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Alcune precisazioni sul Metodo dell’Advaita I

    Alcune precisazioni sul Metodo dell’Advaita I

    In questa sede il lettore ha già avuto modo di essere informato sui punti più importanti della dottrina advitīya e del metodo diretto (sākṣāt sādhana) insegnato dai vedānti guru affinché il discepolo (śiṣya) possa conoscere realmente l’identità tra l’Ātman e il Principio assoluto, il Brahman. Questo breve contributo è stato scritto per chiarire alcuni dei punti meno facilmente accessibili alla ragione umana: punti estremamente difficili da assimilare e da accettare a causa dell’ignoranza presente nell’individualità fin dalla nascita, nonché per le abitudini sedimentate in essa dalla mentalità corrente. In verità, si tratta d’insegnamenti estremamente semplici ed evidenti per loro stessa natura, esposti in forma piana, che però appaiono difficili per la resistenza opposta dalla mente alla loro assimilazione. Dobbiamo dare per scontato che chi si sta accostando a questa esposizione sia a conoscenza dei dati qui elencati: A) Nei testi vedāntici Ātman è chiamato Brahman, “Grande”, cioè l’Essere di cui i singoli esseri manifestati sono soltanto proiezioni illusorie, come l’immagine unica che si riflette in forma apparentemente molteplice in ogni frammento di uno specchio frantumato. Esso è l’unico realmente esistente. B) L’Ātman di tutti gli esseri è soltanto uno e non duale. C) Con il termine di Brahmātmānubhava s’intende l’esperienza intuitiva dell’assoluto che culmina con il mokṣa, vale a dire con la conoscenza che il Brahman non duale, della natura essenziale di Essere (Satya svarūpa), eternamente Puro (nityaśas Śuddha), Cosciente (Buddha) e Libero (Mukta), è l’Ātman di tutti noi. D) Le Upaniṣad sono l’ultimo e più elevato valido mezzo di conoscenza (antyapramāṇa) del Brahmātmānubhava, a cui si ricorre per indagare laddove l’intelletto non ha accesso. E) La śruti indica l’Assoluto ai suoi cercatori tramandando il metodo intuitivo (sākṣāt sādhana) attraverso la catena iniziatica (guruśisyaparaṃparā) d’immemorabile origine non umana (anādi apauruṣeya bhava), sostenuto anche da argomentazioni logiche (tarka vicāra), purché in armonia con la discriminazione intuitiva (viveka). F) Questo metodo, invece di basarsi su pratiche che concernono la particolare individualità del cercatore, consiste nell’esperienza intuitiva universale1 (sarvānubhava), ossia nella presa di coscienza del mondo, contemplato come una totalità unica, al di là delle distinzioni tra i singoli oggetti che la compongono. In questo contesto la parola anubhava si riferisce a quella esperienza intuitiva universale, trascendendo le esperienze empiriche prodotte dalle singole e numerose percezioni sensoriali e modificazioni mentali quali sono le emozioni, i sentimenti, i pensieri e le intellezioni. Questo tipo di esperienza intuitiva è anche detta sākṣānubhava, cioè la pura e assoluta coscienza o esperienza intuitiva del Testimone. G) Il metodo vedāntico prescinde da ogni sforzo e da qualsiasi azione indirizzata al raggiungimento di un risultato di cui fruire. Anche se agisce a livello intellettuale2, questa azione (prājñakriyā) è una attenzione priva di qualsiasi risultato altro da Sé, per cui non è paragonabile ad alcun altro metodo (prakriyā) che è agito per ottenere uno scopo prefissato. Il metodo prakriyā, basato sull’azione di corpo, parola o mente (corrispondente a yantramantratantra), è paragonabile all’uso delle funzioni dei karmendriya e dei prāṇa. Al contrario il sākṣāt sādhana è paragonabile alle funzioni dei jñānedriya: per esempio, la vista non agisce né si sforza a osservare, ma semplicemente presta attenzione a un’evidenza. Con la differenza, però, che nel Vedānta l’evidenza non è altro da Sé.

    Acquisite queste nozioni, possiamo procedere a chiarire alcuni particolari di questa dottrina-metodo.

    Śaṃkarācārya Bhagavadpāda considera che solo gli insegnamenti della śruti sono il valido mezzo per l’intuizione di Ātman in quanto Brahman (Brahmātmānubhava). Prima di Śaṃkara alcuni vedāntin sostennero che con il solo insegnamento dei Grandi Detti upaniṣadici non si sarebbe mai potuto ottenere la realizzazione del Sé. Si sarebbe dovuto perciò ricorrere a metodi che usassero tre modalità individuali, vale a dire il corpo, la parola e la mente quali strumenti rituali di meditazione sui simboli che in sanscrito sono definiti yantramantra tantra. Questo abbassamento di livello della prospettiva iniziatica era dovuto al fatto che l’Induismo si era trovato oscurato per un lungo periodo dal dilagare in India di scuole che negavano l’esistenza di un principio assoluto (nāstikavāda), come alcune correnti estreme del Buddhismo, del Jainismo e il cārvakavāda. Queste dottrine furono combattute particolarmente dalla Pūrva Mīmāṃsā, che impresse una svolta ritualistica al Dharma, influenzando tutte le altre correnti brāhmaṇiche. Anche il Vedānta ne risentì, con l’abbinamento del metodo meditativo a quello conoscitivo. La pura dottrina metafisica dell’Induismo, il Vedānta, riprese poi forza con Gauḍapāda, guru di Śaṃkara. Tuttavia, certe tendenze devianti non sono mai state del tutto sradicate e, soprattutto in epoca moderna con la nascita di quello che si definisce neo-Vedānta vivekānandiano, sono riaffiorate e divulgate come fossero espressioni autenticamente tradizionali. Questa categoria di vedāntin sostiene che anche dopo aver acquisito la conoscenza tratta dalle scritture, evidentemente ridotta a mera teoria speculativa, è necessaria una pratica basata sulla meditazione di un simbolo che rappresenti il Brahman in modo formale. Secondo questa opinione, come nella musica si ottiene una maggiore padronanza esercitandosi sulle note, così con la ripetizione della pratica, la conoscenza metafisica dell’Ātman (Ātman sākṣātkāra), appresa dalle scritture, s’accrescerebbe realizzando progressivamente l’identificazione con il Brahman. Per sostenere questa argomentazione essi si rifanno al seguente passaggio della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad:

    “Dopo aver compreso la sola conoscenza (vijñāna) [teorica] egli dovrà raggiungere [effettivamente] l’esperienza intuitiva di quella conoscenza (prajñā).”3

    Così, hanno pensato erroneamente d’aver trovato un’autorevole supporto scritturale alla loro interpretazione, sostenendo che con vijñāna s’intende la conoscenza teorica, cioè il significato letterale, e con prajñā la conoscenza effettiva, cioè l’esperienza intuitiva. In tal modo suppongono che la śruti faccia una distinzione fra una conoscenza teorica delle scritture (vākyajñāna) e una conoscenza realizzata dell’Ātman. Certi vedāntin hanno perfino diffuso incautamente tra i sostenitori di scuole non vedāntiche, la convinzione che tra gli advaitin ci fossero opinioni diverse sulla conoscenza dell’Assoluto o che, comunque, l’ascolto (śravaṇa) non fosse sufficiente alla realizzazione ultima. Partendo da questo punto di vista errato, essi affermano che se il solo ascolto fosse sufficiente per raggiungere l’intuizione, allora tutti gli advaitin avrebbero dovuto essere dei liberati in vita (jīvan mukta). Quei vedāntin sono arrivati a sostenere che a questa obiezione si può trovare una risposta solo nella dottrina del Brahmansākṣātkāravāda, vale a dire l’opinione per cui l’esperienza intuitiva del Brahman sarebbe il risultato di una azione conoscitiva. Per ottenere risultati effettivi sarebbe allora necessario praticare ripetutamente la “conoscenza teorica” ottenuta con l’ascolto, coadiuvata da altre tecniche e pratiche meditative (prakriyā). Solo questa, secondo loro, sarebbe la soluzione soddisfacente per controbattere agli oppositori seguaci di altri darśana che criticano gli advaitin di perseguire solamente una conoscenza speculativa. Questi oppositori sono rappresentati soprattutto dai pātañjala yogi e dai tantrika che considerano i vedāntin in generale come fossero dei semplici teorici per il fatto che non sviluppano i poteri straordinari (siddhi). Dunque, questi vedāntin devianti, così affermando, di fatto danno ragione ai loro rivali, proponendo l’immissione nel metodo advitīya di yantramantra tantra, facendo ricorso alle tecniche (prakriyā) basate sull’azione tipiche degli yogin. Per la verità il metodo del Vedānta non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi d’una conoscenza metafisica teorica, speculativa o virtuale4 che, come tale, deve essere fatta risalire tutt’al più al periodo di preparazione pre-iniziatica dell’aspirante, periodo di informazione preliminare in base alla quale costui potrà essere stato stimolato a cercare un maestro advaitin. In realtà, śrāvaṇa non ha nulla di teorico, essendo un metodo efficacemente contemplativo.

    Perciò, nell’opera di Śaṃkara non c’è nulla che possa essere d’appoggio a queste idee. Anzi, vi si trova la chiara affermazione che il jñāna, cioè la conoscenza intuitiva di Ātman, può maturare senza alcuno sforzo o alcuna indagine conoscitiva, bensì con il solo ascolto della dottrina vedāntica. Come esempio Śaṃkarācārya nell’Upadeśa Sāhasrī s’appoggia all’apologo upaniṣadico5 che riassumiamo di seguito al fine di far comprendere l’argomentazione citata immediatamente di seguito: dieci giovani attraversano a guado un fiume. Il loro capo, giunto a riva per primo, si volge a contare i suoi compagni, ma per quanto ripeta il conteggio, gli risulta che essi, invece di essere dieci, sono nove. Egli si preoccupa, temendo che il decimo sia stato travolto dalla corrente, finché un “estraneo” benevolmente gli richiama l’attenzione sul fatto che lui stesso era il decimo. Nell’apprensione del controllo, si era dimenticato di includere nel conto anche se stesso.

    La frase “tu sei Quello” allude al Sé interiore, come nell’apologo conosciuto come “tu sei il decimo.”6
    Il giovane, la cui mente è stata ingannata dall’illusione del nove per il fatto di non aver tenuto conto di Sé per completare il numero dei dieci, doveva solamente conoscere se stesso.
    Come quello che non aveva consapevolezza di essere il decimo, colui il cui intelletto è fuorviato dal desiderio perché accecato dall’ignoranza, non riesce a vedere che il suo Sé è pura Coscienza, eternamente differente da qualsiasi altra cosa.
    Come accade a chi arriva a riconoscere se stesso come decimo semplicemente udendo le parole “tu sei il decimo”, così succede a colui che riesce a conoscere il suo proprio Sé come il Testimone dell’intelletto e delle sue modificazioni, semplicemente ascoltando il mahāvākya “tu sei Quello”7

    Śaṃkara porta ancora un esempio simile:

    È come quando Brahmā rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole “Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu”. Egli non fece riferimento ad alcuna azione che Rāma dovesse compiere per risvegliare la sua natura di Viṣṇu. A Rāma bastò soltanto ascoltare quelle parole.
    Allo stesso modo, senza che sia richiesto nient’altro che ascoltarla, la parola “tu” rivela il Sé interiore auto luminoso del mahāvākya “tu sei Quello” il cui “risultato” è la Liberazione.8

    La stessa opinione è espressa da Śaṃkara nel suo commentario alla Taittirīya Upaniṣad9. Anche nel commentario alla Muṇḍaka dice:

    L’intuizione del puro Sé avverrà proprio nello stesso istante della conoscenza che scaturisce dal significato della affermazione scritturale.

