Analisi del Puruṣa Sūkta
L’inno chiamato Puruṣa Sūkta, in quanto ha Puruṣa come divinità, consiste in sedici versi ṛk e costituisce il novantesimo inno del decimo maṇḍala della Ṛg Veda Samhitā1. La Saruvānukramaṇī di Kātyāyana (LX.5) indica Nārāyaṇa come il veggente (ṛṣi) che ne fu l’autore e Puruṣa come la divinità (devatā) a cui s’indirizza. Il clan d’appartenenza del ṛṣi non è stato tramandato. La divinità chiamata Puruṣa è l’essenza stessa della manifestazione del mondo, annoverata anche come venticinquesimo tattva del Sāṃkhya; non deve perciò essere confuso con la persona umana, anche se puruṣa è parola sanscrita di uso comune in tutti i vernacoli dell’India per definire l’uomo. Ānandatīrtha2 afferma che Puruṣa è chiamato così per la sua pienezza in quanto rappresenta la totalità dell’esistenza. Sāyaṇa (?-1387)3 spiega che l’essenza dellla manifestazione è chiamata Puruṣa per distinguerla dalla Prakṛti non manifestata (avyakta) e dai suoi prodotti quali mahat e così via. In accordo con Śaunaka4, Puruṣa è il creatore e la causa efficiente dell’universo. I primi quindici versi del Sūkta sono in anuṣṭup chanda, l’ultimo in triṣṭup. Nella Vājasaneyi Saṃhitā, l’anuṣṭup usato qui è più specificatamente definito come nicṛd anuṣṭup (metro difettoso).
Mantra X.90.1
sahasrá śīrṣā purúṣaḥ sahasrākṣaḥ sahasrápāt
sa bhūmím viśvató vṛtvā atyátiṣṭhat daśāṅgulam
Il Puruṣa ha mille teste, mille occhi, mille piedi. Pervadendo in ogni parte l’universo, Egli colma le dieci direzioni (aṅgula) dello spazio.
1. sahasrá śīrṣā purúṣaḥ sahasrākṣaḥ sahasrápāt
L’espressione sahasra, mille, non va presa in senso letterale. Significa molti, innumerevoli. Lo Śatapatha Brāhmaṇa (VIII.7.4.11) usa il termine sakala, tutto, intero, come sinonimo di sahasra. Sāyaṇa propone che l’espressione sahasra sia da prendere in senso metaforico che, implicitamente, sta per infinito. Il Puruṣa ha qui un corpo che tutto comprende, universale (brahmāṇḍa deha), forma aggregata o totalità di tutte le creature viventi (sarva prāṇi samaṣṭi rūpa). Secondo Sāyaṇa, questo designa Virāṭ di cui si tratterà commentando il verso 5. Egli ha, dunque, innumerevoli teste, occhi e piedi nel senso che le teste, gli occhi e i piedi di tutti gli esseri sono, di fatto, le teste, gli occhi e i piedi del solo Puruṣa. Inoltre, quelle membra del corpo sono menzionate come parte per il tutto, cioè sono usate per intendere implicitamente tutte le parti del corpo degli esseri individuali. Esse sono tutte incluse nel corpo o forma di Puruṣa.
Per l’uso di sahasra, mille, in senso di innumerevole, si vedano anche altri passaggi del Ṛg Veda, come sahasra śṛinga vṛṣabha, il toro dalle mille corna (VII.55.7); sahastra dhāra, mille torrenti (IX.101.6); sahasradhā mahimānaḥ, mille involucri di gloria (X.114.8); sahasra dāna, mille doni (IX.58.4); sahasra rātayaḥ, mille moderate ricchezze (I.11.8); sahasra ayutā dātā, dispensatore di miriadi di offerte, sahasra cetaḥ, mille esseri coscienti e così via. Anche nella Vājasaneyi Saṃhitā (VS) dello Yajur Veda bianco (XVII.71), Agni è descritto con mille occhi, dotato di cento correnti vitali e di un migliaio di soffi, e come supporto del mondo per migliaia di esseri.
I primi due mantra del Puruṣa Sūkta sono ripetuti testualmente nella Śvetāśvatara Upaniṣad (III.14.15) assieme alla loro spiegazione.
Lo Śatapatha Brāhmana (VIII.7.4.11) definisce sahasra, nel senso di tutto intero, come la perfetta misura, immagine o descrizione dello Spirito Supremo.
