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3 Aprile, 2022

🇮🇹🇫🇷🇪🇸🇬🇧 Avinash Chandra: The Scientist and the Saint. The Limits of Science and the Testimony of Sages 

    🇮🇹 Avinash Chandra: The Scientist and the Saint. The Limits of Science and the Testimony of Sages (Lo Scienziato e il Santo. I limiti della scienza e la testimonianza dei saggi), Bartlow, Cambridge, Archetype Chetwynd House, 2018. ISBN 978-1-901383-54-6. Pp. 666. https://thescientistandthesaint.com/

    Diviso nettamente in due parti speculari e tra loro opposte, questo cospicuo volume è basato su una metodica cernita di citazioni tratte da numerosi scrittori, tra loro collegate dalle riflessioni dell’Autore. Come è esplicito dal titolo, il raffronto è tra la mentalità scientista che, partendo dall’Occidente, s’è diffusa come un melanoma su tutta la superficie del pianeta, e la visione sacrale della tradizione, con particolare attenzione alla situazione dell’India contemporanea. Molto correttamente Avinash Chandra distingue tra quelle che sono le scoperte scientifiche e le loro applicazioni tecnologiche, spesso utili e benefiche per la vita mondana, e l’ideologizzazione che ne è stata tratta artificialmente quale strumento di sradicamento della tradizione. Nei diversi capitoli iniziali, infatti, è analizzato severamente l’uso dei successi della scienza moderna per convalidare una cultura materialista che negli ultimi secoli è montata come una inarrestabile marea per contrapporre la ragione alla fede, la scienza alla religione. Tale contrapposizione tra un sapere limitato e una saggezza universale è evidentemente falsa e mal posta, ma facilmente accettabile proprio per l’elementarità istintiva delle limitazioni mentali dell’attuale umanità massificata. Il trionfo, per lo meno nell’emisfero occidentale, dell’ideologia scientista è stato garantito dalla rinuncia a qualsiasi resistenza ragionata da parte degli esponenti di quello che fu il cattolicesimo. In questo libro il primo tema oggetto di critica è rappresentato dall’evoluzionismo darwinista e dalla sua variante neodarwinista promossa dai genetisti evoluzionisti. L’Autore ha buon gioco a dimostrare la totale inconsistenza di quelle ipotesi, soprattutto sulla base delle dimostrazioni ineccepibili di Roberto Fondi e di Giuseppe Sermonti. Non ci soffermeremo su questo argomento, avendo già pubblicato un paio di recensioni in questo stesso Sito. Del tutto nuova è, invece, la trattazione successiva che riguarda soprattutto la meccanica quantistica e le sue diramazioni misticheggianti. È credenza diffusa che, da Max Plank in poi, la scienza in generale e la fisica in particolare si siano avvicinate notevolmente alle dottrine cosmogoniche tradizionali; qualcuno è arrivato perfino a sostenere che la ricerca contemporanea ha dimostrato scientificamente ciò che era stato oscuramente intuito soprattutto dalle dottrine dell’induismo. Tutto ciò è partito dall’osservazione che i risultati degli esperimenti compiuti in laboratorio erano influenzati da chi presenziava all’esperienza. Da ciò si è dedotto che l’oggetto modificato nel corso dell’esperimento non prescindesse dalla coscienza del soggetto agente. In breve, la scienza avrebbe così dimostrato che soggetto-oggetto tra loro interagenti non sono null’altro che due aspetti dell’unica Coscienza. Questa “evidenza” dimostrata empiricamente convaliderebbe le “astruse” argomentazioni dell’Advaita śaṃkariano e, allo stesso tempo, le sostituirebbe alla luce della meccanica per la felicità degli allocchi che cascano in questa trappola rudimentale. Il punto, che Avinash Chandra illustra con autorevolezza, è che i moderni capaci di simili fatiche mentali non hanno la più pallida idea di cosa sia la Coscienza, confondendola con il senso dell’ego, quando va bene; altrimenti con qualche indefinita inclinazione subconscia, se non con la stessa massa cerebrale. Gli scienziati non sognano forse la possibilità di applicare una “coscienza” artificiale anche alle macchine? L’Autore, poi, dimostra come i sostenitori della fisica quantistica, del tutto incapaci di spiegare l’influenza del soggetto sui risultati dei loro esperimenti, siano ricorsi alla lettura di testi vedāntici, taoisti e buddhisti per cercarne una soluzione “misticheggiante”. Senza capire nulla di dottrine troppo raffinate per menti abituate soltanto a esperienze empiriche, si sono aggrappati al concetto di Coscienza svilendolo a livello di materia grossolana. Cosicché non sono stati gli scienziati a dimostrare sperimentalmente la correttezza di certe dottrine tradizionali, ma, al contrario, sono loro che hanno cercato in modo equivoco la soluzione alla loro impasse teoretica, diventando, spesso “figli dei fiori”. In ogni caso, questo anomalo sviluppo della meccanica quantistica, che ha convinto anche molti “tradizionali” o “perennialisti”, è un valido strumento per propagandare l’universalità della scienza materialista che riuscirebbe a rimpiazzare la metafisica della Coscienza non duale (advitīya Caitanya) indimostrabile in laboratorio.

    La seconda parte del libro è dedicata alla descrizione di varie caratteristiche del mondo tradizionale. Tra questi capitoli è molto importante proprio l’esame del concetto di Coscienza sia nell’ottica della metafisica sia nelle varie sue applicazioni. Vi è illustrata la tecnica dell’adhyāropāpavāda per discriminare il Reale dal non-reale e diversi metodi per far emergere spontaneamente la verità altrimenti non ottenibile razionalmente. Curiosamente l’Autore si affida spesso a fonti “tradizionaliste” europee, forse nell’intento di attirare l’attenzione dei suoi lettori occidentali. Ciò può portare a qualche confusione diffusa da Guénon, Schuon e dai loro attuali seguaci, come quella di considerare l’intelletto (buddhi) come una realtà informale (arūpin tattva), mentre si tratta più semplicemente della funzione raziocinante e volitiva della mente individuale (antaḥkaraṇa).

    Complessivamente, si tratta di un testo impegnativo, interessante e utile a coloro che desiderano staccarsi dalla società a una sola dimensione per affacciarsi al mondo della tradizione, specificatamente quella hindū. Le ripetute comparazioni con altre forme religiose danno la possibilità di un approccio graduale a una mentalità sovente molto distante, senza per questo indulgere a visioni sincretiche. Lo sguardo alle varie civiltà non le appiattisce in una “unità trascendente”, ma le ripartisce secondo le loro singole prospettive sapienziali.

    Il libro casualmente ha 666 pagine. Ci attendiamo perciò i commenti gratuiti dei soliti mitomani.

    Gian Giuseppe Filippi

    🇫🇷 Avinash Chandra: The Scientist and the Saint. The Limits of Science and the Testimony of Sages, (Le Savant et le Saint. Les limites de la science et le témoignage des sages), Bartlow, Cambridge, Archetype Chetwynd House, 2018. ISBN 978-1-901383-54-6. Pp. 666. https://thescientistandthesaint.com/

