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17 Gennaio, 2021

2. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    2. “Tattvamasi”. Ai piedi del Guru

    Il nome è, dunque, dovuto semplicemente all’apparenza. Perciò l’apparenza è un pensiero: lo si usa per un determinato scopo, lo si osserva da una certa angolatura e gli si attribuisce un nome.

    Mio caro, conoscendo il solo (ekena) oro si conoscono tutte le cose fatte d’oro. Ogni assunzione di una forma [od ogni trasformazione, vikāraḥ] ha nella parola il suo supporto (abhidheyam) e questa è solo il nome (ChU VI.1.5).

    E Śaṃkara nel breve commento aggiunge: “[cose] trasformate in collana, diadema, bracciale d’oro”.

    Mio caro, riconoscendo nelle forbici solo (ekena) il ferro si conoscono tutte le cose fatte di ferro. Ogni assunzione di una forma [od ogni trasformazione, vikāraḥ] ha nella parola il suo supporto (abhidheyam) e questa è solo il nome. La realtà è il ferro in quanto tale. Mio caro, questo è l’insegnamento (ChU VI.1.6).

    Se si guarda lo stesso oggetto da un altro punto di vista, gli si dà un altro nome. Perciò la stessa cosa appare in modi diversi. È possibile conoscere veramente un oggetto? Si può osservare un libro da diverse angolazioni; davanti, di costa, di dietro, di taglio, ed esso appare in forme diverse. Ma nessuno ha mai visto il libro intero. Quando lo si guarda da una angolatura si perdono di vista le altre angolature. La mente costruisce l’immagine dell’oggetto osservando la parte che è visibile nel presente. La presente angolatura è una percezione, le altre angolature, con cui ricostruiamo l’intera apparenza dell’oggetto, sono ricordi. Si combina la percezione attuale con ciò che si trae dalla memoria. Perciò non possiamo vedere mai un oggetto completo, ma ne costruiamo l’immagine artificialmente. Questo vale anche per l’immagine d’una persona: cambia vestito, si lascia crescere la barba, invecchia, ingrassa ecc. La persona in piedi, seduta e sdraiata sono tre persone diverse? Perciò il cambiamento è dovuto alla forma e al suo utilizzo e, a seconda dell’apparenza, si denominano le persone con attributi diversi: giovane-vecchio, magro-grasso, sano-malato. Perciò di una stessa cosa ci sono molteplici apparenze che noi sommiamo nella nostra immaginazione come fossero una. Similmente, in ogni momento l’‘io’ è associato a differenti forme, e quindi cambia continuamente. Quando la śruti dice “tu sei Quello”, con ‘tu’ a che ‘io’ allude? A quale ‘io’ si riferisce? La risposta sarà come segue:

    La frase “tu sei Quello” allude al Sé interiore, come nel conosciuto apologo “tu sei il decimo” (Śaṃkara, Upadeśa Sāhasrī, 172)1.

    Ma proseguiamo con ordine. Il guru indicò al figlio che solo l’argilla è reale e che quello a cui si attribuisce il nome di vaso è soltanto una forma, un’apparenza osservata da una particolare angolazione. Si può osservare l’argilla a partire da molti angoli, e dare alle sue diverse apparenze molti nomi: vaso, giara, coppa, brocca ecc. Tutti i punti di vista da cui s’osserva, tutte le forme che appaiono, tutti i nomi che s’attribuiscono loro, sono il mondo. Prapañca, il mondo, ha il significato di quintuplice: qui, in particolare vuol significare ‘molte angolature’, alludendo ai vari significati e ai nomi che si suole assegnare a quelli che appaiono come oggetti2. In verità l’unica cosa reale è l’argilla. Così, chi sa cos’è l’argilla, conosce tutte le sue forme. Allo stesso modo, quando si conosce l’acqua si conoscono tutte le onde, le gocce e la schiuma di ogni dove e di tutti i tempi. Quelle forme non hanno alcuna realtà, la realtà è l’acqua. La forma non è un oggetto indipendente, altro dall’acqua. Nessuno può affermare: «Questa è l’argilla e quell’altra cosa è il vaso». Una sola ‘cosa’ esiste.

    Allora il figlio disse:

    «Il mio venerato maestro certamente non aveva questa conoscenza. Infatti, se l’avesse conosciuta, perché non me l’avrebbe insegnata? O mio signore, sii tu a insegnarmela» (ChU VI.1.7).

    Śvetaketu addossa al maestro la responsabilità della sua ignoranza. Non riconoscere la propria mancanza di conoscenza e persino la propria assenza di desiderio di conoscenza, che è un atteggiamento diffuso tra gli ignoranti. “Certamente il guru non lo sapeva.” Invece i maestri vogliono che i discepoli pongano loro domande. Dalle domande il guru capisce il livello del discepolo. Certe volte il guru può insegnare cose troppo elementari o troppo difficili. Dalle domande dello śiṣya, il guru capisce il suo grado di comprensione; oppure s’accorge se il discepolo ripete ciò che ha letto nei testi senza averne colto il senso. Anche il modo in cui la domanda è posta offre al maestro lo strumento per sondare il grado della sua comprensione. Lo Śāstra ammonisce il guru ripetutamente: “Non insegnare a nessuno se non chiede. Se non ti domandano, non rispondere.” Sebbene Śvetaketu ancora conservasse un po’ della sua boria accusando il suo maestro di brahmacarya, tuttavia si era reso conto dell’elevatezza dell’insegnamento appena ricevuto dal padre. Ciò dimostra la sua qualificazione intellettuale3. Perciò il figlio gli chiese: «Insegnami tu ciò che ignoro». Anche Naciketas chiese a Yama d’insegnargli la conoscenza. Yama cercò di dissuadere Naciketas, ma il giovane brāhmaṇa insisté nella sua richiesta. Aveva intuito, infatti, due cose: anzitutto che non doveva porre la domanda a nessun altro; in secondo luogo aveva capito che il Re dei morti aveva quella conoscenza, proprio perché aveva affermato che gli dei non la possedevano.

    «Naciketas non ti chiede nient’altro se non il dono di penetrare nel mistero insondabile.» (KU I.1.29)

    Uḍḍālaka cominciò a insegnare che ogni oggetto si distingue da un altro a causa dell’apparenza illusoria di nomi e forme che si proiettano in quello che Śvetaketu chiamava mondo (prapañca).

    Il nome e la forma, che sono la causa seminale dello sviluppo dell’intera esistenza fenomenica e che sono falsamente immaginati dall’ignoranza (avidyā kalpita), sebbene non siano differenti dal Signore Īśvara onnisciente né siano definibili come identici a Īśvara né da lui distinti, sono menzionati nei Veda e nelle smṛti come Māyā, Śakti o Prakṛti4 (BSŚBh II.1.14.)