Come s’è visto, le tre membra menzionate in questo contesto sono la testa, gli occhi e i piedi. Simbolicamente la testa rappresenta la volontà (saṃkalpa), gli occhi la capacità di vedere, la conoscenza (darśana) e i piedi il movimento, l’azione e le relazioni (vyavahāra). Il significato è che tutte le decisioni, le conoscenze e le attività nel mondo sono realmente compiute dal Puruṣa.
Delle tre descrizioni del Puruṣa, il primo, sahasra śīrṣa (dalle mille teste), non si ritrova nel corpus ṛgvedico. Il terzo, sahasra pāt, si trova solo in un altro passo nel RV (VIII.69.16) in connessione con la lode al Sole. Si deve notare che pāda (piede) è usato anche per designare i raggi di luce (raśmi); perciò sahasra pāt si riferisce naturalmente a Sūrya, il sole. Il secondo epiteto, sahasrākṣa, invece, si trova in altri quattro passaggi: sahasrākṣā dhyaspatī (I.23.3), riferito a Indra e a Vāyu insieme; sahasrākṣo vicarṣaṇiḥ (I.79.12), attribuito ad Agni; tasmai sahasram akṣibhir vi cakṣe (X.79.5) per descrivere Agni; e sahasrākṣeṇa śata śāradena (X.161.3) riferito a Indra o all’offerta oblata nel fuoco o, ancora, alla divinità che distrugge la malattia conosciuta come rāja yakṣma (tubercolosi).
Da queste testimonianze è facile capire che l’idea di Puruṣa comprende il concetto di Agni, Indra, Vāyu e Sūrya. Nel quadro delle divinità del trimundio, Agni è la divinità della terra, Indra-Vāyu della regione intermedia e Sūrya del regno celeste. Agni, come anche Viṣṇu dal triplice passo (tripāt), è una forma di Sūrya. Infatti, il Puruṣa Sūkta è tradizionalmente considerato una eulogia di Viṣṇu, nel suo ruolo di Sūrya, di Agni e della personificazione del sacrificio (yajño vai Viṣṇuḥ. Taittirīya Saṃhitā (TS) dello Yajur Veda nero, III.1.10). Sūrya è identificato anche con Viśvakarman (ṚV X.170.4), il creatore di tutto; egli fa tre giganteschi passi (trivikrama: mattino, mezzogiorno e sera) e per questo è chiamato tripāt o semplicemente Viṣṇu, colui che pervade (la terra, il cielo e l’atmosfera). In tale senso simboleggia l’essenza (rasa) di tutta l’esistenza, il centro principale dell’esistenza, di cui Agni, Sūrya e Indra-Vāyu sono solo le forme.
2. bhūmim viśvato vṛtvā atyatiṣṭhat
La parola bhūmi (letteralmente terra) qui sta a significare l’intero universo (della forma sferica dell’Uovo del mondo –Brahmāṇḍa golaka rupām-, a detta di Sāyaṇa) e include, per le implicazioni, tutti e tre i regni, bhūḥ, bhuvaḥ e svaḥ. Il Puruṣa comprende questo, lo cinge da tutte le parti (sarvato pariveṣṭya), vale a dire che Egli penetra tutto ciò che è qui senza lasciare alcuno spazio vuoto. Lo fa suo fondamento (adhiṣṭāya), dice Sāyaṇa. Riempie tutta l’esistenza, e per questo è chiamato Puruṣa (pūrayati, pṛṇati, vyāpnoti). Tale onnipervadenza è dovuta al suo potere e alla sua maestà (svamahimnā).
3. daśāngulam
La grandezza del Puruṣa supera l’universo che Egli contiene. L’eccesso della misura del Puruṣa è descritto di dieci aṅgula. Aṅgula è la misura del pollice indiano, la grandezza di un digito, uguale a otto granelli di orzo posti uno di seguito all’altro. Si dice che dieci di questi aṅgula siano la misura dell’altezza di un uomo o prādeśa mātra, che è anche il metro di misura per la costruzione dell’altare sacrificale (yajña vedi). È lo Śatapatha Brāhmaṇa (X.2.1.2) che ci fornisce questo computo.
Lo stesso testo (X.6.1.2) suggerisce che quella misura rappresenti Agni Vaiśvānara, la persona che, pervadendo il corpo umano, lo anima; è collocato al suo interno e perciò si dice che è la forma dell’uomo (puruṣa vidha).
