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15. L’Odissea

    L’Odissea

    Il secondo Poema di Omero, l’Odissea (Ὀδύσσεια, leggi Odỳsseia), racconta i viaggi per mare di Ulisse (Ὀδυσσεύς, leggi Odyssèus1), l’eroe greco che dopo la distruzione di Troia cercò di far ritorno al suo regno, l’isola di Itaca.
    Da un punto di vista profano e superficiale, il Poema è generalmente considerato come un semplice racconto di avventure. Tuttavia, l’Odissea racconta anche in forma simbolica e talvolta enigmatica, il difficile e faticoso viaggio interiore di Ulisse2 volto a ristabilire la purezza mentale che aveva l’umanità alle origini.
    Odisseo lasciò Itaca per prendere parte alla Guerra di Troia e alla fine di dieci anni di combattimenti, dopo la distruzione di quella città, partì da quei lidi con le sue dodici navi per far ritorno a casa. Quando l’isola era già stata avvistata, i venti però lo spinsero lontano in direzione dell’Oceano Atlantico e così per dieci anni Ulisse andò alla deriva sul mare vivendo avventure inimmaginabili, oltre qualsiasi normale esperienza umana, come comprova il suo viaggio al regno dei morti che è costellato da tutta una serie di eventi favolosi3.
    Durante le sue numerose disavventure, l’astuto (πολύμητις, leggi polỳmetis) eroe greco ricevette sempre la protezione di Atena, la Dea della conoscenza e dell’arte (ἒντεχνος σόφία, leggi entèkhnos sofìa), mentre Poseidone, il dio del mare, gli fu sempre ostile. Le avventure di Ulisse e dei suoi guerrieri sono sempre affascinanti perché suscettibili di numerose interpretazioni simboliche.
    Tra queste, un’altra molto famosa è quella del suo sbarco sull’isola dei Ciclopi4, dove l’eroe rischiò di essere divorato con tutti i suoi compagni da Polifemo, figlio di Poseidone. Grazie alla sua proverbiale astuzia Odisseo riuscì a salvare se stesso e la maggior parte dei compagni accecando il Ciclope; ma in questo modo attirò l’ira del Dio.
    Scampato al Ciclope, approdò all’isola dei Lestrigoni5, giganti mangiatori di uomini, dove perse undici navi con tutti gli equipaggi. In seguito, arrivò all’isola di Eea, dimora di Circe6, un’incantatrice che con la magia trasformava gli uomini in animali. La strega però si innamorò di Ulisse e così i suoi guerrieri, che erano stati trasformati in maiali, riacquistarono la loro forma umana. È dopo aver lasciato Circe che Ulisse raggiunse il Regno dei Morti dove ricevette istruzioni su come poter fare ritorno a casa. Passò quindi vicino a una spiaggia dove sentì le canzoni pericolosamente incantevoli delle Sirene7.
    Quando raggiunsero l’Isola del Sole, i greci vi sbarcarono affamati e così uccisero e si nutrirono delle sacre vacche del Dio (del Sole). Zeus, irato per il sacrilegio compiuto, scatenò una tempesta e affondò la nave. Tutti morirono tranne Odisseo che raggiunse l’isola di Ogigia8, “dov’è l’ombelico del mare”, come dice Omero: per sette lunghi anni, l’eroe fu ivi trattenuto in dolce prigionia dalla ninfa Calipso9(Καλυψώ, leggi Kalypsò).
    Alla fine, gli Dei decisero che il Fato doveva compiersi e acconsentirono che l’eroe finalmente potesse raggiungere la sua destinazione: Calipso accettò la decisione a malincuore e obbedì alla volontà di Zeus permettendo a Odisseo di salpare su una zattera. Contravvenendo alla volontà del Re degli Dei, Poseidone scatenò una nuova tempesta contro Ulisse che fece nuovamente naufragio. Anche questa volta sopravvisse e approdò all’isola dei Feaci (Φαίακες, leggi Fàiakes10) che lo aiutarono a tornare a casa. L’isola dei Feaci era chiamata Skheria (Σχερία, leggi Skherìa, “Perenne”, equivalente del sanscrito Sanātana), una terra felice dove la natura produceva sempre fiori e frutti: in realtà Skheria appare come una variante dei Campi Elisi. Dodici Re governavano quest’isola e un tredicesimo regnava su tutti11. Veleggiando sulla cresta delle onde con una nave feacia (simile a un vimāna12), Odisseo finalmente sbarcò a Itaca, ma non conoscendo la situazione in cui si trovava il suo regno, preferì rimanere in incognito.
    Il porcaro Eumeo13 lo ospitò nella sua umile casa e gli rivelò che, seppure fossero trascorsi vent’anni dalla partenza del marito, la fedeltà di Penelope nei suoi confronti era rimasta sempre inalterata, malgrado fosse costantemente molestata dai pretendenti (Proci) che la volevano costringere a nuove nozze con uno di loro. I Proci erano giovani principi, prepotenti e arroganti che volevano impossessarsi dell’isola sposandone la Regina; nel frattempo vivevano nel palazzo reale di Odisseo dilapidando le sue ricchezze.
    Durante una competizione con l’arco, Odisseo manifestò la sua vera identità e massacrò tutti i pretendenti: il palazzo fu finalmente liberato ed egli si riunì a Penelope. Così fu restaurato l’ordine che deve governare l’esistenza umana.