    Rūpa, la forma, infatti, è il principio di differenziazione e di molteplicità con cui funziona la mente. Nāma, il nome, è il modo in cui la mente descrive l’apparenza di ogni oggetto differenziato dalla forma5. Le apparenze dipendono dalle cinque percezioni trasmesse dai sensi (jñānendriya). Le cinque percezioni, coordinate tra di loro dal manas, formano l’apparenza degli oggetti. Ma sono soltanto apparenze della mente. Infatti:

    Quell’etere in cui si collocano i cinque gruppi di cinque6 è quello stesso Ātman che io so essere l’immortale Brahman. Sapendo ciò, io sono immortale (BU IV.4.7).

    A questa apparenza la mente attribuisce un nome. Prendiamo per esempio l’apparenza d’un limone: lo si percepisce di forma ovale, giallo, acido, profumato ecc. Ogni senso può fornire più d’una informazione e, in questo modo, la descrizione (abhidhānam) minuziosa d’un limone potrebbe occupare un intero libro. Tutti i risultati delle percezioni sono coordinati dal manas che, tramite le diverse apparenze, identifica il concetto dell’oggetto a cui, poi, attribuisce un nome. Le apparenze sono di tutti i cinque sensi. Ogni senso, dunque, ha un suo modo di percepire: ma al di là del nome e della forma c’è una sola Esistenza, l’Ātman. Il resto sono solo variazioni di un’unica Esistenza, sono solo apparenze.

    Per noi, l’Ātman è per sua stessa natura l’essenza della percezione; e quindi è distinto dal corpo; ed è eterno, perché la Coscienza è immutabile per natura. […] Quanto all’argomento secondo cui, poiché la Coscienza si verifica tramite gli organi di senso corporei, essa debba essere un attributo del corpo, ciò viene smentito nel modo che abbiamo già dimostrato. Da ciò ne consegue che la Coscienza non può affatto essere un attributo del corpo solo perché si verifica dove il corpo è presente e non si verifica dove il corpo è assente; perché, oltre all’utilizzo degli organi di senso del corpo, la percezione è possibile solo se ci sono le condizioni necessarie, come la presenza della luce, ecc. Perciò, il corpo non è un fattore del tutto indispensabile alla percezione, anche perché quando questo corpo giace inattivo mentre si sogna, si sperimentano molte altre percezioni. (BSŚBh III.3.55).

    Quello che si chiama ‘questo mondo’ sono le varie apparenze divise in molteplici cose e ogni apparenza è diversa dall’altra. Tutta questa molteplicità era all’inizio l’unica Pura Esistenza. Inizio non deve essere inteso in termini di tempo, ma nel senso di al di là del mondo, in quanto tempo e spazio sono inclusi nel mondo. All’inizio o in principio significa che prima di tempo, spazio, soggetto-oggetti e di tutta questa molteplicità, è la Pura Esistenza. Che tutto questo appaia non significa che la Pura Esistenza si trovasse in una condizione temporale precedente da cui questo tempo ha avuto inizio. Non esiste alcun tempo in cui inizia il tempo e tutte le altre relazioni. All’inizio significa il punto di vista da cui si vede l’esistenza come fosse molteplice, come se si componesse di ‘questo e quello’. Cos’hanno in comune ‘questo e quello’? Questo ha una forma e quello un’altra, la disposizione spaziale è diversa, mentre il tempo è lo stesso. Oppure la disposizione spaziale è la medesima ma il periodo considerato è diverso. In definitiva l’apparenza è diversa, lo spazio è diverso, il tempo è diverso, ma, se si rimuove tutto quello che è diverso, l’Esistenza rimane la stessa. Per esempio un libro e un albero cos’hanno in comune? Il libro ‘è’, l’albero ‘è’. Qualsiasi sia l’apparenza, qualsiasi sia lo spazio, la dimensione, il periodo di vita, ciò che rimane come universale costante è l’Essere, l’Esistenza7. Se si rimuove ‘è’, ‘questo e quello’ non esistono. Tutte queste apparenze, vista, tatto, tempo, spazio, forma, ci sono perché ‘è’. A livello di essere non c’è differenza tra libro e albero. Ogni oggetto, ogni essere possono essere definiti ‘così e così’: sono definiti dalla loro collocazione spazio-temporale, dalla forma, dalla dimensione, da qualsiasi loro relazione con gli altri oggetti o esseri. Ma se si prescinde da queste determinazioni che li identificano e li individuano, tutti hanno in comune il fatto di essere.

    Tutto ciò che è conosciuto come ‘mio’ (mama) e come ‘questo’ (idam) si basa evidentemente su ciò che è non-Sé. Ciò che si conosce come ‘io sono così e così’ è, dunque, attribuibile sia al Sé sia al non-Sé: ‘io’ da solo si riferisce al Sé, e ‘sono così e così’, al non-Sé (US XVIII.91).

    A livello di esistenza tutti gli oggetti sono uno. È esattamente come in suṣupti, che non è solo una esperienza personale come la veglia e il sogno. In suṣupti tutto il mondo è Pura Esistenza. ‘Prima’ che tu vedessi questo mondo, esso era Pura Esistenza. Nella Pura Esistenza, quando subentra la mente, quando ci si sveglia, inizia la differenziazione soggetto-oggetto, poi spazio e tempo, poi i cinque sensi, tramite cui la mente divide tutto per cinque; s’aggiungono spazio e tempo e si vede questa molteplicità. La mente attiva in simultaneità tre cose: la relazione soggetto-oggetto, gli organi di senso con le conseguenti combinazioni di cinque; infine tempo e spazio. E, allora, si vede questo grande mondo. Procedendo all’inverso, prima si ritirano i sensi, poi la collocazione nel tempo e nello spazio, e allora rimane soltanto la relazione soggetto e oggetto; quando s’abbandona anche la mente, soggetto e oggetto svaniscono e s’arriva alla Pura Esistenza. Da questo unico sat appaiono i cinque elementi, perché all’inizio sat appare come fosse ākāśa, spazio8. Nello spazio si determina il vento, nel vento il fuoco, nel fuoco l’acqua, infine la terra. Non si possono considerare i cinque elementi (pañcabhūta) prodotti in sequenza, perché non sono nati nel tempo. Li si enumera così soltanto per spiegarne la differenziazione. Se si scioglie una pepita d’oro e se ne fa un cilindretto, poi uno stecco, poi un filo sottile e lungo. Lo si taglia in segmenti e di questi se ne fanno degli anelli. Li si concatena per farne una collana. Quanti passaggi ci sono stati? La collana è nata dopo sette passaggi. Quanto è lontano l’oro dalla collana? Si deve risalire di sette stadi per ritrovare l’oro? No, l’oro, rimanendo uguale a se stesso, ha solo cambiato apparenza. Anche la mano assume forme diverse. Per caso cambia la sua natura? Anche il volume dell’oro rimane lo stesso, come quello della mano. Tu lo guardi dal di fuori, dal limite, perché la forma non è intrinseca all’oro e perciò se ne può vedere la forma dall’esterno. È come piegare una stoffa. La sua area è sempre la stessa; solo la forma cambia. Perciò la medesima esistenza appare sotto forme diverse. Il mondo composto dai cinque elementi si vede per mezzo della percezione visiva, tattile, ecc.; esso è solamente la combinazione di queste cinque percezioni che fa vedere le variazioni degli oggetti del mondo. Ciò è applicabile anche all’osservazione dello spazio, che è relativo alla collocazione spaziale di chi è seduto a guardare. Per chi così osserva c’è qualcosa che gli è lontano e qualcos’altro che gli è vicino. Ma per lo spazio preso nel suo insieme, tutto è alla stessa distanza. Come nell’esempio della collana: l’oro è lontano nelle varie fasi di lavorazione? Quale fase è più vicina all’oro?