    Si considerino anche questi altri due versi dell’Upadesa Sahasri:

    Certamente il significato di una parola è richiamato alla mente quando è sottoposto alla prova della concordanza e discordanza (anvaya e vyatireka10). In questo modo si arriva a conoscere che si è il Sé privo di sofferenza e di attività.

    La più chiara fonte di conoscenza autorevole sul Sé è rappresentata da un mahāvākya, come per esempio “tu sei Quello”, che equivale a dire “tu sei il decimo”.11

    Anche Sūreśvarācārya12, spiegando questi versi ha confermato lo stesso insegnamento.

    Non dobbiamo aggiungere altro su colui che ottiene la realizzazione solo udendo la parola [del maestro].13

    Per questi iniziati supremamente qualificati (uttamādhikārin) un unico ascolto è sufficiente per riconoscere la propria natura assoluta, senza alcuna necessità di ripetizione dell’insegnamento.

    Nel Sūtra Bhāṣya14 Śaṃkara afferma che coloro che non possiedono qualifiche adeguate per raggiungere immediatamente la conoscenza intuitiva tramite l’ascolto (śrāvaṇa) del significato di un mahāvākya, per esempio il “Tat tvam asi”, dovranno dedicarsi a un approfondimento tramite la riflessione sulla śruti intesa come strumento di conoscenza (pramāṇa), finché la conoscenza dell’ultima Realtà non sia raggiunta. Ciò significa che gli iniziati mediamente qualificati (madhyamādhikārin) dovranno ricevere ripetuti insegnamenti da parte del guru sull’identità di Ātman e Brahman partendo da punti di vista continuamente diversi, in modo da evitare che l’auditore (śrotṛ) trasformi quanto appreso in un sistema mentale. Il discepolo dovrà in seguito riflettere su quanto gli è stato insegnato, dissipando poi i suoi dubbi ponendosi domande (o rivolgendole al guru) sui punti ancora oscuri del senso del mahāvākya, fase che corrisponde a manana. Infine dovrà passare dalla discussione logica all’attenzione intuitiva (nididhyāsana) per realizzare la conoscenza del Brahmātman.

    Fa parte d’una terza categoria chi ha bisogno che testi come “tu sei Quello” gli siano ripetuti molte volte per poter poi riflettere su di essi e, infine, comprenderne il significato.15

    Al fine di aiutare gli ascoltatori (śrotṛ) a intuire la Realtà non duale di Ātman, il guru insegna due procedimenti upaniṣadici per il vicāra: l’esame dei tre stati di Coscienza (avasthātraya mīmāṃsā) e la riflessione sulle categorie di causa ed effetto (kāryakāraṇabhāva ālocana). L’esame sui tre stati, si trova in tre Upaniṣad: nella Chāndogya, nella Bṛhadāraṇyaka e, soprattutto, nella Māṇḍūkya. Nella Chāndogya Upaniṣad16 allorché Prajāpati insegna il Vedānta a Indra, si indicano tre differenti “forme” di Ātman: la persona della veglia (akṣipuruṣa)17, la persona del sogno (svāpnapuruṣa), e il puruṣa del sonno profondo (suṣuptapuruṣa), vale a dire il Sākṣin. Quest’ultimo, in realtà, è l’Ātman in quanto tale, poiché è privo di qualsiasi corpo (aśarīri), mentre nei due stati di veglia e di sogno è apparentemente ricoperto (o sovrapposto) dal corpo grosso (sthūla śarīra) o dal corpo sottile (sūkṣma śarīra). Per capire questi concetti è opportuno ricorrere alla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad18 dove si afferma che, in stato di sogno, nell’Ātman non è presente la relazione che esiste nello stato di veglia tra gli strumenti d’azione e le loro azioni, cioè tra mente, sensi e le loro azioni dirette verso gli oggetti esterni19, ma la semplice relazione soggetto-oggetto. In svapna infatti, ci sono soltanto un soggetto spettatore (dṛś), l’Ātman, e un oggetto, lo spettacolo (dṛśya) della fantasmagoria onirica, rappresentato dalla mente e dalle sue modificazioni (vikāra). Inoltre, l’apparente trasferimento dalla veglia al sogno e viceversa, è stato paragonato al saṃsāra, cioè alla trasmigrazione dell’anima da una nascita a un’altra, mentre l’esperienza dello stato di suṣupti è stato raffrontato a mokṣa. A questo punto è necessario dare una chiara risposta alla seguente domanda: “Com’è che nel sonno profondo e nella mukti l’Ātman esiste puro e assoluto privo di qualsiasi corpo?” La difficoltà si presenta perché, in tutta apparenza, la Māṇḍūkya Upaniṣad lo nega espressamente:

    Turīya [il Quarto] non è cosciente del mondo interno né è cosciente del mondo esterno; e nemmeno è cosciente di questi due mondi messi insieme: e nemmeno è un insieme indifferenziato di coscienza (prajñānaghanam).20

    Affermando che Turīya è “non cosciente internamente, non cosciente esternamente” l’Upaniṣad ci rivela che ivi non esiste alcuna esperienza del sogno né della veglia; e, aggiungendo “nemmeno è un insieme indifferenziato di coscienza” nega anche qualsiasi possibilità di relazione del sonno profondo con Turīya, e in tal modo confuta l’esistenza di tutte e tre le avasthā. Si tratta di un quesito molto difficile da capire con la mente. Il VII mantra della medesima Upaniṣad si conclude con “sa Ātmā sa vijñeyaḥa”, vale a dire che Ātman può essere conosciuto solamente tramite esperienza intuitiva. Per il principiante è difficile capire cosa e come ciò debba essere inteso. Cercheremo ora di dare qualche lume.

    Per comprendere a fondo la Māṇḍūkya Upaniṣad dobbiamo rifarci a Gauḍapādācārya che ha composto le sue famose Kārikā, considerate talmente autorevoli da essere diventate da molti secoli parte integrante della śruti. Egli ha stabilito che nella veglia e nel sogno ci sono due relazioni del tipo causa-effetto, cioè ajñāna adhyāsa, conoscenza errata e sovrapposizione. Tuttavia, nel sonno profondo, pur sussistendo la limitazione della causa, nulla è conosciuto, cioè non vi è alcuna presenza di effetto. La mente dei jijñāsu può essere turbata dal seguente dubbio: “Come può essere che quando ritorniamo alla veglia, la mente della veglia non abbia registrato alcun ricordo di esperienza o conoscenza ottenuta in sonno profondo? In che cosa la mente falla?” Gauḍapāda afferma che quando tutte le forme di causa-effetto della falsa conoscenza (mithyā) sono rimosse, allora emerge la conoscenza di Turīya, il Quarto, il Brahman Supremo. Il problema di come si rimuovono queste conoscenze errate non può essere risolto con un procedimento ordinario. In un’altra Kārikā egli afferma che quando l’anima trasmigrante, che è ottenebrata a causa della Māyā, è illuminata dalla conoscenza, allora intuirà l’Ātman non duale che è ajaanidrā, e asvapna (senza nascita, senza sonno e senza sogno)21. Ci si potrà chiedere quando scompariranno questi tre stati di coscienza. Se tutti questi sono un’illusione, allora cos’è l’esperienza di risvegliarsi alla conoscenza di Turīya? Un’altra Kārikā stabilisce che quando, tramite l’insegnamento sulla realtà dell’Ātman, la volontà stessa è eliminata, allora la “mente”22 diventa “non-mente”, cioè è rimossa23. Come si può giustificare questa affermazione? Per capire che solo l’Ātman è reale la dualità deve per forza scomparire. La volontà (saṃkalpa) non è altro che il desiderio (kāma) che spinge la buddhi ad agire. Senza desiderio per raggiungere dei risultati piacevoli, l’azione non avrebbe luogo. Il desiderio costringe l’uomo a diventare un agente (kartṛ) al fine di ottenere la fruizione (bhoga) dei frutti dell’azione (kriyāphala). La volontà, dunque, è la causa, e l’effetto (phala) è il coinvolgimento saṃsārico di chi fruisce (bhoktṛ) dei risultati dell’azione. Eliminando la volontà, ossia impedendo alla buddhi di agire, quest’ultima diventa perciò una “non-mente”; così si elimina la dualità causa-effetto e da ciò sorge la conoscenza. Tuttavia rimane il problema di come evitare l’errore logico del circolo vizioso (anyonyāśraya), per cui se sorge la conoscenza allora si raggiunge lo stato di “non-mente”, e se lo stato di “non-mente” è raggiunto, allora sorge la conoscenza. Per questa ragione, anche dopo le spiegazioni di Gauḍapāda, alcuni hanno mantenuto dei dubbi sull’argomentazione riguardante i tre stati di coscienza.

    Śaṃkara scrisse il suo commento alle Kārikā di Gauḍapāda, perché queste ultime non erano immediatamente comprensibili. Egli si pose questa domanda:

    Proprio come quando il serpente, la ghirlanda ecc., cioè tutte le sovrapposizioni, sono rimosse e dimostrate false, e si arriva a riconoscere che c’è solo una corda, allo stesso modo, com’è che soltanto rifiutando il sogno, la veglia ecc. che sembrano proiettarsi sull’Ātman, questi stati possono essere riconosciuti irreali e che perciò solo l’Ātman è reale?24

    E così il nostro ādi ācārya prosegue esponendo il suo dubbio: un mago che afferma che può rimuovere il dolore causato da un morso di serpente dicendo “è passato tutto”, chiede alla vittima come si sente. È possibile che il dolore scompaia perché egli semplicemente ha affermato “è passato tutto”? Solo affermando che gli stati di veglia e di sogno non esistono, li si può rendere non esistenti? A questa obiezione che egli stesso ha sollevato, risponde così: la soluzione del problema è che in veglia il sogno e il sonno non esistono; in sogno la veglia e il sonno non esistono; in sonno la veglia e il sogno non esistono. Qualcuno potrà continuare a obiettare che, anche se gli stati si escludono mutuamente, essi continuano a venire ripetutamente. Ma, quando si è in veglia, il sogno esiste? E quando si è in sogno, esiste la veglia? Poiché la risposta è ovviamente negativa, non si può dire che la veglia o il sogno siano la natura essenziale di Ātman. L’obiezione per cui essi riappaiano in continuazione non è corretta, perché il fatto che la veglia e il sogno siano in numero di due non si basa sull’esperienza universale, perché essi non esistono uno vicino all’altro in simultaneità. Quando c’è l’uno, l’altro non esiste. Non si può sperimentare simultaneamente la veglia e il sogno, né si può mettere in contatto l’uno con l’altro. Non è nemmeno corretto affermare che gli stati vengano uno dopo l’altro in una sequenza temporale, perché il tempo del sogno è diverso dal tempo della veglia. Quindi è errato dire che “riappaiono in continuazione” in quanto non si può usare un linguaggio che implichi uno sviluppo temporale. Inoltre, nel sonno profondo non esiste alcuna traccia del concetto di tempo. Dato che questo è un’evidenza dovuta a una esperienza comune e universale, che significato può avere l’affermazione che gli stati di veglia, sogno e sonno profondo si alternano? Perciò si deve accettare che quando uno stato esiste, gli altri due non esistono affatto in alcun luogo. E dato che non si può attribuire ai tre stati un comune denominatore temporale, non è nemmeno possibile affermare che solo la veglia si trasformi negli stati di sogno e di sonno profondo. Possiamo dunque concludere che la veglia, il sogno e il sonno profondo non sono la nostra natura essenziale di Essere, Coscienza e Beatitudine (satcit ānanda)25. Per esempio, la corda può essere erroneamente presa per forme diverse, come un serpente, una ghirlanda, un rivolo d’acqua o una fessura del terreno: per chi così crede di vedere, esiste solo una di queste quattro interpretazioni erronee, mentre le altre tre non esistono affatto. Allo stesso modo, quando per un osservatore esiste uno solo dei tre stati di coscienza, gli altri due non esistono affatto in nessun luogo. Essi sono perciò erroneamente alternatamente sovrapposti all’Ātman che è l’immutabile, puro e assoluto Essere, Coscienza e Beatitudine. Come uno sciocco afferma di voler sposare una fanciulla che ha soltanto visto in sogno, ma che non esiste nella realtà della veglia, così il jīva vanamente crede di sperimentare stati di coscienza che non esistono. Se discriminiamo in modo corretto qui e ora, possiamo comprendere che la nostra esistenza, coscienza e beatitudine è solo nel nostro non duale Ātman innato (aja): innato nel senso di “privo di origine” e perciò eterno, privo di veglia (ajāgarita) sogno (asvāpna) e privo di sonno (anidrā). La credenza che essi esistano è Māyānidrā (sonno illusorio), ossia ignoranza. In questo modo, se l’aspirante arriva a determinare ciò intuitivamente e in modo incrollabile, riuscirà a riconoscere irreale il sogno perpetuo del saṃsāra ed eliminarlo definitivamente, risvegliandosi alla realtà dell’Ātman.

