Śrī Śrī Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja
La Luce della Realtà
Il metodo delle tre avasthā
Esposizione preliminare
L’Essere è Uno, ma i Suoi conoscitori Lo descrivono in vari modi 1
A – Grandezza della dottrina vedāntica
1 – L’indagine sulla Realtà
L’uomo ha cercato da tempo immemorabile di conoscere la verità di se stesso e del mondo che lo circonda, ponendosi queste domande:
- Si deve considerare vero il mondo come appare o dietro quell’apparenza c’è un’essenza che è la Realtà?
- Qual è la reale natura dell’esistenza di tutto questo?
- Qual è la reale natura della coscienza che conosce tutto questo e che è in ‘me’ come in ogni altro essere senziente?
- Che relazione c’è fra l’esistenza del mondo e la coscienza di chi lo conosce?
- Nel mondo talvolta si sperimenta felicità, talvolta dolore. Qual è la reale fonte di ciò?
- Tutti gli esseri viventi in questo mondo cercano di intervenire su ciò che li circonda per sperimentare felicità ed evitare la sofferenza. Qual è il mistero che sta dietro a questo sforzo?
Così egli pensa e condivide con gli altri ciò che ha capito. Lo confronta con quello che dicono gli altri e lo tramanda, dopo averne tratto conclusioni. La conoscenza così accumulata è chiamata scienza della Realtà. È un ramo della conoscenza che spiega come trarre la verità dell’intero mondo proprio come si cerca il seme d’un frutto rimovendone la polpa; quindi lo si insegna anche agli altri per aiutarli a scoprirla.
2 – Diversità di opinioni tra i filosofi sulla scienza della Realtà
I filosofi2 hanno opinioni diverse su cosa verta la scienza della Realtà. I saggi che in India si sono dedicati a questa ricerca hanno tramandato le loro conclusioni nei darśana sūtra, i testi che riportano i loro punti di vista dottrinali. Il significato letterale di questa parola è uno scritto che insegna ciò che è stato percepito dall’esperienza. L’autore di ogni darśana ha osservato il mondo dal suo punto di vista e ha tratto la sua conclusione come vera conoscenza. Tuttavia, né i seguaci delle altre scuole né la gente in generale accettano questi darśana come punto finale della filosofia, muovendo critiche come: ‘Se il ṛṣi Kapila è onnisciente, e quindi il suo darśana è perfetto, come si può negare lo stesso riconoscimento al ṛṣi Kaṇāda? Se entrambi sono onniscienti perché c’è contraddizione tra loro?’ Perché nessun darśana, eccetto l’Advaita, ha costruito la dottrina basandosi su fatti intuiti universalmente?
I mīmāṃsāka, che pongono questa domanda, basano la loro dottrina sul Veda privo di autore3, che, essendo anonimo, non è attribuito a un fondatore onnisciente. Tuttavia, nemmeno la loro filosofia è stata unanimemente accettata. Infatti naiyāyika, jaina e buddhisti si sono immediatamente dichiarati contrari. I darśana sono stati considerati insegnamenti basati sulla percezione di una certa verità, piuttosto che sull’intuizione.
