Vai al contenuto

Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja

18. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda

Agama Prakaraṇa

Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I.6

Obiezione del pūrvapakṣin: Se la Realtà è libera da jātiguṇakriyā e sambandha, allora è inesistente come le corna della lepre; è śūnyam, perché secondo la nostra opinione tutto ciò che esiste deve rientrare in qualche classe (jāti), deve avere qualche attributo (guṇa), deve avere qualche utilità (kriyā), deve essere situato nello spazio in cui si muove, cioè deve avere qualche relazione (sambandha) con qualcosa. Anche l’associazione (saṃbhava) è una relazione; ora, voi vedāntin dite che la Realtà non ha sambandha, non ha kriyā, non ha jāti, ecc.; allora forse è inesistente, come le corna della lepre che sono inesistenti proprio perché non possono avere jātiguṇakriyāsambandha. Non si può davvero distinguere tra l’inesistenza delle le corna della lepre e l’inesistenza delle corna di uomo, come nemmeno si può accettare l’esistenza di un sesto elemento. Che differenza c’è? L’inesistenza è sempre e solo inesistenza. Ciò che chiami Realtà è, dunque, śūnyam.

Risposta del Siddhāntin: No, perché come si sente la fatica (prayatna) [o lo sforzo (pravṛtti)] così si sente anche la libertà dalla fatica; come si sente il senso di limitazione così si sente anche la libertà dal senso di limitazione. Così si sperimenta anche la libertà dal mondo, dal tempo, dallo spazio, dal pensiero, e colui che sperimenta tutto ciò, è esistente; colui che sperimenta l’esistenza dell’assenza di tempo, spazio e forma, è esistente. Chi sperimenta l’assenza di qualcosa è presente. Perciò, come può essere śūnyam? Il Bhāṣyakāra qui dice che la conoscenza della Realtà che dà la liberazione dal saṃsāra è evidente. Tuttavia, l’evidenza dell’esistenza del Sé deve essere libera anche dalla conoscenza. Infatti, anche l’uomo ordinario che sperimenta la fatica sperimenta anche la libertà dalla fatica. Ciò che è scontato indipendentemente dalla comprensione, è chiamato evidenza. È sulla base dell’evidenza che comprendiamo. L’evidenza non è il risultato della conoscenza e nemmeno la comprensione è il risultato della conoscenza: la comprensione è il risultato dell’evidenza. L’evidenza non nasce dalla comprensione. Le prove non sono citate come risultato della comprensione: tutta la comprensione si basa sulle prove. Questo è il pilastro (kīlakam), questo è l’indizio di partenza, questa è la spina dorsale del Vedānta. Così, l’uomo sperimenta la fatica e sperimenta anche la libertà dalla fatica; colui che sperimenta la fatica è lì presente, come anche colui che sperimenta la libertà dalla fatica è lì presente. Allo stesso modo, non si può nemmeno trascendere ciò che trascende il pensiero: si può trascendere il pensiero. si può trascendere la forma, ma non si può trascendere ciò che è al di là della forma. Non ha senso trascendere la trascendenza. Quando si trascende il tempo, questo è definitivo; non si può andare oltre al trascendimento del tempo; si può trascendere sia il manifesto sia il non manifesto (vyaktāvyakta), ma non si può trascendere la trascendenza. Perciò chi sperimenta non può trascendere il fatto della propria esistenza, non può trascendere se stesso. Perciò anche un profano, indipendentemente dal fatto che comprenda o no, sperimenta sia la fatica sia la libertà da essa. E, quando è libero dalla fatica, allora è libero da tutti i pensieri, è l’Essere. Lo stato di Essere è libertà dallo stato di fatica. Lo stato di pensiero è fatica ed entrambi sono evidenti; quindi il proprio Essere, la propria esistenza non è śūnyam.