    Ora, se possiamo ottenere l’intuizione insegnata dalla śruti sulla realtà dell’Ātman, la mente diventa non-mente26. In virtù della spiegazione data in precedenza per cui si è affermato che i tre stati di coscienza non esistono affatto, s’arriva a concludere che solo l’Ātman è reale nel vero senso del termine. Allorché s’afferma che l’intuizione sulla realtà dell’Ātman avviene secondo gli insegnamenti della śruti, non c’è nessuna necessità di far intervenire alcun fattore spazio-temporale. L’Ātman che è eternamente privo dei tre stati di coscienza, è anche eternamente l’unica Realtà. Come potrebbe la mente arrivare con l’immaginazione o la memoria all’intuizione della realtà (anuṣatyānubodha) dell’Ātman per mezzo delle scritture? Dove non esiste lo stato di veglia, come può esistere la mente? La mente della veglia sta solo immaginando erroneamente i tre stati di coscienza. È come quella fanciulla che, mentre stava sbrigando i suoi lavori di casa, pensava così: “Se mi sposerò e avrò un figlio e questo figlio s’ammalerà e morirà, allora che triste destino avrò!” E si metteva a piangere. Come quella sciocca fanciulla, la nostra sciocca mente immagina erroneamente i tre inesistenti stati di coscienza. In ultima analisi, quegli stati erroneamente pensati, non esistono, e neppure la mente che li aveva pensati. L’errore sta nel considerare reale il punto di vista empirico dipendente dalla mente individuale e nell’incapacità di porsi nella prospettiva metafisica dell’Ātman. Vale a dire che si continua a considerare Ātman come altro da Sé.

    Quando si ottiene l’intuizione insegnata dalla śruti per bocca del guru, la mente diventa “non mente” (amanas). Perché la mente esista sono necessarie le funzioni della logica e del ragionamento, in quanto la mente è lo strumento preposto a fare ragionamenti (anumāna pramāṇa), cioè a produrre quelle discussioni logiche che individuano le relazioni di causa ed effetto nelle nostre vicende quotidiane. Ma, al sorgere dell’intuizione, si estinguono sia la mente sia la sua capacità razionale, diventando una sola cosa con l’Ātman. Secondo le Upaniṣad quando ogni cosa è diventata Ātman, non c’è spazio per dolore (śoka) e illusione (moha), perché allora la mente, l’immaginazione, il desiderio e l’azione non esistono più. Questa è la ragione per cui nell’esperienza intuitiva del Testimone cosciente (Sākṣin Caitanya) non c’è posto per il dolore e per l’illusione (śoka-moha). Vale a dire che non c’è più né esperienza percettiva-sensoriale (pratyakṣānubhava) né esperienza emotiva-mentale (vedanānubhava); ma nemmeno c’è una specifica esperienza di testimonianza cosciente di ciò che è empirico (sākṣyanubhava), perché a questo livello suṣupti non è più un “terzo stato di coscienza”, ma è Turīya, e il Sākṣin non è più il Sākṣin, ma è l’Ātman stesso. Quando si è ragionato e si è conosciuto in accordo con la propria esperienza intuitiva, si realizza che non esiste alcun fenomeno, avvenimento o cambiamento. L’esperienza intuitiva di Ātman non concettuale e non differenziata maturerà immediatamente e, una volta raggiunto il principio Testimone in ciascuno di noi, ogni cosa diventa l’Ātman non duale, cioè il puro Essere e la pura Coscienza in senso assoluto, il vero e solo Ātman che è non nato, privo di sonno, privo di sogno, non duale (ajaanidrāasvapnaadvitīya).

    I due principali insegnamenti del Vedānta che avevamo anticipato all’inizio27, sono sintetizzati da due affermazioni: Brahmai vedam viśvam28, “tutto ciò che esiste è solo Brahman” e Ayamātmā Brahma29, o Tattvam asi30, “questo nostro Ātman è solo Brahman”, “tu sei Quello”. A proposito di queste affermazioni, nel cercatore possono sorgere due dubbi. Il dubbio che riguarda la prima affermazione può essere espresso come segue: quando il mondo è percepito, si può ragionevolmente sostenere che tutto quello che in esso esiste è solo Brahman? Quando riconosciamo d’essere l’Ātman, scompaiono sia l’ignoranza sia l’inquietudine mentale (aśāṅti). E qui sorge la seconda obiezione perché, per ottenere tale conoscenza bisogna riconoscere come reali non solo la riflessione e la pratica spirituale, ma anche l’ignoranza e l’inquietudine della mente che da quelle devono venire rimosse. Se ignoranza e inquietudine sono riconosciute reali, come si può accordare questo riconoscimento con l’insegnamento advitīya che, invece, le dichiara irreali? Questo dubbio può sorgere nelle menti sia dei cercatori che appartengano a una scuola dualista sia, a maggior ragione, di coloro che seguono la dottrina advitīya. Chi non cercasse di trovare una risposta a questi dubbi sarebbe come un malato che rifiuta di curarsi.

    La soluzione di questi quesiti non sta nel citare semplicemente affermazioni scritturali come per esempio: “L’esistenza dei tre stati di coscienza deve essere rifiutata…”; oppure: “L’esistenza di diverse forme attribuite a Īśvara è un errore…”; o che in virtù di affermazioni come: Tad tvam asi, o Aham Brahma asmi31 “Io sono Brahman”, le scritture sostengono l’unicità di jīva e Īśvara. Perché quelle sole affermazioni prese dogmaticamente non bastano a convincere un essere dotato di ragione e intelletto. Infatti l’oppositore agnostico avrebbe ragione a obiettare: “Come si sa che le scritture hanno solo lo scopo d’insegnare l’Advaita? E se, invece, le scritture respingessero la negazione della validità dei pramāṇa e dell’esperienza percettiva sostenuta dell’Advaita, non dovremmo allora attribuire un significato diverso alle affermazioni scritturali summenzionate, significato perciò in accordo con la ragione empirica e con la conoscenza percettiva?”

    Rispondiamo ora a queste obiezioni, usando il metodo di interpretazione vedāntica sui tre stati di coscienza (avasthātraya), trasmesso dall’insegnamento tradizionale e realizzato per mezzo della riflessione intuitiva (anubhavānusāri tarka).

    Quando il jīva, che dorme sotto l’influenza della Māyā senza inizio, si sveglia, allora realizza d’essere il non-nato, il privo di sonno, il privo di sogno, il non duale.32

    Abbiamo già stabilito qual è il senso di questa Kārikā: i tre fenomeni di veglia, sogno e sonno profondo, che appaiono come se esistessero, sono in realtà una fantasmagoria onirica illusoria. Non è che essi siano un “sogno” nel senso letterale dell’esperienza di svapna avasthā che ognuno prova mentre dorme: i fenomeni dell’avasthātraya, che appaiono come se accadessero, sebbene in realtà non si verifichino, sono solo paragonabili per analogia al “sogno”, considerato dal punto di vista di chi si è svegliato e che si è reso conto che il sogno è irreale. Se approfondiamo queste esperienze dei tre stati procedendo per intuizione, riflettendo dal punto d’osservazione del Sākṣin Caitanya, allora ognuno riconoscerà che nessuno di questi tre stati di coscienza è veramente la propria natura essenziale. Ognuno comprenderà di non essere nato alla veglia e di non trovarsi né in stato di sogno né in stato di sonno profondo. E, avendo realizzato questa verità che sorge dall’improvvisa esperienza del Testimone, ci si può, per così dire, svegliare da questo “sogno illusorio” per raggiungere realmente il compimento del fine supremo della vita, il mokṣa. In realtà, l’intelletto, la mente e i sensi della veglia, che appaiono in jāgrat avasthā, non esistono affatto; perciò se controlliamo la mente con attenzione mirata, in modo da non concepire o immaginare oggetti esterni senza cadere o rimanere nello stato di sogno o di sonno profondo33, allora ci stabiliremo certamente nella nostra assoluta natura essenziale di Ātman. Ciò non significa che “diventiamo nuovamente” o che “si ritorna a essere” della natura essenziale di Brahmātman, ma che lo siamo anche ora. O, per meglio dire, noi siamo da sempre, eternamente dell’essenza non duale come è descritta nel composto ajamanidrāmasvapnam, che significa “privo di nascita, di sonno e di sogno”34. Quando usiamo il metodo spirituale dell’introspezione intuitiva (vastu tantra sādhana), all’individuo sembra di recuperare all’improvviso questa propria natura di puro essere, coscienza e beatitudine. In realtà non è che sia la nostra vera natura essenziale che “viene” a noi, poiché essa era già eternamente presente. Siamo noi, invece, che rivolgendo con l’attenzione contemplativa (nididhyāsana) tutto il nostro desiderio di conoscenza intuitiva (jijñāsā) verso questa Coscienza, rimuoviamo la nostra individualità che si frappone e sovrappone all’eterno sostrato della nostra esistenza. Altrimenti, se non fossimo della natura essenziale dell’Ātman, sarebbe lecito dubitare di poter raggiungere la realtà assoluta con il solo uso d’un metodo umano. E, inoltre, come potrebbe essere considerata stabile (śāśvata) ed eterna (nitya) quella cosa acquisita ex abrupto, come fosse l’effetto di una causa? In questo modo abbiamo chiarito che l’esperienza dei tre stati di coscienza è illusoria (māyika) e che non appartiene alla nostra natura di Ātman.