    Nettement divisé en deux parties spéculaires et opposées, ce considérable volume repose sur une sélection méthodique de citations de nombreux écrivains, reliées entre elles par les réflexions de l’auteur. Comme son titre l’indique, la comparaison se fait entre la mentalité scientiste laquelle, à partir de l’Occident, s’est répandue comme un mélanome sur toute la surface de la planète, et la vision sacrée de la tradition, avec une attention particulière à la situation de l’Inde contemporaine. À juste titre, Avinash Chandra établit une distinction entre les découvertes scientifiques et leurs applications technologiques – souvent utiles et bénéfiques pour la vie mondaine – et l’idéologisation qui en a été artificiellement tirée en tant que moyen pour déraciner la tradition. Dans les différents chapitres initiaux, l’on examine de façon stricte l’utilisation des réalisations de la science moderne pour valider une culture matérialiste laquelle, au cours des derniers siècles, s’est levée comme une marée irrépressible pour opposer la raison à la foi, la science à la religion. Cette opposition entre connaissance limitée et sagesse universelle est évidemment fausse et déplacée, mais facilement acceptable, précisément en raison de la nature simpliste et instinctive des limitations mentales de l’humanité massifiée d’aujourd’hui. Le triomphe, au moins dans l’hémisphère occidental, de l’idéologie scientiste était assuré par le renoncement à toute résistance réfléchie de la part des représentants de ce qui fut le catholicisme. Dans cet ouvrage, le premier sujet de critique est l’évolutionnisme darwiniste et sa variante néo-darwiniste, promue par les généticiens évolutionnistes. L’auteur a de bons arguments pour démontrer l’incohérence totale de ces hypothèses, s’appuyant notamment sur les démonstrations irréfutables de Roberto Fondi et Giuseppe Sermonti. Nous ne nous attarderons pas sur ce sujet, ayant déjà publié quelques critiques sur ce Site même. En revanche, le sujet suivant est totalement nouveau et concerne principalement la mécanique quantique et ses ramifications mystiques. La croyance est largement répandue que, depuis Max Plank, la science en général et la physique en particulier se sont considérablement rapprochées des doctrines cosmogoniques traditionnelles ; certains sont même allés jusqu’à prétendre que la recherche contemporaine a scientifiquement démontré ce que les doctrines hindoues avaient au premier abord confusément pressenti. Tout cela est parti de l’observation que les résultats des expériences menées en laboratoire étaient influencés par les personnes présentes lors de l’expérience. On en a déduit que l’objet modifié au cours de l’expérience n’était pas indépendant de la conscience du sujet agent. En bref, la science aurait ainsi démontré que l’interaction sujet-objet n’est rien d’autre que deux aspects de la seule Conscience. Cette « preuve » démontrée empiriquement validerait les arguments « abscons » de l’Advaita śaṃkarien et, par la même occasion, les remplacerait à la lumière de la mécanique pour le plus grand plaisir des imbéciles qui tombent dans ce piège rudimentaire. Le problème, qu’Avinash Chandra expose avec autorité, est que les modernes capables de tels efforts mentaux n’ont pas la moindre idée de ce qu’est la Conscience, vu qu’ils la confondent avec le sens de l’ego, avec un peu de chance, sinon avec une tendance indéfinie vers le subconscient, voire encore avec la masse cérébrale elle-même. N’est-il pas le rêve des scientifiques de pouvoir également donner une « conscience » artificielle aux machines ? L’auteur démontre ensuite comment les partisans de la physique quantique, totalement incapables d’expliquer l’influence du sujet sur les résultats de leurs expériences, ont eu recours à la lecture de textes védiques, taoïstes et bouddhistes pour trouver une solution en quelque sorte « mystique ». Sans rien comprendre aux doctrines trop raffinées pour des esprits habitués à la seule expérience empirique, ils se sont raccrochés au concept de Conscience, l’avilissant au niveau de la matière brute. Ainsi, ce ne sont pas les scientifiques à avoir expérimentalement démontré la justesse de certaines doctrines traditionnelles, mais, au contraire, ils ont assurément cherché de manière équivoque, la solution à leur impasse théorique, devenant souvent des « enfants fleurs ». En tout cas, ce développement anormal de la mécanique quantique, lequel a également convaincu de nombreux « traditionnels » ou « pérennialistes », est un outil valable pour propager l’universalité de la science matérialiste qui serait à ce point capable de remplacer la métaphysique de la Conscience non-duelle (advitīya Caitanya), chose indémontrable dans un laboratoire.

    La deuxième partie du livre est consacrée à la description de diverses caractéristiques du monde traditionnel. Parmi ces chapitres, le concept de Conscience revêt une grande importance, tant du point de vue métaphysique que dans ses diverses applications. La technique de l’adhyāropāpavāda y est illustrée pour discriminer le Réel du non-réel et diverses méthodes afin que la vérité émerge spontanément, ce qui serait autrement impossible à atteindre. Curieusement, l’auteur s’appuie souvent sur des sources européennes « traditionnelles », peut-être dans le but d’attirer l’attention de ses lecteurs occidentaux. Cela peut conduire à certaines confusions répandues par Guénon, Schuon et leurs disciples actuels, comme celle de considérer l’intellect (buddhi) comme une réalité informelle (arūpin tattva), alors qu’il s’agit plus simplement de la fonction de raisonnement et de volition de l’esprit individuel (antaḥkaraṇa).

    Dans l’ensemble, il s’agit d’un texte stimulant, intéressant et utile pour ceux qui souhaitent rompre avec la société unidimensionnelle et entrer dans le monde de la tradition, plus précisément de la tradition Hindū. Les comparaisons répétées avec d’autres formes religieuses offrent la possibilité d’une approche progressive vers une mentalité souvent très éloignée, sans pour autant se laisser aller à des visions syncrétiques. Son regard vers les différentes civilisations ne les aplatit pas en une «unité transcendante» ou «fondamentale», mais les partage en fonction de leurs perspectives sapientielles particulières.

    Il se trouve que par hasard ce livre a 666 pages. Nous nous attendons donc les commentaires gratuits des mythomanes habituels.

    Gian Giuseppe Filippi

    🇪🇸 Avinash Chandra: The Scientist and the Saint. The Limits of Science and the Testimony of Sages (El Científico y el Santo. Los límites de la ciencia y el testimonio de los sabios), Bartlow, Cambridge, Archetype Chetwynd House, 2018. ISBN 978-1-901383-54-6. Pp. 666. https://thescientistandthesaint.com/

    Dividido claramente en dos partes especulares y opuestas, este amplio volumen se basa en una metódica selección de citas de numerosos escritores, enlazadas por las reflexiones del autor. Como indica el título, la comparación es entre la mentalidad científica que, partiendo de Occidente, se ha extendido como un melanoma por toda la superficie del planeta, y la visión sagrada de la tradición, con especial atención a la situación de la India contemporánea. Con mucho acierto, Avinash Chandra distingue entre los descubrimientos científicos y sus aplicaciones tecnológicas, a menudo útiles y beneficiosas para la vida mundana, y la ideologización que se ha extraído artificialmente de ellos como medio para desarraigar la tradición. Los primeros capítulos analizan con severidad la utilización de los logros de la ciencia moderna para validar una cultura materialista que en los últimos siglos se ha levantado como una marea imparable para oponer la razón a la fe, la ciencia a la religión. Esta oposición entre el conocimiento limitado y la sabiduría universal es claramente falsa y fuera de lugar, pero fácilmente aceptable precisamente por la naturaleza elemental instintiva de las limitaciones mentales de la humanidad masificada de hoy. El triunfo, al menos en el hemisferio occidental, de la ideología cientificista ha sido garantizado por la renuncia a toda resistencia razonada por parte de los exponentes de lo que fue el catolicismo. En este libro, el primer tema de crítica es el evolucionismo darwinista y su variante neodarwinista promovida por los genetistas evolutivos. El autor demuestra facilmente la total inconsistencia de esas hipótesis, especialmente a partir de las demostraciones intachables de Roberto Fondi y Giuseppe Sermonti. No insistiremos en el tema, ya que hemos publicado un par de reseñas en este mismo Sitio. Por lo contrario, la discusión siguiente es completamente nueva y se refiere principalmente a la mecánica cuántica y a sus ramificaciones místicas. Es muy compartida la creencia que, desde Max Plank, la ciencia en general y la física en particular se hayan acercado considerablemente a las doctrinas cosmogónicas tradicionales. Algunos han llegado a afirmar que la investigación contemporánea ha demostrado científicamente lo que las doctrinas del hinduismo habían intuido oscuramente. Todo ello empezó con la observación que los resultados realizados en laboratorio eran influidos por los que asistían a los experimentos. De ello se dedujo que el objeto modificado en el curso del experimento no era independiente de la consciencia del sujeto. En resumen, la ciencia habría demostrado así que el sujeto y el objeto que interactúan no son más que dos aspectos de la única Consciencia. Esta ‘evidencia’ empíricamente demostrada validaría los argumentos ‘abstrusos’ del Advaita śaṃkariano y, al mismo tiempo, los sustituiría con la mecánica para los ingenuos que caen en esta trampa. Avinash Chandra ilustra con autoridad que los modernos capaces de tales esfuerzos mentales no tienen alguna idea de lo que es la Consciencia, confundiéndola tal vez con el sentido del ego. Pero más a menudo lo confunden con una indefinida inclinación subconsciente, o incluso con la propia masa cerebral. ¿No sueñan los científicos con la posibilidad de dar consciencia hasta a las máquinas? A continuación, el autor demuestra cómo los partidarios de la física cuántica, totalmente incapaces de explicar la influencia del sujeto en los resultados de sus experimentos, hayan recurrido a la lectura de textos védicos, taoístas y budistas para buscar una solución ‘mística’. Sin comprender nada de las doctrinas demasiado refinadas para mentes acostumbradas sólo a la experiencia empírica, se aferraron al concepto de Consciencia, degradándolo al nivel de la materia bruta. Por lo tanto, no fueron los científicos los que demostraron experimentalmente las doctrinas tradicionales, sino todo lo 6 contrario, fueron ellos los que buscaron la solución a su impasse ideologico, convirtiéndose a menudo en ‘hijos de las flores’. En cualquier caso, este desarrollo anómalo de la mecánica cuántica, que ha convencido también a muchos ‘tradicionalistas’ o ‘perennialistas’, es una herramienta válida para propagar la universalidad de la ciencia materialista capaz de sustituir la metafísica de la Consciencia no dual (advitīya Caitanya) que es indemostrable en laboratorio. La segunda parte del libro está dedicada a la descripción de diversas características del mundo tradicional. En estos capítulos, es muy importante el examen del concepto de Consciencia, tanto desde el punto de vista de la metafísica como en sus distintas aplicaciones. Ilustra la técnica de adhyāropāpavāda para discriminar lo Real de lo irreal y varios métodos para sacar espontáneamente la verdad que no se puede obtener racionalmente. Curiosamente, el autor recurre a menudo a fuentes europeas ‘tradicionalistas’, quizá con la intención de atraer la atención de sus lectores occidentales. Esto puede llevar a algunos malentendidos difundidos por Guénon, Schuon y sus seguidores actuales, como la de considerar el intelecto (buddhi) una realidad informal (arūpin tattva), mientras que es más simplemente la función razonal y volitiva de la mente individual (antaḥkaraṇa). En definitiva, se trata de un texto estimulante, interesante y útil para aquellos que deseen romper con la sociedad unidimensional y adentrarse en el mundo de la tradición, concretamente en la tradición Hindū. Las repetidas comparaciones con otras formas religiosas ofrecen la posibilidad de un acercamiento gradual a una mentalidad a menudo muy distante, sin caer en visiones sincréticas. El examen de las distintas civilizaciones no las aplana en una ‘unidad trascendente’ o ‘fundamental’, sino que las divide según sus singulares perspectivas sapienciales. El libro tiene por casualidad 666 páginas. Por lo tanto, son de esperar los comentarios gratuitos de los mitómanos de siempre.