    Nel Poema, Penelope14 è sempre descritta come prudente, la più saggia delle donne e rappresenta quella mai dimenticata Conoscenza, celata nel cuore di Ulisse15.

    Il ritorno a casa, quindi, sancisce il raggiungimento della purificazione interiore di Ulisse e la restaurazione dell’Età dell’Oro a Itaca; il che ricorda il regno ideale di Rāma quando fece ritorno ad Ayodhyā.

    Tuttavia, una profezia aveva annunciato che Ulisse avrebbe dovuto ripartire per un ultimo viaggio portando un remo sulle spalle: la sua peregrinazione si sarebbe conclusa solo quando, in una terra lontana, un uomo, non riconoscendo il remo; avesse affermato che Odisseo stava portando sulla spalla un bastone per battere il grano. Questa predizione corrisponde all’annuncio del conseguimento di un grado di realizzazione superiore. Infatti, il bastone da spulatura simboleggia la separazione dell’eroe da tutti i limiti, gli ostacoli e da ogni legame transitorio16.

    Da questo passaggio dell’Odissea si evince che in tempi molto remoti c’erano due diversi percorsi iniziatici: Piccoli Misteri e Grandi Misteri e, ai tempi di Omero, chi ascoltava la poesia epica, ne comprendeva il significato. Ma non molto tempo dopo, questa conoscenza fu privata del suo significato originale, perdendo così la sua dimensione metafisica. Malgrado tutto però, sebbene l’Odissea sia molto più simbolica e iniziatica dell’Iliade, anche in questo Poema non c’è una sezione specificamente sapienziale.