    1. Abbiamo notato una diffusa confusione tra le nozioni di “universale” e di “assoluto”, che, curiosamente, spesso impedisce ai nostri lettori una compiuta comprensione delle concezioni metafisiche. Il primo aggettivo, infatti, si riferisce al mondo (jagat) quando è considerato come un unicum, quello che anche nell’antichità occidentale era appropriatamente definito universus mundus, “l’intero mondo”. In India questa concezione è simboleggiata dall’Uovo del Mondo, che comprende sinteticamente tutti i nomi, le forme e Hiraṇyagarbha. È perciò riferito all’esistenza nella sua unicità e non nella sua apparente composizione molteplice. La realizzazione interiore che corrisponde a questo stato di coscienza è quella dell’Uomo universale, Viśvanara. Assoluto, invece, si riferisce al Brahman-Ātman, perciò al non Manifestato, la cui realizzazione è definita Liberazione dall’ignoranza (mokṣa mukti).[]
    2. Dato che il Vedānta evita la concentrazione mentale su un singolo oggetto (ekāgratā), in favore dell’attenzione applicata all’intero stato preso come un tutt’uno, la buddhi che si usa per la sākṣāt sādhanā non è circoscritta all’organo interno (antaḥkāraṇa) individuale del singolo sādhaka, ma è comprensiva del medesimo Mahat universale. La distinzione tra una buddhi propria al singolo individuo e una buddhi Mahat universale è un punto di vista dottrinale caratteristico delle vie di Aparavidyā.[]
    3. BU IV.4.21.[]
    4. Tanto meno può essere applicato al Vedānta il termine positivista di “epistemologia”, così di moda al giorno d’oggi negli ambienti “acculturati”.[]
    5. TU II.1.1; BU I.4.17.[]
    6. US XVII. 172.[]
    7. US XVIII 173-176.[]
    8. US XVIII 100-101.[]
    9. TUŚBh II.1.1.[]
    10. Nella logica del Nyāya la comparazione (upamāna) è un mezzo valido di conoscenza (pramāṇa) usato per verificare la concordanza o la discordanza dell’oggetto considerato nei confronti di un altro oggetto. Anche l’Advaita Vedānta utilizza questo pramāṇa per identificare l’esatto senso di una parola inserita in un brano della śruti. Va da sé che, in questo caso, anvaya vyatireka diventano anche strumenti di discriminazione (viveka vicāra).[]
    11. US XVIII 191-192.[]
    12. Discepolo diretto di Śaṃkara e primo Jagadguru di Śṛṅgerī.[]
    13. Naiśkarmyasiddhi, III. 64; cfr. Bṛhadāraṇyaka Vartikā, I.4.7. Sūreśvara considera quattro categorie di adhikārin: La prima è quella di colui che realizza per contatto diretto con il proprio Sé, caso tipico del Satyayuga, oggi  talmente eccezionale da non essere quasi mai tenuto in considerazione. La seconda categoria è rappresentata da chi realizza per semplice śrāvaṇa. La terza categoria riguarda i madhyamādhikārin. Alla quarta categoria appartiene colui che, nonostante segua śrāvaṇa, fa fatica a disidentificarsi dal proprio “io”. Costui perciò, si rivolge al Brahman come altro da Sé, mantenendo di fatto una visione dualista. Questa prospettiva richiede perciò un metodo meditativo, definito karma yoga nella Gītā, atto a condurre questi sādhaka a purificare la mente. Una volta raggiunto questo risultato, potranno accedere al sākṣat sādhana in vita o al devayana dopo la caduta del corpo, con la eventuale possibilità di ottenere anche la krama mukti a conclusione del Kalpa.[]
    14. Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, IV.1.2.[]
    15. Sūreśvara, N ibid.[]
    16. ChU VIII.9.1; VIII.12.4.[]
    17. La persona della veglia è definita “il puruṣa che sta nell’occhio” perché la vista è presa per il senso principalmente usato dall’uomo per percepire da sveglio il mondo e gli oggetti esterni. Tralasciamo le innumerevoli sciocchezze che i filologi hanno escogitato per spiegarsi il significato del termine akṣipuruṣa, considerato in modo avulso dalla tradizione.[]
    18. BU IV.3.21.[]
    19. Non ci dilunghiamo su questo specifico argomento, già trattato diffusamente in questo Sito: “Nel sogno non ci sono oggetti esterni, ma solo oggetti che dimorano all’interno del sognatore che è il Testimone e il soggetto che osserva il sogno. Cosicché, quando si ritorna alla veglia, risulta certo che, quando si era in sogno, l’intelletto, la mente, i sensi e le loro modificazioni, carri cavalli ecc., erano gli stessi oggetti testimoniati direttamente dalla luce dell’Ātman. In altri termini, il Sé e l’intelletto, in sogno, sono rispettivamente il soggetto e l’oggetto chiaramente distinti, senza ulteriori oggetti che, come avviene nel caso della veglia, appaiano come fossero realmente esterni e distinti dal Sé e dalla buddhi.” Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda, cap. 20, p. 104; www.vedavyasamandala.com[]
    20. MāU VII.[]
    21. MāUGKŚBh I. 16.[]
    22. In questi casi con “mente” non s’intende il solo manas, ma antaḥkāraṇa, cioè la mente allargata anche alla buddhi e all’aham.[]
    23. MāUGKŚBh III. 32.[]
    24. MāUGKŚBh I. 17.[]
    25. Quando si espone per iscritto la dottrina dei tre stati di Coscienza si usa il termine sanscrito sthānatraya, mentre si preferisce usare il termine avasthātraya quando si vuole trattare della medesima dottrina vedāntica in senso metodico. In passato si è scelto di non mittere margaritas ante porcos; perciò chi ha illustrato in forma tradizionale per un pubblico occidentale gli stati di Ātman, ha accuratamente evitato di descrivere l’avasthātraya, limitandosi alla spiegazione dei tre sthāna o dei quattro pāda di Ātman come se si trattasse soltanto di una teoria. L’attuale situazione di totale caos mentale che impera in Occidente, da cui non è affatto esente l’ambiente tradizional-tradizionalista, ci consente di spargere qualche perla, certi come siamo, che potrà essere raccolta e utilizzata esclusivamente da lettori realmente qualificati.[]
    26. Amanas, anche in questo contesto, si riferisce sempre alla mente in senso ampio, cioè ad antaḥkāraṇa, e comprensiva sia della realtà singolare sia di quella universale.[]
    27. Punti A e B della prima pagina.[]
    28. MU II.2.11.[]
    29. ChU VI.8.7.[]
    30. MāU I.2.[]
    31. BU I.4.10.[]
    32. MāUGK I.16.[]
    33. Nelle condizioni ordinarie di vita durante la veglia, ogniqualvolta i sensi siano distolti dagli oggetti del mondo esterno, l’individuo s’addormenta. Questo assopimento (nidrā), che può condurre a sperimentare indifferentemente lo stato di sogno o di sonno profondo, non è effetto di una libera scelta dell’individuo della veglia (akṣipuruṣa); costui in realtà lo subisce passivamente. Si cade nel sonno e non ci si entra volontariamente. Nella contemplazione vedāntica, durante la fase di discriminazione dai sensi, è possibile che il principiante scivoli involontariamente nell’assopimento. Questo difetto di impegno intellettuale è detto laya, “scioglimento dell’attenzione”.[]
    34. MUGK IV.81.[]

    The Octal expressions of the persona

      Radhika Nandakumar
      Mysuru, Karnataka, India

      Aṣṭanāyikā

      The Octal expressions of the persona

      The basic purpose of this article is to delineate and explain the eight kinds of Heroins: aṣṭanāyikā in Indian Dancing traditions. It is done with the intension that the learned reader appreciates the styles and traditions while appreciating its inherent character which enhances and liberates its scope beyond its cultural moors which had so much stabilized since centuries in the great Bhārata. It is essential to illustrate each nāyikā with an item of dance and music. Thus a few examples are also given hither and thither during the course of this writing. I believe that nothing explains more than its abhinaya done with on-time creativity and gusto. I intend to do this with suitable lecture and demonstrations, which, in time, I hope to upload such videos to various online media. I request the learned audience to be with me in tandem with my spirits of dedication and utter ecstasy.

      Radhika

      The term aṣṭanāyikā is used expansively to identify the eight kinds of primary expressions that are possible in feminine gender. Aṣṭa means the eight kinds and the nāyikā is the feminine persona (the heroine). In the traditional Indian dance parlance, it means the eight expressions of a heroine (in love ; śr̥ṅgāra) or eight kinds that constitutes a heroine or the eight avasthā (characteristic features) of a protagonist. The dynamic encapsulation of episodic expression is known as an abhinaya. The nāyikā thus expresses her amour in these eight ways towards her nāyaka (the hero). These expressions are performed in ways that are textually, traditionally indicated and are known in the dance parlance as hastābhinaya and āṅgikābhinaya. The hastābhinaya are the hand gestures that are convergence points of the body stances (rekhā) of a dancer. Āṅgikābhinya is the abhinaya done with the entire body or its specific part or parts which deduces as one entity to signify the expression. However, the aṣṭanāyikā are the personas and its abhinaya to denote these avasthā are multifarious in variety and innovation.
      Human expressions and emotions are indeed vast and complex in nature. The actions and reactions of the human are to be organized in an orderly and cognizable manner if one desires to make an abhinaya episode of its theme and concept. The śāstra of Indian dancing has organized this in an able way by drawing least common factor in all abhinaya variations and emotive expressions and codified them to standard modes. It is interesting to note that such generalizations and codifications have travelled thought centuries and has stood its test of time. This was possible because of an important factor called ‘sampradāya’. The aṣṭanāyikā characterizations through dance (for the sake of this paper, Bharatanāṭyam) has imbibed this sampradāya and essentially remains true to the textual prescriptions. Dance (for the sake of this paper, Bharatanāṭyam) has imbibed this sampradāya and essentially remains true to the textual prescriptions. ‘prada’ means to give and the prelude of ‘saṃ’ makes it holistic. Thus sampradāya essentially signifies the modes and practices of the past handed over to the near future as a summation of all its past endeavors. It is also very interesting to notice that in this summation, the past contained subjects of pauranic yore and the abhinaya and nāyikā character depictions had ably acclimatized to it. But now, the pauranic contents have dwindled to make way for more contemporary themes and concepts. But then, the abhinaya techniques remain nearly the same as in the sampradāya technique. Thus the sampradāya seems to have codified its techniques more towards being human rather than being contemporary subject and concept oriented. In-between the two main modes; hastābhinaya and āṅgikābhinaya, the hastābhinaya (both in samyuta = conjoined and asamyuta = solitary) is more specific and limited in its depiction and purpose because of its physical manifestations, that is, limited by the ‘hand’. The āṅgikābhinaya is extensive and vast in its scope, for, the stances of the entire body of the dancer/actor takes on the meanings and purposes that are commonly felt and postured in its times and thus portrays it immediately in the dance/acting modes and lines. The aṣṭanāyika abhinaya takes both these modes into its considerations and the textual treatises on nāṭya have ensconced these adequately in all its wide and varied usages. Some traditional theaters in Indian dancing gives prominence to ‘mukhābhinaya’, the facial expressions. In recent times, more experimentations were done to accentuate the ‘aṅgabhāva’ – abhinaya from the body of the dancer/actor. Nr̥tta patterns in solfa passages were composed to depict an event or an avasthā. However, the sampradāya takes this too into its consideration and integrates this with the rest of the body in almost all the dance styles and traditions of India.
      Aṣṭanāyika’s eight-fold classification is done based on the bhāva, the emotive expression. Bhāva’s chief purpose is to express śr̥ṅgāra, the amour/love. Among the nava-rasa (9) bhāvasr̥ṅgāra is primary and the other 8 are concomitants to it. Thus, the abhinaya for aṣṭanāyika is done in layers, as it were; the śr̥ṅgāra being the primary layer and the other 8 sub-serve the subject and theme.
      The earliest and the most important authority in saṃskr̥ta dramaturgy is the Nāṭyaśāstra of Bharatamuni. The Heroine (nāyikā) is well described and discussed in this treatise, prior to and since then, many poetical and dramaturgical texts have delineated this in many hues and stories. Thus, a classification of these innumerable types had to be done to facilitate a common understanding and to appreciate all the varieties. Since Nāṭyaśāstra, many textual treatises on Music and dance have discussed and described the Nāyikā and their avasthā. Texts like Rasamañjarī of Bhānudatta (15th century), Daśarūpaka of Dhananjaya (10th century) and Bhāvaprakāśa of Śāradātanaya have become authentic sources to understand and appreciate nāyikābhāva in Indian dancing styles and traditions.

      An extensive delineation of such texts and collated discussions of its content are indeed outside the limits of this present article. An essential description and their illustrations could serve the basic purpose of this writing.