Il puruṣa vidha è rappresentato dal volto, da quello spazio situato tra la parte alta della fronte (mūrdhā) e la linea più bassa del mento (cibuka). Śaṃkara spiega quale ne sia il significato per mezzo del prādeśa mātra nei suoi commenti alla Chāndogya Upaniṣad (V.18.1) e ai Vedānta Sūtra (I.2.31).
Il corpo di Vaiśvānara si estende dal cielo alla terra, comprendendo i tre regni, il cielo splendente degli astri (dyauḥ), lo spazio intermedio (antarikṣa) e la terra (pṛthivī)5. A livello individuale, tale estensione va dalla parte alta della fronte all’estremità del mento, in cui è rappresentato il trimundio. Il significato da prādeśa mātra è quello di stabilire i due limiti (mūrdhā in alto e cibuka in basso) e di misurare l’ampiezza dello spazio tra essi compreso. Ciò è detto corrispondere a daśāṅgula. Qui il Puruṣa può essere visualizzato facilmente: tale è la ragione per la menzione speciale di questa parte.
Mahīdara, da un altro punto di vista, considera le misure daśāṅgula in riferimento al cuore, dove il Puruṣa dimora, che è sopra all’ombelico (nābhi) alla distanza di dieci aṅgula. Il Puruṣa è la luce che risplende nel loto del cuore, che è anche la sede dell’anima.
Bhaṭṭa Bhāskara, nel suo Taittirīya Āraṇyaka Bhāṣya (II.12.11) è della stessa opinione: d’accordo con Mahīdara, lo spazio del cuore (hṛdayākāśa) è della misura di daśāṅgula. Bhaṭṭa afferma che le espressioni cuore, cielo e Puruṣa sono tutte sinonimi.
In alternativa, l’espressione daśāṅgula si riferisce al cielo luminoso, perché Puruṣa trascende le regioni della terra di dieci aṅgula e stabilisce se stesso nel cielo più alto, e non al di sotto di dieci aṅgula.
C’è un altro punto di vista che riferisce daśāṅgula allo spazio in bocca, tra le due mandibole, di cui si dice che rappresenti lo spazio nell’universo.
Tuttavia, Sāyaṇa afferma che daśāṅgula è solamente un’espressione simbolica, che significa che Egli non può essere misurato o indagato in modo definito. Il significato è che Puruṣa è al di là di tutte le cose e superiore a tutto: pervade non solo tutto ciò che esiste (sat), ma anche ciò che non esiste (asat). La parola atyatiṣṭhat significa ‘che trascende’ (atikramya sthitavān).
Mantra X. 90. 2
purúṣa evedam sarvam yat bhūtam yat ca bhavyám
uta amṛtatvas yá īśāno yat annéna atiroháti
Questo Puruṣa è tutto quello che è stato (bhūta) e tutto quello che sarà (bhavya); Signore (Īśāna) d’immortalità (amṛta), cresce ancor più grande grazie al cibo.
La traduzione di ciò che segue (cresce ancor più grande grazie al cibo, “yad annena atirohati”) necessita, però, di un chiarimento.
1. puruṣa evedam sarvam yat bhūtam yat cha bhavyam
L’asserzione che Puruṣa è tutto questo (idam) che esiste ora ci è rivelato in base alle indicazioni suggerite dalle ultime parole del mantra precedente. Se qui bhūmi si riferisce a tutta l’estensione spaziale dell’esistenza comprendente le tre regioni soggette al cambiamento (vikāra jātam bhūmyādikam sarvam, come dice Bhaṭṭa Bhāskara), l’espressione idam è usata per comprendere anche il triplice tempo: presente (bhavat), passato (bhūtam) e futuro (bhavyam). E, come nel caso di bhūmin, di conseguenza Egli trascende non la sola bhūmi, ma l’intero idam. In altre parole, Egli è al di là dello spazio e del tempo, è immutabile ed eterno. Immutabilità è oltre bhūmi ed eternità è oltre idam. Nella Kaṭha Upaniṣad (IV.12-13) si trova la descrizione di Puruṣa che risiede nel centro dell’essere individuale (madhya ātmani) come ‘il signore di entrambi, il passato e il futuro’ (includendo per implicazione il presente sa evādya): le parole usate in questa śruti sono esattamente le stesse del mantra in esame.