    Perciò Uḍḍālaka chiamò Tat (Quello) la Realtà che mai cambia, l’Esistenza infinita ed eterna. Mṛtyu insegnò la stessa verità a Naciketas:

    Ciò che sai essere differente da meriti e demeriti, dalla causa e dall’effetto, dal passato e dal futuro, chiamalo Quello (KU I.2.22).

    E Yājñavalkya a Maitreyī:

    Con cosa si potrebbe conoscere Quello per mezzo di cui si conosce tutto? (BU IV.5.15).

    Tat significa Sat: Realtà, Verità, Essere. Quindi Uḍḍālaka concluse:

    Questo Essere sottilissimo è ciò che fa esistere tutto questo. Esso deve essere inteso come l’Ātman. Quello è Sat, Quello è l’Ātman, Quello sei tu, o Śvetaketu (ChU VI.15.3).

    Sat è l’Essere in cui tu, io e il mondo, tutto diventa Pura Esistenza, Pura Coscienza, Pura Beatitudine e in Tat si vedono proiettate tutte le varie forme. Per trattare del Sat, che è eternamente unico e non duale, si usano parole diverse: Brahman, Ātman, Coscienza, Essere, Assoluto, Esistenza, Infinito, Beatitudine. A seconda del contesto vyāvahārika in cui ci si trova a trattare di Quello, s’usano tali termini. Tuttavia deve essere ben chiaro che questi non sono per nulla suoi attributi o sue caratteristiche. Non c’è alcuna relazione dharmi-dharma9 che possa qualificare Quello e, perciò, condizionarne la Realtà. Quei termini sono assolutamente sinonimi, assolutamente identici tra loro. Con tutti questi termini Quello soltanto appare.

    Anche tutto ciò che appare diverso dall’Ātman è ancora e sempre Sat, perché Sat non è scomparso, non si modifica. Anche se appare in forme mutevoli, l’oro è sempre lo stesso. È come correre su un tapis roulant; pare di muoversi, ma si rimane sempre allo stesso punto. Come l’attore che interpreta diversi personaggi, rimanendo in sé sempre lo stesso10. Perciò, qualsiasi forma prenda, il mondo non si è mai allontanato dall’immutabile Brahman. Azione, cambiamento, differenziazione, sono solo apparenze. Il Brahman è la verità del mondo, la realtà del mondo è Brahman; esso è il Sat e la Coscienza. Tutto questo mondo ha soltanto questa realtà che è solo il Sat, la Coscienza e la Verità. Non si deve pensare che ci sia un contenente e un contenuto. È come l’oro, che non sta dentro e la collana fuori. Perché nella collana c’è solo oro. Così si vede l’unica Pura Coscienza ed Esistenza in tutto il mondo, è la Realtà del mondo. È la stessa anche adesso, perché il tempo è un’apparenza nella Coscienza. Il tempo è una divisione artificiale nella Pura Coscienza. L’Esistenza non è divisa; lo spazio può sembrare diviso in forme grandi e piccole, ma ciò che è diviso non è realmente lo spazio. Lo spazio rimane indiviso, mentre gli oggetti che appaiono nello spazio sono divisi. Queste apparenze artificiali sono false nel senso che appaiono senza esistere in se stesse: esistono grazie all’esistenza del puro Sat. Esistono come coscienza, ma come oggetti solo appaiono. L’apparenza non ha esistenza, l’Esistenza è l’Ātman11. Questa è la ragione per cui il padre così spiega a Śvetaketu:

    Quello è Sat, Quello è l’Ātman, Quello sei tu, o Śvetaketu (ChU VI.15.3).

    Tutto questo (idam) ha l’Ātman-Pura Coscienza come sua esistenza. Ma dov’è questo Ātman? Questo ‘contenuto’, questa verità dell’intero universo non è in nessuna altra parte: sei tu. Sva Ātman, Quello è te stesso, Tattvamasi. Ciò significa che Quello di cui Uḍḍālaka ha parlato è esistente all’inizio del mondo. All’inizio non vuol dire un momento lontano nel passato, un inesistente inizio del tempo: all’inizio significa la realtà, la verità del mondo: Quello sei proprio tu. Perciò, “Śvetaketu, Tattvamasi. La verità dell’universo è la verità del tuo Sé. Tu sei la verità di tutto l’universo. Tu pensi di essere una parte dell’universo, un piccolo essere umano, che vive nel vasto mondo; ma quando ti distacchi dal tuo corpo, la mente e i sensi e li rigetti come non-sé; Quello che rimane come tuo vero ‘te’ (tvam) è il Sé interiore, (pratyātma) e allora tutto l’universo è quel Sé; tu sei e appari come tutto l’universo. Tutto l’universo sei tu. Perciò, Śvetaketu, Tattvamasi.”