    Gian Giuseppe Filippi

    🇬🇧 Avinash Chandra: The Scientist and the Saint. The Limits of Science and the Testimony of Sages, Bartlow, Cambridge, Archetype Chetwynd House, 2018. ISBN 978-1-901383-54-6. Pp. 666. https://thescientistandthesaint.com/

    Clearly divided into two specular and opposing parts, this large volume is based on a methodical selection of quotations from numerous writers, linked together by the author’s reflections. Already explicit in the title, the aim of the book is the comparison between the scientistic mentality that, from the West, has spread like a melanoma over the entire surface of the planet, and the sacred vision of tradition, with particular attention to the situation in contemporary India. Very correctly, Avinash Chandra distinguishes between scientific discoveries and their technological applications, often useful and beneficial for worldly life, and the ideologization that has been artificially drawn from them in order to uproot tradition. In the first several chapters, the author sternly analyses the use in recent centuries of the achievements of modern science to validate the unstoppable rise of a materialist culture that sets reason against faith, science against religion. This opposition between limited knowledge and universal wisdom is obviously false and misplaced, but it is easily accepted by today’s massified humanity because of a mental limitation that has a basic and instinctive nature. The triumph, at least in the western hemisphere, of the scientistic ideology has been guaranteed by the representatives of what once was Catholicism who abandoned any sort of reasoned resistance. In this book, the first topic under criticism is Darwinist evolutionism and the neo-Darwinist variant promoted by evolutionary geneticists. The author can easily demonstrate the total inconsistency of those hypotheses, especially on the basis of the unexceptionable demonstrations of Roberto Fondi and Giuseppe Sermonti. We will not dwell on this subject, having already published a couple of reviews in our same site on this matter. On the contrary, the following discussion is completely new and concerns mainly quantum mechanics and its mystical branches. It is a widespread belief that, since Max Plank, science in general, and physics in particular, have come considerably closer to the traditional cosmogonic doctrines; some have even gone so far as to claim that contemporary research has scientifically demonstrated what had been obscurely intuited mostly by the doctrines of Hinduism. All this started from the observation that the results of experiments carried out in the laboratory were influenced by those who attended the procedures. From this it was deduced that the object modified during an experiment was not independent from the consciousness of the acting subject. In short, science would thereby have demonstrated that the interacting subject and object are nothing more than two aspects of the one Consciousness. This empirically demonstrated ‘evidence’ would validate the ‘abstruse’ arguments of the Advaita of Śaṃkara and, at the same time, replace them in the light of mechanics to the delight of the fools who fall into this rudimentary trap. The point here, which Avinash Chandra authoritatively illustrates, is that modern-day people capable of such mental exertions have not the faintest idea of what Consciousness is. At best they mistake it for the sense of ego, if not with the brain mass itself due to some unclear subconscious inclination. Is it not true that scientists do dream of possibly applying an artificial ‘consciousness’ to machines as well? The author then demonstrates how the supporters of quantum physics, totally unable to explain the influence of the subject on the results of their experiments, have resorted to reading Vedic, Taoist, and Buddhist texts in order to seek a «mystical» solution. Without utterly understanding these doctrines, too refined for minds accustomed only to empirical experience, they clung to the concept of Consciousness, debasing it to the level of gross matter. Thus, it was not the scientists who demonstrated on experimental basis the correctness of certain traditional doctrines, but, on the contrary, it was they who sought an ambiguous solution to their theoretical impasse, often becoming ‘flower children’. This anomalous development of quantum mechanics, which seduced many ‘traditionalists’ or ‘perennialists’, is a valid tool to propagandise the universality of materialist science with the aim of taking the place of the metaphysics of non-dual Consciousness (advitīya Caitanya) which cannot be substantiate through trivial laboratory experiments.

    The second part of the book describes various characteristics of the traditional world. In these chapters, the examination of the concept of Consciousness is very important, from the point of view of both metaphysics and its various applications. It illustrates the technique of adhyāropāpavāda used to discriminate the Real from the non-real and the different methods to bring out spontaneously the Truth otherwise not obtainable through mere reasoning. Curiously, the author often relies on ‘traditionalist’ European sources, perhaps with the intention of attracting the attention of Western readers. This, however, may lead to some confounding idea spread by Guénon, Schuon and by their present-day followers, such as that of considering the intellect (buddhi) as an informal reality (arūpin tattva), while it is more simply the reasoning and volitional function of the individual mind (antaḥkaraṇa).

    All in all, this is a challenging, interesting, and useful text for those who wish to break away from the one-dimensional society and enter the world of tradition, specifically the Hindū tradition. The repeated comparisons with other religious forms provide the possibility of a gradual approach to a mentality that is often very distant, without indulging in syncretic visions. Looking at the various civilisations does not flatten them into a ‘transcendent’ or ‘fundamental unity’ but divides them accordingly to their individual sapiential perspectives.

    The book by chance has 666 pages. Therefore, we are expecting gratuitous comments from the usual mythomaniacs.

    Gian Giuseppe Filippi

    Essere o non-Essere?

      Enzo Cosma

      Essere o non-Essere?

      All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’essere [sat] unico e senza secondo. Altri in verità dicono: «All’inizio vi era il non essere [a-sat], uno e senza secondo; da questo non essere nacque l’essere». Come potrebbe essere così, mio caro? Come può l’essere nascere dal non essere? In Realtà è l’essere, il quale esisteva al principio delle cose, l’essere solo e senza secondo (Chāndogya Upaniṣad, VI, 2, 1-2).

      Questo estratto dall’Upaniṣad illustra la corretta dottrina in merito a Essere e non-Essere; descrive la visione pāramārthika1 dell’Assoluto, scartando ogni punto di vista relativo ivi compreso quello cosmologico.

      Nella prima Stanza del Tao Tê Ching leggiamo:

      Senza-nome è origine del Cielo e della Terra. Con-nome è madre delle diecimila cose.

      Wú-míng senza-nome, yǒu-míng con-nome2wú traduce “senza” yǒu traduce “con” e il verbo avere3: niente può far pensare alla traduzione di yǒu-míng (con nome) con Essere, così come wú-míng (senza-nome) non può far pensare a non-Essere se non per arbitraria interpretazione4.

      Così la Stanza 40 del Tao Tê Ching, di particolare interesse perché contiene un tema centrale nella dottrina taoista:

      Sotto il Cielo le diecimila cose nascono dall’avere (yǒu 有), e l’avere nasce dal non-(avere) (wú 無). (Tiānxià wànwù shēng yú yǒuyǒu shēng yú  天下萬物生於有,有生於無)

      Molti traduttori usano la seguente forma e traducono l’ideogramma yǒu con essere e danno la seguente forma alla traduzione5:

      … i diecimila esseri nascono dall’essere, e l’essere nasce dal non-essere. (Cfr. Stanza 40)

      Diversamente da molti Claude Larre traduce «avere e non-avere», così la nostra traduzione verbatim:

      Sotto il cielo (Tiānxià) le diecimila cose (wànwù) nascono (shēng) da (yú) avere (yǒu), avere (yǒu) nasce (shēng) da (yú) non (wú)6.

      Come si nota dal testo originale o dalla traslitterazione è presente l’ideogramma yǒu, avere, possedere, ma la negazione è indicata solo dall’avverbio non (wú) il cui implicito si riferisce al verbo che lo precede, quindi “non (avere)”7.

      L’ideogramma è abbastanza eloquente, composto dal fonetico yòu «mano (destra)» ideogramma etimologico e il semantico «carne»8, è la mano infatti che ha, possiede e tiene; la stessa morfologia dell’ideogramma del periodo dàzhuàn, ereditata dal passato, mostra le figure della mano e un pezzo di carne che fanno pensare al possesso, all’avere, piuttosto che all’Essere:

      Se yǒu traduce principalmente il verbo avere o possedere è pertanto giusto comprendere perché molti traduttori utilizzino il verbo essere. Nella forma cinese per dire che qualcosa è così o così, si dice che ha il possesso di quella cosa, nome, qualità o attributo; il soggetto ha o possiede qualcosa che fa sì che esso «sia così o così»9.