Nella Śvetāśvatara Upaniṣad (VI.5) c’è un’esplicita affermazione che Egli è oltre il triplice tempo (paras-trikālāt). Il Puruṣa è senza dubbio tutto quello che c’è nello spazio e nel tempo, ma si estende oltre la dimensione spazio-temporale dell’esistenza fenomenica. Questa trascendenza è ciò che è stato definito qui amṛtatva, come sarà spiegato fra breve. A proposito della sua signoria, troviamo nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (II.5.16) che questo Ātman (o Puruṣa) è il Signore di tutti gli esseri, il monarca di tutti gli esseri. Come i raggi s’innestano al mozzo della ruota, tutti gli esseri, tutte le divinità, tutti i mondi e tutte le energie dimorano in questo Sé.
In un altro passaggio (BU IV.4.22), si dichiara che Egli è il signore di tutto (Īśāna), il sovrano (adhipati) di tutto.
2. uta amṛtatvasya Īśānaḥ
Puruṣa è il signore (Īśāna) dell’immortalità (amṛtatva). C‘è un altro mantra nel Ṛg Veda (V.58.1) dov’è espressa la stessa idea. I Marut, associati a Vāyu6, sono detti dominare l’immortalità. Veṅkaṭamādhava7 spiega la mortalità (cioè essere sottoposto al cambiamento, decadimento e morte) come la conseguenza dell’abbandono da parte di Puruṣa delle cose e degli esseri animati e inanimati o delle divinità che li presiedono. Tali divinità sono le facoltà di sensazione e di azione.
Questo è perché, in accordo con il Śatapatha Brāhmaṇa (10.5.2.16), è irrilevante chiedere se la morte sia una o molteplice. Potrebbe essere una o molte. Per i mondi il Sole è uno senza un secondo. Se esso ritira la sua presenza, c’è un’unica morte per l’intero universo. Ma il Sole è anche presente in modo separato per gli esseri individuali; e, se la sua presenza è annullata per uno degli esseri, c’è la morte di quel particolare essere. La morte, in questo caso, è molteplice.
Nel presente contesto il Sole è il Puruṣa. La morte consiste nel ritrarsi della sua presenza.
Sulla base di tali considerazioni, l’assenza di mortalità, vale a dire l’immortalità, corrisponde alla presenza di Puruṣa come controllore interiore (antaryāmin) di tutte le cose e di tutti gli esseri. In maniera significativa in BU (III.7.15) questa presenza come antaryāmi è identificata all’essenza immortale (antaryāmyamṛtaḥ).
Ātman (Puruṣa) dimora, dunque, in tutti gli esseri, distinto da tutti essi; gli esseri non possono conoscerlo completamente; tutti gli esseri, però, gli forniscono una forma fisica, ovvero il corpo; ed Egli controlla tutti gli esseri dall’interno. “Questo è il tuo Sé, il controllore interno, l’immortale”, così dice Yājñavalkya a Uddālaka Aruṇi (BU III.7.3-13).
Sāyaṇa interpreta amṛtatva come sinonimo di devatva, la condizione di divinità. Gli Dei sono per definizione immortali; essi non soffrono cambiamento, decadenza o morte. In questo senso, essendo il signore dell’immortalità può significare il signore degli Dei. Il passato, il presente e il futuro valgono per le cose e per gli esseri della terra e della regione intermedia. Gli Dei sono gli abitanti del regno superiore (dyauḥ), sono oltre la prigione dello spazio e del tempo. Il dominio di Puruṣa si estende al di là della terra e anche della regione intermedia dei cieli.
Sebbene questa interpretazione sia possibile, non appare totalmente accettabile, perché questa metà del verso (amṛtátvasyeśānaḥ) è unita all’altra metà (yad annénātiroháti), e non può essere presa separatamente. In ogni caso il significato della seconda metà del verso non è facile da comprendere. Inoltre, ‘immortalità’ ha una sfumatura di significato che è più che mancanza di morte. Un indizio è offerto nel Nairukta Nighaṇṭu8, dove amṛta è incluso sotto i nomi dell’oro (hiraṇya nāmāni). Sebbene il significato di amṛta sia ‘libero da distruzione e morte’, il testo cita in modo significativo un passaggio dal Ṛg Veda (I.72.1) per giustificare la sua interpretazione della parola nel senso di Yāska. Però qui non si trova una spiegazione. Il passaggio citato si riferisce, secondo Sāyaṇa, ad Agni che concede oro ai suoi devoti.