    Durgādevī

    1. Probabilmente questo nome deriva dal verbo όδύσσομαι (leggi odỳssomai), “essere adirato”. La stessa radice appare nel verbo latino odiare.[]
    2. In latino era conosciuto come Ulisse.[]
    3. Durante la sua discesa negli inferi, gli viene predetto: “Tu cerchi il ritorno che ha la dolcezza del miele” cosa che indica chiaramente che il viaggio di Ulisse mira a raggiungere la Madhu vidyā [Madhu-vidya è descritta nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad II.1-19, e nella Chaṅdogya Upaniṣad III.1-5. Si tratta della “conoscenza del miele” ossia quella della suprema beatitudine del Sé; è un importante insegnamento vedico. Questa conoscenza è destinata a essere comunicata dal maestro al discepolo, dal padre al figlio che è degno e interiormente pronto. Indra insegnò la Madhu vidyā al ṛṣi Dadhīchi con l’avvertimento che non doveva essere comunicata a nessun altro; N.d.T.].[]
    4. I ciclopi erano giganti con un occhio solo sulla fronte. La leggenda li rappresenta come una razza selvaggia e crudele.[]
    5. I Lestrigoni erano un popolo leggendario di giganti antropofagi che per ordine del loro Re, Antifate, distrussero la flotta di Ulisse ed uccisero tutti i marinai infilzandoli con enormi spiedi. Si salvò dalla strage solo la nave dell’eroe, rimasta all’ancora fuori dal porto. Secondo Omero, nella terra dei Lestrigoni (generalmente identificata con la Sardegna), la notte è così breve che il pastore che usciva col gregge al mattino incontrava lungo la strada quello che rientrava con il bestiame la sera. Secondo lo scrittore Felice Vinci si tratta di vaghi ricordi dell’estate nordica da parte di qualche viaggiatore (Cratete in scol. ib. 86, ripreso da Vinci nel suo Omero nel Baltico). La loro città è chiamata Lestrigonia o anche Lamia, da Lamo, suo fondatore all’epoca della guerra di Troia (XII secolo a.C.) [N. d. T.].[]
    6. Figlia di Elio e della ninfa Perseide o, secondo un’altra tradizione, del Giorno e della Notte. Omero colloca l’isola di Circe ad Oriente (Odissea XII.3), la tradizione successiva identificherà questa con il promontorio del Circeo nel Lazio. La sua dimora era un palazzo circondato da un bosco, abitato da festose bestie selvatiche; Virgilio nell’Eneide (VII.19-20), ci dice che queste bestie altro non sono che uomini così ridotti dai sortilegi della dea-maga [N. d. T.].[]
    7. Spiriti pericolosi, metà donne e metà uccelli. [Le Sirene tentano Odisseo con la seduzione del “sapere più cose”. Omero condanna l’attrazione per l’“onniscienza” delle cose empiriche che fa perdere i propri legami familiari e civili distraendo dal proprio percorso nella vita. L’isola mortifera delle sirene era disseminata di cadaveri in putrefazione. Odisseo, consigliato da Circe, la supererà indenne. Secondo un racconto antico (Igino 124.13) le due sirene che tentarono Odisseo si uccisero gettandosi in mare perché non erano riuscite a trattenere l’eroe. Una di esse, Partenope, si arenò sulla spiaggia su cui poi sorse la città di Napoli, e a lei vennero dedicati giochi annuali, le Lampadedromie. Omero non descrisse l’aspetto delle sirene; a tal proposito si è presupposto che ciò sia stato dovuto al fatto che sia il cantore sia l’uditore conoscevano bene le forme di queste creature grazie ad altri racconti mitici già diffusi, come le avventure di Giasone e degli Argonauti. N. d. T.].[]
    8. In lingua greca Ὠγυγίη (leggi Ogygìe), è l’isola dove Ulisse si trovò a sostare per sette anni dopo le lunghe avventure e pericoli corsi durante il suo ritorno dalla guerra di Troia. Diversi sono i tentativi di posizionamento dell’isola; qui basti dire che viene descritta da Ulisse come un luogo paradisiaco [N. d. T.].[]
    9. Il suo nome deriva dal verbo καλύπτω (leggi kalypto), coprire, nascondere, celare. Corrisponde al tredicesimo anno di nascondimento dei Pāṇḍava alla fine dell’esilio. Calipso era la figlia di Atlante, quindi rappresenta una prigione atlantidea. Anche nel Mahābhārata il Regno dei Matsya e il suo re Virāṭa mostrano molti aspetti caratteristici della tradizione di Atlantide.[]
    10. Questo nome deriva probabilmente dal verbo φαίνω (leggi fàino), risplendere [Le narrazioni tradizionali tratteggiano i Feaci come un popolo che vive in un locus amœnus, in condizioni di felicità e prosperità, caratteri che rimarcano per contrapposizione le differenze con le condizioni di vita dei Greci. La narrazione sui Feaci si lega al sistema dei valori della xenìa, quella che era la forma di ospitalità del mondo greco. N. d. T.].[]
    11. Come il sole sui dodici segni dello Zodiaco.[]
    12. Il termine vimāna (in sanscrito विमान) indica un mitico oggetto volante, descritto in numerosi testi indiani. Secondo le descrizioni dei testi sacri, i vimāna erano in grado di volare nell’aria, nello spazio e di immergersi sott’acqua. Segnaliamo che fra i diversi tipi di vimāna di diverse forme e dimensioni menzionati nei Veda, si enumerano il carro del sole e le navi volanti che trasportano i defunti, ruotando in cielo tirati da cavalli [N. d. T.].[]
    13. In verità, l’umile porcaro era il figlio del Re di Ortigia, l’isola di Delo che faceva parte delle terre iperboree e di cui la Delo del Mediterraneo era solo una proiezione equinoziale. Pertanto, qui “porcaro” significa “abitante di Varāhī”, la dimora primordiale.[]
    14. In greco Penelope è il nome di un cigno o di un’oca, l’Anser eurasiatico, cioè l’haṃsa (Cigno od oca selvatica, nome con cui si definisce l’umanità perfetta del Satya yuga, l’Età dell’Oro).[]
    15. Nel Tripurā Rahasya, Jāmadagnya si rivolge così al maestro: “… La Dea ha sempre vissuto nel mio cuore …”. La dea Tripurā è conoscenza, proprio come Penelope.[]
    16. Nel Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.1.12), la frase “quando i chicchi di riso vengono battuti” è commentata esattamente allo stesso modo: è necessario che le percussioni debbano continuare finché la pula non si separa dai grani. Con tale separazione, vale a dire con il conseguimento del mokṣa, qualsiasi ulteriore battitura sarebbe superflua. Battere il riso è un modo per rappresentare l’ātmānātma viveka (la discriminazione tra il Sé e il on sé). Il battito del riso rappresenta così il “neti neti”.[]