      Naturalmente il Tao Tê Ching, così come gli altri trattati dottrinali, devono essere precisi nella definizione fondamentale dei termini, primo tra tutti EssereYǒu, avere, si deve intendere in quanto in possesso di nomi, qualità e attributi, ciò che permette alla cosa di essere considerata esistente, quindi solo per estensione si può tradurre esistere quiessere in o esserci/stare10 proprio perché in possesso di nomi, qualità e attributi; ma in questo senso, in un contesto cosmologico si può parlare di «esistere» e non di «essere»; «esistere» può essere reso da «esser-ci» con la premessa che questo «ci» corrisponde a un nome, qualità o attributo; yǒu, e la sua negazione, non ha perciò funzione ontologica come Essere e non-Essere ma illustra una dualità o polarità nel mondo, avere esistenza cioè una presenza nel mondo, apparire, e nel suo contrario non-avere esistenzanon apparireassenza; in questo senso una traduzione di yǒu e la sua negazione potrebbe essere Esistente non-Esistente ma pensiamo non soddisfi i sostenitori della traduzione con Essere non-Essere11. Infatti, yǒu può essere tradotto anche come apparire, accadere, aver luogo e nel contesto della frase yǒu può tradursi con i pronomi «alcuno» «qualcuno», etc. Yǒu (有) e wú (無) corrispondono in sanscrito a bhava, esistenza, presenza e al negativo abhava, non esistente e assente, non presente. Se yǒu (有) può essere tradotto con esser-ci, il suo significato si estende all’«avere» in quanto «avente»; , () preso isolatamente viene tradotto solitamente come «non-essere» ma deve essere inteso in contrapposizione a yǒu, che abbiamo visto traduce l’«avere»; , () compare 103 volte nel Tao Tê Ching, il più delle volte usato come un alfa privativo davanti ad un’altra parola; , vuole dire «privo (di)» per cui anche diventa «privazione di avere», «non-avere» come nell’esempio riportato, mai «privo di essere»: wú-míng (無名) senza-nome, yǒu-míng (有名) con-nome possono perciò diventare «privo di nome» e «avente nome»; il «non-essere» delle molte traduzioni inesatte deve perciò essere correttamente inteso come «non-avente». I due commenti classici del Tao Tê Ching attribuiti a Shang Kung (Heshang Gong) e Wang Pi (Wang Bi) sono unanimi nel sostenere che la differenza tra wú (無) e yǒu (有) sta nel fatto che yǒu (有) è caratterizzato da nome (míng 名) e forma (xíng 形), mentre wú (無) è indifferenziato12. Wang Pi commenta la prima Stanza:

      Senza-nome è il principio del cielo e della terra. Le madri (non vi è differenza in cinese tra singolare e plurale) delle diecimila cose invece ce l’hanno. In generale, tutto ciò che è manifesto inizia dall’immanifesto (). Quindi, prima delle forme e dei nomi, [il Tao] è quello che dà inizio ai diecimila esseri. Quando ci sono forme e nomi, [il Tao] li fa crescere, li nutre, li specifica e li completa. È le loro madri. Questo significa che il Tao inizia e completa i diecimila esseri per mezzo del [suo] essere senza forme e senza nomi.13

      Una delle ragioni per le quali è stato possibile proporre la traduzione scorretta di , () con non-esistenza o con non-essere, è dovuta alla punteggiatura, istituita il secolo scorso e non presente nella lingua classica; come nel famoso caso del responso della Sibilla, lo spostamento della virgola ha determinato una differente traduzione: la prima possibilità è Wúmíng, tiāndì zhī shǐ; yǒumíng, wànwù zhī mǔ mǔ (無名,天地之始;有名,萬物之母母) traducibile “Senza-nome è origine del Cielo e della Terra. Con-nome è madre delle diecimila cose”; mentre la seconda è Wú, míng tiāndì zhī shǐ; yǒu, míng wànwù zhī mǔ mǔ (無,名天地之始;有,名萬物之⺟母) traducibile “La non-esistenza (o non-essere) è chiamata origine del Cielo e della Terra. L’esistenza (essere) è chiamata madre delle diecimila cose”in questo caso esistenza e non esistenza possono arbitrariamente essere state tradotte con «essere» e «non-essere», ma è certo che non può la punteggiatura costituire un vincolo alla comprensione dell’interpretazione della dottrina14.

      I versi che giustificherebbero l’uso della traduzione non-essere sono l’ultimo verso della Stanza XL e il secondo della Stanza II. Il primo: “Sotto il Cielo le diecimila cose nascono dall’avere, e l’avere nasce dal non-(avere)” quest’ultima parte da molti tradotto “l’essere nasce dal non-essere” (Tiānxià wànwù shēng yú yǒu, yǒu shēng yú wú, 天下萬物生於有,有生於無). Il secondo: “Perciò avere e non (avere) si generano l’un l’altro” anche in questo caso tradotto da alcuni “Essere e non essere si generano l’un l’altro” (Gù yǒu wū xiāngshēng, 故有無相生). Matgioi traduce: “Uno e il suo contrario nascono insieme”, è un errore, non c’è l’ideogramma uno ma l’ideogramma yǒu (有) che indica il verbo avere, il possesso, essere con; anche xiāngshēng (相生) è senz’altro una generazione vicendevole, alternata, qualcosa che genera l’altro etc. e non come traduce Matgioi “nascono assieme”.

      In ambito cosmologico la confusione tra essere ed esistere posta da alcuni dizionari e traduttori indica l’assenza di un corretto discrimine dottrinale; essere ed esistere coincidono in una visione pāramārthika15dove non esiste dualità, ma in tutti gli altri sistemi cosmologici e falsamente metafisici che propongono una dualità tra un Principio e la sua produzione16essere ed esistenza definiscono i poli di questa dualità.

      Il vero e proprio verbo essere è reso da shì (“il fiore è rosso”) e con nonessere wú-shì (“il fiore non è blu”)17, ma nel nostro testo mai utilizzato nel senso ontologico di Essere non-Essere. Queste sono le ragioni che ci hanno portato a tradurre avere e non-avere anziché essere non-essere, ponendo con ciò una sostanziale differenza dottrinale che ci fa concludere l’inesistenza della nozione di non-Essere nella dottrina taoista; è presente solo quella di avere non-avere, possesso non-possesso di nomi, qualità o attributi, analogamente a ciò che l’Advaita Vedānta chiama saguṇa e nirguṇa, termini che certamente non significano Essere non-Essere; Brahman nirguṇa non è mai non-Essere,ma è sempre sat, la Realtà, Essere; semmai, almeno provvisoriamente in una interpretazione cosmologica, saguṇa può tradursi con esistente, in realtà asat, irreale in quanto produzione di māyā, l’illusione, il niente o nulla. In questa prospettiva allora ciò che i traduttori chiamano non-Essere in realtà è Essere nel senso di sat e ciò che essi chiamano Essere è in realtà non-essere nel senso di asat, non-reale, niente o nulla.

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      L’uso di Essere e non-Essere dipende solo dall’estensione che si assegna all’Essere18decisione che per altro non cambia la sua natura di Infinito, Tutto, Uno senza secondo19: solo quando arbitrariamente e per una qualche ragione si limita l’Essere risulta necessario riempire ciò che l’Essere esclude con il non-Essere20. Questa limitazione o riduzione dell’Essere non ha alcun motivo in sé, se non quella di rendere coerente una forma dottrinale personale che si vuole proporre, meglio sarebbe dire un «sistema» trattandosi di un’operazione esclusivamente intellettuale o mentale. In questa ottica si è incapaci di concepire l’Infinito, senza Principio e sua produzione, senza causa ed effetto, si cerca affannosamente un Principio che sia sempre superiore al precedente21; ciò è dovuto all’illusione stessa di concepire la Realtà composta da un Principio e una sua produzione, in un ordine di causa ed effetto, condizione possibile e coerente solo da un punto di vista cosmologico; basterebbe questo a far intuire come l’idea stessa di Principio sia in se stessa un’idea esclusivamente cosmologica e anti-metafisicaSe al contrario assegniamo all’Essere la sua realtà di Infinito, non ci sarà più posto per nessun non-Essere se non con il significato di «nulla, niente, vuoto, non-realtà etc.». In realtà non c’è nessuna ragione di limitare l’Essere per dar posto al non-Essere se non arbitrariamente e per ragioni speculative atte a creare un sistema22.

      Una certa confusione presso gli occidentali tra Essere non-Essere in ambito taoista viene anche da una pubblicazione del 1895 che ha goduto di un certo successo; Henri Borel nel suo Wu-Wei scrisse:

      Ciò che noi chiamiamo Essere è, di fatto, il Non-Essere, e ciò che chiamiamo il Non-Essere è l’Essere nel suo vero significato, di modo che viviamo in una grande oscurità. Ciò che noi immaginiamo come realtà, non lo è, nonostante emana dalla Realtà, poiché la Realtà è tutto. Dunque, l’Essere e il Non-Essere sono entrambi Tao.23

      Ci troviamo di fronte alla confusione tra Essere, Esistenza non-Essere Realtà. Essere ed Esistenza coincidono solo in una dottrina non-duale; dove c’è concezione di un mondo, un cosmo, ed il Tao Tê Ching lo descrive esattamente, Essere ed Esistenza sono differenti, uno è il Principio e il secondo la sua produzione.