Lo stesso accade in Occidente. La parola filosofia è stata usata per esprimere una certa opinione generale su un oggetto di conoscenza, osservando le cose da un punto di vista personale e spiegandole logicamente. Dato che la logica non è conclusiva, è stato facile per altri portare argomentazioni più convincenti, cambiando il punto di vista e creando una propria filosofia. Quindi dai tempi antichi fino a oggi sono sorte sempre nuove filosofie. Alcune hanno seguito i testi religiosi, altre si sono basate su una logica indipendente. Nonostante questa differenza, solo la premessa di una accettabilità logica è comune a tutte. Molte sono state dimenticate e sono rimaste solo nella memoria degli storici. Come si è detto, filosofia significa letteralmente amore per la conoscenza. Tuttavia non è errato dire che l’amore filosofico dell’Occidente è più rivolto alla logica che alla conoscenza in quanto tale. In epoca moderna, gli Occidentali si sono convinti che la logica richieda una base sperimentale. Quindi sostengono che nessuna filosofia è degna di questo nome se non si basa su prove scientifiche, attraverso i suoi metodi di osservazione, sperimentazione e verifica. Sostengono anche che il fine della filosofia è quello di esaminare il mondo visibile nell’ottica dell’attuale vita della gente senza indulgere in speculazioni astratte. Pochi tra loro hanno pensato che la filosofia debba necessariamente investigare l’intero campo degli oggetti di conoscenza. Tuttavia, in realtà, in Occidente non c’è accordo di cosa la filosofia debba trattare. Alcuni hanno l’idea erronea che sia una visione universale perché comprensiva di tutte le scienze fisiche. Pensando così, dicono: «Ancora non conosciamo molte cose di questo mondo e non abbiamo esaurito tutti gli aspetti di ciò che già conosciamo.» In primo luogo è possibile per la mente umana limitata comprendere tutta la realtà? In secondo luogo, come può la mente, che è una piccola parte della verità, comprendere tutta la verità? Infine, oltre alle cose percepite dai sensi, ci sono anche esperienze che possono essere raggiunte con l’ascesi, con il misticismo e con la meditazione. La verità può essere compresa solo dopo aver considerato anche queste esperienze. Quindi, come possono affermare di poter esaurire l’indagine sulla verità? Pensano che il più alto scopo della filosofia sia presentare una visione logica di ciò che si capisce della verità in un dato momento. La filosofia attuale indaga solo per mezzo delle scienze fisiche e quindi, assieme a esse, diventa rapidamente obsoleta e deve modificarsi in continuazione. Alcuni filosofi pensano che il compito della filosofia sia quello di trovare la verità di concetti comuni come tempo, spazio e causalità soggiacenti a tutte le esperienze, considerati generalmente come esistenti. Altri, infine, dicono che la filosofia ha il dovere di trovare la verità delle idee, della religione e dell’etica. Così non è chiaro di cosa la filosofia debba occuparsi, variando perfino da persona a persona.
3 – Debolezza dell’indagine filosofica
In Occidente c’è sempre stato disaccordo sul metodo di indagine: soprattutto nel passato, alcuni si sono basati su testi religiosi per determinare la verità. A seconda delle religioni, si sono considerati autorevoli l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento o il Corano. Nella civiltà moderna, la scienza ha sostituito l’autorità della religione.
Nell’India tradizionale, invece, la disputa riguarda l’onniscienza di certi saggi4, attribuita dai loro seguaci per giudicare chi fosse il più autorevole5. L’onniscienza attribuita a Kapila, a Buddha, a Vyāsa, ai Veda ecc. non è una sufficiente argomentazione probatoria.
Per superare tali dispute, alcuni hanno concluso che il ragionamento basato sull’esperienza dovrebbe essere il principale mezzo d’indagine, come lo è per la scienza. L’esperienza e la deduzione che ne derivano sono universali e non limitati a una scuola, a una comunità o a una religione. Sono ineludibili per studiare e capire il senso d’una scrittura. Perciò è del tutto accettabile per noi adottare esperienza e ragionamento per cogliere la più elevata verità. Quindi è chiaro che non c’è alcuna possibilità di trovare un accordo sul metodo d’indagine tra i pensatori occidentali e quelli indiani.
4 – I vedāntin si basano sull’esperienza e sul ragionamento
La discussione fin qui intavolata ci conduce alla dottrina Advaita che ha l’unico scopo di trovare la verità assoluta e nient’altro, con fermezza e senza timore delle altrui obiezioni perché basata sull’intuizione universale. Studiando questa dottrina si eviteranno i difetti di ogni altro metodo d’indagine, ottenendo il beneficio completo. Quindi lo scopo di questo testo è quello di mostrare ai lettori che la dottrina di cui si tratta non è un pensiero velleitario né qualcosa in via di sviluppo, ma il riconoscimento d’una Realtà esistente. Essa si basa sul metodo indicato dalle Upaniṣad e, dato che le Upaniṣad sono chiamate anche Vedānta, è chiamata Vedānta e i suoi seguaci vedāntin. Śrī Sūreśvarācārya, nella sua Naiśkarmya Siddhi (IV)6, dimostra che sebbene questa dottrina sia nata dall’insegnamento del Vedānta, la sua Verità (il Brahman) non deve essere accettata per fede nella scrittura o nelle parole del guru, come si fa per quel che riguarda la vita ultramondana, i cieli, le rinascite ecc.
