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Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī

Saggi sul Vedānta

9. Applicazione del Metodo. Īśvara e Jīva

66. È evidente che essendo Brahman-Ātman l’unica Realtà, secondo il Vedānta, la triplice divisione di Dio (Īśvara), le creature (i jīva) e il mondo (prapañca), riconosciuta nei sistemi teologici delle religioni, non potrebbe trovare posto in questa dottrina advitīya. Tuttavia, nelle Upaniṣad troviamo menzione di Īśvara, jīva (l’anima che sostiene i sensi e la vita) e universo. Come possiamo spiegare questo? La risposta è molto semplice:

Obiezione: Per chi sostiene la dottrina del Brahmātman immutabile, essendo l’unità assoluta, non c’è posto per la distinzione tra il Signore e le creature a lui soggette, e di conseguenza (questo postulato) sarebbe in contrasto con l’affermazione che Īśvara (il Signore) è la causa (dell’universo).

Questa obiezione è sollevata sulla base del presupposto che il Brahman Assoluto non può essere allo stesso tempo anche Signore (Īśvara). Nel Brahma Sūtra Bhāṣya (I.1.2), tuttavia, Īśvara è stato equiparato al Brahman su cui indagare, il che è, almeno apparentemente, contraddittorio.

Risposta: No. Perché l’onniscienza (o signoria) è (solo) dipendente dalla differenziazione causata dal nome e dalla forma che sono prodotti di avidyā. […] Nome e forma che appaiono dall’avidyā come se fossero identici al Signore onnisciente, ma non definibili né identici né diversi da lui; il nome e la forma, che costituiscono la causa dell’intero sviluppo del mondo del saṃsāra, sono menzionati nella śruti e nella smṛti come Māyā, Śakti e Prakṛti dell’onnisciente Signore. Īśvara è diverso da questi […] In questo modo, Īśvara è colui che è sottoposto alle associazioni condizionanti (upādhi) del nome e della forma costituiti da avidyā, allo stesso modo in cui l’etere è sottoposto alle associazioni condizionanti di una giara o d’una brocca. E, dal punto di vista empirico, è il Signore dei sé coscienti (vijñānātman) chiamati jīva, condizionati dagli aggregati del corpo e dei sensi costituiti da nome e forma proiettati da avidyā, che corrispondono allo spazio racchiuso nel vaso dell’esempio. (BSŚBh II.1.14)

Il lettore noterà che, in questo passaggio, avidyākalpita (immaginato da avidyā), avidyātmaka (prodotto di avidyā), avidyākṛta (fatto di avidyā o composto da avidyā), avidyāpratyupasthāpita (proiettato da o presentato da avidyā) sono tutti termini sinonimi. Īśvara, il Signore o Dio, è simboleggiato da ākāśa (lo spazio-etere) in quanto condizionato dal nome e dalla forma, mentre i jīva (le anime individuali condizionate dai corpi ecc.) sono paragonati alle apparenti porzioni di spazio limitati dai vasi (ghaṭākāśa) e altri contenitori, come fossero effetti dell’ākāśa1. La relazione Signore-suddito è solo apparente come quella dello spazio generale e delle apparenti porzioni di spazio limitate da vasi ecc.

Così allora, il dominio, l’onniscienza e l’onnipotenza di Īśvara sono unicamente dipendenti dalla limitazione causata dalle associazioni prodotte da avidyā, ma nessuna congettura come quella che distingue il Signore dal signoreggiato, o quella dell’onniscienza, sono possibili sull’Ātman la cui vera natura è tale per cui tutte le associazioni condizionanti (upādhi) sono annullate da vidyā. (BSŚBh Ibid.)

67. I jīva, quindi, sono effetti del Brahman solo figurativamente, in quanto in realtà sono eternamente uno con il Brahman allo stesso modo in cui gli spazi e i vasi sono uno con lo spazio in generale. Le loro condizioni limitanti, come il corpo e i sensi, sono limitazioni soltanto apparentemente, perché sono unicamente prodotti di avidyā. Śaṃkara ha seguito fedelmente le orme di Gauḍapāda nel descrivere i sé individuali e le associazioni condizionanti nel modo seguente:

L’Atman nasce in quanto jīva esattamente come lo spazio racchiuso in un vaso nasce dallo (spazio generale); e nasce anche come aggregati (di corpi e sensi, che sono) come i vasi ecc. (MUGK III.3)

Gli aggregati (dei corpi e dei sensi) sono proiettati dalla māyā dell’Ātman come in un sogno. Non c’è nessuna ragione per sostenere la superiorità (di un aggregato sugli altri) o l’uguaglianza tra tutti (gli aggregati). (MUGK III.10)

Gauḍapāda usa la parola māyā come sinonimo di avidyā. Egli non sempre distingue tra le due come fa Śaṃkara.