Sāyaṇa interpreta qui il termine amṛtāni come riferito all’oro (hiraṇyanāmaitat) e a sostegno cita un passaggio dall’Atharva Veda (V.28.11 o IX.26.1). Ma trova inappropriato tale significato quando è costruito con cakrāṇo (kurvan, ‘facendo’) e così preferisce cambiare il senso di cakrāṇo, ‘fare dono’ (prayacchan). Se si dovesse rimanere al più normale significato di ‘facendo’ per cakrāṇo, Sāyaṇa propone di interpretare la parola amṛtāni come cessione delle offerte sacrificali agli Dei da parte di Agni. Questo è assolutamente inverosimile. Deve essere detto che nel Nairukta Nighaṇṭu c’è una spiegazione fornita dal glossatore Devarājayajvā. L’oro non scompare o si perde, qualsiasi forma gli sia fatta assumere; è in questo senso che è amṛta.
Bisogna anche evidenziare che la Praśna Upaniṣad (II.5) unisce amṛta a sat (ciò che è reale, ciò che è essere) e ad asat (ciò che era in passato o sarà in futuro, ma che ora non esiste). Amṛta qui è il fondamento comune per entrambi, essere e divenire. Il mantra vedico in esame parla del Puruṣa che è tutto questo (idam), cioè sat o Essere, e anche ciò che era in passato (bhūtam) e sarà in futuro (bhavyam) cioè asat o quello che non è attualmente presente, e continua descrivendolo come il ‘signore di amṛtatva’. La realtà e le apparenze (sat e asat o idam e bhūta-bhavya) sono rese possibili dal sostrato che è comune a entrambe, cioè il Puruṣa. Essere e Divenire sono alimentati dal cibo (annena atirohai) e mantenuti dal Puruṣa. È la presenza e solo la presenza di Puruṣa che rende possibile tutto ciò. Egli continua ad essere presente nella realtà come nelle apparenze, proprio come l’oro rimane lo stesso in qualsiasi monile che sia stato forgiato con esso. Questo è il senso in cui il Nairukta Nighaṇṭu considera l’espressione amṛta. È il Sé come regolatore interno (antaryāmin) che è reale e persiste anche in mezzo a tutto il cambiamento: in questo senso è immortale.
Mahīdhāra interpreta amṛtatva come la Liberazione (mukti), che è eterna; e descrive il Puruṣa come il signore di ciò, nel senso che Egli concede questo ai suoi devoti secondo il loro volere. Secondo Mahīdhāra, il Puruṣa è il signore sia della Liberazione sia dell’esistenza fenomenica, che è causata e mantenuta da anna. In questo contesto il significato è che il Puruṣa è il vero Sé (Ātmā), che è profondamente nascosto in tutte le creature. È la realtà immanente, il regolatore interno. Realizzare questo è la Liberazione (mukti).
3. yat annena atirohati
Come già indicato, il secondo verso del mantra, dove è detto che egli cresce per mezzo del cibo, ha due parti distinte necessariamente interconnesse. Mentre la prima parte potrebbe forse essere presa in un senso indipendente, la seconda, proprio per la sua struttura, dipende da ciò che la precede. La parte del discorso che le connette è il pronome relativo yat, di genere neutro e in caso nominativo, il cui preciso significato nella presente proposizione è piuttosto incerto. Potrebbe essere semplicemente una parola riferita a tat (Quello, il Puruṣa). Poiché Puruṣa, è di genere maschile (Īśānaḥ), il pronome relativo yat può anche essere interpretato come se fosse yaḥ, poiché tale trasposizione è frequente nei passaggi vedici. La frase, allora, potrebbe essere resa con una di queste due traduzioni:
Il Puruṣa, che cresce e ascende grazie ad anna, è anche il signore dell’immortalità.
Oppure
Il Puruṣa, benchè signore dell’immortalità, tuttavia cresce e ascende grazie ad anna.
C’è un altro significato che può essere attribuito a yat. Sāyaṇa ha inteso yat come la contrazione di yasmāt (perché di) con valore causale (hetu). Che ciò sia possibile è stato indicato nel dizionario lessicale, Amara Kośa (III.4.3). Il significato, in tal caso, sarebbe: “A causa del potere per cui il Puruṣa è il signore degli esseri, Egli ha provveduto al loro sostentamento producendo il cibo (anna)”. Egli assume la forma dell’intero universo composto dalle creature che fruiscono e dagli oggetti di cui fruiscono. Sebbene faccia così, egli è sempre al di là della condizione causale, cosa per noi incomprensibile, mentre cresce in quanto effetto, ossia l’universo percepito.