    15. The Odyssey

      The Odyssey

      The second Poem of Homer, the Odyssey (Ὀδύσσεια, read Odǘsseia), relates the sea travels of Odysseus (Ὀδυσσεύς, read Odüssèus1), the Greek hero returning to his Kingdom, the island of Ithaca, after the destruction of Troy.
      From a profane and superficial point of view, the Poem is generally considered as a simple account of adventures. However, the Odyssey also tells in a symbolic and sometimes enigmatic form the difficult and tiring inner journey of Odysseus2 in order to restore the mental purity of the original humanity.
      Odysseus left Ithaca to take part in the Troy War. After ten years of war, he departed from the Trojan shore with his twelve ships to return back home. When the island was already in sight, winds pushed him far off in the direction of the Atlantic Ocean. For ten years Odysseus drifted on the sea out of any normal human experience. His journey to the reign of the dead is described in a succession of fabulous events3.
      Throughout his numerous misadventures, the astute (πολύμητις, read polǘmetis) Greek hero always received the protection of Athena, the Goddess of knowledge and art (ἒντεχνος σόφία, read entèkhnos sofìa). On the contrary, Poseidon, the God of the sea, always remained hostile to him. The adventures of Odysseus and his warriors are fascinating and susceptible to symbolic interpretations. Among them it is famous his landing on the island of the Cyclops4 where the hero risked being devoured with all his comrades by Polyphemus, son of Poseidon. Thanks to his proverbial artfulness Odysseus managed to save himself and most of companions by blinding the Cyclopes, but in this way he attracted the wrath of the God.​
      Then he arrived to the island of the Laestrygonians, man-eating giants, where he lost eleven ships with their crew. Later he landed on the island of Eeas, abode of Circe, an enchantress who turned men into animals by magic. The sorceress, however, fell in love with Odysseus and so his warriors, who had been turned into pigs, regained their human form. After leaving Circe, Odysseus descended to the Realm of the Dead where he received clues on how to return home. He then passed near a shore where he heard the dangerously charming songs of the Sirens5. Hungry, the Greeks reached the island of the Sun, where they killed and fed on the sacred cows to the God. Zeus, angry for the sacrilege casted a storm upon the crew and sank the ship. All died except Odysseus.​
      The castaway then reached the island of Ogigia, “where is the navel of the sea”, as Homer says. There, for seven long years, the hero was kept in sweet imprisonment by the nymph Calypso6 (Καλυψώ, read Kalüpsò).​
      Finally the Gods decided that Fate could no longer wait: it was determined that the hero would eventually reach his destination. It was, therefore, necessary to intervene. Calypso reluctantly obeyed Zeus’s will and allowed the hero to set sail on a raft. However Poseidon sent a storm against the will of the King of the Gods, and Odysseus shipwrecked once again. However he survived it and landed on the island of the Phaeacian people, (Φαίακες, read Fàiakes7), who helped him to return home. The Phaeacian island was called Skheria (Σχερία, read Skherìa, the perennial one, sskr. sanātana), a happy land where nature always produced flowers and fruits, which in fact was the very Elysian Fields. Twelve Kings ruled the island, and a thirteenth one reined over all of them8. Flying over the waves with a Phaeacian ship (similar to a vimāna) Odysseus finally landed at Ithaca, but, not knowing the situation of his kingdom, he preferred to remain incognito.​
      The swineherd Eumaeus9 hosted him in his humble home and revealed that, even after twenty years of absence, the fidelity of Penelope to her husband had always remained untouched. She was constantly harassed by suitors (Proci), who were forcing her to marry one of them. The Proci were young, overbearing and arrogant princes who wanted to take over the island by marrying the Queen. In the meantime, they were living in the Odysseus’ Royal Palace, dilapidating his wealth. During a competition with the bow, Odysseus massacred all the suitors. The Palace was finally set free and he reunited with Penelope. The order was restored according to the laws that should govern human existence.
      In the Poem, Penelope10 is always described as wise, the wisest of women. She represents the Knowledge located in the heart of Odysseus, who has never forgotten her11.
      The return to home marks the achievement of the inner purification of Odysseus and the restoration of the Golden Age in Ithaca. This resembles the ideal kingdom of Rāma when he returned to Ayodhyā.​
      However, a prophecy predicted that Odysseus had to depart again for one last journey carrying an oar on his shoulders. His peregrination would have been completed only when, in a faraway land, a man, not recognizing the oar, affirmed that he had on his shoulder was not an oar but a winnowing stick for wheat. In this way, a further degree of realization was prophesied to him. In fact, the winnowing stick symbolizes the separation of the hero from all the limits and obstacles: so any transient tie should be cut12.
      From this passage of the Odyssey we can argue that in very remote times there were two different initiatic paths: Small Mysteries and Great Mysteries. In Homeric times those listening to epic poetry would understand such meaning. But in the immediate aftermath, that knowledge was deprived of its original meaning finally losing its metaphysical dimension. However, even if the Odyssey is much more symbolic and initiatic than the Iliad, here too any truly sapiential section remains absent.