    1. Dieci giovani dovevano attraversare un fiume dalla corrente travolgente. Uno di essi ebbe l’incarico di controllare che nessuno di loro sparisse travolto dalle acque. Una volta attraversato il fiume, quel giovane contò ripetutamente i suoi compagni, ma gli risultava sempre che erano solo nove. Era preoccupato per quel decimo che mancava e che poteva essere stato portato via dal fiume sotto il suo stesso sguardo. Gli si avvicinò un misterioso estraneo [il guru] che, comprendendo la sua preoccupazione, gli disse: «Ti sei dimenticato di contare te stesso: tu sei il decimo!». Questo apologo, che Śaṃkara usa spesso, mette in evidenza che l’uomo ordinario è attratto dagli oggetti esterni del mondo della veglia e trascura il proprio Sé interiore come se non esistesse. Se invece il maestro ti insegna a guardarti dentro al di là dell’‘io’ empirico, allora riconoscerai l’‘Io’ reale [il Sé], esattamente come fece Brahmā quando rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole: «Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu»” (G.G. Filippi, Il Serpente e la Corda, cit., II vol., p. 136).[]
    2. “La parola mondo (prapañca) significa qualcosa che è somma di altre cose e, allo stesso tempo, che è suddivisibile in esse. Nel mondo esterno percepito da tutti, esistono molti oggetti ciascuno dei quali è distinto e differente dagli altri, perciò l’uno è separato dall’altro. Il mondo è quindi davvero prapañca. Invece l’Ātman non può essere in alcun caso saprapañca, cioè intaccato da questo prapañca. È, infatti, eternamente prapañcopaśama, ossia non infettato dal prapañca.” D.K. Aśvamitra “Alcune precisazioni sul metodo dell’Advaita” II; https://vedavyasamandala.com/wp-content/uploads/Alcune-precisazioni-sul-Metodo-dell’Advaita-II.pdf.[]
    3. Spesso avviene che un discepolo, di fronte a un insegnamento che supera la sua capacità di comprensione, si arrocchi nella sua mediocre conoscenza in cui prova un certo senso di sicurezza. Il rifiuto di una conoscenza più alta è dimostrazione di scadenti qualifiche intellettuali.[]
    4. Ciò esclude definitivamente la teoria secondo cui può esistere qualcosa al di là del nome e della forma che al tempo stesso sia anche manifestato.[]
    5. Per questa ragione la Liberazione emerge unicamente riconoscendo che il binomio nāma-rūpa è illusione (māyā): “Come i fiumi, fluendo a valle, raggiungono il mare e diventano indifferenziati perdendo il loro nome e la forma, così il sapiente, libero da nome e forma, raggiunge l’autoluminoso Puruṣa che è superiore a ciò che è superiore” (Muṇḍaka Upaniṣad, III.2.8).[]
    6. Il numero cinque rappresenta le cinque percezioni corrispondenti ai cinque elementi, ai cinque karmendriya e ai cinque tanmātra. Se il numero cinque è moltiplicato per i cinque gruppi del Sāṃkhya, si ottengono i venticinque tattva, ovvero l’intero stato di manifestazione (vyakta) e di non-manifestazione (avyakta) dell’universo. Per questa ragione l’universo nella sua totalità è chiamato prapañca. Pur mantenendo il simbolismo del numero cinque e del suo quadrato, Śaṃkara contesta giustamente al Sāṃkhya l’incongruenza e disomogeneità del raggruppamento comprendente Prakṛti, Puruṣa, mahat, ahaṃkāra e manas (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I.4.10-12).[]
    7. Nella dottrina advitīya essere ed esistere sono la stessa cosa. Considerare il senso originale latino di esistere (ex-sistere), nel senso di stare fuori dall’Essere, è una prospettiva duale caratteristica delle vie del non-Supremo. In questo modo si dà una realtà, seppure talora definita relativa, alla dualità Essere come Divinità ed esistenza come sua creazione.[]
    8. Per questa somiglianza con la Pura Esistenza, lo spazio, è di consueto preso a simbolo dell’assoluto Brahman. Lo spazio, infatti, è senza limiti, è onnicomprensivo e onnipervadente. Però il simbolo non è mai identico al simboleggiato. Infatti ākāśa è esistenza infinita, ma non è coscienza. È sat, ma non è cit e tantomeno ānanda. La medesima considerazione vale per il prāṇa. Anche la forza vitale è spesso usata nella śruti per simboleggiare il Brahmātman. Anche prāṇa, infatti,è infinito, onnicomprensivo e onnipervadente, ma è privo di coscienza, è acit.[]
    9. Qualità-oggetto qualificato. Il fiore rosso è un oggetto: il fatto di essere rosso è una sua qualità. Il fiore è un oggetto che può essere di un altro colore e il rosso è una qualità che può qualificare un altro oggetto, come un rubino. Il fiore non è fiore perché è rosso. Il rosso non è la natura del fiore. Invece la natura dell’Ātman è Esistenza, l’Esistenza è Coscienza e la Coscienza è Beatitudine. Sono tutti sinonimi per indicare la sua unica vera natura. È l’individuo che li usa, quando parla di Quello, come se fossero denominazioni differenziate.[]
    10. Un attore di successo e ben pagato può interpretare sulla scena un indigente. La povertà del personaggio non inficia la ricchezza dell’attore che lo impersona.[]
    11. Questo argomento è esaustivamente spiegato in Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī, La luce della Realtà. Il metodo delle tre avasthā, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020, pp. 165-183.[]

    1. Qual è la causa dell’ignoranza?

      Maitreyī

      1. Qual è la causa dell’ignoranza?

      Questo studio si basa sul commento all’Adhyāsa Bhāṣya di Śaṃkara scritto da Pūjya Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī e insegnato e approfondito da Svāmī Prakāśānandendra Mahārāja. Ci si può chiedere perché qui non si tratti di ajñāna o di avidyā, che sono i termini più correnti per intendere l’ignoranza. Le ragioni sono due: anzitutto l’individuo nella sua vita fa esperienza di adhyāsa, piuttosto che di ajñāna. Sperimenta infatti conoscenze errate (mithyā), fraintendimenti (bhrama), punti di vista sbagliati (viparīta darśana), piuttosto che ignoranza in quanto tale. La seconda ragione spiega la precedente considerazione, in quanto l’ignoranza assoluta non esiste affatto, essendo sinonimo di irrealtà. L’Adhyāsa Bhāṣya è un breve preambolo che Śaṃkara scrisse al suo Brahma Sūtra Bhāṣya. In esso il bhāṣyakāra ha voluto chiarire il tema della sovrapposizione (adhyāsa), senza la cui comprensione non è possibile la reale conoscenza ovvero la Liberazione (mokṣa). Questa introduzione al Sūtra Bhāṣya condensa l’intera dottrina advitīya ed è imprescindibile per iniziare il Vedānta vicāra.

      L’adhyāsa è la reciproca sovrapposizione tra Ātman e anātman e tra le loro rispettive proprietà (dharma), qualità (guṇa) o caratteristiche (lakṣana), che dir si voglia. A causa dell’adhyāsa non si riconosce l’Ātman come la Realtà del mondo e si prende il mondo come fosse la Realtà. Questo è chiamato aviveka, incapacità di identificare Ātman come Ātman e anātman come anātman. È la situazione in cui si ritrova l’uomo comune negli stati di veglia e di sogno. Da qui incomincia il Vedānta vicāra. A questo punto iniziale è opportuno distinguere fra il dharmi, ossia quello che possiede la proprietà, e dharma la proprietà stessa. In questo contesto Ātman e anātman sono considerati dharmi, quindi lo scambio fra Ātman e anātman comporta anche lo scambio delle loro proprietà. Cioè si prende l’un per l’altro, a causa dell’incapacità di capire, vale a dire per l’assenza di comprensione che la Coscienza è solo proprietà di Ātman e mai dell’anātman. Così le qualità dell’anātman, che sono transitorie e mutevoli, sono attribuite ad Ātman. Essendo l’anātman oggetto della Coscienza, io ritengo me stesso oggetto della Coscienza, per cui dico: «Io sono così e così». Questo è l’errore dello scambio delle proprietà, perché l’Ātman è immutabile, ma io mi considero soggetto a cambiamento. Il corpo, la mente e l’intelletto cambiano e ci si considera soggetti alla morte. Ma l’Ātman non è soggetto alla morte, perché la Coscienza è immutabile (kūṭasta). È il corpo che è soggetto a cambiamento e a morte; ciò significa che le qualità del corpo vengono attribuite ad Ātman. Quindi, ritenendosi soggetti a nascita e a cambiamento (vikāritvam), la paura della morte è naturalmente presente in tutti. Quando l’Ātman è soggetto e anātman è l’oggetto c’è oggettività (viṣayītvam). L’anātman è dipendente, mentre l’Ātman esiste indipendentemente, cioè di per sé: questo è Realtà (satyatvam). Anche se l’Ātman è la mia stessa esistenza, mi pare di lottare per esistere; e, come individuo, lotto per mantenere la mia esistenza, in quanto penso di poterla perdere. Questa insicurezza comporta la paura di perdere la propria esistenza considerata soltanto come la propria individualità. Questa valutazione, che in realtà è solo un atteggiamento mentale, un pensiero, attribuisce la natura dell’anātman ad Ātman.