68. I jīva in quanto tali hanno due aspetti. La loro natura reale è sempre identica a quella dell’Ātman, ma gli aggregati di corpi ecc., da cui sono apparentemente limitati, sono illusori e quindi, rispetto alle loro associazioni condizionanti, essi sono anirvacanīya (indescrivibili): cioè non possono né essere definiti identici né diversi da Brahman. Così Śaṃkara descrive il jīva in due modi:

Allorché c’è questa corretta conoscenza dell’identità di Kṣetrajña (il sé individuale) con il Brahman Supremo, si tratta solo di una differenza tra i nomi ‘Kṣetrajña’ e ‘Paramātman’. Perciò, dire ‘Questo Kṣetrajña è diverso dal Sé Supremo’ o ‘Il Sé Supremo è diverso dallo Kṣetrajña’, e in questo modo insistere sulla differenza tra due Ātman, è senza scopo; perché si parla di uno e medesimo Ātman usando nomi differenti. (BSŚBh I.4.22)

Qui Kṣetrajña è il nome della Coscienza-Testimone che oggettiva l’intero aggregato del corpo e dei sensi, e Paramātman è il nome dell’Ātman com’è in se stesso. Non c’è assolutamente alcuna differenza tra i due. Śrī Kṛṣṇa dice quindi ad Arjuna:

“Conosci me stesso come lo Kṣetrajña in tutti gli Kṣetra (corpi), o discendente di Bharata! Ai miei occhi, la conoscenza che discrimina lo Kṣetra dallo Kṣetrajña è l’unica conoscenza corretta”. (BhG XIII.2)

E questo jīva dovrebbe essere inteso come solo un’apparenza dell’Ātman Supremo, come il riflesso (sulla superficie dell’acqua) lo è del sole; cioè come qualcosa che non è direttamente lo stesso Ātman né qualcosa di diverso da esso. E quindi, come quando uno dei riflessi del sole si agita e gli altri no, così accade anche che quando un jīva entra in contatto con il frutto del suo karma, nessun altro jīva entra in contatto con esso. Anche per questo motivo (come per altre ragioni già addotte), i karma (dei jīva) e i loro risultati non si mescolano. Ed essendo questa falsa apparenza una proiezione di avidyā, è ragionevole che il saṃsāra, che fa parte di questa apparenza, sia anch’esso una proiezione di avidyā. Da qui proviene la possibilità di insegnare la vera natura del Brahman negando questa (apparenza del saṃsāra). (BSŚBh II.3.50)

69. Come le Upaniṣad insegnano che Brahman è il creatore, il sostenitore e la conclusione a cui giungono tutti i fenomeni e in cui, alla fine, si dissolvono, all’unico scopo di rivelare che essi sono soltanto apparenze, essendo sempre essenzialmente uno, esse insegnano anche che Brahman è entrato nella creazione in forma di jīva:

“Conosci me stesso come lo Kṣetrajña in tutti gli Kṣetra (corpi), o discendente di Bharata! Ai miei occhi, la conoscenza che discrimina lo Kṣetra dallo Kṣetrajña è l’unica conoscenza corretta”. (BhG XIII.2)

Avendo aperto la tua scriminatura (dei capelli) entrò attraverso questa apertura. (Aitareya Upaniṣad I.3.12)

Avendolo creato, entrò in quello stesso (oggetto creato). (TU II.6)

Lo stesso Sé è entrato qui. (BU I.4.7)

“In forma di jīva, il mio stesso Sé possa entrarvi e differenziare distintamente il nome e la forma”. (ChU VI.3.2)

Come l’unico fuoco pervade mondo e prende una forma in armonia con ogni forma, così anche l’Ātman interno a tutte le creature prende una forma in armonia ad ogni forma, oltre a essere anche fuori di esse. (KU V.9)

Questo insegna non solo l’identità del Sé Supremo con il jīva, ma anche che esso conserva ancora la sua natura assoluta.