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      Per comprendere ciò che abbiamo detto fino a questo punto, riportiamo un brano di René Guénon dedicato all’argomento ricordando che l’autore riconosce la nozione di non-Essere derivata dal Taoismo24:

      Se si definisce l’Essere, in senso universale, come il principio della manifestazione, e nel medesimo tempo come ciò che di per se stesso comprende l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione, dobbiamo dire che l’Essere non è infinito, poiché non coincide con la Possibilità totale; e questo tanto più in quanto l’Essere, quale principio della manifestazione, comprende sì tutte le possibilità di manifestazione, ma soltanto in quanto esse si manifestano. Al di fuori dell’Essere vi è dunque tutto il resto, cioè tutte le possibilità di non-manifestazione, e inoltre le possibilità di manifestazione allo stato non manifestato; l’Essere stesso vi si trova incluso, poiché, non potendo appartenere alla manifestazione, in quanto ne è il principio, è esso stesso non-manifestato. Per designare ciò che è pertanto al di fuori e al di là dell’Essere, siamo costretti, in mancanza di ogni altro termine, a chiamarlo Non-Essere.25

      Ci soffermiamo sull’esordio. Guénon premette opportunamente il condizionale se; infatti, se ciò che descrive fosse vero allora anche le conclusioni rispetterebbero questa formulazione; in questo caso quindi se l’essere fosse principio della manifestazione e non della non-manifestazione, allora l’essere non sarebbe infinito e anch’esso compreso nella non-manifestazione.Al contrario, pur restando in un ambito ristretto di conoscenza non-suprema26, nulla osta a considerare l’Essere principio di Tutto, manifestazione e non-manifestazione; non vi è alcun inconveniente in quanto le peculiarità dell’inutile non-Essere (o super-Essere) possono confluire totalmente nell’Essere27: lo ripetiamo, l’uso di Essere e non-Essere dipende solo dall’estensione che si assegna all’Essere28.

      Guénon affermando che il non-Essere è “al di fuori e al di là dell’Essere”29 finisce per determinare due distinti «finiti», l’Essere e il non-Essere;questa affermazione non è contestabile visto che le espressioni fuori e al di là sono inequivocabili. Tuttavia, vi è una palese contraddizione (almeno verbale): da una parte scrive che fuori e al di là dell’Essere vi sono “tutte le possibilità di non-manifestazione” e dall’altra scrive che “l’Essere stesso vi si trova incluso, poiché […] è esso stesso non-manifestato”30: ma l’Essere è al di fuori o è incluso?31 Il seguito risolve apparentemente l’equivoco. Nella presentazione di Guénon il non-Essere corrisponde allo Zero e l’Essere all’Uno32Il non-Essere è il Principio del non-manifestato nel quale è incluso anche l’Essere che a sua volta è Principio della manifestazione. Guénon scrive che l’Uno è lo Zero affermato, quindi l’Essere è il non-Essere affermato33: qualunque termine si usi significa che l’Uno è una produzione dello Zero così come l’Essere è una produzione del non-Essere34in quanto possibilità di non-manifestazione; questo significa che anche l’Essere appartiene all’esistenza tra gli esistenti35. Si deve tener presente che Guénon scrive che lo Zero non è un numero36: bisogna perciò ammettere che nell’ordine della numerazione lo Zero corrisponda al nulla37; questa precisazione rende difficoltosa la soluzione dell’Uno come affermazione dello Zero, l’Uno sarebbe affermazione di un non-numero, che è come dire il nulla, ammettendo perciò la possibilità di una creatio ex nihilo.

      Ma abbiamo appena mostrato che oltre all’Essere anche il non-Essere è finito per cui non può, nell’ordine di questa produzione, essere il Principio assoluto per cui ci sarà ancora qualcos’altro che sarà oltre a questi due, oppure sarà l’unione di questi due, è ciò che Guénon conferma chiamandola Possibilità totale:

      Tuttavia, nel momento in cui si contrappone il Non-Essere all’Essere, o anche semplicemente li si distingue, né l’uno né l’altro è infinito (ni l’un ni l’autre n’est infini), perché, da tale punto di vista, essi si limitano reciprocamente in certo qual modo; l’infinità appartiene soltanto all’insieme dell’Essere e del Non-Essere, poiché questo insieme coincide con la Possibilità universale.38

      L’insieme dell’Essere e del Non-Essere”? L’insieme può essere ottenuto se i due sono distinti quindi se il Non-Essere fosse fuori e al di là dell’Essere, ma abbiamo visto che quest’ultimo invece vi è incluso, come è possibile allora questo insieme se l’inclusione già lo prevede? Nel testo è inequivocabile l’affermazione secondo la quale questa Possibilità universale è l’insieme di Essere non-Essere; ricordiamo però che l’unione di due «finiti» è pur sempre finito39 per cui è incomprensibile, anzi impossibile, l’affermazione:

      L’infinità appartiene soltanto all’insieme dell’Essere e del Non-Essere.40

      Inoltre, la Possibilità universale sarebbe la somma di uno zero secondo l’abbinamento di Essere e non-Essere. Ma se l’Essere corrisponde all’Uno e il non-Essere allo Zero (“che non è un numero”), la Possibilità universale (0+1) a che cosa corrisponde se, nella gerarchia dei «principî» precede Essere non-Essere? Sembrerebbe esserci un super-Zero41troppo ridicolo anche solo citarlo. Guénon aggiunge:

      La Possibilità universale comprende a un tempo l’Essere e il Non-Essere.

      Se la Possibilità universale comprende Essere e non-Essere significa ammettere una pur primordiale dualità tra loro in rapporto di causa-effetto; con ciò siamo molto lontani dalla dottrina della non-dualità, ma anche dell’Unità42: si tratta, infatti, solo di una logica esposizione atta a descrivere un sistema cosmologico.

      La verità è che volendo classificare, nominare, dividere, sezionare e selezionare, non si arriverà mai a concepire anche solo l’idea teorica di Infinito43.

      Più avanti Guénon è costretto a una precisazione:

      la stessa distinzione fra l’Essere e il Non-Essere è, tutto sommato, puramente contingente, perché può essere fatta soltanto dal punto di vista della manifestazione, esso stesso essenzialmente contingente.

      Quello che non ci dice è cosa sia reale e cosa irreale. Se qualcosa è irreale non diventa reale solo e quando è affermato; il Tao Tê Ching è esplicito il Tao che può (essere nominato) Tao non è l’eterno Tao. La negazione “non è” indica una irrealtà, un non-essere (del Tao che può (essere nominato) Tao) nel senso che è niente o nulla, è irreale e non assume una maggior realtà quando considerato da un certo «punto di vista»Quando si dice che qualcosa è reale da un certo punto di vista “contingente” e non lo è da un altro punto di vista significa confondere l’esistente con l’Essere44Ci troviamo di fronte al comunissimo gioco di prestigio di affermare che una cosa cambia la sua natura in funzione del «punto di vista» da cui si guarda: questo serve al sistema guénoniano perché permette di affermare che qualcosa possa essere al contempo Reale e irreale, sat asat; è una forma sottile di relativismo che esclude una visione dell’Assoluto, unico e immutabile. Quando l’Advaita Vedānta prende in considerazione il contingente, il mondo del vyavahāra45,il mondo della relazione, è per confutarne la realtà, assolutamente e definitivamente, non per ammetterla contingentemente o da un certo «punto di vista»; l’Assoluto, Infinito, Tutto, Uno senza secondo, è l’unica Realtà e nessun punto di vista può assegnare al contingente una qualsivoglia realtà, né assoluta né relativa46. È chiaro che il “contingente” di cui parla Guénon non è l’eterno Tao, e se l’eterno Tao è l’Infinito e Tutto, chiaramente ciò che non lo è coincide con il puro nulla; l’Infinito non lascia spazio al relativoCiò che è irreale ma appare come se fosse reale per il solo fatto di essere affermato, è frutto dell’immaginazione della mente, inventato e artificiale, in sanscrito kalpita47; la sua apparente o verosimile realtà resta tale, apparente quindi irreale, come il miraggio che appare come fosse acqua ma non è acqua, e in nessun modo può essere considerato reale; ancor più chiaro nel famoso esempio vedāntico del serpente e la corda: nella penombra, pur osservando una corda, la mente percepisce il serpente come fosse reale; tuttavia il serpente non è reale e neppure contingente relativamente reale48. Ogni speculazione sul serpente, se vivo o morto, se velenoso o non, rimane nel dominio delle ipotesi mentali, dell’immaginazione appunto, che nulla hanno di reale in riferimento alla corda; l’immagine del serpente irreale rimane viva esclusivamente nella mente sulla base del «se» dubitativo dell’esordio di Guénon: se il serpente fosse reale allora potrebbe essere vivo e velenoso… e il suo contrario; rimarchiamo “…e il suo contrario” perché nell’ordine in cui si pone l’immaginazione di qualcosa di non-reale le sue qualità positive o negative si eguagliano: nell’ordine dell’irreale non c’è qualcosa che sia più o meno vera del suo contrario49; il serpente percepito al posto della corda non è più vivo di quanto non sia morto50.