L’evidenza deve essere presente anche prima della comprensione; la comprensione non può essere considerata come lo splendore della Realtà. Se qualcuno dice “una volta che hai capito diventi illimitato”, quale ne è la prova? Non puoi diventare illimitato: o sei già illimitato o non sei illimitato perché l’illimitatezza non è il risultato del divenire, non è un processo nel tempo; quindi, se sono già illimitato questo mi dovrebbe essere evidente, dovrebbe essere nella mia esperienza anche prima della comprensione. Questa è la spina dorsale del Vedānta. Noi non consideriamo la comprensione come indizio dell’illimitatezza. È un’affermazione stupida e ingannevole dire: “Una volta che si ha compreso si diventa illimitati”. In tutti e tre gli stati la tua illimitatezza è evidente. Nello stato di veglia tutto ciò che vedi rientra nel tuo essere; il sogno rientra nella tua visione e persino l’assenza di cose, se proprio la vuoi chiamare assenza, rientra in ciò che vedi. Allo stesso tempo, in base alla tua esperienza del sonno profondo, sei libero dal tuo punto di vista del pensiero della veglia, del pensiero del sogno e persino del pensiero dell’assenza: tutto è evidente. Quando tutto è evidente, sulla base di questa evidenza, cogli la natura della Realtà; l’evidenza non ti permette di dubitare. Non si può avere un dubbio sulla propria esistenza; si può avere un dubbio su qualsiasi cosa, ma non si può dubitare della propria esistenza. Si può dire “ho un dubbio sulla mia esistenza”; dirlo è facile, ma è una cosa senza senso, è affermare qualcosa che non è possibile. Perciò non ci basiamo sulla conoscenza come prova evidente, noi ci basiamo sull’evidenza per facilitare la conoscenza. Questa è la spina dorsale del Vedānta. Anche lo scienziato parla sulla base dei dati dei sensi; l’intera scienza si basa sui dati dei sensi e i dati dei sensi stanno per l’evidenza. In base a questa evidenza si capisce che questo è questo e quello è quello. Anche in questo caso, non è che si ha comprensione dell’evidenza, ma, in base all’evidenza, si capisce. E anche l’affermazione “non si deve solo capire, si deve anche sperimentare” è molto stupida; tu capisci solo ciò che hai già sperimentato, che è già dentro lesperienza, è la stessa cosa dellesperienza; non si può sperimentare la Realtà come se fosse qualcosa di sconosciuto, di nuovo che viene a seguito della comprensione. Quando dici “è evidente” ciò significa che è evidente all’interno della tua esperienza; è come il jagat che ti è evidente, che ti è erroneamente evidente, come anche è evidente che lo neghi, perché anche la sua rimozione è evidente, come anche la tua libertà da esso è evidente. In altre parole, è proprio come la presenza del sogno che è evidente, come anche è evidente la libertà dal sogno. Allo stesso modo, la tua esistenza è evidente, non puoi dubitarne. Perciò non si può dire “la verità non solo va compresa, ma va anche sperimentata”. Chi dice questo sottintende che puoi anche conoscere, ma hai bisogno del mio aiuto per sperimentare: quindi sii mio devoto”. Sono affermazioni capziose, non vere; la Verità non è qualcosa che sperimenti come qualcosa di nuovo: è già dentro l’esperienza. Il mondo è dentro la tua esperienza, la tua esistenza è esperienza del Sé. Il Sé è auto-esperito o auto-evidente; quindi ciò che stai capendo è all’interno della tua esperienza, è la tua natura. Tu sei già lì e quella è la tua natura. Perciò dire della conoscenza del Sé che “solo dopo aver capito si arriva a sapere che si è illimitati” è unaffermazione stupida La propria illimitatezza è evidente anche prima di capire: la si deve soltanto scoprire. Anche dire che “non deve essere solo compresa, ma anche sperimentata”, parlare della Realtà come “qualcosa da sperimentare nel tempo attraverso la pratica” è unaffermazione molto stupida. Sono le persone stupide che parlano così proprio perché sono stupide. Se qualcuno dicesse che “la Realtà è qualcosa che devi sperimentare” smetterei immediatamente di insegnargli e me ne andrei. Il mondo non è qualcosa di cui fare esperienza, è già all’interno dell’esperienza. Si tratta solo di comprenderlo. Perciò l’evidenza della non-dualità è presente ancor prima di capirla e, sulla base di quell’evidenza, si capisce. Questa comprensione è definitiva e non è seguita da alcuno sforzo per sperimentare. Come conoscendo la conchiglia di madreperla ci si libera dalla brama per l’argento, così quando si arriva a sapere che è un miraggio il desiderio per l’acqua cessa. Quando Turīyam è inteso come la propria esistenza, si capisce che Turīyam non è qualcosa di diverso dai tre stati: Turīyam è la Realtà dei tre stati. La Realtà di chi sperimenta i tre stati è il Quarto. I tre stati sono pensieri, sono tre percezioni e la presenza cosciente dietro tutte e tre le percezioni è il Quarto. Se il Quarto fosse qualcosa di diverso dallo stato di veglia e dal vegliante, di diverso dallo stato di sogno e dal sognatore e di diverso dal sonno profondo, allora tale Realtà non sarebbe evidente, sarebbe come dire che è śūnyam. La Realtà considerata diversa e lontana dai tre stati non sarebbe evidente: la Realtà pensata come fosse al di là dei tre stati non sarebbe evidente, perché non cè un “al di là dei tre stati”: la Realtà dei tre stati è il Quarto. Se si dicesse che “la Realtà è qualcosa d’altro dai tre stati”, essa non sarebbe evidente e, quando se ne parlasse come di qualcosa di non evidente, la si prenderebbe per inesistente. Non si può nemmeno dire “per te può essere evidente, ma per me non lo è”. Si può dire “tu puoi capirlo, ma io posso non capirlo”. Invero, ciò che è evidente è evidente universalmente. Ecco perché insegno sempre a distinguere tra comprensione ed evidenza. L’evidenza non ha nulla a che fare con la tua comprensione o incomprensione: è già evidente anche prima di comprendere e, dunque, ciò che è evidente si può comprendere.