Ha fatto castelli [pura, i corpi] con due piedi e castelli con quattro piedi. Dapprima il Puruṣa divenne un uccello [il corpo sottile] ed entrò nel castello. Questo Puruṣa infatti [è chiamato così] poiché è l’abitante del castello (pura) in tutti i castelli. Non c’è nulla che non sia coperto da questo (Puruṣa), nulla che non sia pervaso da lui. (BU II.5.18)

Tutti i corpi, come anche tutti i jīva incorporati sono veramente il suo Sé reale.

70. Il lettore avrà ormai capito come l’ananyatva vedāntico (la non diversità) della causa e dell’effetto sia diverso dall’ananyatva del Sāṃkhya (identità di causa ed effetto). Abbiamo visto in un’altra sezione come Gauḍapāda abbia inveito contro la dottrina del Sāṃkhya secondo cui la causa e l’effetto sono identici. Prima di lui, Bādarāyaṇa in un suo sūtra (II.3.13) cita un’obiezione simile contraria alla causalità vedāntica. Lì l’obiettore si appella al senso comune che vorrebbe che lo sperimentatore debba essere distinto da ciò che è sperimentato. Se l’universo è l’effetto del Brahman-causa, allora o il jīva che sperimenta sarebbe identico a ciò che sperimenta; ossia lo sperimentato stesso sarebbe lo sperimentatore, poiché entrambi non sono diversi dal Brahman-causa prima. Questa obiezione viene respinta con l’esempio del mare, dove la distinzione dell’effetto, cioè i flutti, le onde o la schiuma, e il fatto che essi non si mescolano tra di essi, è mantenuta, anche se ognuno di essi non è diverso dalla loro essenza, vale a dire dal mare come acqua. Così la distinzione tra gli sperimentatori e gli oggetti di esperienza può essere mantenuta, anche se essi non sono diversi dal più alto Brahman, la causa prima.

71. Questa risposta sarebbe giusta se riconoscessimo la distinzione empirica tra sperimentatore e sperimentato. Il vedāntin riconosce questo tipo di relazione causale tra l’Ātman e l’universo dal punto di vista empirico. Bādarāyaṇa ha un sūtra (I.4.23) che dice con molte parole che Brahman è la causa materiale (come anche la causa efficiente) dell’universo, in conformità con la śruti che asserisce che tutto il resto diventa conosciuto quando Brahman è conosciuto, citando l’esempio dell’argilla e di altre cause materiali che si trasformano nei diversi effetti. E c’è un altro sūtra (I.4.26) che si riferisce espressamente alle śruti che insegnano la trasformazione di Brahman nell’universo. Ma tutto questo rappresenta solo un aspetto e non presenta un quadro completo della genuina tradizione vedāntica seguita da Śaṃkara e dai suoi predecessori. Che nessuna rivoluzione sia stata introdotta da Śaṃkara e Gauḍapāda a questo riguardo è più che evidente dal sūtra di Bādarāyaṇa (II.1.14). Il sūtra dichiara, in consonanza con la śruti, che l’effetto è solo un gioco di parole. Riassumiamo in poche parole ciò che Śaṃkara scrive: “Ma questa distinzione di causa ed effetto non è veramente reale; perché, come dice la śruti, il cosiddetto effetto, essendo solo un nome, è di fatto un nulla, irreale in sé. Ci sono un buon numero di testi che insegnano l’unità dell’Ātman, e se non li accettassimo la conoscenza di tutto per mezzo della conoscenza di una cosa non sarebbe possibile”.