La conoscenza che sorge, dunque, non è una fede da accettare senza domande. Nel Vedānta c’è anche un modo stabilito per risolvere in forma convincente le apparenti contraddizioni delle esperienze in base a un approfondito ragionamento e a una serrata logica. Per spiegare ciò, il Vedānta usa un linguaggio semplice e facilmente comprensibile. Perciò è molto utile ai cercatori che desiderano scoprire la verità con il solo aiuto del ragionamento basato sull’intuizione, seguendo gli insegnamenti degli Śāstra. A questo scopo non si utilizzerà la traduzione letterale dei testi, ma una che permetta di coglierne il significato. I lettori dovranno tenere bene a mente questo.
5 – L’indagine vedāntica richiede una visione onnicomprensiva
La suprema Verità può essere paragonata alla gemma miracolosa del mondo degli dèi, che assume la forma che le viene attribuita. Allo stesso modo la verità è immaginata sotto forme diverse:
Per alcuni la verità esiste, per altri non esiste; per alcuni è una e non-duale, per altri molteplice; talora è qualificata, talaltra è priva di qualità; per alcuni è agente, per altri è libera da qualsiasi azione; per qualcuno è conoscenza, per qualcun altro è oggetto di conoscenza; alcuni la considerano causa, per altri è libera da causa ed effetto; per alcuni è felicità, per altri è sofferenza; per alcuni è l’ego, per altri è priva delle nozioni di io e di ‘altro da me’(Aitareya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, AiUŚBh, II.1.)
Quando si dà sfogo a così tante immaginazioni e si dà spazio ad ancora più numerose concezioni, perché sarebbe sbagliato paragonare la Verità alla gemma celestiale chiamata in sanscrito Cintāmaṇi? Tutti i saggi sono d’accordo nel dire che l’assoluta Verità è una, di natura omogenea e non molteplice. Quindi dobbiamo dedurre che c’è un qualche errore nel pensiero di coloro che la descrivono con formule varie e contraddittorie. I vedāntin spiegano che l’errore sta nell’adottare diversi punti di vista, perciò le contraddizioni sono dovute a non voler considerare la verità nella sua totalità.
Nel Vedānta ci sono diverse scuole: l’Advaita (della non dualità); il Dvaita (della dualità), Viśiṣṭādvaita (della non dualità qualificata), Dvaitādvaita (della dualità-non-dualità), Śuddhādvaita (della pura non dualità) e altre. Tutti i vedāntin di quelle scuole accettano le Upaniṣad come strumento di valida conoscenza (śābda pramāṇa7), ma i dualisti sostengono che il loro significato dovrebbe essere accettato e considerato valido anche quando contraddice l’esperienza e la ragione. Inoltre, sostengono che è sufficiente armonizzare tra di loro i testi vedāntici e che la loro concordanza con l’esperienza e con la ragione non è affatto necessaria per capire la suprema Realtà riguardo le dottrine del karma, del jīva, del saṃsāra, della manifestazione, della rinascita, dell’esistenza e natura di altri mondi, ecc.
Gli advaitin che seguono Śaṃkara affermano:
Lo śāstra rivela i fatti sconosciuti proprio come essi sono e non pretende di produrli o crearli (come nuove esperienze in colui che ascolta). (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, BUŚBh, II.1.20)
Anche se centinaia di śruti affermassero che: «il fuoco è freddo e non brilla per sua propria natura», contraddicendo in tal modo l’esperienza, non potrebbero essere considerate un valido pramāṇa8. Gli advaitin proclamano dunque:
Nelle Upaniṣad non si trova soltanto la conoscenza [mediata] richiesta per la meditazione [ossia per l’immaginazione creatrice], ma anche l’altra conoscenza [quella vera e immediata] che rivela la Realtà così com’è. (BSŚBh I.1.2.)
Per ottenere questa conoscenza [del Brahman] la sola śruti non è sufficiente [come pramāṇa], ma è richiesta anche l’intuizione ecc. che costituiscono gli strumenti della conoscenza. (Ibid.)