Quando si comprende il Quarto quale sperimentatore dei tre stati, non cè alcuna evidenza di Turīyam come qualcosa di diverso dai tre stati e come qualcosa di diverso dallo sperimentatore dei tre stati. Nulla è evidente come qualcosa di diverso dai tre stati e come qualcosa di diverso dall’esperienza; ed è lo stesso sperimentatore a essere la Realtà dei tre stati perché tutti e tre gli stati rientrano nellesperienza dello sperimentatore. Rientrano nella tua esperienza, non possono esistere al di fuori della tua esperienza; è difficile pensare a un oggetto che esista al di fuori della propria esperienza. Il cielo può essere lì, ma come oggetto è all’interno dell’esperienza. Essere all’interno dell’esperienza ed essere a disposizione dell’esperienza significano la stessa cosa, bisogna colmare il divario tra queste due espressioni. Che la terra sia all’interno della mia esperienza e che la terra sia disponibile alla mia esperienza, sono due espressioni che significano la stessa cosa; tutto ciò che è soggetto a essere sperimentato è all’interno dell’esperienza. Da qui non vedo l’America, ma essa è disponibile a essere vista; tutto ciò che è visto e tutto ciò che è disponibile a essere visto sono sinonimi, sono la stessa cosa. Tutto ciò che è udito e tutto ciò che è udibile sono la stessa cosa; puoi non sentirlo ma è disponibile a essere udito, è qui dove tu stai; è qui che sta l’intera creazione, il cielo, l’inferno, l’intero dominio della percezione: è all’interno dell’esperienza delluomo e quindi, in base a ciò, tutto ciò che è visto è visto, tutto ciò che è disponibile a essere visto è anch’esso visto. Tenendo conto di questo fatto, non cè alcuna prova che ci sia qualcosa al di là dei tre stati e al di là di chi sperimenta i tre stati. Sono tre stati chiamati anche tre pāda e lo stesso sperimentatore dei tre stati è il Quarto. Nella comprensione della Realtà non può esserci la non comprensione (jñāna abhāva), come nella giusta comprensione non è nemmeno possibile che rimanga il fraintendimento (mithyā jñānam); nella giusta comprensione non è possibile che rimanga il saṃsāra. E quindi non c’è nemmeno motivo per cui non si possa non capire, per cui non si possa non conoscere; infatti non c’è motivo di non capire, in quanto è evidente.