      Ātman è libero da piacere (sukha) e dolore (duḥkha) che nascono dalle relazioni mondane. L’Ātman non dipende dalle relazioni del mondo esteriore. È indipendente e beato di per sé. Invece io, come individuo, sono continuamente soggetto a piacere e dolore. Pur essendo indifferenziato (nirāśatvam), cioè di un’unica natura, credo di avere corpo, mente, prāṇa, come se in me ci fossero molte parti ed elementi. Talvolta sono il vedente, talaltra l’udente, a seconda se sono associato agli occhi o agli orecchi. Talvolta sono affamato, talaltra ho problemi fisici, mentali e intellettuali. Perciò nella stessa personalità ci sono tutte queste esperienze, come se nel medesimo individuo ci fossero varie personalità: questo è frammentazione (saṃśatvam), cioè la molteplicità sovrapposta sull’Ātman, che per sua natura è privo si parti. A questo punto Śaṃkara afferma che la mancanza di discriminazione (aviveka) è nimittam, che l’assenza di discriminazione (viveka abhava) è nimittam per l’adhyāsa. Perché avviene l’adhyāsa? Semplicemente perché avviene. Bisogna ora capire esattamente cosa il bhāṣyakāra intenda con nimittam, perché l’uso di questo termine ha dato luogo a molte e diverse interpretazioni. Per spiegarlo, Satcidānandendra Svāmījī qui cita un’argomentazione tratta da un altro testo. Svāmījī ogni volta che trovava un’affermazione di Śaṃkara, che fosse ritenuta non molto chiara, cercava argomentazioni simili in altre opere śaṃkariane. Innanzi tutto afferma che l’adhyāsa è svābhāvika1 e, quindi, affermando così, non c’è alcuna necessità di invocare una causa. Ciò che è svābhāvika non ha alcuna causa (akāraṇa). Se fosse prodotta e avesse un legame di tempo, allora si potrebbe supporre un kāraṇa. Invece non è un prodotto che arriva a un certo momento, come fosse un effetto. La causalità non può prescindere dal tempo. Infatti causa-effetto sono sempre in successione temporale. Causa-effetto è una delle relazioni che caratterizzano il vyavahāra. Fuori del vyavahāra non esiste alcuna causa né alcun effetto.

      Vi è un’altra ragione che obbliga ad accettare che causa ed effetto devono stare in sequenza temporale. Tale ragione può essere descritta così: se la causa e l’effetto apparissero in simultaneità sarebbe impossibile metterli tra loro in relazione in modo da distinguere quale sarebbe la causa e quale l’effetto, esattamente come non si può stabilire una sequenza temporale tra le due corna di una vacca, dato che esse crescono contemporaneamente” (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya, IV.16).

      Ciò dimostra che anche la sequenza logica si sviluppa nel tempo, essendo il pensiero logico dipendente dalla condizione temporale. Perciò l’idea di una “simultaneità logica” è un semplice sofisma. Essendo l’adhyāsa naturale, non c’è problema di causa. Tuttavia, Śaṃkara aggiunge il termine tecnico nimittam, che solitamente significa base, ragione, causa. Per spiegarlo, Pūjya Svāmī Satcidānandendra Sarasvatījī si rifà al XIII capitolo del Bhagavad Gītā Bhāṣya, dove con Kṣetrajña, il soggetto, s’intende Ātman e con kṣetra, l’oggetto, anātman.

      L’associazione del campo (kṣetra) e del Conoscitore del campo (Kṣetrajña), rispettivamente oggetto e soggetto di opposta natura, avviene per la reciproca sovrapposizione loro e delle loro proprietà, in ragione dell’assenza di discriminazione tra le nature dello kṣetra e dello Kṣetrajña. È esattamente come l’associazione della corda e della madreperla con il serpente e l’argento loro sovrapposti, dovuta all’assenza di discriminazione fra essi. L’associazione dello kṣetra e dello Kṣetrajña in quanto sovrapposizione è definita falsa conoscenza. Avendo discriminato in base alla scrittura le proprietà dello kṣetra e dello Kṣetrajña e avendo separato lo Kṣetrajña dallo kṣetra, nel modo sopra descritto, ossia come si spezza un germoglio dalla pianta di muñja, colui che si rende conto che ciò che si deve conoscere è identico a Brahman, secondo quanto detto “Quello non è detto né essere né non essere”2 privo di tutte le aggiunte limitative, costui, che ha la piena consapevolezza che il campo è certamente irreale quanto l’elefante creato dall’illusionista, quanto qualcosa visto in sogno, quanto la fatamorgana vista in cielo ecc., sebbene appaia reale, per lui la falsa conoscenza è scomparsa in quanto opposta alla vera conoscenza summenzionata. (BhGŚBh XIII.26).

      Nel suo Adhyāsa Bhāṣya Śaṃkara aggiunge:

      È un fatto certo che oggetto e soggetto, corrispondenti al concetto di ‘tu’ e di ‘noi’, sono per natura opposti tra loro come la luce e l’oscurità; perciò, logicamente non potendoci essere tra loro alcuna identità, ne consegue che nemmeno i loro attributi ne possano avere. (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, Adhyāsa Bhāṣya, Upodghāta).

      Lo scambio delle loro identità e delle loro proprietà è definito adhyāsa lakṣana saṃyoga (connessione caratteristica dell’adhyāsa): ovvero la relazione in forma di adhyāsa. Ma, in realtà, non è una vera relazione: è l’adhyāsa chiamato con altro nome. Questo adhyāsa è dovuto alla mancanza di discriminazione (viveka abhava nibandhanaḥ) e alla situazione di non discriminazione (aviveka nimittam): è esattamente come accade nella situazione in cui la corda è presa per il serpente. Quando vediamo la corda come serpente c’è viveka abhava, non c’è la discriminazione che separi il serpente dalla corda. In questa situazione si prende la corda per il serpente. Questo è un esempio (dṛṣṭāntam) di nimittam. Alcuni dicono che l’adhyāsa richiede una causa efficiente (nimitta kāraṇam) e anche una causa materiale (upādāna kāraṇam). Ma in questo contesto Śaṃkara afferma che non c’è nessuna causa, pur usando il termine di aviveka nimittam. Allora, in che senso si deve intendere questo nimittam? Lo si deve prendere come un nimitta kāraṇam o un upādāna kāraṇam? Secondo Svāmī Satcidānandendra non è né l’uno né l’altro. I post śaṃkariani lo interpretano come causa materiale (upādāna kāraṇam), cioè che a causa di questa nimitta kāraṇa avviene l’adhyāsa, come se fosse un accadimento. Svāmījī lo nega sulla base dell’anubhava, della yukti (logica) e del Bhāṣya, perché Śaṃkara, nel commento alla Gītā, attribuisce chiaramente l’adhyāsa all’assenza di viveka. Quindi il fattore è l’assenza di discriminazione. Ma quest’ultima è un fattore causale? Aviveka nibandhanaḥ o viveka abhava possono essere causa efficiente (nimitta kāraṇam)? Per rispondere, lo Svāmījī fa riferimento a un altro esempio. Prendere la corda per un serpente o la madreperla per argento è forse dovuto a un qualche fattore? L’unica risposta è viveka abhava. Ma con ciò si vuole forse intendere che prima c’era una mancanza di discriminazione e che in seguito accade l’adhyāsa? In questi esempi è chiaro che le due cose sono simultanee. Questa mancanza di discriminazione è nimittam. Nimittam significa dunque la condizione, la situazione, la circostanza, in cui si trova l’adhyāsa. Dove c’è adhyāsa c’è viveka abhava. Non c’è successione di tempo per cui prima c’è viveka abhava e poi l’adhyāsa, perché il tempo stesso è nell’adhyāsa e, nell’adhyāsa si è completamente confusi. Questo è il senso.

