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Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī

Saggi sul Vedānta

7. Applicazione del Metodo. Essere e Divenire

Il Dr. T.R.V. Murti, autore di The Central Philosophy of Buddhism,mentre discute la dialettica del Mādhyamika, fa un’osservazione che merita una seria considerazione da parte di tutti.

La filosofia seleziona un particolare modello tra vari esemplificati nei fatti, lo esagera a dismisura e lo universalizza all’infinito. Il modello o concetto così selezionato e universalizzato diventa un’idea della ragione, come lo definisce Kant. Quello che ci fa scegliere un particolare punto di vista e non un altro è dovuto alla nostra affiliazione spirituale. I mahāyāni chiamerebbero questo il nostro lignaggio spirituale (gotra). Ma, avendone scelto uno, consciamente o, forse piuttosto, inconsciamente, noi lo si universalizza e lo si prende come un metro di misura. Sebbene candidamente è dato come una descrizione di fatti, ogni sistema filosofico è una valutazione delle cose o una indicazione per considerarle in un modo particolare.1

Questo è vero nel caso dei sistemi speculativi, perché essi sono sottoposti alla tirannia dell’intelletto. L’intelletto, invero, è un umile servitore nelle mani di un qualsiasi pensatore che impugni la bacchetta magica dell’intelligibilità manovrando le leggi del pensiero, e può impegnarsi a dimostrare che ogni sistema particolare presenta una visione completa, l’unica possibile, dell’universo. O può demolire qualsiasi altro sistema o tutti gli altri sistemi esponendo spietatamente la loro inconsistenza.

Si deve ricordare che il Vedānta, invece, non è un sistema speculativo che sceglie una particolare teoria da criticare o da difendere. Sūreśvarācārya spiega come esso sia la sola eccezione a quella regola.

Obiezione: tutte le teorie sono ragionevoli, ognuna in accordo con il suo punto di vista, e sono non sostenibili se giudicate da altri punti di vista. Perciò non vediamo alcuna teoria su cui basare la nostra certezza. Né possiamo concepire alcun modo di approccio che non sia criticabile da tutti gli altri pensatori o che sia sostenuto da tutti, in quanto al riparo da qualsiasi attacco dei logici! Risposta: si può ben concepire una tale dottrina senza alcun problema. Perché tutti i modi di accostare la verità trovano rifugio nell’intuizione. Questo è stabilito nel seguente verso: “I logici si confondono in una rete di perché e di per come, pesantemente afflitti dalla febbre di discussione. Ma è a questa esperienza [intuitiva] che alla fine fanno ricorso”. (Naiṣkarmya Siddhi, II.59)

Ogni ragione addotta si richiama all’intuizione universale, che è indiscutibile e così, dice Sūreśvara, il Vedānta che basa tutto su questa intuizione, è, consapevolmente o inconsapevolmente, accettato da tutti.

Illustreremo il nostro pensiero riferendoci alla questione dell’‘essere’ di cui trattiamo in questa sezione. Su ogni argomento sono possibili soltanto quattro punti di vista e, quindi, i buddhisti usano la dialettica dei quattro punti di vista (catuṣkoṭi) che rifiuta tutti gli altri punti di vista. Il loro rifiuto si basa sulla contraddizione implicita in ogni punto di vista. La loro conclusione è, dunque, che devono essere rigettati tutti i possibili punti di vista. Il Dr. Murti cita il seguente verso di Āryadeva tratto dal Catuḥśatakam:

Essere, non essere, entrambi [essere e non-essere], nessuno [né essere né non-essere] 2, questi sono i quattro punti di vista tra loro opposti che il saggio deve applicare come ‘metro di misura’ per tutte le altre concezioni [da esaminare]. (XIV.21)

Gauḍapāda, che utilizza volutamente la dialettica buddhista per confutare i diversi punti di vista riguardo la Realtà, dimostra anche che tale confutazione giunge a rivelare indirettamente la verità del Vedānta. Perciò scrive quanto segue:

Chi senza discriminare afferma che ‘esiste’, ‘non esiste’, ‘esiste e non esiste’, o ancora che ‘non esiste e non esiste’, sovrappone certamente all’Ātman le idee di ‘mutabilità’, ‘immutabilità’, ‘mutabilità-immutabilità’ e non esistenza. Se si crede in queste quattro teorie contrapposte, Īśvara rimane sempre nascosto. Invece, chi vede il Signore incontaminato da esse, è onnisciente. (MUGK IV.83-84)

Il lettore noterà che Gauḍapāda sostiene che la Realtà, essendo della stessa natura dell’a intuizione, trascende tutti i concetti del dominio empirico; di conseguenza, non può essere provata né contraddetta per via di affermazione o di negazione. Ātman o Brahman è l’Assoluto al di là di tutti le attribuzioni empiriche.