      Firstly, it is important to classify and understand the types of nāyikā. Bharata, in his nāṭyaśāsta enumerates them as Divine (nr̥pa patnī) wife of a king, woman of a good family (kulastrī) and the courtesan (gaṇikiā). These three are known as the heroines having different kinds of nature. Their nature is further delineated further as; dhīrā (self-controlled), lalitā (elegant), udāttā (exalted) and nibhr̥tā (quiet).
      The heroine of a good family, the kulastrī are exalted and meek and thus they could be classified under udāttā and nibhr̥ta.
      Gaṇikā and śilpakārikā are elegant (lalitā) and prone to exaltedness (abhyudāttā).

      It is interesting to note that all the texts of dancing in the ancient India classify these based on one bhāva, that is, the śr̥ṅgāra – amour. The purpose of such śr̥ṅgāra is indeed a conjugal union with the Hero, the Lord. This signified purpose thus enabled to further classify the nāyikā as eight folds, each fold is multi-layered with innumerable combinations of situations and characterizations.

      Bharata’s classification of these eight persona is now extensively appreciated, studied and innovated upon to arrive at all possible contemporary expressions. It is indeed a wonder that all possible tradition, modernity and contemporary experimentations take their based on his classifications. A brief mention can facilitate an elaborate illustration and discussions later in this article ;

      1. Vāsakasajja : the one dressed up for the union (with the hero)
      2. Virahotkanṭhitā : the one distressed by the separation (from her hero)
      3. Svādhīnabhartr̥kā : the one having her husband (hero) in subjugation
      4. Kalahāntaritā : the one separated by from her hero because of a quarrel
      5. Khaṅḍita : the one who is enraged with her lover hero
      6. Vipralabdhā : the one deceived by her lover hero
      7. Proṣitabhartr̥kā : the one whose hero is always on the tour (sojourning around and thus doesn’t have much time to spend and express his love)
      8. Abhisārikā : the one who moves towards her lover hero.

      tÇ vasksJja c ivrhaeTki{Qtaip va ,
      SvaxIn-ÇRuka caip klhaNtirtaip va .
      oi{fta ivàBxa va twa àaei;t-ÇRuka ,
      twai-sairka cEva }eyaSTvóaEtu naiyka> .

      The Nāṭya is a representation of the state of three worlds that the Indian thought and philosophy enumerates. Bharatamuni has termed it as the ‘Bhāvānukīrtana’. Thus, the nāṭya is meant to represent the nature of the society in which it thrives and evolves ; vast the society vast is the nāṭya’s realm. Human variety, either vast or small, is always complex in its emotive expressions and innate moods. To ensconce all these mood and to bring an effective depiction of this mood to elevate it to an art experience, the texts had to classify the persona. Bharatamuni gives an universal classification for male and female characters. They are of three types :

      1. Uttama

      2. Madhyamā

      3. Adhama

      This classification is taken by all most all later ālaṃkārikās (poets and aestheticians) when they had to deal with nāyaka (hero) and nāyikā (heroine).

      ​smastStu àk©itiSÇivxa pirkI©itRta ,
      pué;a[amw SÇI[amuÄmaxm mXyma . (NŚ XXIV)

      Bharata expands and describes the qualities of each of these categories. The uttama signifies superior qualities, madhyamā signifies a person of middle merit and adhama is the low one with very inferior qualities. Nāyaka, the hero is defined by Abhinavagupta, in his commentary on Nāṭyaśāstra says :

      nyit àaPnaetIitìuÄ< )l< veit nayk> .

      Hero is the main character of the story or the prasaṅga who leads the play and obtains the result at the end. Daśanipāka of Dhananjaya enlists the personality traits of nāyaka as :

      neta ivnItae mxurSyahI d]> iày<vd> || r− laekZyuicvaRGmI raeFv—z> iSwrae yuva || buÏuTsah Sèuit à}aklaman smiNvt>|| zurae d«Fí tejSvI zaSÇc]uí xaimRk>.

      nāyaka is virtuous, handsome, generous, able, soft, spoken, loved by everyone, pure, oratorical, born in a known family, stable, young, intelligent, inspiring, one who absorbs easily, adept, aesthetic, with self-esteem, courageous, strong in convictions, brilliant, having an eye for śāstra and righteous. Bharata further classifies nāyaka into four categories : the four kinds of nāyaka belong to the high and middle classes :

      AÇ cTvar @vSyunaRyka> pirkIitRta> ,
      mXymaeÄmà³utaE nana l][ali]ta> .
      xIraeÏta xIrlilta xIraedaÄaStwEv c,
      xIràzaNtkaScEv nayka> pirkIitRta> .

      I now give the translation in its classification :

      1. Dhīroddhata : is represented by gods or divine characters

      2. Dhīralalita : by the kings

      3. Dhīrodāttā is represented by chieftain or minister

      4. Dhīrapraśānta is represented by brāhmaṇa or merchants (vaiśya)

      Bharatamuni enlists eight sattvajālaṅkarās which are considered as sāttvika guṇās by Dhananjaya, Viśvanātha, Simhabhūpāla and others. A feeling or emotion that is experienced rom the concentrated mind is termed as sattva. Its expression is known as sāttvikābhinaya ( VII). Bhāvaprakāśa of Śāradātanaya mentions four kinds of nāyakas. They are : anukūladakṣiṇaśaṭhadhr̥śṭa. Bhānudatta in his Rasamanjari follows this classification. Sāhityadarpaṇa and Rasārṇavasudhākara also follow this classification. Further nāyakas are also classified as patipupapati and vaiśika in Rasamanjari and Rasārṇavasudhākara. Bhāvaprakāśa gives a total of fourtyeight varieties of nāyaka by taking four combinations in each of Dhīroddhata and Anukūla in computation with uttamamadhyamā  and adhama. In Rasamanjari, we find the first classification as patiupapati and vaiśika vis a vis anukūladakṣiṇadhr̥ṣṭa and śaṭha. There is also other classification called māni and catura : the proud and the intelligent. Here the catura is further sub-divided into vākcatura (clever vocation) and ceṣṭacatura (clever in action). Bhānudatta also deals with patiupapati and vaiśika under a different classification as proṣita patiproṣita upapati and proṣita vaiśikaProśita signifies when the nāyaka goes away from the nāyikā.

      The above delineation on the various nāyaka classification is done with the intension of bringing a referential validity to the main subject of this paper, the nāyikā. Bharata applies the general rule and defines nāyikā as: uttama (superior heroine), madhyamā  (of middle merit) and adhama (of inferious charateristics). Bharata gives other classifications of nāyikā too as : divyā (a celestial woman), nr̥papathni (the princess or a queen), kulastrī (a woman of a noble family) and gaṇikā (a courtesan) :

      idVyac ÜuppÆIc kulSÇI gi[ka twa. @taStu naiyka }eya nana à³uitl][a>. xIrac liltacSyadudaÄa inæuta twa. idVya raja¼naíEv gu[EyRu−a -viNt ih. %daÄa inæuta cEv -veÄu kulja¼na. lilteca-udaÄec gi[ka izLpkairke. ( XXIV)

      Bharatamuni also gives three other classifications : bāhyā (a courtesan), ābhyantarā (wife) and bāhyābhyantarā (an erred wife). Later theorists have formulated the classification of nāyikā based on Bharata’s classification of nāyikā ; 1) svīyā, 2) prakīyā or anyā, and 3) sāmānyā or sādhāraṇā. Here svīyā has further classifications: a) mugdhā, b) madhyā, c) prauḍhā or pragalbhā. And then, madhyā and pragalbhā are further sub-classified as jyeṣṭhā and kaniṣṭhā. According to Śāradātanaya (bhāvaprakāśa), madhyā and pragalbhā have sub-varieties too : udāttālalitā and śāntā. Last but not the least, the famous Kāmasūtra of Vātsyāyana deals with classes of women in different perspective. He classifies them into: 1) padminī, 2) citriṇī, 3) śāṅkhiṇī and 4) hastinī. All these are based on the sexual aspect. There is yet another classification that Vātsyāyana gives on nāyikā : 1) kanyā, the maiden, 2) punarbhū the remarried and 3) veśyā the courtesan.
      All treatises on dramaturgy deal with kanyā and veśyā but usually not with punarbhū except probably Bhoja. In four separate sections, Vātsyāyana also deals with kanyābhāryā paradāra and veśyā. Thus all these can be summarizes thus :

      1. Svīyā with 13 varieties

        • Mughdā

        • Madhyā

        • Pragalbhā

        • Jyeṣṭhā and Kaniṣṭhā under madhyā and pragalbhā (making 4 varieties)

        • Dhīrā and Adhīrā with Dhīrādhīrā under madhyā and pragalbhā (total of 6 varieties)

      2. Anyā or Parakīyā with 2 varieties : under this two sub classifications : ūḍhā and kanyā

      3. Sāmānyā or Sādhāraṇā with only one variety

      All these bring the classification number to 16. These together represent the major varieties of nāyikā are accepted by almost all treatises including Rasamanjari and Rasārṇavasudhākara of Simhabhūpāla. It is also very interesting to note that Rudrabhaṭṭa in his Kāvyālaṅkāra (in chapter I) brings this number of nāyikās to 384! Had Bhānudatta agreed with the further classification of nāyikās with three main varieties of divyāadivyā and divyādivyā, this total would have risen to 1152 ! With the 16 types of heroines and their 8 different avasthās (condition, situation or states) we would then be computing it with 16 X 8 = 128 types of nāyikās. By classifying these 128 types of nāyikā under three categories of UttamaMadhyamā and Adhama, we would then get a total of 384 variety classifications. By classifying further under the three heads of DivyāAdivyā and Divyādivyā we get the 1152 types of nāyikās. I can exemplify : divyā in Indrāṇī (wife of Devendra), adivyā in Mālatī and Divyādivyā in Sīta the wife of Śrī Rāma. In nātya, the classification of nāyakā (hero) is based chiefly on their condition (avasthā). However, if we take their birth and other specifications too, they can be exemplified too : Indra as Divyā, Mādhava as Adivyā and Arjuna as Divyādivyā.
      In this context, I would like to say a word about Mugdha Nāyikā: she cannot be classified under DhīraAdhīra because of lack of adequate knowledge and also these 8 classifications of aṣṭavidha nāyikā bhāvās do not apply. Nevertheless, by conforming to the ancient writings, these classifications are to be considered in the navoḍha nāyika, the newly married one.

      I now give the eight kinds of nāyikā, the Aṣṭanāyikā, on which this paper basically has to concentrate.

      1. Vāsakasajja : this heroine is all agog about her hero and is in earnest dressed up condition. Indian dancing has a huge repertoire on this avasthā. The heroine is depicted as the one who is dressed up in waiting for the nāyaka to arrive or the one who is dressed up enough to enable the nāyaka to disrobe her for the union. Bharatanāṭyam repertoire of jāval̥īspadamaṣṭapadiśr̥ṅgārakīrtana abound in their number and varieties that portray this nāyikābhāvaVāsakasajja is also the item of choice for abhinaya by the nāṭyāṅganā, for, it has in its innate content possibility and opportunity to portray an element of grandeur and expertise. As a general practice and also as in the textual prescription this is portrayed as a heroine who is in eager anticipation of her love’s pleasure decorates herself joyfully in expectation of a fulfilling conjugal union (thus the word vāsaka) is due.

      2. Virahotkaṇṭhitā : this is a heroine who is distressed by the separation of her nāyaka. This type of nāyikā is also a huge favorite among dancing fraternity. Its usage is primarily seen in traditional dance items and it is also experimented on a wider scope on contemporary stage. The word can be viewed in two parts : viraha (pangs of separation) + utkaṇṭhita (a high pitched cry). The ‘ut’ means high and the kaṇṭha signifies the vocalization of the distress. There is a well-known tenet to signify the generality in between the (human) voice (śārīra) and (human) body (śarīra) : this sūtra is ‘śarīram śārīram’. Meaning ‘the voice is like its body’. The ‘ut’ is applied here to signify the outcry from the voice or voicing this outcry with the entire body. Thus the abhinaya to virahotkaṇṭhita is done for a higher pitched and higher octave musical phrases performed for an aṅgabhāva with stretched neck as the center of the body ‘rekhā’ (bodyline). There are innumerable dance performance items with this nāyikā bhāva which goes beyond the primary śr̥ṅgāra to the state of bhakti (devotion) as the primary layer in its utility and expression point. In general, it is portrayed as a heroine whose beloved does not turn-up (in due time / expected time or day) because of his preoccupation with many other engagements and thus makes her sad.