La parola che dà significato all’intera frase è, ovviamente, anna. Si usa far derivare il termine dalla radice ad (bhakṣaṇe, karmaṇi ktaḥ), che ha il senso di mangiare. Anna è ciò che è mangiato dagli esseri viventi (atti), il mangiare, il cibo; ed è anche colui che lo mangia o lo consuma (adyate) cioè il risultato dell’azione (karma-phala). Anna, quindi, sono gli oggetti assimilati dagli esseri viventi per sopravvivere, e anche le inclinazioni karmiche acquisite dagli esseri individuali mentre si procurano il cibo e lo consumano. Tutte le creature sono nate dal cibo e sopravvivono grazie a esso. La Taittirīya Upaniṣad (II.2) descrive il cibo come la cosa più straordinaria nella creazione in quanto tutti gli esseri si sforzano di averlo.
Mahīdhara interpreta la parola anna proprio come cibo, responsabile dell’essere e del divenire di tutte le creature a partire dall’altissimo Brahmā fino all’infimo verme. Qui il pronome relativo yat è preso nel senso di ‘quello che’, riferito al mondo degli esseri viventi che hanno origine dal cibo e che sono da esso mantenuti in vita; e noi dobbiamo segnalare le parole tasyāpi īśānaḥ che significano che il Puruṣa è il Signore anche di questo.
C’è un’altra interpretazione che prende anna in un senso molto simile: tale parola allora si riferisce al mondo delle azioni e ai loro risultati, che comprendono questo mondo fisico, che è irreale, e anche i regni celesti raggiungibili grazie ad azioni rituali e religiose, anch’essi irreali. Ciò che qui è interpretata in modo completamente differente è l’espressione atirohati: a-tirohati, ‘non scompaiono o non svaniscono’. Il senso è che amṛtatva, di cui il Puruṣa è il signore, non è oscurato o cancellato dal mondo fenomenico delle azioni e reazioni. È la Realtà che non può essere distrutta dalle apparenze.
Tuttavia, il Nairukta Nighaṇṭu (III.9) s’interroga: “Cos’è anna?” E risponde: “Anna è così chiamato perché gli esseri viventi ne sono attratti, o perché ne sono privi”. Il termina annam è formato dalla radice ad (bhakṣaṇe, karmaṇi ktaḥ, adyate iti) che ha il significato di mangiare. Anna è il cibo, ciò che è mangiato. Ma la parola è pure derivata dalla radice an (anity anena), che significa respirare (prāṇanārthaka). Il Nighaṇṭu dà come sinonimi di anna, andha, ciò grazie a cui le creature vivono (secondo Kṣīrasvāmī9); brahma, ciò che fa sì che le creature crescano e che cresca lui stesso a causa delle creature; infine, varca, dīptau, luminoso, che dà luminosità al corpo. Anna, derivato dalla radice che ha il senso di muoversi o di andare (gatyartha), ha ugualmente il significato di conoscere (jñānārtha); anna, perciò, significherebbe anche conoscenza. Secondo il Siddhānta Kaumudi10, anna, significa il Sole (Sūrya). Allora si può accettare che la definizione data dal Nairukta Nighaṇṭu potrebbe applicarsi in modo egualmente giustificabile a tutte queste parole: cibo, prāṇa, Brahman, jñāna e Sūrya. Ed è per questo che il Puruṣa va oltre la propria natura di Essere immanifesto, inaccessibile ai nostri mezzi di conoscenza, assolutamente unitario e pura Coscienza, e si manifesta come il Puruṣa avviluppato nel mondo della relazione (vyvahāra prapañca).
La Muṇḍaka Upaniṣad (I.1.8) dichiara che Brahma manifestò per mezzo del tapas (ascesi o volizione); da Brahma venne fuori anna e da anna emersero prāṇa, manas (la mente), satya (la verità), lokāḥ (i mondi di nostra esperienza) e amṛta (l’immortalità) nelle azioni.
Altrove, nello stesso testo (MuU I.1,9), si trova la spiegazione che il tapas, sorgente di tutta la creazione, è della natura di intensa e profonda conoscenza. È da questo tapas che sorgono Brahmā (il principio fondamentale dell’esistenza fenomenica), nāma-rūpa (i nomi e le forme che costituiscono l’esistenza fenomenica), e anna.