      Ātman e anātman sono completamente separati per natura come l’oscurità e la luce, perciò non possono nemmeno stare vicini. La loro coesistenza è impossibile. Com’è, dunque, possibile lo scambio delle loro nature e delle loro qualità? Le qualità di Ātman rimangono sempre in Ātman e quelle di anātman in anātman. Tuttavia, pur essendo totalmente separate, in mancanza di una chiara discriminazione e comprensione, c’è adhyāsa. L’assenza di discriminazione (viveka abhava) non è la causa di adhyāsa, ma si trova quando c’è adhyāsa. Inoltre la mancanza di discriminazione mantiene l’adhyāsa e permette all’adhyāsa di continuare. Alcuni dicono che si scambia la corda per un serpente quando non c’è luce sufficiente per discriminare. Quindi, la mancanza di discriminazione, poiché produce il tempo, permette di continuare in quella confusione, cioè prolunga l’errore. Ma questa stessa mancanza di discriminazione non è uno stato che precede l’adhyāsa, perché non è nel tempo, in quanto il concetto di passato, presente e futuro, l’esperienza di tempo e di spazio sono dovuti all’adhyāsa. È solo nell’adhyāsa che esiste l’anātman, come pure la dualità tra soggetto e oggetto. Queste relazioni sono solo nel nostro pensiero, mentre nell’anubhava sono uno. È la mente che fa questa divisione. Perciò non si può dire che prima dell’adhyāsa ci fosse mancanza di discriminazione, non esistendo il problema del ‘prima’. Se il tempo è un pensiero della mente, e la mente e l’intero mondo sono adhyāsa, come potrebbe il tempo esistere prima dell’adhyāsa? Nell’esperienza del Sākṣin, che è libero da adhyāsa, non c’è il tempo, non c’è alcuna sequenza. L’esperienza della sequenza è nell’adhyāsa. Quindi viveka abhava mantiene l’adhyāsa, non ne è la causa. Allora in che senso si dice che viveka abhava è nimittam? In realtà, adhyāsa e viveka abhava non sono due cose. Quando c’è erronea conoscenza c’è mancanza di discriminazione. E viceversa, quando c’è mancanza di discriminazione c’è conoscenza erronea: sono la stessa cosa. È solo un modo diverso di spiegarle. Se si va a casa d’un amico e la moglie dice che è uscito, è inutile chiederle «Dunque non è a casa?». Se è andato via, come potrebbe essere a casa? È una domanda inutile. Che sia andato via vuol dire che non è a casa; se non è a casa, vuol dire che è andato via. Non si può dire cosa viene prima, se l’essere andato via o il non essere a casa, perché sono simultanee. La differenza sta solo nel modo di esporre. Quindi, mancanza di discriminazione è un modo per dire sovrapposizione. Śaṃkara, in questo senso, afferma che c’è adhyāsa ‘a causa’ della mancanza di discriminazione (viveka abhava nibandhanaḥ). Da questa affermazione alcuni post-śaṃkariani hanno immaginato che l’adhyāsa insorga a causa di un qualche fattore. Cioè lo definiscono un evento che avviene in un certo momento. E prima che avvenga c’è una causa, un fattore chiamato mūlāvidyā3. Considerano quest’ultima una sostanza positiva, un bhava rūpa. Invece noi diciamo che se qualcuno non capisce: «Non sa». Si può anche dire: «Sbaglia perché non sa»; ma, in definitiva, entrambe le forme denunciano un fraintendimento. Con questo s’intende che se non ci fosse la mancanza di discriminazione, non ci sarebbe fraintendimento. Quando invece si capisce chiaramente la distinzione tra Ātman e anātman non c’è motivo di adhyāsa. Ciò conferma che il problema della relazione causa-effetto non esiste. Non c’è una preparazione al fraintendimento, non è un evento creato da qualcosa: nell’errore ci si trova. Finché sei nell’errore, non sai che quello è un errore. Il solo modo di capire l’adhyāsa è confutandolo e la confutazione del fraintendimento è la liberazione dal saṃsāra. Te ne liberi come quando esci dal sogno. Puoi cominciare a dubitare di essere in errore quando un qualche evento contraddice ciò che pensi. Allora puoi pensare: «O la mia conoscenza era errata o quello che la contraddice è sbagliato.» Da questa considerazione si sono sviluppate molte correnti di pensiero sulla conoscenza (jñānam) e sull’errore (viparīta jñānam). Il Viśiṣṭādvaita, il Nyāya, il Vaiśeṣika discutono sul concetto di errore. Tuttavia, si può parlare di errore essendo nell’errore? Come si distingue la vera conoscenza da quella falsa? Il punto di vista advitīya è che durante l’erronea conoscenza non si può conoscere, ma si può discriminare. E quando capisci l’errore ne sei fuori. Solo dopo averlo corretto, conosci la Realtà.

      Qual è quindi la causa dell’adhyāsa? La mancanza di discriminazione. Nell’errore c’è una visione sbagliata o è il punto di vista sbagliato che ti induce all’errore? Questi, in realtà, sono solo due modi per dire la stessa cosa. Quindi viveka abhava è la condizione, la situazione, dove c’è sempre adhyāsa. Finché non discrimini e non indaghi, continui a prendere le cose per certe. Finché c’è viveka abhava c’è adhyāsa e quando c’è adhyāsa c’è vyavahāra. Se ci si chiede quali sono la causa e l’effetto dell’adhyāsa, la risposta è “la mancanza di discriminazione”. Ma non è una causa, non è un fattore causante è una condizione, una situazione. La differenza fra causa (kāraṇa) e condizione (nimittam) è la seguente: la causa è una condizione precedente, qualcosa che dovrebbe esistere prima dell’esistenza dell’adhyāsa. Invece nimittam, non è un fattore causale, è simultaneo, è la situazione in cui si trova adhyāsa. Quindi il bhāṣyakāra non parla di causa, ma di nimittam.