Gli advaitin sono in linea con questa posizione: quindi, per loro, i testi sono mezzi validi per la conoscenza della Realtà solo quando sono in armonia con l’intuizione e la ragione. In questo modo bisogna per prima cosa stabilire qual è la dottrina (siddhānta) principale e solamente in seguito spiegare il significato di altri testi che trattano argomenti meno importanti, come karma, saṃsāra, rinascita ecc., alla luce degli stati di coscienza (avasthā), veglia, sogno e sonno profondo, e basandosi sempre sull’intuizione e sulla ragione. Perciò, in questo trattato spiegheremo la conoscenza della visione onnicomprensiva propria degli advaitin9. Solo dopo aver compreso e assunto incrollabilmente la dottrina vedāntica, sarà possibile capire chiaramente e coerentemente altri ambiti, come la morale, il dharma esteriore, i differenti stili di vita, sociali, politici, educativi, artistici, letterari ecc. Perciò chi avesse seguito finora una qualsiasi religione o corrente di pensiero, ma fosse libero da pregiudizi e attaccamenti, di mente aperta e sinceramente desideroso di conoscenza, potrebbe intuire la verità del Vedānta.
6 – La visione dei tre stati secondo il Vedānta
I vedāntin assumono un punto di vista onnicomprensivo (pūrṇa dṛṣṭi) per indagare la verità, mentre gli altri, avendo un punto di vista ristretto, sono incapaci di riconoscerla. Tuttavia, ciò che si chiama punto di vista onnicomprensivo, non è cosa strana, misteriosa e straordinaria. Invece di scegliere in base a pregiudizi, gli advaitin considerano l’intera gamma di esperienze fatte da ogni essere umano, e la esaminano in profondità. Tutti, senza alcuna eccezione, hanno esperienza di tre stati: veglia, sogno e sonno profondo. Anche se qualcuno caparbiamente cercasse di sperimentare solo la veglia, a esclusione degli altri due, non potrebbe evitare per sempre il sonno profondo, essendo questo contrario alla natura. Tuttavia la gente comune sembra attribuire maggiore interesse e rilevanza al solo stato di veglia. Sebbene sia utile per la vita pratica, nessuno può affermare che ne costituisca la totalità. Lo svolgimento della vita umana è una continua concatenazione di veglia, sogno e sonno profondo. Seppure l’esperienza di ciascuno includa i tre stati, anche chi desidera cercare la verità si ostina a esaminare solo la veglia.Pur non trascurando del tutto il sogno e il sonno profondo, li si considera stati inferiori, ausiliari della veglia. Nella storia dell’umanità soltanto gli advaitin nella loro indagine conoscitiva accordano eguale valore ai tre stati. La loro distinta natura sarà considerata nel paragrafo seguente, in cui si esaminerà, sulla base dell’intuizione, il grande beneficio che ne deriva.
7 – La natura della Realtà secondo il Vedānta
- Nel Vedānta la Realtà dell’intero universo è chiamata Brahman.
- Questo stesso Brahman è chiamato Ātman perché è il Sé, ovvero la natura essenziale dell’intero mondo e di tutti gli esseri viventi.
- Poiché Brahman non è sotto il controllo di nessuno, è totalmente indipendente e ha tutto sotto il suo controllo, è chiamato Īśvara, il Signore10.
- Essendo autoluminoso, essendo tutte le cose illuminate dalla sua luce, è chiamato Jyoti (Luce), Deva (Auto luminoso) o Devatā (Divinità).
- Essendo l’Indistruttibile è chiamato akṣara (Imperituro).
- Essendo non percepibile è chiamato avyākta, cioè non oggettivabile. Per questa ragione:
- È chiamato prāṇa in quanto pervade di vita ogni essere;
- È chiamato ākāśa (spazio-etere) in quanto comprende ogni cosa all’interno di sé ed è onnipervadente11.
Questi e altri sono i suoi nomi. A conclusione dell’indagine che si svolge in questo libro si capirà che la Realtà è della stessa natura indicata da questi nomi. A questo punto invitiamo i lettori a tenere a mente che nel Vedānta tali nomi assumono un significato tecnico, indipendentemente dal loro senso letterale o usuale.