Tenendo a mente questa posizione vedāntica, consideriamo ora il problema di essere e divenire secondo l’adhyāropāpavāda nyāya. A questo proposito esaminiamo i seguenti testi:

Egli (Ātman) desiderò: “Voglio diventare molteplice, voglio nascere” […] la Realtà divenne il reale e il non reale. (TU II.6)

In principio c’era solo l’Essere, Uno senza secondo. Qualcuno disse: “All’inizio questo Uno senza secondo era solo Non-essere. Come potrebbe essere così, mio caro? Come potrebbe mai l’Essere nascere dal Non-essere? In principio, mio caro, c’era solo l’Essere, uno senza secondo”. (ChU VI.2.1-2)

Esso pensò: “Voglio diventare molteplice, voglio nascere”. Esso creò il fuoco. Quel fuoco pensò: “Voglio diventare molteplice, voglio nascere” e creò l’acqua. Quell’acqua pensò: “Voglio diventare molteplice, voglio nascere” e creò il cibo. (ChU VI.2.3-4)

Qui si pone un problema. In principio c’era solo la Realtà. La Realtà era il Tutto senza secondo, come poteva desiderare di diventare molteplice? Come poteva nascere? La Realtà, essendo l’Assoluto, libero da tutte le determinazioni, come avrebbe potuto desiderare di modificarsi senza cessare di essere l’Assoluto. Questa difficoltà si risolve solo ricordando che questo è il modo con cui le Upaniṣad esprimono verità universali. Tale affermazione significa soltanto che l’universo, pur apparendo tramite numerosi fenomeni soggetti a cambiamento e diversi fra loro, è in realtà solo l’Assoluto, uno senza secondo.

Non sarebbe corretto supporre che questa sia una definizione dal punto di vista della sostanza, opposto al punto di vista che riconosce la realtà solo come cambiamento. Questo non vuole affermare la supremazia dell’‘essere’ come opposto al divenire; l’Essere assoluto non ha nulla a che fare con l’opposizione tra il permanente e il mutevole. L’Upaniṣad sembrerebbe presupporre una scuola che avrebbe sostenuto che tutte le cose positive sono uscite dal Non-essere (tasmā dasataḥ sajjāyata). Questo è solo il modo upaniṣadico di esporre il punto di vista ordinario che considera ogni cosa nata come fosse stata inesistente prima della sua nascita; su questa base si conclude che, prima che il mondo fosse apparso, non c’era nulla. Oppure questo può essere il punto di vista filosofico, per cui non ci può essere alcun sostrato soggiacente al mondo fenomenico che sperimentiamo. Esamineremo questo punto di vista quando ci occuperemo del concetto di causalità.

Nel mondo empirico ‘essere’ implica tempo e spazio ed è difficile capire a cosa corrisponda in quanto distinto da ‘divenire’. Yāska nel suo Nirukta afferma che le cose hanno sei bhāva vikāra o cambiamenti d’esistenza. Una cosa nasce, esiste, cresce, si trasforma, decade ed è distrutta. Tutti questi cambiamenti possono essere riassunti nel concetto di divenire e sono tutti percepiti nel tempo e nello spazio. Tuttavia, abbiamo l’idea che ci sia qualche ‘cosa’ che soggiace a tutti questi cambiamenti e che si suppone sia permanente. È enfatizzando questo punto di vista della sostanza che alcune scuole di pensiero s’oppongono ad altre che sostengono che solo il cambiamento e il movimento costituisce il nocciolo della realtà.

Il Testimone che ci permette di riconoscere l’essere e il divenire delle cose, tuttavia, non è né soggiace ad alcun divenire in tempo e spazio, essendo il Sākṣin dell’intero universo all’interno e all’esterno, includendo spazio e tempo. Esso non è né qui né lì, né nel passato né nel futuro e non è toccato dal concetto di essere e divenire. Poiché la sua non-esistenza è impossibile da concepire, nelle Upaniṣad è stato chiamato Sat. E poiché solo nella sua luce abbiamo consapevolezza dell’universo e perfino concepiamo la scomparsa dell’universo, è stato chiamato anche jñānam o vijñānam, Coscienza.

Questo Testimone deve perciò essere descritto come Essere-Coscienza.