Le parole amṛtatva e atirohati nel presente mantra, in verità, devono essere considerate insieme, perché entrambe sono impiegate nel Ṛg Veda in modo significativo. In numerosi mantra, amṛtatva, nel senso di immortalità come è stato spiegato, è usato con speciale riferimento ad Agni. Il ṚV (I.31.7) afferma che “ogni giorno Agni eleva ciò che è mortale alla condizione più alta d’immortalità”. “Per grazia di Agni, la visione dei regni celesti e l’immortalità sono ugualmente assicurate” (ṚV I.72.10). “Dall’oceano uscirono le dolci acque [da cui è sorto Agni] che costituiscono l’ombelico di quest’immortalità” (ṚV IV.58.1). “Agni era ricorso agli Dei che sono desiderosi di difendere questa immortalità” (ṚV I.96.6). “I riti di Agni-Vaiśvānara portano a questa immortalità” (ṚV VI.7.4). “Agni è invocato per desiderio di questa immortalità” (ṚV IX.52.5). “Agni-Saucīka aiuta gli Dei a raggiungere l’immortalità” (ṚV X.53.10). “Savitṛ, assumendo la forma di Sūrya, che a sua volta è la forma espressiva di Agni, è anche associato a questa immortalità e aiuta il mortale a ottenerla” (ṚV I.110.3). “Tramite riti sacrificali Savitṛ procurò agli Dei l’immortalità in epoca primordiale” (ṚV IV.54.2).
L’altra espressione è atirohati, che letteralmente significa montare su, ascendere, arrampicarsi. Suggerisce un movimento in salita, un trascendere, una crescita a un più alto stato o livello dell’essere. Vi sono parecchi mantra nel Ṛg Veda dove la medesima espressione è usata, per lo più riferita a Sūrya. “Sūrya sorge al firmamento luminoso o ai cieli” (ṚV I.50.11); “Quando noi ci alziamo Sūrya è visto sorgere nel vasto oceano superiore (il regno celeste o il principio del tempo, kāla)” (ṚV X.37.8). “Varuṇa e Mitra fanno ascendere il sole agli alti cieli” (ṚV IV.13.2). Oppure è “Indra che spinge Sūrya a sorgere in cielo, così che possa essere visto per tutto il tempo” (ṚV I.7.3). La lotta di Indra con il demone dell’oscurità e della costrizione, Vṛtra, è collegata al salire del sole al regno celeste (ṚV I.51.4); Indra aiuta Sūrya a salire nel cielo così che sulla terra è facilitato il processo di maturazione (ṚV VIII.89.7). In un altro mantra (ṚV X.156,4) Agni è collegato al sorgere di Sūrya nel vasto cielo così che la luce possa splendere su tutte le creature.
Agni, divinità appartenente alla regione terrestre, è menzionato circa diciotto volte in connessione con anna nei mantra del Ṛg Veda. Similmente, Indra, Dio della regione intermedia, è associato ad anna altrettanto spesso (circa quattordici volte). Quindi si comincia a comprendere l’espressione annena atirohati quando è considerata nella funzione di Sūrya di sorgere dalla regione terrestre e da quella intermedia fino a raggiungere la regione celeste, assistito da Agni e da Indra. Bisogna notare che il Puruṣa Sūkta usa altre espressioni in sinonimia con atirohati: ūrdhva udait, vyakrāmat e ajāyata. In tutti questi contesti, i ruoli di Sūrya (dyus sthāna), Indra (madhyama- sthāna), Agni (pṛthivi sthāna) sono uniti nel personaggio onnipervasivo di Viṣṇu, che è, infatti, il primo significato di Puruṣa.
Rimane, però, da considerare perché amṛtatva sia stato messo in relazione con atirohati. Se atirohati ha il significato di trascendere la terra e la regione mediana (con tutte le creature che vi dimorano) nell’ascesa al regno dei cieli splendenti (dyus sthāna, dove Sūrya dimora), amṛtatva deve riferirsi alla realtà di questo dominio celeste luminoso (cfr. il prossimo mantra, amṛtam divi). Frequentemente gli Dei, abitanti del regno celeste (dyus sthānad devāḥ), sono associati ad amṛtatva (e. g. 10.53.10, devā; 10.52.5, yathā vo devā varivaḥ karāṇi). E ati-rohaṇa (trascendenza) è così spesso associata con regno celeste, che è indicato come amṛtasya loka (ṚV X.85.20)11.