      3. Svādhīnabhartr̥kā : this nāyikā is the one whose husband is subjected to subjugation. Her nāyaka, the lover, is much sermonized by the nāyikā. Her love the nāyaka patiently listens to her and on many instances tries to console her. This nāyikā is also called as ‘svādhīnapatika’. ‘Svādhīna’ means the one who is under command and patika is the one who has done this to her ‘pati’ the husband/ lord / lover. This ‘pati’ or bhartr̥ is totally captivated by her love actions (surata) or by her beauty (saundarya). This nāyikā is generally portrayed as the heroine whose husband/lover/lord is captivated by her conduct as well as by love’s pleasure (surata) from her, stays by her side, and who has pleasing qualities, and thus the heroine has him under subjection. Traditionally this is represented in abhinaya (beaming face with pleasure towards the hero, having excess charm and physical beauty) and with āharya (gaudy and brilliant dresses and jewels).

      4. Kalahāntaritā : This is the heroine who is separated from her lover because she quarreled with him. The nāyaka (poor hapless one) has gone away because of this harangue. The nāyikā is very impatient for her lover who has gone away due to a quarrel or jealousy and does not return (immediately). Such a heroine is usually represented with an abhinaya portraying anxiety, sighs, lassitude, burning of heart, anguished conversations with her sakhī (friend), looking at herself with self-pity, weakness, depression, tears, appearance of anger, giving up the ornaments, refusing the soothing and cleansing cosmetic products, sorrow and weeping. This nāyikā, was indeed the choice of many performances of the yesteryears. ‘Kalaha’ means to quarrel and ‘antaritā’ means the one with this inclination. But the combination of these two is an emotive expression and a poetic word too.

      5. Khaṇḍitā : it portrays an enraged heroine. Here, khaṇḍa (as a part of the word) means ‘cut to the quick’. Here, the heroine is enraged because her lover/husband/lord/ beloved does not arrive at the designated time, for (the heroine is wont to believe), he might have had an extramarital affair, attached to another (inferior) female, does not come for the conjugal union as promised and is thus extremely enraged and perturbed. Such a nāyikā is represented by anxiety, sighs, lassitude, burning of heart (in an anguished manner), accusing conversations with friends (sakhī), self-pity with touchy behavior, expressions of weakness-depression-tears because of extreme anger, discards her ornaments (throws them sometimes) and sorrowful weeping.

      6. Vipralabdhā : This heroine is one whose lover does not come to her for a certain reason even when the female messenger was sent (by the heroine) to him (with messages of love and secretive enticing amour) and a tryst (for union) was made (agreed upon). This heroine feels deceived by the Hero. It is interesting to note here that the abhinaya of this heroine is done with all the characters of khaṇḍitakalahāntarita heroines but the movement modes are different in each of these. Vipralabdhā abhinaya is more in the ‘hurt’ mood and hence, the facial expressions and the body configure is stanched at this ‘hurt’ feeling.

      7. Proṣitabhartr̥ka (/patika) : this heroine is one whose husband / the beloved one / lord / lover is living abroad (separated by a huge geographical distance) on account of his various (essential) duties. This heroine is represented as wearing her hair hanging loose, and is depressed and in anticipation at the same time. The ‘hair hanging’ is indeed the most signifying characteristic portrayal of this nāyikā. Many ancient poetic drama and plays contain this character as its main heroine.

      8. Abhisārikā : she is the one who, due to love or infatuation is attracted to her lover and gives up modesty and goes (abhisaraṇa) to meet him. She is also shown as doing it secretively (the movement characterization portrays this). This heroine character is a highly depicted one and textual treatises discuss this in length with sub classification of the type of person she would be :

        1. The courtesan : While she moves towards her love, she is to have her body beautifully decorated with various (garish?) ornaments. She walks slowly (garvita) in company of her attendents (sakhī). While doing this she displays passion (sa-madanā) and joy (tuṣṭhi).

        2. Madhyamā : the woman from high family line. She covers her face with a veil, walks timidly with her limbs contracted and will often look back (with anxiety and doubt).

        3. The handmaid: the sakhī : a hand maid will walk with uneven steps (āviddha gati) and eyes beaming with amorous joy. She walks with disorientation because of intoxication (madaskhalita saṃlāpa).

      Nāṭyaśāstra also enumerates the different situations and levels of meeting a lover, the conjugal union, behavior at the conjugal union, and more such situations are prescribed. Bharatamuni is indeed aware of the responsibilities towards the society and its behavioral modesty. Thus, he prescribes acts that are to be prohibited on the stage while depicting these characters. The ecstasy in characterization is to more to be a suggestive act rather than a physical manifestation or representation on the stage. Bharata forbids these physical actions : no ascending of the bed-stead, no bath, no use of unguents and coliseum, no decoration of the body and no handling of their breasts or hair. He also continues to mention that women of superior and middling types should not be shown as poorly draped (apārr̥lā) or wearing only one piece of garment (ekavastrā) and such characters should not use color for their lips!

      Illustrations and tables appear in Pdf copy.

      Aṣṭanāyikā – L’ottuplice rappresentazione dell’eroina

        Rādhikā Nandakumāra1

        Aṣṭanāyikā

        L’ottuplice rappresentazione dell’eroina

        (Trad. di Maunya Saumya)

        Lo scopo principale del presente articolo è delineare e illustrare gli otto tipi di eroina (aṣṭanāyikā) secondo le tradizioni della danza indiana. Intendiamo far apprezzare al lettore colto i diversi stili e tradizioni e, al tempo stesso, far cogliere la natura intrinseca che ne accresce il valore e ne amplifica la portata al di là dei confini culturali consolidatisi nel corso dei secoli nel grande Bhārata, l’India. Illustreremo ciascuna nāyikā per mezzo di elementi tratti dalla danza e dalla musica.

        Il termine aṣṭanāyikā è impiegato per identificare gli otto aspetti principali della protagonista femminile. Aṣṭa significa otto e nāyikā è il personaggio femminile, ossia l’eroina. Nel linguaggio della danza tradizionale indiana, aṣṭanāyikā si riferisce agli otto aspetti dell’eroina innamorata (caratterizzata da śṛṅgāra2) o agli otto tipi di eroina o alle otto avasthā (situazioni, qualità caratteristiche) della protagonista. Con abhinaya si intende l’espressione scenica d’un singolo atteggiamento. La nāyikā esprime in otto modi l’amore verso il suo nāyaka (l’eroe, il protagonista maschile). Tali atteggiamenti sono rappresentati secondo modalità codificate dai testi e dalle tradizioni e sono conosciuti nel linguaggio della danza come hastābhinaya āṅgikābhinaya. Gli hastābhinaya sono gesti delle mani; sono punti di convergenza delle posizioni corporee (rekhā) del danzatore. Āṅgikābhinaya è l’abhinaya compiuto con l’intero corpo oppure con una o più parti specifiche del corpo che creano una entità unica in grado di esprimere quanto deve essere rappresentato. Le aṣṭanāyikā sono i personaggi; le abhinaya che ne denotano le avasthā sono molteplici quanto a varietà e innovazione.
        La natura degli atteggiamenti e delle emozioni umane è invero vasta e complessa. Le azioni e reazioni dell’uomo devono essere strutturate in modo ordinato e comprensibile se si desidera rappresentare determinati temi e concetti in una scena di abhinaya. Lo śāstra della danza indiana lo ha reso abilmente inserendo anche elementi poco comuni in tutte le variazioni di abhinaya e nelle espressioni emotive, codificandole secondo modalità fissate. È interessante notare come queste generalizzazioni e codificazioni abbiano attraversato i secoli e superato la prova del tempo. Questo è stato possibile grazie a un importante fattore chiamato sampradāya.
        La caratterizzazione delle aṣṭanāyikā attraverso la danza (il Bharatanāṭyam per quanto riguarda questo articolo) ha assorbito il sampradāya ed è rimasta essenzialmente fedele alle prescrizioni rituali. Prada significa dare; il prefisso saṃ lo rende olistico. Quindi il termine sampradāya indica essenzialmente le modalità e le pratiche del passato consegnate al futuro come conclusione di tutti gli sforzi precedenti. È inoltre interessante notare come in questa sommatoria rientrino temi contenuti negli antichi purāṇa e come le descrizioni degli abhinaya e delle nāyikā si siano abilmente adattati ad essi. Ora i contenuti purāṇici sono diminuiti per lasciar spazio a temi e concetti più contemporanei; tuttavia le tecniche abhinaya sono rimaste pressoché le stesse del sampradāya. Così il sampradāya sembra aver codificato le sue tecniche orientandosi più verso l’essere umano in generale che verso argomenti e concetti contemporanei. Tra le due modalità principali, hastābhinaya āṅgikābhinaya, la descrizione e lo scopo dell’hastābhinaya (sia in saṃyuta, cioè combinato, sia in asaṃyuta, ossia da solo) sono più specifici a causa delle sue espressioni corporee, vale a dire, limitate alle ‘mani’. La portata dell’āṅgikābhinaya è più ampia poiché le posizioni dell’intero corpo del danzatore-attore assumono significati e finalità che sono comunemente percepiti e acquisiti nella loro completezza, quindi immediatamente raffigurati secondo le modalità e le linee della danza-recitazione. L’aṣṭanāyikā abhinaya prende in considerazione entrambe queste modalità (che i trattati testuali sul nāṭya hanno adeguatamente classificato secondo i numerosi e ampi impieghi). Alcune attività teatrali tradizionali hanno dato maggior rilievo al mukhābhinaya, l’espressione del volto. In tempi recenti, maggiori sperimentazioni sono state fatte per accentuare l’aṅgabhāva, l’abhinaya per mezzo del corpo dell’attore-danzatore. Sono stati composti schemi di danza, nṛtta, in accordo con passaggi di solfeggio per rappresentare un avvenimento o una situazione (avasthā). In ogni caso, il sampradāya prende in considerazione anche questo e lo integra al resto del corpo in quasi tutti gli stili e le tradizioni indiane di danza.
        L’ottuplice classificazione delle aṣṭanāyikā si basa sul bhāva, l’espressione delle emozioni. Lo scopo principale del bhāva è esprimere il rasa dell’amore-affetto, śṛṅgāra. Tra i nove rasaśṛṅgāra è il principale, essendo gli altri otto complementari. Quindi è come se l’abhinaya delle aṣṭanāyikā fosse fatto di più livelli: śṛṅgāra è il primo livello, gli altri otto contribuiscono a precisare il soggetto e il tema principali.
        Il testo più antico e autorevole sulla drammaturgia saṃskṛta è il Nāṭyaśāstra di Bharatamuni. In questo trattato l’eroina (nāyikā) è ben descritta e analizzata; prima e dopo quel trattato, molti altri testi poetici e drammaturgici avevano descritto l’eroina e le sue molteplici sfumature. Si dovette quindi redigere una classificazione delle innumerevoli tipologie così da rendere generale la loro conoscenza e poterne apprezzarne le varietà. Sulla base del Nāṭyaśāstra, molti trattati sulla musica e sulla danza hanno esaminato e descritto le nāyikā e le loro avasthā. Testi quali il Rasamañjarī di Bhānudatta (XV secolo d.C.), il Daśarūpaka di Dhanañjaya (X secolo d.C.) e il Bhāvaprakāśa di Śāradātanaya sono diventati fonti autorevoli per comprendere e apprezzare i diversi nāyikābhāva nei vari stili e nelle varie tradizioni di danza indiana.
        Una trattazione esaustiva di tali testi e dei loro contenuti è fuori dai limiti del presente articolo. Una descrizione essenziale e alcune illustrazioni potranno soddisfare lo scopo fondamentale di questo scritto.