      Nella distinzione tra Essere e non-Essere poco importa la differenza tra stati Manifestati e non-Manifestati come rispettive produzioni; abbiamo visto che Essere e non-Essere sono «finiti», tanto più le loro produzioni sono tutte ugualmente «finite»51; e se sono «finiti» sono al contempo «formali» essendo il limite stesso della loro finitudine a costituire la loro forma. Gli stati informali, senza-forma, sono ciò che Guénon chiama Manifestazione informale, ma questa formula è un ossimoro, ogni «manifestazione» nella sua definizione avviene non contingentemente ma essenzialmente grazie alla forma52; Guénon dice che questa Manifestazione informale corrisponde a ciò che si usa chiamare simbolicamente Cieli, oppure Angeli, ma come non vedere che questi Cieli e Angeli sono tra loro limitati e distinti da una forma, un nome e una qualità, ciò che li rende per ciò stesso «formali»? Inoltre, senza-forma significa senza-limite e senza-limite significa infinito53, per cui pensare a infinito e al contempo a molteplici infiniti è contraddittorio: il paradosso, perciò, è che Guénon ha riconosciuto questa Manifestazione informale come stati molteplici e informali, cioè finiti e infiniti al contempo54.

      Riproduciamo lo schema che Guénon propone ne L’uomo e il suo divenire secondo il Vedântâ:

      Osservandolo emergono alcune difficoltà. In un passaggio dice semplicemente:

      la Possibilità universale contiene necessariamente la totalità delle possibilità, e si può dire che l’Essere e il Non-Essere ne sono i due aspetti: l’Essere, in quanto manifesta le possibilità (o più precisamente alcune di esse); il Non-Essere, in quanto non le manifesta.55

      1) Essendo riportate due sole Manifestazioni, formale e informale, scrivendo “alcune di esse” pensiamo che l’Essere produca solo la Manifestazione formale e il non-Essere produca oltre alla non-Manifestazione anche la Manifestazione informale, ma appena sopra si legge “il Non-Essere, in quanto non le manifesta” per cui si tratterebbe di una Manifestazione informale che non si manifesta (sic)56: ma che differenza c’è tra una non-Manifestazione e una Manifestazione informale che non si manifesta?

      2) Dalla lettura dello schema nasce anche un’altra difficoltà: l’esistenza di un’implicita categoria non indicata, in cui la Manifestazione appartiene in parte all’Universale (essendo sopra-individuale) e in parte all’individuale. Quindi, se si prende la Manifestazione come un unico insieme sarebbe al contempo Universale e individuale ma al contempo prodotta parte dall’Essere e parte dal non-Essere. Perché tutto questo?57

      Al termine di questa breve disamina possiamo scorgere la difficoltà che crea la distinzione di termini inadeguatiquali Essere non-Essere quando usati assieme e nel senso sopra esposto. Si è pensato di mutuare questa dottrina dal Taoismo basandosi sulla presenza della coppia Essere non-Essere in realtà inventata ad hoc, o traslata da un’erronea traduzione sulla quale si è costruito un sistema dottrinale; da qui le forzature che necessariamente si presentano, a partire dal linguaggio, perché se s’introduce in un sistema una variabile impossibile finirà, prima o poi, per impazzire58.Se si esclude la riserva della definizione di «ontologico» e il condizionamento della filosofia nel corso dei secoli a partire da Parmenide, meglio sarebbe esporre una dottrina metafisica mantenendo solo l’Essere, Uno senza secondo, Infinito, estendendo la sua Realtà alla Totalità; al contempo nei casi sopra illustrati, anziché essere non-essere, si dovrebbe parlare in termini di avere non-avere (con senza)come accade nel Advaita Vedānta con i termini nirguṇa saguṇa senza necessità di introdurre alcun non-Essere. L’Essere è necessario mentre il non-Essere non lo è; quando assegniamo all’Essere lo statuto di Tutto, Uno senza secondo eInfinito (e non ci sono ragioni per non farlo)il non-Essere diventa una nozione inutile se non per descrivere il nulla, il niente, il vuoto, asat nel Advaita Vedāntaetc.59; per tanto è possibile escludere la nozione di non-Essere ma non quella di Essere per evidenza intuitiva che qualcosa c’è.