Amṛtatva, l’immortalità, come s’è appena spiegato, è la negazione di mṛtyu, la morte, il decadimento e la distruzione. Durgācārya12 (su Nirukta, XI.1.8) spiega che mṛtyu è sinonimo di madhyama prāṇa; esso uccide l’essere individuale, come fa il madhyama–prāṇa quando sale alle regioni più alte, portando con sé le correnti vitali che mantengono in vita il corpo.
Quindi l’espressione ukrāmati, ‘va su’, è sinonimo di atirohati, ‘ascende, trascende’. Dove va il madhyama prāṇa, ossia la regione da raggiungere con l’ascesa, è amṛtatva, oltre il potere della morte: questo è ovviamente il luogo luminoso (dyus sthāna o divi), dove la divinità reggente è Sūrya. Yāska (Nirukta, uttara ṣaṭka, XII.2.3) spiega che Sūrya è così chiamato perché si arrampica verso l’alto (sarpaṇa), va e viene nel cielo (sarati ākāshe), genera tutte le creature (prasuvati), e ispira e spinge tutte le creature nelle loro peculiari attività (preraṇa). Durgācārya considera l’ultimo particolare come un’allusione a Vāyu, il vento che spinge il movimento del Sole.
Il muoversi circolarmente nel cielo ed essere spinto in alto da Vāyu indicano l’ascesa attraverso la regione intermedia. Yāska, inoltre, cita un passaggio ṛgvedico (udutyam jātavedasam; ṚV I.50.1) e sottolinea che l’ascesa del sole avviene perché tutte le creature la contemplino e traggano vantaggio dai raggi del sole, che sono raggi di conoscenza (ketavaḥ, prajñā-nāma, Nighaṇṭu III.9).
Egli continua citando un altro passaggio vedico dove Sūrya è esaltato come colui che colma con la sua maestà tutto il regno celeste, la terra e la regione mediana, in quantto vero Sé di tutte le cose e di tutti gli esseri (Nirukta XII.16). Sūrya ha un aspetto trascendente in quanto ‘trascende’ (ati-rohati); in questo aspetto nell’orbita solare è lo spirito che illumina il trimundio, essendo egli stesso il più alto regno (divi) che signoreggia dal di fuori (Īśāna). C’è anche una presenza immanente in quanto antaryāmin, come colui che risiede nell’occhio destro, e come l’immortale spirito essenziale (amṛta). Il concetto di Puruṣa comprende entrambi gli aspetti.
- Altrimenti definito anche aṣṭaka VIII, adhyāya 4, varga 17-19.[↩]
- Noto come Madhvācārya (1238–1317), fondatore della scuola Dvaita Vedānta.[↩]
- Celebre autore del commento dei Veda intitolato Vedārtha Prakashan. Fratello cadetto di Vidyāraṇya, divenne primo ministro di Bukka Raya Saṅgama, imperatore di Vijayanagara; probabilmente fu un esponente del Mīmāṃsā darśana.[↩]
- Nome di un famoso grammatico sanscrito, autore del Ṛgveda Prātiśākhya.[↩]
- Nella Māṇḍūkya Upaniṣad, Vaiśvānara è il nome dello stato di veglia (jāgrat avasthā). È dunque evidente che terra, atmosfera e cielo sono tutti compresi nel jāgrat avasthā e che, quindi, non corrispondono affatto all’avasthātraya, com’è sostenuto da alcuni che non conoscono tale dottrina.[↩]
- Vāyu sta per il prāṇa principale che sta in bocca e i Marut per i cinque prāṇa che sono le sue funzioni situate nei vari organi.[↩]
- Commentatore del Ṛg Veda del XI secolo.[↩]
- Opera di Yāska, è il più importante testo di Nirukta.[↩]
- Grammatico, commentatore di Amarakoṣa.[↩]
- La Siddhānta Kaumudī è un commento critico ai Sūtra di Pāṇini di Bhaṭṭojī Dīkṣita, grammatico del XVII secolo.[↩]
- Vedi anche rohayo divi (ṚV X.156.4); divi ārohayo (ṚV I.151.4); āsūryam rohayad divi (ṚV I.7.3); rohayo divi (ṚV VIII.89.7). [↩]
- Commentatore dell’opera di Yāska.[↩]