Perciò, proprio come lo spazio in un vaso, lo spazio in una brocca e in simili [contenitori] non sono diversi dallo spazio in generale, e proprio come l’acqua di un miraggio et similia non sono diversi dalla sabbia del deserto poiché sono di tale natura da svanire subito dopo essere stati visti; e [essendo, dunque,] di per sé indefinibili per natura, si dovrebbe così anche concludere che questo mondo di sperimentatori e di esperienze ecc. non ha esistenza a parte del Brahman. (BSŚBh II.1.14)

Qui lo spazio contenuto nel vaso ecc. dell’esempio corrisponde ai jīva, e l’acqua di un miraggio ecc. corrisponde ai nomi e alle forme che costituiscono la parte insenziente [acit, jaḍa] dell’universo. Così, pur essendo entrambi essenzialmente uno con Brahman, i jīva sono effettivamente identici a Brahman mentre i fenomeni insenzienti, come i cinque elementi, sono solo apparenze sovrapposte sul Brahman.

72. Secondo l’esempio dello spazio nel vaso (ghaṭākāśa) che corrisponde al jīva, dobbiamo spiegare la sua nascita e morte, la sua dimensione atomica, il suo essere limitato dall’intelletto che gli è associato, il fatto di essere un agente di azione, l’essere dipendente da Dio per le sue attività, il suo essere definito parte del Brahman nei testi della śruti e della smṛti, le ingiunzioni nei Veda che gli permettono di agire in certi modi e che gli proibiscono di compiere certi altri atti, la non mescolanza tra le azioni dei jīva e i risultati che ne derivano. Dobbiamo spiegare tutto questo che è dovuto agli upādhi (associazioni condizionanti) peculiari dei diversi sé individuali. A sostegno di questa affermazione, possiamo citare i seguenti versi di Gauḍapāda:

Proprio come lo spazio nel vaso e gli spazi simili si fondono nello spazio universale quando il vaso e gli altri [contenitori, cioè le associazioni condizionanti, upādhi] sono distrutti, così anche i jīva si fondono nell’Ātman Supremo. (MUGK III.4)

Proprio come tutti gli spazi non entrano in contatto con la polvere, il fumo, ecc., con cui un vaso entra in contatto, così anche i jīva (non si mescolano entrando in contatto) con piacere ecc. (MUGK III.5)

La forma, la funzione e il nome differiscono infatti in ogni singolo caso, mentre non ci sono tali differenze nello spazio universale. Quindi anche noi dobbiamo decidere nel caso dei vari jīva. (MUGK III.6)

Proprio come lo spazio nel vaso non è né una modificazione né una parte dello spazio universale, così nemmeno il jīva è una modificazione né una parte del Supremo Ātman. (MUGK III.7)

Proprio come il cielo si contamina con diversi tipi di maculazione agli occhi dei bambini, così anche l’Ātman è macchiato da contaminazioni (ignoranza, attaccamento e altro) agli occhi dei non illuminati. (MUGK III.8)

L’Ātman non è dissimile dallo spazio cosmico per quanto riguarda la nascita, la morte, l’andare (in altri mondi) e il ritorno (sulla terra) e nell’abitare in vari corpi. (MUGK III.9)

Tra Īśvara e jīva, quindi, c’è solo una distinzione senza differenza. La divinità e la superiorità di Īśvara e la dipendenza di jīva da Īśvara sono reciprocamente relative e, dal punto di vista metafisico, la loro identità e natura intrinseca come il Brahman Assoluto non è mai messa in dubbio anche se appaiono diverse a causa delle associazioni condizionanti. Chiuderemo questa sezione dando alcuni estratti dal Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya che chiariscono questo punto:

  1. La natura individuale del jīva persiste finché egli non rimuove l’ignoranza responsabile della dualità, come si rimuove l’idea di un ladro (sovrapposto) a un tronco d’albero2, e intuisce la propria natura come Ātman eternamente immutabile nella forma “Io sono Brahman”. Quando però la śruti induce una persona a elevarsi al di sopra dell’idea di essere l’aggregato di corpo, sensi, mente e intelletto, e la illumina facendole capire che “Tu non sei l’aggregato del corpo, dei sensi, della mente e dell’intelletto, non sei una persona trasmigrante, ma ciò che è il Reale, il vero Atman. Tu sei Quello”, allora, sapendo di essere della natura essenziale del Testimone eternamente immutabile, ed elevandosi al di sopra dell’attrazione per il corpo ecc., egli diventa proprio quell’ Ātman, il Testimone eternamente immutabile. (BSŚBh I.3.19)
  2. Finché avidyā non viene rimossa, il jīva è soggetto ad azioni giuste e sbagliate e la sua natura di individuo non viene rimossa. Quando, tuttavia, quella (avidyā) è sparita, la śruti “tu sei Quello” t’insegna che tu sei quel Prājña (l’Ātman onnisciente). La cosa in sé non è influenzata in alcun modo dall’esistenza, dalla continuazione o dall’eliminazione dell’ignoranza. (BSŚBh I.4.6)
  3. Anche per questo motivo, tutti i vedāntin devono accettare che la differenza tra il Vijñānātman (Ātman conoscente) e il Paramātman (Supremo Ātman) è solo dovuta a associazioni condizionanti come il corpo non reale fatto di nome e forma immaginati da avidyā. (BSŚBh I.4.22)
  4. Così la Signoria, l’onniscienza e l’onnipotenza di Īśvara sono solo dovute alla limitazione dell’associazione condizionante della natura dell’avidyā, ma nell’Ātman privo di qualsiasi associazione condizionante, non si può davvero parlare di Signore e suddito, di onniscienza o di altro. (BSŚBh II.1.14)
  5. Ed è solo finché c’è questa connessione con l’associazione condizionante della mente (buddhi), che questo jīva continua ad essere un jīva trasmigrante. In realtà, tuttavia, non c’è nessun essere come un jīva che non sia la forma evocata dalla connessione dell’associazione condizionante, cioè la mente. Perché quando il significato dei testi del Vedānta viene esaminato da vicino, non c’è una seconda entità senziente da trovare, se non Īśvara che è sempre libero per natura e onnisciente. (BSŚBh II.3.30)
  6. Inoltre, questa connessione con l’associazione condizionante della buddhi presuppone una conoscenza sbagliata (avidyā) e non c’è modo di rimuovere la conoscenza sbagliata se non attraverso la corretta conoscenza. Perciò questa connessione con l’associazione condizionante della mente non viene distrutta finché non si realizza la propria identità con Brahman. (BSŚBh Ibid.)
  7. Durante lo stato di ignoranza il jīva che, senza discriminare, vede la sua identità con l’aggregato del corpo e dei sensi a causa della sua cecità causata dalla cataratta di avidyā, deriva la sua natura trasmigrante di essere un agente e sperimentatore (dei frutti delle azioni) dal Supremo Ātman. Īśvara, l’Entità Cosciente-Testimone, che presiede a tutte le attività, abita e ispira tutti gli esseri (all’azione). Ed è attraverso la conoscenza dovuta alla sua sola grazia che si può sperare di ottenere la liberazione (per il jīva). (BSŚBh II.3.41)
  8. Non c’è nulla di autocontraddittorio nel ritenere che Īśvara, con la sua insuperabile associazione condizionante3, governi sui jīva con associazioni condizionanti inferiori. (BSŚBh II.3.45)
  9. Anche nel caso del jīva, l’esperienza della sofferenza è solo dovuta all’illusione causata dall’identificazione indiscriminata con le associazioni condizionanti come il corpo e i sensi fatti dai nomi e forme prodotti da avidyā, mentre non c’è reale sofferenza. (BSŚBh II.3.46)
  10. La natura brahmanica del sé incarnato, che è insegnata qui, è già un fatto e non qualcosa da raggiungere attraverso un nuovo sforzo. E quindi, essendo stata accertata questa natura brahmanica insegnata dagli śāstra, si cancella l’idea innata della propria identità con il corpo, come le idee di corda ecc. [madreperla e tronco d’albero] cancellano le idee di serpente ecc. [argento e ladro]. (BSŚBh II.1.14)

Questo è un esempio che rivela che la nostra identificazione con il corpo è solo una nozione illusoria.

  1. Domanda: Ma qual è questa connessione con il corpo (deha sambandha)?

Risposta: È il sorgere della credenza perversa riguardante l’Ātman, secondo cui questo aggregato di corpo ecc. è il proprio Sé. Si trova presso tutte le creature formulata come quando si dice ‘vado’, ‘torno’: ‘sono cieco’, ‘non sono cieco’; ‘sono ignorante’, ‘non sono ignorante’. Non c’è niente che possa sradicare questa (idea perversa) se non il giusto discernimento. Prima che sorga il giusto discernimento, si vede invece che questa illusione continua in tutte le creature. (BSŚBh II.3.48)

  1. Obiezione: Se il jīva è una parte del Signore, perché la sua conoscenza e la sua Signoria dovrebbero rimanere nascoste? Infatti, non sarebbe logico che la conoscenza e la Signoria dovessero rimanere evidenti in un jīva, come la combustione e l’illuminazione lo sono in una scintilla [che è una parte del fuoco]?