      1. Parliamo di visione perché non si tratta di una particolare visione quale un «punto di vista» o una «prospettiva». La visione paramārtha (pāramārthika quando aggettivato) coincide con Brahman, l’Assoluto, Infinito, Uno senza secondo; si è soliti tradurre paramārtha con metafisica, termine che richiede una breve precisazione; questa traduzione è valida solo quando con metafisica si intende il superamento della polarità tra metafisica e fisica, quando queste rappresentano due gradi differenti di realtà, ricadendo perciò in una dualità incompatibile con la nozione di «Tutto» e paramārtha; quest’ultimo termine, infatti, etimologicamente significa oltre (para-) la cosa (ārtha), è quindi il superamento di tutto ciò che è compreso dal nome e dalla forma.[]
      2. Senza-nome (無名 wú-míng) e con-nome (有名 yǒu-míng).[]
      3. Il carattere yǒu (有) «avere» ha subito nel tempo molte modifiche di utilizzo, come verbo, dimostrativo, congiunzione, avverbio; certamente a partire dal periodo arcaico fino ai tempi moderni è utilizzato come verbo avere e possedere, solo successivamente come esistere (come indicato in alcuni casi nel testo), MAI come essere, per le ragioni linguistiche esposte più avanti; cfr. Chawla Chanyaporn, A historical perspective of  yǒu in the chinese language, in Manusya: Journal of Humanities, Leiden, Brill, Jan 2015; Thompson C. N. Li & S.A., Mandarin Chinese: A Functional Grammar. Berkeley and Los Angeles University of California Press, 1981; Schuessler Axel, ABC Etymological Dictionary of Old Chinese, Honolulu, University of Hawai’i Press, 2007.[]
      4. In alcune traduzioni del Tao Tê Ching si è tentato di tradurre disinvoltamente con non-Essere la locuzione wú-yù «senza desiderio» (無欲) e wú-wù «senza-cose» (無物); altri autori hanno cercato di correggere questo errore con non-Esistenza.[]
      5. Paolillo traduce con Esistenza che non è scorretto ma generico se non specificato che l’esistenza è tale quando intesa come possesso di nomi, qualità e attributi: “you, l’Esistenza, prima determinazione che contiene in sé gli sviluppi della «Molteplicità delle cose» o «diecimila esseri», di cui è principio immediato”, diciamo che è generico perché con il verbo avere si indica il possesso di nomi, qualità e attributi che fa sì che la cosa nominata appartenga alla molteplicità, mentre col verbo esistere (ex-stare) si intende l’essere dipendente da un principio altro da sé.[]
      6. La stessa con ideogrammi: Sotto il Cielo (tiānxià 天下) le diecimila cose (wànwù 萬物) nascono (shēng ) da (yú ) avere (yǒu ), avere (yǒu ) nasce (shēng ) da (yú ) non (wú ).[]
      7. Riteniamo che , solamente non, sia contestuale alla frase, per cui neghi ciò che nella frase è affermato come ad es.: “questa cosa può piacere o non”, questo non implica non-piacere, così si comporta la particella negativa wú. Secondo L. Wen, yǒu (有) avrebbe forma avverbiale come (wú ). Paolillo traduce drasticamente wú finale del verso con non-Esistenza, anche in questo caso genericamente, senza tenere conto del contesto della frase.[]
      8.  Yǒu: yòu (又) «mano (destra)» e il semantico (⺼) «carne»; cfr. Xu Shen, Shuo Wen Jie Zi conosciuto come Explaining and Analyzing Compound Characters (Theobald, 2010). Per B. J. Yang, & L. S. He (Classical Chinese Grammar and its Development. Yuwen, Press Beijing, 1992) i segni rilevati sugli antichi carapaci di tartaruga indicavano solo il segno yòu (又) mano. L. Wen (Chinese Language Review: Guanyu YOU de Sikao, 12, 42. 1993) fa notare che dal «portare della carne in mano», yǒu dà il concetto di «possesso»; in qualunque caso la presenza della mano indica chiaramente la presa, il possesso, quindi l’avere. Léon Wieger (Caractères chinois, Kuang-Chi Press, p. 157) e altri autori indicano il primo ideogramma come mano ma il secondo per loro è yuè (月) luna, precisamente il suo oscuramento mensile (luna nuova) come se la mano la coprisse. Questo ideogramma è associato a yuè (月) «luna» avendo èr (二) «due» (altro elemento polare e cosmologico) al posto di bīng (冫) all’interno di jiōng (冂). Questo innesto di «luna» nell’ideogramma yǒu (有) con il significato di «presenza» e negativamente di «assenza» indica le fasi lunari di luna nuova e luna piena.[]
      9. Ad esempio, un luogo «ha» qualcosa, che significa che quel qualcosa è esistente in quel luogo. La frase zhèlǐ yǒu yīge rén (这里有一个人) “Qui c’è una persona” letteralmente “Questo luogo (cioè qui) ha una persona”, la costruzione grammaticale prevede il possesso di una proprietà da parte del luogo; la forma prende lo schema: Soggetto/Luogo > Verbo di avere (yǒu 有) o non-avere ( 無) > OggettoLa frase zhuōzishàng yǒu yīduǒ huā può tradursi con “C’è un fiore sul tavolo”, letteralmente “Il tavolo sopra ha un fiore” (o “sul tavolo vi ha un fiore”)si noti che yǒu indica una proprietà del tavolo, un suo possesso, qualità o altro, in genere indica la «presenza»; il verbo essere è usato e tradotto ad esempio in formule del tipo méiyǒu yìyì (没有意义) che nel gergo colloquiale è tradotto nella forma «è inutile» ma letteralmente è più correttamente tradotto «non ha utilità».[]
      10. L’avverbio di luogo «ci» di esser-ci indica essere qui, richiede un luogo, in qualunque caso nel mondo, il che descrive esattamente degli esistenti o enti, che nel linguaggio cosmogonico indica essere presenti con nome e forma, nāma-rūpa nel Vedānta; questo «con», traduce il verbo avere, possedere, etc. del cinese yǒu (有). Come noto l’espressione esserci traduce il tedesco dasein che molta fortuna ha trovato nella filosofia di Martin Heidegger con il significato di «essere-presente», «essere-nel-mondo» e infine «esistente». Ito Kichinosuke dopo aver conosciuto il giovane Heidegger, gli inviò nel 1919 il Libro del tè (Cha no yu) di Okakura Kakuzō, ispirato all’opera di Chuang-Tze; quando nel 1927 Ito lesse Essere e Tempo del filosofo tedesco riconobbe nell’uso di Dasein l’influsso di Chuang-Tze nel quale è costante la nozione di yǒu (有) in quanto esserci, «essere-nel-mondo»; cfr. Schuessler, ibid.[]
      11. Sull’uso di yǒu con significato di avere e possesso, cfr. Chawla, ibid.[]
      12. Shang Kung (Heshang Gong) fu un eremita vissuto nel I secolo d.C, ultimo periodo della dinastia Han; cfr. The Ho-Shang Kung Commentary on Lao Tzu’s Tao Te Ching 老子河上公章句 by Ho-Shang Kung, and Lao Tzu, Tr. by Dan G. Reid, Montreal, Center Ring Publishing, 2015. Wang Pi (Wang Bi) fu funzionario nello stato di Cao Wei durante il periodo dei Tre Regni; morì giovanissimo dopo aver lasciato un suo Commentario al Tao Tê Ching e all’I Ching.[]
      13. In Rudolf G. Wagner, A Chinese reading of the Daodejing: Wang Bi’s Commentary on the Laozi with critical text and translation, Albany, NY, State University of New York Press, 2003.[]
      14. Cfr. Lok Sang Ho, The Living Dao: The Art and Way of Living. A Rich & Truthful Life, Hong Kong, Lingnan University, 2009.[]
      15. Cfr. nota 2 dell’esordio.[]
      16. Sia questa definita come creazione, manifestazione o emanazione.[]
      17. Essere, shì (是); nonessere wú-shì (無是) nel senso di asat, irreale, niente o nulla, come vedremo nel seguito.[]
      18. Meister Eckhart scrive: “Quando dico che Dio non è un essere, che è al di sopra dell’essere, non gli nego l’essere, al contrario, metto l’essere a un più alto grado in Lui”.[]
      19. Nel Taoismo corrisponde a qí-wù-lùn (齊物論) «teoria del Tutto (tutte le cose)», secondo la quale «Tutto è Uno»; Qíwùlùn è anche il titolo del secondo capitolo del Chuang-tze che Wieger traduce Harmonie universelle; il latino harmonĭa, dal greco ἁρμονία, significa cioè «combinare assieme, comporre, accordare», «unire, fissare assieme»; le cose in «armonia» rimangono distinte e distinguibili seppur composte tra loro, come le note di una musica, al contrario dire che Tutto è Uno è cosa differente, questa distinzione Chuang-Tze la spiega nel secondo capitolo. Tommasini traduce Discorso sull’identità delle creature. Cfr. Chuang-Tze (莊子): “Cielo e Terra vivono fianco a fianco a me, e tutte le cose sono una con me” (天地與我並生,萬物與我為一).[]
      20. Nel Vedānta in questo caso si tratta asarvatva il «non essere tutto», aspetto che investe esclusivamente la considerazione personale che ognuno può avere di Essere o di non-Essere. Asarvatva si oppone a sarvatva (o samaṣṭa sattā)che, al contrario significa Essere totale che è correttamente l’unica realtà dell’Essere.[]
      21. Nell’ambito percettivo è ciò che avviene con l’osservazione dei disegni frattali.[]
      22. La concezione di Essere finito si trova anche nella speculazione teologica cristiana; da qui la necessità di creare un super-essere; è ciò che fa scrivere a Meister Eckhart: “Perciò dice Dionigi, l’illuminato, dove scrive di Dio: Egli è un super-essere, una super-vita, una super-luce. Non gli attribuisce né questo né quello, e con ciò indica che egli è non so che cosa, molto al di sopra” (Meister Eckhart, Sermoni tedeschi. Ser. 71, Edizioni Paoline, Milano, 2002). Scoto Eriugena parla di ciò che è prima dell’essere (anteΩΝ), ed è sia l’essere superessenziale (superessentialiter esse) e il super-essere superessenziale (superΩΝ): ύπερουσιως εΐναι, ύπερουσιως ύπερών (Suchla, p. 187, 8 e 12 = Versio Dionysii, PL 122, 1150 a-b); da qui le deviazioni dottrinali cui facciamo riferimento.[]
      23. Henri Borel, Wu Wei, Milano, Neri Pozza, 1999. Titolo originario “Wu Wei” poi incluso in Wijsheid en Schoonheid uit China (“Saggezza e bellezza dalla Cina”), 1895.[]
      24. René Guénon deriva in gran parte la sua conoscenza della materia dall’opera di Matgioi e dalle traduzioni dei Padri del Taoismo di Wieger.[]
      25. René Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, “L’Essere e il Non-Essere” Milano, Adelphi, 1996, cap. III.[]
      26. Ciò che il Vedānta chiama aparabrahman vidyā comprendente ogni dottrina duale, in contrapposizione a parabrahman vidyā che è la sola dottrina non-duale.[]
      27. Guénon scrive che è costretto a chiamarlo non-Essere, a noi sembra unacostrizione autoimposta volendo separare ciò che potrebbe essere unico.[]
      28. Cfr. Frithiof Schuon, Unità trascendente delle religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 1980. Schuon in conformità con Guénon scrive: “l’Essere stesso, il quale non è altro che il Dio personale, è a sua volta trasceso dalla Divinità impersonale o soprapersonale, il Non-Essere, di cui il Dio personale o l’Essere è soltanto la prima determinazione a partire dalla quale si svilupperanno tutte le determinazioni secondarie che costituiscono l’Esistenza cosmica”. Qualche anno più tardi inventa la definizione Sur-Être, Super-Essere la cui «parola» è l’Essere; pur criticando Guénon, costretto da chissà quale forza per mantenere differenze dove non ci sono, inventa un linguaggio che rasenta il ridicolo: “Per distinguere il Non-Essere dall’Essere, potrei dire che il primo è «infinitamente infinito», mentre il secondo è «relativamente infinito», il che, pur essendo tautologico e contraddittorio, è comunque una figura utile in un linguaggio necessariamente ellittico”, Frithiof Schuon, Considerazioni sull’opera di René Guénon, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 1992.[]