Qui Sat deve essere capito come l’entità che è Puro Essere, sottilissimo, libero da tutte le caratteristiche specifiche, onnipervadente, uno, incontaminato, indivisibile; la Coscienza conosciuta in tutte le Upaniṣad. (ChUŚBh VI.2.1)

Essere e Coscienza non sono due qualità distinte in Ātman; Ātman è l’Assoluto vedāntico, libero dalla dualità dell’interno e dell’esterno da Sé. Nel corso di una discussione volta a confutare come una antica scuola di advaitin interpretava i Brahma Sūtra, Śaṃkara sottolinea quanto segue:

Non è possibile affermare che Brahman sia solo della natura di Essere e non di Coscienza; perché in tal caso, la śruti “Egli è del tutto cosciente” (BU II.4.12) sarebbe priva di senso. E, come potrebbe Brahman, privo di Coscienza, essere insegnato quale Sé del jīva? Né si può affermare che Brahman sia solo della natura di Coscienza e non di Essere, perché allora i testi come “Egli dovrebbe essere espressamente conosciuto in quanto Essere” (KU VI.13), perderebbero il loro significato. Come si potrebbe sostenere la dottrina della Coscienza priva di Essere? Né è possibile asserire che Brahman possieda entrambe queste caratteristiche. Perché allora sarebbe contrario a ciò che si sostiene all’inizio (che Brahman non è molteplice). (BSŚBh III.2.21)

Quindi non si può mai sostenere che Essere e Coscienza siano due diverse proprietà di Ātman senza contraddire l’innegabile intuizione universale di Ātman come pura Coscienza e puro Essere, ossia che è insieme Coscienza che non desidera alcun oggetto ed Essere che non ammette alcuna caratteristica specifica.

Talvolta i critici del Vedānta sostengono che le Upaniṣad o i vedāntin identificano l’Assoluto con qualcosa sperimentato in qualche forma anche empiricamente, cioè l’Ātman come sostanza, e che il Vedānta tratta l’immutabile, universale e privo di relazioni in quanto opposto al mutevole, particolare e relazionato3. Sarà evidente da quanto precede, che il vero Ātman-Brahman del Vedānta trascende tutte queste coppie di opposti. Ci riserviamo di considerare gli altri concetti quale ‘universale e non relazionato’ per una futura discussione. Facciamo notare qui che l’Assoluto come Puro Essere (asti) nel Vedānta è uno strumento usato per rigettare l’essere e divenire empirici in riferimento all’Ātman. Le seguenti citazioni sostengono questa affermazione:

Egli dovrebbe essere espressamente conosciuto in quanto essere (empirico) e anche nella sua reale natura (assoluta). Di questi due aspetti, la vera natura (di Ātman) che è stata espressamente conosciuta, rivela sé stessa (a chi lo ha conosciuto esistere). (KU VI.13)

Dell’Ātman, che si è precedentemente conosciuto, cioè conosciuto per mezzo dell’esistenza dovuta alle attribuzioni condizionanti dell’effetto preesistente. Dopo di che il tattvabhāva, la reale natura, la natura incondizionata non duale distinta dal conosciuto e dal non conosciuto, indicata dalla śruti come “né questo né questo”, “non grosso, non sottile, non corto”, “invisibile, senza corpo, non definito, privo di supporto” ecc., si volge a lui per rivelare la sua natura. Lo scopo è (che questo aspetto si svela a lui) che lo ha precedentemente conosciuto come Esistente. (KUŚBh VI.13)

Questa vera natura (tattvabhāva) di Ātman-Brahman dovrebbe essere sempre intesa nella śruti anche quando alla Realtà sono applicati termini apparentemente positivi. È sufficiente citare questo passaggio dal commento all’Aitareya Upaniṣad:

È, non è, uno, molti, con qualità, senza qualità, conosce, non conosce, statico, dinamico, effetto, non-effetto, con causa e senza causa, felicità e sofferenza, l’interno e non-interno, vuoto, non vuoto, me stesso, altro da me. Chiunque cerchi di sovrapporre tali costruzioni mentali sulla sua vera natura, che va oltre tutte le parole e tutti i pensieri, è come se cercasse di avvolgere l’essere con un pezzo di pergamena e di salire come se fosse una rampa di scale; è come se cercasse di trovare le orme dei pesci nell’acqua e degli uccelli nel cielo! Perciò ci sono śruti come le seguenti: “Non questo non questo”, “Dal quale tutte le parole ritornano indietro”. (AiUŚBh, discussione finale del I cap.).

  1. CPhB, Abingdon (UK), Routledge, 2013 (I ed. 1955), p. 125.[]
  2. Oppure: “esiste”, “non esiste”, “esiste e non esiste” “né esiste né non esiste”; Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā, IV.83.[]
  3. CPhB, pp. 236; 315.[]