      Qual è l’effetto dell’adhyāsa? L’effetto è il vyavahāra, il mondo delle relazioni. Ma tra adhyāsa e vyavahāra c’è un’interruzione di tempo? Quanti giorni dopo l’adhyāsa comincia il vyavahāra? Quando confondo l’anātman con l’Ātman, dopo quanto tempo da questo errore inizia il vyavahāra? Non c’è alcuna sequenza temporale, c’è simultaneità. Infatti, quando c’è adhyāsa, simultaneamente c’è vyavahāra. Simultaneamente ci sono tutti: viveka abhava, adhyāsa nimittam, adhyāsa e vyavahāra. Tutti sono solo uno. Invece i post-śaṃkariani ne fanno cose diverse, aggiungendovi anche la sequenza temporale. Così la loro dottrina è diventata molto complicata e hanno dovuto sostenerla con la logica. Un sofista può far passare il ladro per poliziotto e il poliziotto per ladro. Che senso ha dire che l’adhyāsa genera il vyavahāra? Il vyavahāra è adhyāsa. Quindi il vyavahāra non è reale, ma è dovuto all’adhyāsa.

      Il guru, a questo punto, aggiunge:

      I non advaitin dicono che essendo l’adhyasa sādi (con inizio), non può essere la causa del saṃsāra, perché questo è anādi (senza inizio). Per il Vedānta l’adhyāsa è bhrānti, è errore. L’errore consiste nel sostenere che c’è il saṃsāra. Il saṃsāra non è uno stato, non è qualcosa, è solo il tuo pensiero errato. È una percezione errata di te stesso. La tua vera natura è sempre libera e non è soggetta al saṃsāra. Il saṃsāra è dovuto a bhrānti e quindi l’adhyāsa è bhrānti e bhrānti è l’adhyāsa; sono sinonimi. Il saṃsāra non è un oggetto, è anartha, non è veramente lì. Tu stai solo percependo erroneamente il saṃsāra in te, mentre in realtà ne sei libero. I non advaitin affermano che c’è il saṃsāra e che esso ha una causa. Ma, siccome l’adhyāsa non può esserne la causa, ci deve essere qualcos’altro di sostanziale. Per loro il saṃsāra è qualcosa di realmente esistente, quindi lo si deve rimuovere realmente. Questo è l’errore di fondo. Invece il saṃsāra non è qualcosa di reale, quancosa che si deve distruggere: è solo un punto di vista sbagliato, è una percezione erronea, per cui tu, pur essendo libero, ti consideri coinvolto nel saṃsāra. Si deve solo spostare l’attenzione verso la propria vera natura e, capendo di essere sempre libero, l’errore scompare. L’oppositore si chiede: «Come può essere l’adhyāsa la causa del saṃsāra?» Che cosa vuole intendere? Anzitutto la sua comprensione del saṃsāra è sbagliata, perché lo rende reale, lo rende un accadimento, qualcosa di esistente da rimuovere. Questo è l’errore. Il Vedānta dice che il jñāna è solo correggere il punto di vista errato. Perché la giusta percezione richiede un giusto punto di vista. Questa è conoscenza. Il saṃsāra non è reale, è unicamente errore (bhrānti mātram). Allora, il saṃsāra a cosa è dovuto? Tu stai cercando una causa per esso. Perché ne cerchi una causa? La ricerca stessa della causa implica che pensi che c’è qualcosa di reale. Noi diciamo che non si deve cercare la causa, perché causa ed effetto sono nell’errore. Lo stesso pensiero che ci sia una causa, il pensiero di causa-effetto, è un errore. Quindi cercare la causa significa essere al livello in cui si considera il saṃsāra reale. Invece noi diciamo che causa ed effetto sono tutti e due nella percezione sbagliata. Quando diciamo che ogni cosa è adhyāsa chiediamo di guardare tutto il cosmo, compresa la propria individualità, vale a dire tutta l’avasthā. Quando cerchi la causa non stai guardando il mondo come un unico stato, sei dentro allo stato e cerchi una parte che sia la causa di un’altra parte. Quindi è un punto di vista limitato. Nello stato, il saṃsāra appare all’individuo senza inizio e ciò è del tutto erroneo. Che ci sia una causa che si possa rimuovere per cui il saṃsāra sparisca, tutto questo è proprio saṃsāra. Se cerchi la causa significa che sei ancora nel dominio delle relazioni. Invece, quando si considera l’intera avasthā, le relazioni tempo-spazio, causa-effetto, soggetto-oggetto, sono tutte percezioni erronee. Parliamo dell’intero cosmo che deve includere anche l’individualità, il corpo, i sensi, la mente ecc.; solo allora si ha la visione unitaria dell’avasthā. Fare del saṃsāra un evento, un accadimento, una realtà, e cercarne la causa è un comportamento da scienziato. La ricerca della causa-effetto non risolve il problema. La natura dell’errore non richiede una causa, cercare la causa è parte dell’errore, e tu sei parte dell’errore. Tu sei nell’effetto cercando una causa, ma proprio questo stato di relazione è bhrānti. Cercare la causa dell’errore significa essere nell’errore e non uscire dall’errore. Non si è mai vista una bhrānti causata da una particolare cosa e che segua una regola, perché l’errore non può essere costruito logicamente. Non si può preparare logicamente un errore, perché se stai cercando coscientemente non può essere un errore. È come voler andare in sonno profondo con la coscienza di veglia. È come cercare di vedere l’oscurità con una torcia. Ha senso questo? Nessuno ha mai visto che bhrānti segua una qualche logica, una regola, e che l’errore avvenga a causa di una certa cosa. L’errore non avviene, non è un accadimento dovuto a specifiche ragioni. Per ragione s’intende una causa logica. Che logica trovi nell’errore? È assenza di logica. Se sei davvero logico, non puoi essere in errore. Nell’errore semplicemente ti ritrovi. Il problema non è se l’adhyāsa ha un inizio (sādi) o se è senza inizio (anādi), e nemmeno se è logico o illogico. L’errore sta proprio nel fatto che tu pensi che ci sia il saṃsāra. Quindi, ti consideri un individuo nel mondo, un saṃsāri soggetto a nascita e morte. Tutto questo è una erronea percezione. Alcuni sostengono che l’errore ha un inizio, altri che è senza inizio. Entrambi questi punti di vista presuppongono l’esperienza del saṃsāra, che è, invece, una percezione erronea. Tu, in realtà, sei libero dal saṃsāra. Quindi si chiedono come inizi questa erronea percezione. Ma quando la dichiaro erronea percezione io chiedo semplicemente di correggere il punto di vista. Quando si guarda dalla giusta angolatura, l’errore scompare. La correzione dell’errore comporta la scomparsa del saṃsāra. Bhrānti o adhyāsa è un metodo d’insegnamento (prakriyā); e dicendoti che è un fraintendimento ti indico di non prenderlo sul serio né di porti domande sulla sua causa, perché in realtà non c’è. È come l’esempio del serpente. La gente è spaventata dal serpente e si chiede com’è venuto, come si possa distruggerlo, ucciderlo. Ma il serpente è solo la tua illusione. Non è mai venuto e perciò non lo devi uccidere. Se dico che è solo un’illusione, e mi chiedi: «Ma