Se si ascoltano con attenzione alcune frasi upaniṣadiche che espongono la Realtà, si giungerà a comprendere l’argomento centrale della dottrina vedāntica. Esse sono le seguenti:
- Satyam jñānam anantam brahman. Brahman è Essere, Conoscenza e Infinito (Taittirīya Upaniṣad, II.1.1).
- Vijñanamānandam brahman. Brahman è Conoscenza e Beatitudine (BU III.9.28.7).
- Aham brahmāsmi. Io sono Brahman (BU I.4.10).
- Tat tvam asi. Tu sei Quello (Chāndogya Upaniṣad, ChU, VI.8.7).
- Ayamātma brahman. Questo Ātman è Brahman (BU II.5.19; IV.4.5; Māṇḍūkya Upaniṣad, MU,II).
- Brahmaivedam sarvam; Brahmaivedam viśvam. Tutto questo è Brahman (Muṇḍāka Upaniṣad, MuU, II.2.11).
- Neh nanasti kiṅcam. Non c’è alcuna molteplicità in questo (Kaṭha Upaniṣad, KU, II.1.11).
Nelle Upaniṣad tali affermazioni sono frequenti. L’insegnamento centrale del Vedānta è che l’intero mondo che vediamo è essenzialmente uno con la Realtà assoluta e che in esso non c’è alcuna divisione tra cose senzienti e insenzienti, essendo tutto solo Essere, Coscienza e Beatitudine. Dal punto di vista dell’uomo ordinario, tutto questo sembra il delirio di un folle. Anche i vedāntin non advaitin non lo accettano come vero significato dei testi upaniṣadici, sostenendo che ciò è contrario alla percezione. Invece gli advaitin affermano con sicurezza che questa interpretazione è esatta e che la Realtà, che vi è rivelata, può essere intuita da chiunque per mezzo delle intuizioni universali che scaturiscono dall’esame dei tre stati di veglia, sogno e sonno profondo.
- Ṛg Veda I.164.46.[↩]
- Manteniamo i termini filosofo e filosofia usati dall’Autore nel senso etimologico di amante e amore della Sapienza, pur sempre in una prospettiva speculativa [N.d.C.].[↩]
- Il Veda, infatti,è considerato eterno [N.d.C.].[↩]
- Nessun filosofo indiano usa l’onniscienza come argomentazione per stabilire qualcosa, sebbene si possa attribuire onniscienza a Buddha, Kapila ecc.[↩]
- Ogni religione ci presenta qualche ragione a favore del proprio Libro come fosse l’unica vera rivelazione, ma ciò non è reciprocamente accettato.[↩]
- Anche Śaṃkara pone il medesimo quesito: “La non dualità può essere stabilita solo per fede nell’autorità delle scritture, o, piuttosto, può essere compresa usando solo il ragionamento?” (Māṇḍūkya Upaniṣad III.1) [N.d.C].[↩]
- Strumenti o mezzi riconosciuti di valida conoscenza. Essi sono: pratyakṣa, la percezione sensoria; anumāna, la deduzione o inferenza; upamāna, la comparazione; arthāpatti, la supposizione o l’ipotesi; anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto; śabda, la parola del maestro ossia le Upaniṣad [N.d.C].[↩]
- Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya, BhGŚBh, XVIII.66 [N.d.C].[↩]
- Ci furono varie scuole di Advaita prima e dopo Śaṃkara. Tuttavia, seguendo l’insegnamento di Pūjya Satchidānandendra Sarasvatī Svāmījī a questo proposito, qui ci si attiene e riferisce esclusivamente all’interpretazione vedāntica di Śaṃkara.[↩]
- Il vero senso di Īśvara, Signore, è quello di non avere altro da Sé che lo possa condizionare. È perciò assolutamente libero e indipendente. Solamente in una prospettiva empirica (vyāvahārika) gli si attribuisce una Signoria (aiśvarya) sulla manifestazione, che è del tutto illusoria dal punto di vista assoluto (pāramārthika). Perciò, in quanto tale, Īśvara è il Supremo Brahman [N.d.C.].[↩]
- Prāṇa e ākāśa, pur avendo applicazioni meramente cosmologiche, nelle Upaniṣad sono usati come simbolo del Brahman per la loro pervasività e illimitatezza [N.d.C.].[↩]