      29. In francese “en dehors et au delà de l’Être”.[]
      30. In francese: “l’Être lui-même s’y trouve inclus”.[]
      31. Evidentemente Guénon vuole intendere che è incluso ma l’affermazione “al di fuori” determina il limite stesso di Essere non-Essere.[]
      32. In questo caso non si tratta dell’uno senza secondo ma dell’uno con secondo, ovvero principio della serie numerica, così come nell’ontologia Principio della produzione che Guénon chiama Manifestazione formale.[]
      33. “l’Unità (l’Essere) è soltanto lo Zero metafisico (il Non-Essere) affermato”, ibid.[]
      34. «Produzione» è inteso in termini etimologici di base, «provenire, condurre, trarre, portareda»secondo un modo di causa e effetto.[]
      35. Da ex-stare:questo comporta che un esistente sia principio di un altro esistente.[]
      36. René Guénon, I principi del calcolo infinitesimale. Cap. “Lo zero non è un numero”, Milano, Adelphi, 2011.[]
      37. Auspicabile che in questo caso non si invochi una mancanza di intuizione o squalificazione spirituale quando l’argomento è pertinente con la logica essendo di natura matematica; fare ricorso ad una qualche ragione o trasposizione trascendente significa annullare la validità dell’esempio.[]
      38. “Seulement, dès lors qu’on oppose le Non-Être à l’Être, ou même qu’on les distingue simplement, c’est que ni l’un ni l’autre n’est infini, puisque, à ce point de vue, ils se limitent l’un l’autre en quelque façon ; l’infinité n’appartient qu’à l’ensemble de l’Être et du NonÊtre, puisque cet ensemble est identique à la Possibilité universelle”.[]
      39. Sull’uso del termine «universale» è giusto che si faccia una riserva. Pur tenendo conto dei limiti del linguaggio finché gli argomenti gravitano nell’ordine cosmologico, come in questo caso, il linguaggio è più che sufficiente essendo della stessa natura; perciò, quando si tratta di «universale» è bene precisare che il suo significato uni-versus, cioè «verso l’uno» è un’espressione eminentemente cosmologica che, nel contesto di quanto stiamo trattando esclude categoricamente lo zero.[]
      40. “L’infinité n’appartient qu’à l’ensemble de l’Être et du NonÊtre”.[]
      41. Un super (-Essere+Non-Essere).[]
      42. Approfittiamo per una rettifica terminologica: parlare come spesso capita di «Unità principiale» è un errore; specificare quale sia la qualità dell’Unità è superfluo, l’Unità non è principiale più di quanto non sia altro; aggettivando s’intende che vi possa essere un’Unità «non principiale», cosa che determinerebbe confusione. La stessa cosa avviene nei casi in cui si parli di «Principio assoluto» o formule analoghe. Sarebbe come dire che un cerchio ha un centro assoluto o principiale ammettendo con ciò che ci siano altri centri non assoluti e non principiali.[]
      43. Intendiamo «concepire» come formulazione dottrinale fino al punto in cui se ne può parlare che, in qualunque caso, non è poco e non è impossibile almeno considerando in questo «concepire» l’esclusione di ciò che è falso, e/o contraddittorio. Si opporrà a questi argomenti che il senso di tutto ciò è da «trasporre» ad un qualche altro livello o che tutto ciò in realtà appartiene all’«inesprimibile»: queste sono scappatoie mentali sempre molto efficaci per togliersi dall’imbarazzo, non per impossibilità di esprimere l’inesprimibile ma di esprimere un errore. Sull’«inesprimibile» si può essere anche d’accordo aggiungendo però che, se e in quanto inesprimibile, sarebbe stato meglio non esprimere tali teorie fin dall’inizio.[]
      44. È ciò che porta anche alcuni traduttori del Tao Tê Ching a tradure “gli esseri”, plurale,anziché “gli esistenti”.[]
      45. Vyavahāra, letteralmente transazione, azione che mette in relazione due o più cose o persone, dominio di ciò che è relativo, empirico, manifestato, illusorio; sull’argomento: Śrī Śrī Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī MahārājajīCommento A Bhagavad Gītā, II.57-61, qui su Veda Vyāsa Maṇḍala.[]
      46. La scienza arriva a simili conclusioni con la fisica quantistica: il famoso paradosso del gatto di Schrödinger, afferma che in base ad una teoria il gatto sottoposto a un certo esperimento possa essere al contempo vivo e morto, in fondo riconducibile ad un principio probabilistico: nel nostro caso non è di probabilità che si tratta ma di una assunzione momentanea di una ipotesi non reale, metodo valido solo nel vedāntico adhyāropāpavāda, tecnica di discriminazione consistente in una intenzionale accettazione di false apparenze sovrapposte alla realtà, per poi procedere alla conseguente loro confutazione, quindi valido, sottolineiamo, solo fino al termine della confutazione…, non a metà strada, assegnando una pur relativa realtà al contingente.[]
      47. “Innanzi i tempi, tutto era uno, nel principio chiuso al modo di un plico. Tutto quel che si aggiunse dopo è soggettivo, immaginario. Come la differenza tra la destra e la sinistra, le distinzioni, le opposizioni, i doveri; altrettanti esseri di ragione che si indicano con parole a cui in realtà non corrisponde nulla. Per cui il Saggio studia sì tutto, nel mondo sensibile e in quello delle idee, ma senza pronunciarsi su nulla, per non aggiungere una veduta soggettiva in più a tutte quelle che sono già state formulate. Si tace, racchiuso in se stesso, mentre la gente comune pontifica, non alla ricerca della Verità, ma per fare bella figura, come dice l’adagio”, Wieger, 1913, Tchoang-Tzeu, 2, E.[]
      48. “Se qualcuno entra in una stanza in penombra, sul cui pavimento giace una corda, potrebbe prenderla per un serpente. Solamente rimovendo le tenebre per mezzo d’una lampada costui sarà in grado di riconoscere che non di un serpente si trattava, ma d’una corda. Ovvero, se si rimuovono le tenebre dell’ignoranza, la reale natura, la corda, appare immantinente per l’eliminazione della falsa apparenza di serpente”; cfr. Gian Giuseppe Filippi, Il serpente e la corda. Commento al Tattvamasi di Śaṃkarācārya, 2 vol. Milano, Edizioni Ekatos, 2020. Anche qui su Veda Vyāsa Maṇḍala.[]
      49. In questo caso il serpente non è mai esistito, è esistita solo la corda per cui ogni speculazione inerente alla natura del serpente risulta falsa e irreale; è la māyā (cfr. supra).[]
      50. Si ripropone l’esempio del gatto di Schrödinger. Basterebbe questo appunto per capire come considerare tutti i sistemi Cosmologici, sintetizzati dal primo verso del Tao Tê Ching“Il Tao che può (essere nominato) Tao, non è l’eterno Tao” ma l’eterno Tao è Tutto quindi il Tao che può (essere nominato), ovvero ogni dottrina del non-Supremo, è nulla.[]
      51. Basta l’uso del plurale, siano «stati» o «possibilità», per accertare questo; se sono molteplici sono al contempo finiti e formali per cui nulla possono avere di “permanente e incondizionato”.[]
      52. Abbiamo visto che anche nell’ideogramma cinese la mano indica l’avere e il possesso: derivando da manus, «mano», è apparizione, evidenza, un mostrarsi. Ci si potrebbe chiedere: se la manifestazione non fosse questo apparire (sottilmente e grossolanamente) cosa la differenzierebbe dalla non-manifestazione?[]
      53. In greco si è definito ápeiron (ἄπειρον), che vuol dire letteralmente «senza limiti» (limite in greco era péras πέρας) e quindi «illimitato».[]
      54. Si è tentato di giustificare tale incoerenza pensando a qualcosa che non è formale e neppure infinito, posto tra la forma e l’infinito, creando un «limbo» intermedio indefinibile ma soprattutto indifendibile. Anche Schuon, che ha compreso l’incoerenza, ci ha provato con la sua definizione ridicola di «relativamente infinito», Frithiof Schuon, Considerazioni sull’opera di René Guénon, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 1992.[]
      55. René Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Cap. III, “L’Essere e il Non-Essere”. Emerge, anche in questo caso, la nozione errata di «aspetti» dell’unica Realtà, tendenza alla divisione comprensibilmente necessaria alla presentazione di una dottrina duale e segno di una incapacità di concepire l’Assoluto dovendo ricorrere «necessariamente» alla dualità. Cercare di far comprendere l’Unità metafisica (ben inteso non «Unione») partendo dall’assunzione di una dualità reale, è un’impresa impossibile e tutto sommato ingenua; un certo mondo tradizionalista si fregia di possedere una dottrina dell’Unità che però risulta essere solo un vezzo, esponendo in realtà una dualità «essenziale» irriducibile e impossibile da eliminare, al netto delle acclamazioni barocche di Unità.[]
      56. Guénon introduce anche un’ulteriore categoria di “possibilità di manifestazione in quanto non si manifestano”. Qui il termine possibilità non è preso in termini di potenza effettiva e realizzata ma assume la sua connotazione di potenza opposta all’atto. Ci poniamo due domande: 1) se nell’ordine ontologico dell’Essere o del non-Essere vi sia questa opzione discrezionale; 2) se si debba intendere questo genere di possibilità, potenziale e non in atto, anche per la Possibilità universale. Lasciamo al lettore le risposte e le conclusioni di tali ipotesi.[]
      57. La domanda ovviamente è retorica, la risposta emerge dalle conclusioni che se ne possono trarre e la pretesa di spiegare la metafisica per mezzo della cosmologia.[]
      58. Insistiamo sulla definizione di «sistema» perché di questo si tratta malgrado, comprensibilmente, non si perda occasione per denigrarlo; systema viene da greco col significato di «riunione», «complesso» da syn+ístemi «porre insieme, riunire», si tratta perciò di un complesso relazionale, ciò che in sanscrito è definito come vyavahāra (v. supra).[]
      59. Quando il non-Essere è inteso come superEssere, perché si sovrappone, lo supera o quant’altro, quando vuole porsi in termini di nirguṇa significa che considera l’Essere come saguṇa ovvero un semplice guṇa, attributo, nome o qualità; tutto ciò è assurdo perché, nel sistema così congeniato l’Essere non potrebbe neppure porsi come il Principio della manifestazione come si vorrebbe.È Guénon che ci fornisce la corretta definizione di cosa sia «assurdo»: “L’assurdo, in senso logico e matematico, è ciò che implica una contraddizione; esso è dunque assimilabile all’impossibile, poiché è l’assenza di contraddizione interna che, logicamente ma anche ontologicamente, definisce la possibilità”, René Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Cap. I “L’Infinito e la Possibilità”.[]