      Durgādevī

      1. Probably his name derives from the verb όδύσσομαι (read odǘssomai), to be disgusted. The same root appears in the Latin verb odiare, to hate.[]
      2. In Latin he was known as Ulysses.[]
      3. During his descent to the underworld one predicts him: “You seek the return that has the sweetness of honey”: so the journey of Odysseus clearly aims to reach the madhu vidyā.[]
      4. Cyclops were giants with a single eye on the forehead. The legend represents them as a wild and cruel race.[]
      5. Dangerous spirits half women and half birds.[]
      6. Her name derives from the verb καλύπτω (read kalǘpto), to hide, to conceal. It corresponds to the thirteenth year of hiding of the Pāṇḍavas at the end of the exile. Calipso was the daughter of Atlas, so she represents an Atlantean imprisonment. Also in the Mahābhārata the Kingdom of the Matsyas and its King Virāṭa show many features of the Atlantean tradition.[]
      7. This name probably derives from the verb φαίνω (read fàino), to shine.[]
      8. Like the sun on the twelve signs of the Zodiac.[]
      9. In fact, the humble swineherd was the son of the King of Ortigia, the island of Delos, which was part of the hyperborean lands and of which the Mediterranean Delos was only an equinoctial projection. Therefore, here swineherd means “inhabitant of Varāhī“, the artic Home.[]
      10. In Greek Penelope is the name of a swan or goose, the Eurasian Anser, i.e. the haṃsa.[]
      11. In the Tripurā Rahasya Jāmadagnya thus addresses the master: “[…] The Goddess has always lived in my heart…”. The Tripurā Goddess is knowledge, just like Penelope.[]
      12. In the Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.1.12), the phrase “when rice grains are beaten” is commented in the same way: it is required that the beating must continue until the chaff separates from the grains. With such separation, that is to say with the achievement of the mokṣa, any further beating would be unnecessary. Beating rice is a way of representing the ātmānātma viveka. The beating of the rice represents the “neti neti”.[]