        Innanzitutto, è importante classificare e comprendere i diversi generi di nāyikā. Bharata, nel suo Nāṭyaśāstra, le enumera come mogli di Re (nṛpa patnī), donne di buona famiglia (kulastrī) e cortigiane (gaṇikā). Questi tre tipi di donne sono conosciute come eroine dalle differenti nature: dhīrā (dotata di auto-controllo), lalitā (elegante), udāttā (gentile) e nibhṛtā (modesta).
        Le eroine di buona famiglia, le kulastrī, sono degne di lode e docili; potrebbero essere quindi classificate sotto le categorie udāttā nibhṛtā.
        Le gaṇikā e le śilpakārikā [artiste] sono nāyikā eleganti (lalitā) e degne d’elogio (abhyudāttā).
        È interessante notare come nell’India antica tutti i testi di danza abbiano classificato le nāyikā sulla base di un unico bhāva, vale a dire śṛṅgāra, l’amore. Lo scopo dello śṛṅgāra è invero l’unione coniugale con l’eroe, il signore. Questo ci permette di classificare ulteriormente le nāyikā secondo altre otto categorie, ognuna delle quali è ripartita secondo innumerevoli combinazioni di situazioni e di caratterizzazioni.
        La classificazione di Bharata circa questi otto personaggi femminili è stata ampiamente apprezzata, studiata e aggiornata fino a giungere a tutte le espressioni che sono messe in scena attualmente. È invero sorprendente che tutte le espressioni tradizionali, come anche le sperimentazioni moderne e contemporanee, si basino su questa classificazione. Un breve accenno faciliterà l’illustrazione e la trattazione che verranno fatte più avanti in questo articolo:

        1. Vāsakasajjā : colei che è agghindata per l’unione (con l’eroe)
        2. Virahotkaṇṭhikā : colei che soffre per la separazione (dall’eroe)
        3. Svādhīnabhartṛkā : colei che ha l’eroe sotto il proprio controllo
        4. Kalahāntaritā : colei che è separata dall’eroe per un litigio
        5. Khaṇḍita : colei che è adirata con l’amante
        6. Vipralabdhā : colei che è stata delusa dall’amante
        7. Proṣitabhartṛkā : colei il cui amante è sempre in viaggio (dimora lontano e quindi non ha molto tempo da dedicare all’amore)
        8. Abhisārikā : colei che si reca all’incontro con l’amato.

        तत्र वासकसज्जा च ववरहोत्कण्ठितावि वा ।
        स्वाधीन-त्ररुका चावि कलहान्तररतावि वा ॥
        खण्ठिता ववप्रब्धा वा तथा प्रोवित-त्ररुका ।
        तथा-साररका चैवा ज्ञेयास्त्वष्ठौतर नावयका ॥

        Nāṭya è la rappresentazione della condizione dei tre mondi descritti nel pensiero e nella filosofia indiana. Bharatamuni l’ha definita bhāvānukīrtana. Il nāṭya intende rappresentare la natura della società in cui esso fiorisce e si evolve; quanto vasta è la società, tanto vasta è la sfera del nāṭya! La varietà umana – sia essa considerata in modo ampio o, invece, ridotto – è pur sempre complessa quanto alle espressioni emotive e inclinazioni intime. Per inserire tutte queste disposizioni d’animo e produrre l’effettiva illustrazione di uno stato d’animo in modo da elevarlo a esperienza artistica, il testo deve procedere con la classificazione del personaggio. Bharatamuni fornisce una classificazione universale dei protagonisti maschili e femminili. Essi sono di tre tipi:

        1. Uttama
        2. Madhyama
        3. Adhama

        Quasi tutti i poeti e retori (ālaṃkārikā) successivi utilizzarono questa classificazione quando trattarono di nāyaka (eroe) e nāyikā (eroina).

        समासतस्तु प्रकॄतिस्त्रिविधा परिकीॄर्तिता ।
        पुरुषाणामथ स्त्रीणामुत्तमाधम मध्यमा ॥
        (NŚ XXIV)

        Bharata così descrive ed estende le qualità di ciascuna di queste categorie. “Uttama indica una persona dalle qualità eccelse, madhyama indica una persona dalle qualità medie e adhama una con qualità inferiori”. Nāyaka, il protagonista maschile, è definito da Abhinavagupta, nel suo commentario al Nāṭyaśāstra nel modo seguente:

        नयति प्राप्नोतीतिव्रुत्तं फलं वेति नायक: ॥

        “L’eroe conduce l’azione e ottiene alla fine il risultato”, perciò egli è il protagonista principale della storia, prasaṅga. Il Daśanipāka di Dhanañjaya elenca i tratti distintivi della personalità del nāyaka:

        नेता विनीतो मधुरस्याही दक्ष: प्रियंवद: ञञ र− लोकश्युचिर्वाग्मी रोढवंश: स्थिरो युवा ञञ बुद्धुत्साह स्म्रुति प्रज्ञाकलामान समन्वित:ञञ शुरो दृढश्च तेजस्वी शास्त्रचक्षुश्च धार्मिक:॥

        “Il nāyaka è virtuoso, attraente, generoso, abile, gentile nel parlare, amato da tutti, puro, buon oratore, nato in una famiglia nota, costante, giovane, intelligente, coinvolgente, si appassiona facilmente, è esperto, è un esteta, è dotato di autostima, coraggioso, saldo nelle convinzioni, brillante, attento agli śāstra, retto.” Bharata classifica inoltre il nāyaka secondo quattro categorie (i quattro tipi di nāyaka appartengono alle tipologie elevata e media):

        अत्र चत्वार एवस्युर्नायका: परिकीर्तिता: ञ
        मध्यमोत्तमप्रक्रुतौ नाना लक्षणालक्षिता: ञञ
        धीरोद्धता धीरललिता धीरोदात्तास्तथैव च।
        धीरप्रशान्तकास्चैव नायका: परिकीर्तिता: ञञ

        Ecco la traduzione della classificazione:

        1. Dhīroddhata : è rappresentato da dèi o personaggi divini
        2. Dhīralalita : è rappresentato da Re
        3. Dhīrodātta è rappresentato da capi o ministri
        4. Dhīrapraśānta è rappresentato da un brāhmaṇā o da mercanti (vaiśya)

        Bharatamuni elenca otto principali descrizioni di temperamento (sattavajālaṅkarā) che sono considerati di qualità sāttvika da Dhanañjaya, Viśvanātha, Siṃhabhūpāla e altri. Il sentimento o l’emozione esperita con mente concentrata è chiamata sattva. La sua estrinsecazione è chiamata sāttvikābhinaya (NS VII). Il Bhāvaprakāśa di Śāradātanaya menziona quattro tipi di nāyaka. Essi sono: anukūla [benevolo], dakṣiṇa [sincero], śaṭha [infido], dhṛṣṭa [traditore]. Bhānudatta nel suo Rasamañjarī segue tale classificazione. E così anche il Sāhityadarpaṇa e il Rasārṇavasudhākara. Ulteriori nāyaka sono classificati quali pati [marito], upapati [amante] e vaiśika [depravato] nel Rasamañjarī e nel Rasārṇavasudhākara. Il Bhāvaprakāśa fornisce un totale di quarantotto varietà di nāyaka utilizzando quattro combinazioni di dhīroddhata anukūla con uttamamadhyama adhama. Nel Rasamañjarī troviamo come prima classificazione patiupapati vaiśika anziché anukūladakṣiṇadhṛṣṭa śaṭha. Vi sono inoltre altre categorie chiamate māni catura: l’orgoglioso e l’intelligente. Qui il catura è ulteriormente suddiviso in vākcatura (abile nella parola) e ceṣṭacatura (abile nell’azione). Bhānudatta, inoltre, menziona le categorie patiupapati vaiśika secondo una diversa classificazione: proṣita patiproṣita upapati e proṣita vaiśikaProṣita indica il nāyaka che si allontana dalla nāyikā.

        La summenzionata descrizione della classificazione dei vari nāyaka è stata fornita allo scopo di avvalorare, tramite riferimenti autorevoli, i soggetti principali di questo articolo, le nāyikā. Bharata applica la regola generale e definisce la nāyikā come uttama (superiore), madhyama (dai pregi medi) e adhama (dalle caratteristiche inferiori). Bharata fornisce anche altre classificazioni della nāyikādivyā (donna celeste), nṛpapathni (principessa o Regina), kulastrī (donna di nobile famiglia) e gaṇikā (cortigiana):

        दिव्याच न्रुपपत्नीच कुलस्त्री गणिका तथा॥
        एतास्तु नायिका ज्ञेया नाना प्रक्रुतिलक्षणा:॥
        धीराच ललिताचस्यादुदात्ता निभ्रुता तथा॥
        दिव्या राजाङ्गनाश्चैव गुणैर्यु−ा -वन्ति हि॥
        उदात्ता निभ्रुता चैव -वेत्तु कुलजाङ्गना॥
        ललितेचा-ुदात्तेच गणिका शिल्पकारिके॥
        ( XXIV)

        Bharatamuni fornisce altre tre classificazioni: bāhyā (cortigiana), ābhyantarā (moglie) e bāhyābhyantarā (donna che unisce in sé le caratteristiche delle due appena menzionate). In base alla suddivisione fornita da Bharata, i teorici successivi hanno classificato le nāyikā nel modo seguente: 1) svīyā [unica moglie], 2) prakīyā anyā [moglie principale] 3) sāmānyā sādhāraṇā [donna di tutti, cortigiana]. Svīyā presenta ulteriori suddivisioni: a) mugdhā [nel fiore dell’età], b) madhyā [adolescente], c) prauḍhā pragalbhā [matura]. A loro volta madhyā pragalbhā si suddividono nelle tipologie jyeṣṭhā [moglie più anziana] e kaniṣṭhā [moglie più giovane]. Secondo il Bhāvaprakāśa di Śāradātanaya, anche madhyā pragalbhā hanno tre sottoclassi: udāttā [appassionata], lalitā [licenziosa] e śāntā [pacificata]. Infine, il famoso Kāmasūtra di Vātsyāyana affronta le tipologie di donna secondo ulteriori prospettive. Le nāyikā sono classificate come: 1) padmini [pura come un loto], 2) citriṇī [appassionata come un’artista], 3) śāṅkhiṇī [sfrenata e dura come una conchiglia], 4) hastinī [spudorata e irascibile come una elefantessa]. Si tratta di categorie basate sull’attitudine sessuale. Vātsyāyana fornisce anche la seguente classificazione: 1) kanyā, fanciulla, 2) punarbhū, donna maritata una seconda volta 3) veśyā, cortigiana.