Risposta: Questo è certamente vero. Ma ‘anche quello’, anche quell’onnubilazione della conoscenza e della Signoria, nel caso del jīva individuale ‘avviene dalla connessione con il corpo’, dall’associazione con il corpo, i sensi, la mente, l’intelletto, la percezione degli oggetti ecc. E su questo punto c’è un’analogia: come il potere di combustione e di illuminazione, sebbene sia inerente al fuoco, rimane nascosto quando è latente all’interno del combustibile4, o come rimane nascosto quando il fuoco è coperto di cenere, allo stesso modo si verifica un nascondimento della conoscenza e della Signoria del jīva a causa della mancanza di discriminazione del jīva dal corpo ecc., derivante dalla sua connessione con le associazioni condizionanti, come il corpo fatto di nome e forma proiettati da avidyā. (BSŚBh III.2.6)

  1. Inoltre, quando l’idea della non-differenza è stata risvegliata da testi come “tu sei Quello” che indicano la non-distinzione, sia la natura trasmigrante del jīva sia il potere di creazione del Brahman svaniscono per sempre: perché tutte le idee circa la dualità diffuse da una conoscenza errata saranno (allora) state cancellate. (BSŚBh II.1.22)

Il potere di creare del Brahman è solo relativo; ma la natura trasmigrante del jīva è irreale essendo una sovrapposizione prodotta dall’ignoranza.

  1. In lui (nel prāṇa universale), ciò che è me stesso è lui (nel sole); ciò che egli è, quello sono io stesso. (Aitareya Āraṇyaka II.2.4)
  2. Te stesso sono io, o venerata Divinità, io stesso sono tu. (Jābāla Upaniṣad VI.8)

I testi sopra citati servono per riflettere. Qui può sorgere l’obiezione che, equiparando Īśvara all’Ātman del jīva, la natura trasmigrante dovrebbe essere imputata a Dio, e questo non è accettabile. Śaṃkara ribatte l’accusa così:

Questo non è un difetto della dottrina, perché così si riflette solo sull’unità dell’Ātman. […] Non vogliamo respingere la conferma dell’unità, ma solo insistere sulla necessità di riflettere su una reciprocità di identità. Come conseguenza inevitabile vi sarà confermata anche l’unità. (BSŚBh 3.3.37)

Qui la perfetta unità di Īśvara e jīva è stata riconosciuta, dal punto di vista assoluto, anche per un meditante. Torneremo su questo argomento quando riprenderemo l’insegnamento vedāntico sulle upāsanā.


  1. L’ignorante pensa che il Signore crei gli oggetti che compongono il mondo come Causa prima che produce effetti contingenti. Tale credenza è paragonabile a quella di chi pensa che lo spazio generale, frammentandosi in spazi parziali, li produca come suoi effetti. Invece la verità metafisica è che lo spazio racchiuso nei diversi contenitori non mai è altro dallo spazio generale. Perciò il pensiero di un Signore che crea tutti gli esseri e tutte le cose non è altro che una proiezione illusoria della mente [N.d.C.].[]
  2. L’esempio del ladro-tronco d’albero spesso s’affianca a quello della corda-serpente e dell’argento-madreperla. Chi a notte fonda ritorna a casa può essere spaventato da un tronco d’albero preso per un ladro appostato lungo la via.[]
  3. Insuperabile non perché impossibile da annullare con la conoscenza, ma perché è la più elevata in quanto, rimossa l’aiśvarya, Īśvara emerge come lo stesso Brahman.[]
  4. Secondo la logica indiana, il fuoco giace latente in qualsiasi combustibile. La frizione tra due paletti (araṇi), per esempio, risveglia il fuoco che dimora in forma latente in essi, facendo avvampare l’esca. Perciò il fuoco, pur essendo all’interno dei paletti, rimane invisibile e sembra separato dal legno che lo contiene.[]