Ciò fa sì che uno si svegli nella stessa individualità. Questo fraintendimento (per il quale è l’individuo che crede di essere andato in sonno profondo, e di esserci stato per un qualche tempo, esistendo almeno potenzialmente, per poi tornare alla propria attuale condizione) esiste nella mente, la quale è solo un’immaginazione dovuta ad adhyāsa. Quando adhyāsa è dimostrato falso ed è contraddetto dalla vera conoscenza di Brahman non torna più.
31. Domanda: Si è detto che in suṣupti avidyā è non-comprensione (agrahaṇa). Di nuovo, agrahaṇarūpāvidyā, l’ignoranza che ha forma di non-comprensione, è una vṛtti del manas, anche detto strumento interno (antaḥkaraṇa). Perciò la presenza dell’antaḥkaraṇa deve essere ammessa in sonno profondo. Il bhāṣyakāra ha anche sostenuto che “(in sonno profondo) l’attingimento della Realtà avviene tramite la presenza di semi, a causa dei quali si fa ritorno”; ma quindi una cosa è il Brahman e una cosa è il seme (il quale è una parte della modificazione dell’antaḥkaraṇa): allora come possono esserci due cose nella Realtà se il Brahman è non-duale?
Risposta: Non c’è qui alcuna contrapposizione tra la Realtà (tattva) dal punto di vista supremo (paramārtha) con il seme che è dipendente dalla conoscenza erronea (mithyājñāna). Senza essere consapevoli della loro identità con il Brahman in sonno profondo, i jīva “entrano” in Brahman. Questo “non-conoscere” la Realtà è il seme, il quale è immaginato per ignoranza. Questo seme, proiettato da adhyāsa, non esiste realmente. Perciò esso non si oppone alla dottrina della Non-dualità. Non conoscere il Brahman non è contrario all’unità con il Brahman.
In realtà la Non-dualità è sperimentata da tutti in sonno profondo. Non sorge alcuna evidenza acquisita tramite inferenza (anumāna) o di alcun mezzo di prova di alcunché usato dall’uomo (in suṣupti) che possa essere contrario all’intuizione.
32. Domanda: Perché [il pensiero che] “Io non sono a conoscenza di nulla in sonno” non può essere una vera memoria? Qual è la ragione che sta dietro a ciò? Essa è vikalpa e non smṛti. Che cosa si intende per vikalpa? Si spieghi chiaramente ciò.
Risposta: smṛti è l’esperienza che sorge dalle impressioni (saṃskāra) precedenti. “Io non sono a conoscenza di nulla in sonno” – questo, per diventare smṛti – richiede l’esperienza nella forma di “Io non conosco nulla” in sonno profondo. Ma ciò è impossibile, in quanto la mente non esiste affatto in sonno profondo. Inoltre, gli stati non sono eventi reali in una qualche serie particolare di tempo e il tempo sperimentato in veglia non può essere considerato come fosse il sostrato di tutti e tre gli stati. Perciò la memoria (in veglia, dal punto di vista della veglia) del sonno, dalla prospettiva paramārtha, non è un vero e proprio ricordo. Perciò è chiamata vikalpa. Vikalpa significa “una cosa vuota” (vastuśūnyo vikalpaḥ) – come le corna della lepre o il figlio della donna sterile. Questi sono meri vikalpa o congetture, nozioni erronee, perché una lepre non ha affatto corna né è mai esperienza di qualcuno che una donna sterile partorisca bambini.
In sonno profondo la disidentificazione del Sé con la mente non esiste, perché la mente lì è assente. In sonno, l’Ātman rimane da solo, senza secondo, fatto confermato dalle nostre affermazioni in veglia, quali “ho dormito felicemente”, “non ero a conoscenza di nulla”. Il jīva, infatti, è stato (in quella condizione) uno con la propria essenziale e beata natura che è pura Coscienza. Se non fosse stato esso stesso Ānanda, non sarebbe potuto uscirne con attestazioni testimonianti l’esperienza di piena beatitudine che ha provato durante il sonno profondo.
Iti Sarvaṃ Śivam3
- Non essendoci affatto buddhi in sonno profondo, non può trattarsi del jīva, cioè in questo caso del mithyātman, lo pseudo-sé proiettato sul vero Ātman dalla buddhi al fine di oggettivarlo e conoscerlo.: “La buddhi impartisce un nome a ogni oggetto che si trovi sotto il dominio della sua indagine conoscitiva. L’Atman non fa parte di questo dominio; tuttavia, l’intelletto s’illude di poterlo oggettivare e lo immagina come “io”. Ma siccome a ogni nome deve corrispondere un oggetto, il concetto di “io” è del tutto irreale. Quindi se come jīvātman s’intende l’ego, allora jīvātman è irreale. Ma se con jīvātman s’intende il proprio vero “Io”, cioè il Sé, allora si deve considerare jīvātman identico all’Ātman. La combinazione di questi due pensieri formulati dall’intelletto fa apparire jīvātman come fosse sadasat, reale e non reale ad un tempo”. (G.G. Filippi, Il Serpente e la Corda, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2019, II vol., p. 18, n. 31)[↩]
- Ivi Śaṃkara commenta: “Dapprima [Quello, il Signore, l’ātman] proietta il jīva”, che è essenziato di causa ed effetto e così caratterizzato [dalla nozione]: ‘sono io che agisco, e mie sono la felicità e la sofferenza [conseguenti all’azione]’, sul puro Ātman, il quale non possiede affatto tali caratteristiche [ed è al di là di causa ed effetto], come [si proietta] il serpente sulla corda; “quindi”, a tal uopo, proietta “i (singoli) enti” molteplicemente “diversificati”, come il prāṇa, ecc., “sia esterni (oggettivi) sia relativi alla sfera individuale (soggettivi)” attraverso la [loro] distinzione in azione, agente e frutto dell’azione”.[↩]
- Tutto ciò è benefico.[↩]