        Tutti i trattati di drammaturgia generalmente esaminano kanyā veśyā, ma non analizzano punarbhū (a eccezione di Bhoja). In quattro sezioni separate, Vātsyāyana si occupa anche di kanyābhāryā [moglie legittima], paradāra [adultera] e veśyā.
        Tutte le varie categorie possono essere così riassunte:

        1. Svīyā (13 tipologie)
        2. Mughdā
        3. Madhyā
        4. Pragalbhājyeṣṭhā kaniṣṭhā (suddivisioni delle categorie madhyā pragalbhā), (4 tipologie in tutto)
        5. Dhīrā [che dissimula la gelosia], adhīrā [incapace di dissimulare la gelosia] e dhīrādhīrā [che talvolta dissimula, talaltra scoppia di gelosia] (suddivisioni delle categorie madhyā pragalbhā), (6 tipologie in tutto)
        6. Anyā parakīyā (con 2 varietà all’interno delle due sottoclassi ūḍhā kanyā)
        7. Sāmānyā sādhāraṇā (con una sola tipologia)

        Si arriva a una sommatoria di 16 categorie che rappresentano le principali tipologie di nāyikā accettate da quasi tutti i trattati, compresi il Rasamañjarī e il Rasārṇavasudhākara di Simhabhūpāla. È interessante notare come Rudrabhaṭṭa, nel primo capitolo del suo Kāvyālaṅkāra, porti il numero delle nāyikā a 384! Se Bhānudatta avesse accettato l’ulteriore classificazione delle nāyikā secondo le tre varietà principali di divyā [celestiale], adivyā [terrena] e divyādivyā [celestiale e terrena al tempo stesso], il numero totale sarebbe salito a 1152! Moltiplicando i 16 generi di eroine per le loro 8 differenti avasthā (condizione, situazione o stato) arriviamo alla somma di 128 tipologie di nāyikā. Se classifichiamo questi 128 tipi di nāyikā secondo le tre categorie di uttamamadhyama adhama, avremo un totale di 384 diverse categorie. Classificando ulteriormente secondo le tre categorie di divyāadivyā divyādivyā otteniamo un totale di 1152 tipi di nāyikā. Per dare degli esempi, divyā è Indrāṇī, la moglie del Re degli Dei, adivyā è Mālatī3 e divyādivyā è Sītā, la moglie di Śrī Rāma. Nel nāṭya, la classificazione del nāyaka (eroe) è basata principalmente sulla sua condizione (avasthā). Comunque, se consideriamo la sua nascita e altre caratteristiche specifiche, anche il nāyaka può essere così illustrato: Indra come divya, Mādhava come adivya e Arjuna come divyādivya.

        In questo contesto, è opportuno aggiungere un’osservazione sulla nāyikā mugdha [ingenua]: ella non può essere classificata come dhīrā o adhīrā perché è priva di un’adeguata esperienza e anche perché le otto classificazioni di aṣṭavidha nāyikā bhāva non possono esserle applicate. Cionondimeno, in accordo con i testi antichi, queste classificazioni devono essere tenute in considerazione nel caso della nāyikā navoḍha, la sposa novella.

        Passiamo ora a descrivere gli otto generi di nāyikā, le aṣṭanāyikā, su cui principalmente si basa il presente articolo.

        1. Vāsakasajjā: l’eroina trepidante, vestita e ornata di tutto punto in attesa di incontrare l’amato. La danza indiana ha un repertorio enorme che riguarda questa avasthā. L’eroina è dipinta come una donna perfettamente agghindata in attesa del nāyaka o come una donna vestita in modo tale da permettere al nāyaka di spogliarla con facilità per unirsi a lei. Nel Bharatanāṭyam il repertorio dei generi jāvaḷīpadamaṣṭapadiśṛṅgārakīrtana abbonda in numero e varietà di raffigurazioni per questo nāyikābhāvaVāsakasajjā, la donna che è in attesa dell’amante, è uno dei soggetti prescelti dagli abhinaya del nāṭyāṅganā, poiché ha insita in sé la possibilità di descrivere un situazione con solennità e maestria. Nella pratica generale e anche nella descrizione testuale, la vāsakasajjā è ritratta come un’eroina che, pregustando i piaceri dell’amore, abbellisce gioiosamente se stessa nell’attesa di portare a compimento l’unione coniugale (da cui la parola vāsaka, coabitare).
        2. Virahotkaṇṭhitā: l’eroina afflitta dalla separazione dal nāyaka. È la nāyikā prediletta dai danzatori. Il suo impiego è prevalente nella danza tradizionale, ma è anche abbondantemente messo in scena sui palcoscenici contemporanei. La parola può essere suddivisa in due parti: viraha (il dolore della separazione) e utkaṇṭhita (un grido acuto). Ut significa acuto e kaṇṭha significa dare voce alla sofferenza. Vi è un ben noto principio che indica l’insieme di elementi comuni alla voce e al corpo umani, entrambi definiti śarīra: questo sūtra è “śarīram śārīram” e significa “la voce è come il corpo”. Ut qui si riferisce al grido emesso attraverso la voce oppure reso manifesto attraverso l’intero corpo. Quindi l’abhinaya del virahotkaṇṭhita è realizzato con frasi musicali dai suoni più acuti, nell’ottava superiore, eseguiti per un aṅgabhāva che vede il collo teso come centro della linea (rekhā) del corpo. Vi sono innumerevoli elementi nell’esecuzione della danza che esprimono questo nāyikā bhāva la cui efficacia e la cui esteriorizzazione possono superare il significato primario di śṛṅgāra e culminare nello stato di bhakti (devozione). In generale, si tratta di una eroina il cui amato non si è presentato all’appuntamento al momento o nel giorno stabilito perché era impegnato in altre faccende; questo diventa per l’eroina motivo di grande tristezza.
        3. Svādhīnabhartṛkā: la nāyikā il cui marito è sottomesso. L’eroina fa molte raccomandazioni al nāyaka. Questi la ascolta pazientemente e in molte occasioni cerca di consolarla. Questa nāyikā è chiamata anche svādhīnapatikaSvādhīna significa colui che è soggetto al comando e patika colei che ha fatto questo al suo pati, suo marito, signore o amante. Il pati bhartṛ è completamente affascinato dai gesti d’amore (surata) o dalla bellezza (saundarya) dell’amata. Questa nāyikā è generalmente dipinta come un’eroina il cui marito, amante o signore è attratto dalla sua condotta e dai piaceri d’amore (surata) che lei procura, perciò rimane al suo fianco; ha qualità gradevoli perciò si assoggetta a lei. Tradizionalmente questi elementi sono rappresentati nell’abhinaya (volto risplendente di piacere rivolto all’amato, grande fascino e notevole bellezza fisica) e con āharya (abiti e gioielli vistosi e sgargianti).
        4. Kalahāntaritā: l’eroina separata dall’amato per colpa di un litigio. Il nāyaka (sventurato) se n’è andato per colpa dell’alterco. La nāyikā è inquieta perché l’amato si è allontanato per un bisticcio o per gelosia e non torna immediatamente da lei. Tale eroina è normalmente rappresentata da un abhinaya che descrive apprensione, sospiri, svogliatezza, cuore in fiamme, conversazioni strazianti con l’amica (sakhī), auto-commiserazione, debolezza, prostrazione, lacrime, insorgere dell’ira, rinuncia degli ornamenti, rifiuto dei linimenti rinfrescanti e purificanti, dolore e pianto. Questa era invero la nāyikā prescelta in molti spettacoli del passato. Kalaha significa litigare e antaritā indica colei che è incline al bisticcio. Dalla combinazione di questi due elementi emerge un motivo poetico e la corrispondente espressione emotiva.
        5. Khaṇḍita: è la raffigurazione di un’eroina adirata. Qui khaṇḍa (come parte della parola) significa ‘profondamente colpito’. L’eroina è arrabbiata perché l’amante-marito-signore non è arrivato al momento prestabilito perché, almeno così ella crede, probabilmente ha un affaire con un’altra donna e persino, forse, si è legato a una donna inferiore; l’amato quindi non arriva per unirsi all’amata come aveva promesso e la nāyikā ne è estremamente adirata e turbata. Questa eroina è rappresentata colta da forte agitazione; sospira, è debole, ha il cuore infranto per l’affanno, conversa con l’amica (sakhī) rimproverando l’amato, commisera se stessa, esprime sfinimento e afflizione con il pianto provocato dall’estrema ira, abbandona gli ornamenti (talvolta li getta via) e singhiozza sconsolatamente.
        6. Vipralabdhā [indispettita]: è l’eroina che l’amato non raggiunge per una qualche ragione, nonostante che la messaggera fosse stata inviata (con un messaggio d’amore e l’invito a un incontro furtivo) e l’appuntamento fosse già stato concordato. Questa eroina si sente ingannata. È interessante notare che l’abhinaya di questa nāyikā è eseguito con tutti i tipi di eroine khaṇḍita kalahāntaritā, anche se le modalità del movimento sono differenti per ciascuna di esse. Il vipralabdhā abhinaya è eseguito per esprimere lo stato d’animo di una persona ferita; quindi le espressioni del viso e le posture del corpo si adeguano a quello stato d’animo.
        7. Proṣitabhartṛkā (o apatika): l’eroina il cui sposo, amante, signore o amato vive lontano (sono separati da un’enorme distanza geografica) perché è obbligato a essere impegnato da varie incombenze. L’eroina è raffigurata con i capelli sciolti; è in uno stato di afflizione e, allo stesso tempo, di attesa. L’acconciatura è in effetti la caratteristica più significativa della raffigurazione di questa eroina. Molti antichi componimenti poetici e opere teatrali presentavano proprio questa eroina come personaggio principale.
        8. Abhisārikā: è colei che, per amore o infatuazione, è così attratta dall’amante da abbandonare ogni modestia pur di andare (abhisaraṇa) a incontrarlo. La si mostra mentre fa questo furtivamente (la caratterizzazione del movimento rivela proprio questa segretezza). Questa eroina è uno dei personaggi maggiormente rappresentati; i trattati ne dibattono ampiamente e ne illustrano le possibili suddivisioni di caratteri:
          1. La cortigiana: mentre si muove verso l’amato deve avere il corpo magnificamente abbellito con ornamenti sgargianti. Incede lentamente (garvita) in compagnia delle sue attendenti (sakhī). E così facendo rende evidente la travolgente passione (sa-madanā) e il diletto (tuṣṭhi).
          2. Madhyamā: la donna appartenente a una famiglia di stirpe illustre. Si copre il volto con il velo, avanza timidamente con le membra del corpo contratte e spesso guarda dietro di sé colta dal timore e dal dubbio.
          3. Sakhī: l’ancella; cammina con passo incerto (āviddha gati) e lo sguardo raggiante per le gioie dell’amore. Si muove disorientata a causa dell’ebrezza (madaskhalita saṃlāpa).

        Il Nāṭyaśāstra enumera anche le diverse situazioni e i diversi livelli di incontro tra gli amanti, quelli di unione coniugale e del comportamento durante l’unione; molte altre situazioni analoghe sono ben definite. Bharatamuni fu ben consapevole delle responsabilità verso la società e della richiesta modestia nel comportamento. Quindi egli stabilì quali azioni devono essere proibite sul palcoscenico durante la rappresentazione dei personaggi. La raffigurazione dell’estasi, per esempio, deve essere un’azione allusiva e non una esibizione esplicita dei corpi. Bharata proibisce le seguenti azioni corporee: salire sul letto, fare il bagno, spalmare unguenti e creme, decorare il corpo, afferrare i seni o i capelli. Egli ripete che le donne uttamā e madhyamā non devono mostrasi svestite (apārṛlā), non devono indossare un’unica veste (ekavastrā) e non devono tingersi le labbra.

        Schemi riassuntivi e immagini si trovano nel Pdf scaricabile.

        1. Celebre danzatrice di Bharatnāṭyam, in particolare dello stile sviluppatosi presso la Corte dei Re di Mysore. Ha fondato una sua scuola di danza a Mysore, dove istruisce numerose giovani donne. È sposata con il famoso cantante Śrī Dr. Nandakumāra ed è perciò nuora e śiṣya del Guru di Śrī VidyāMahāmahopādhyāya Dr. R. Sathyanarayana Mahārāja [N.d.T.].[]
        2. Il sentimento (rasa) amoroso della retorica sanscrita [N.d.T.].[]
        3. La protagonista del dramma Mālatīmādhava di Bhavabhūti [N.d.T.].[]