com’è iniziata questa illusione, chi l’ha fatta, quale ne è la causa?», vuol dire che non mi stai ascoltando. Stai usando la mia risposta per continuare nel tuo pensiero erroneo. Quindi fai dell’illusione un’entità. Invece, il mio insegnamento serve per uscire dall’illusione; io dico che è un’illusione e che ne puoi uscire. Questo è quanto. Quando dico che è un’illusione voglio dire che devi guardare nel modo giusto e il serpente non c’è. Quindi non prendere per certo il serpente. Non cercare la causa per cui il serpente è arrivato, perché il serpente non c’è. Se correggi la tua attenzione, il serpente non c’è. Per questo l’insegnamento vedāntico richiede il guru e lo śāstra, perché ti fanno capire come devi guardare. Io sto demolendo la tua convinzione dell’esistenza del serpente e quando lo fai il serpente sparisce, la convinzione sparisce e il serpente non c’è. Altrimenti perdi l’insegnamento del guru. Se la mente s’intestardisce nella sua convinzione, l’insegnamento del guru è vano. Si richiede dunque una grande pazienza e un ascolto teso alla comprensione, perché se ti limiti ad ascoltare e a leggere libri, diventerai solo un teorico del Vedānta. Come s’è detto, la convinzione stessa è adhyāsa, perché la mente che ha queste convinzioni le prende per certe. Non devi prestare fede, prenderle per certe, ma metterle in discussione, se vuoi il jñāna. Il Vedānta dice che è solo una tua presunzione che ci sia il saṃsāra, che tu sia un individuo soggetto a nascita e morte, che ci sia un mondo. Il Vedānta dice: «Ma questo (idam) sei veramente tu? C’è davvero il saṃsāra?» Quindi non chiederti perché c’è il saṃsāra, chiediti invece se c’è. Se invece ti basi su questa tua presunzione e continui così, non risolverai il problema e il saṃsāra non scomparirà. Non chiedere al guru perché c’è il saṃsāra. Perché il guru ti risponderà che il saṃsāra non c’è, che è una illusione. Il discepolo allora pensa che il guru stia sfuggendo alla risposta. Ma questo significa che quel discepolo non ascolta il guru e che egli stesso è il suo problema. Quando ti metti in discussione puoi scoprirti libero. Questo è il Vedānta che ricevi solo dallo śāstra e dal guru. Tu pensi di essere un individuo: invece devi capire che anche ora sei come sei in sonno profondo, libero dall’individualità. Quella è la tua vera natura. Anche ora sei così e anche ora sei eternamente libero. Non c’è mai stata mente né individuo, sei Pura Coscienza. Sei libero da tutto ciò che è relativo, sei auto esistente. Il problema è che hai perduto questa certezza e istintivamente ti ritrovi individuo nel mondo. Questa condizione è senza scelta. Tu sei un jīva senza possibilità di scelta. Senza scelta sei nel saṃsāra. Essere individuo nel mondo della dualità non è una tua scelta cosciente, non è un pensiero cosciente: ti ritrovi in questo pensiero, che è svābhāvika adhyāsa (lo stato di ignoranza in cui si nasce). È un adhyāsa, una bhrānti naturale. Che tu abbia gli occhi con cui vedere è naturale, che con i sensi tu percepisca il mondo è naturale. Ma non li hai ottenuti coscientemente, volontariamente; ti ci ritrovi come individuo. È una presunzione, non è un evento. Non è che l’individuo presuma: l’individualità stessa è una presunzione. Tu ti ritrovi in questa presunzione, con questa convinzione. Ed essendo un individuo vai alla ricerca di una causa. Ma cercare la causa è parte di questo svābhāvika adhyāsa, del saṃsāra. La risposta vedāntica è che questa presunzione è illusoria. E non si è nell’errore coscientemente, perché se si è coscienti si sa che è un errore. Ritrovandosi individuo dai per scontato che ci siano corpo, sentimenti, pensieri; tutto questo è naturale, spontaneo, innato. Essendo in questa presunzione parli di compiere azioni, karma, karma phala, puṇya e pāpa, parli di questo mondo, di altri mondi, della rinascita, tutto in base alla stessa presunzione. Con lo sforzo non puoi rimuovere questa presunzione, perché lo stesso sforzo è karma, e karma, kartā e bhoktā fanno tutti parte di questa presunzione. Compi karma in quanto jīva, quindi la soluzione non la puoi trovare nel karma, perché karma vuole dire sforzo e volontà. Anche usare la volontà è una convinzione è un adhyāsa, è bhrānti. Facendo qualcosa, come puoi rimuovere l’adhyāsa? Tu come kartā ti trovi in questa convinzione, agisci e, agendo, continui a ritrovarti in questa convinzione, cioè nell’adhyāsa. I karma phala presuppongono l’adhyāsa: puṇya e pāpa sono nell’adhyāsa. Tutto ciò avviene nell’adhyāsa. E tu, invece, ti chiedi qual è a causa dell’adhyāsa, ti interroghi su chi l’ha creato. Ma questo è un metodo (prakriyā) errato. Śaṃkara dice che tutte queste cose le ritrovi nella tua convinzione. Non continuare a porti problemi inutili e senza soluzione. Eccetto il jñāna, tutto il resto è nell’adhyāsa. Cos’è il jñāna? Mettere in dubbio la convinzione con cui si nasce. Ci sono due possibilità: continuare in questa presunzione innata di essere un individuo con percezioni empiriche, meriti e demeriti, poteri yogici e bhakta, esperienze interiori. L’altra possibilità è mettere in discussione la certezza di questa presunzione. Questo è jñāna, è tattva vicāra, è l’indagine sul Sé. Si deve osservare se stessi come insegna il Vedānta, considerando le tre avasthā, guardandole dalla giusta angolatura e vedere come ogni avasthā si cancelli mutuamente. Alla fine sarai libero dalle tre avasthā. Quindi l’indagine sul Sé è tattva vicāra, e la presunzione erronea non esiste nel tuo anubhava, che è un livello di esperienza più profonda, un’esistenza più profonda, in cui individualità, mondo, relazioni, dualità non esistono. Lì sei naturalmente libero, sei Brahman senza scelta, come senza scelta eri un jīva nel livello dell’apparenza. Quindi nessuno agisce, nessuno fa uno sforzo per essere un jīva o per essere Brahman. Entrambi non richiedono una scelta, una volontà: per questo diciamo che il primo è svābhāvika adhyāsa (l’ignoranza propria della natura individuale) e il secondo, il Brahmatvam, è svarūpikā tattva (la Realtà della propria natura assoluta). Questo è il vero Advaita Vedānta! Quando capisci questa verità, tu sei il Brahman, tu sei il Vedānta e qualsiasi cosa tu dica è Vedānta.

      1. Con svabhava si intende lo stato naturale nel quale si nasce come individuo. Si deve distinguere questo termine da quello apparentemente simile di svarūpa, che invece si riferisce alla propria vera natura di Ātman, di Assoluto.[]
      2. BhG XIII.12.[]
      3. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā. Avidyā Śaṃkara Siddhānta, Milano, Ekatos, 2020.[]