Perché non c’è motivo di non comprenderla? Perché è già evidente: ed è lo Śāstra che indica l’evidenza all’uomo che non la vede. Ecco perché la Realtà è evidente anche a un profano anche se non la riconosce. Vive l’evidenza, ma non la conosce. Vedere l’evidenza correttamente è conoscere; non è un processo diverso da quello di chi vede l’evidenza, ma non la conosce. Non c’è motivo per cui uno non lo capisca o non possa capirlo. Bhagavān dice che non c’è alcun motivo per non capirlo perché tutte le Upaniṣad hanno lo scopo di indicare l’evidenza, tutte le Upaniṣad parlano solo dell’evidenza; tutte le Upaniṣad si prodigano a indicare l’evidenza, sono tutte tese a questo fine, non fanno nient’altro. Indicare l’evidenza significa indicare l’evidenza del tuo essere non-duale e vedere quellevidenza si chiama conoscenza. La conoscenza non è il risultato di qualche sādhanā; la conoscenza è vedere l’evidenza indicata dalla śruti. In questo senso essa è śābda pramāṇam: solo indicando che il Sé è non-duale. Oltre a segnalare l’evidenza, di cosa può parlare il Vedānta? Di cosa può parlare una persona? Se si abbandona levidenza, se non si parla dell’evidenza, parlare della Realtà non ha alcun senso. Non si può parlare della Realtà: si può al massimo parlare del Signore. Questa è l’evidenza. Tutte le Upaniṣad sono interamente dedicate a mostrare l’evidenza della natura non-duale del Sé, perché, a forza di sentirti un soggetto, hai contemporaneamente conoscenza di tutte le percezioni. Ma, al tempo stesso sei anche libero da tutto ciò e non c’è motivo per cui tu non possa capire se ti viene insegnato correttamente. Quando pensi correttamente tutto è facile in questo mondo, ma non è facile correggere il pensiero.

“Tu sei Quello” ti indica levidenza. Caro signore, quando vai a dormire non sei in relazione con la Realtà; qui pensi alla Realtà. Invece nello stato di sonno profondo tu sei la Realtà e proprio in quell’identità di Essere assoluto nasce il pensiero, è la fonte del pensiero, è dove avviene il pensiero. Il pensiero avviene esattamente dove non è. ‘Dove non è’ significa proprio dove ci sei solo tu libero dal pensiero. Proprio dentro di te libero dal pensiero inizia il pensiero; e anche nello stato di veglia senti che tutti i pensieri, tutte le percezioni della veglia hanno luogo in te. Non nel corpo, nell’Essere; non nel cervello. Anche il cervello è un pensiero, tutto il corpo è un pensiero; anche il cervello è un oggetto del pensiero. Se pensi al tuo cervello, anche quello è un pensiero. Quindi l’intero dominio delle percezioni appare in te stesso che sei libero da tutte esse. Perciò nello stato di veglia si pensa a Parameśvara, nello stato di sogno si può pensare a Parameśvara, ma nello stato di sonno profondo si è Parameśvara. Non si è un individuo, non c’è evidenza di individualità, si è liberi dall’individualità. Quando si è liberi dall’individualità si è non-individuali e quando si è non-individuali si è illimitatamente Īśvara. Ecco perché la śruti afferma “tu sei Quello”, quella Realtà che tu sei perché è evidente in quanto te stesso. Una vacca quando sta in piedi è una vacca, quando giace è una vacca, quando sta ferma è una vacca, una vacca è una vacca in ogni situazione: quando dorme è una vacca, quando è sdraiata è una vacca, quando cammina è una vacca e quando corre è una vacca. Allo stesso modo tu sei illimitato nella veglia, sei illimitato nel sogno, sei illimitato nel sonno profondo. Questa è la tua natura che non può essere negata. Tenendo conto di questo fatto, la śruti dice “il tuo Essere è evidente”, il tuo essere Brahman è evidente.

Quindi cosa insegna la śruti? Indica solo ciò che è evidente, non dà conoscenza. Tu sei invitato a osservare le prove indicate dalla śruti: questo si chiama riflessione (manana). Se non vedi le prove indicate dallo Śāstram, anche se intraprendi un qualche tipo di sādhanā, non ti serve a nulla, ti sforzi per niente. In nome della sādhanā non dedicarti a cose stupide, perché il pensiero non è un problema: il problema è non capire la situazione in cui appare (sṛṣṭi sthānam) e il modo in cui si dissolve (laya sthānam). Il pensiero non è un problema, la non comprensione dello sṛṣṭi sthānam del pensiero e del laya sthānam del pensiero, è il problema. La non comprensione della sua origine e del suo punto di dissoluzione è il problema. Lo stato di veglia non è un problema, la mia non comprensione dell’origine dello stato di veglia e del suo punto di dissoluzione è il problema. La creazione non è un problema: il problema è la non comprensione dell’origine: ed è la non comprensione dell’origine che si chiama creazione. La creazione è il risultato della non comprensione. Altri mahāvākya dichiarano “ayam Ātmā Brahman”, questo Sé è Brahman, ed è evidente; “tat Satyam sa Ātmā”, il Sé, lo sṛṣṭi sthānam e il laya sthānam, è l’Ātman ed è la tua natura; “Tat tvam asi” è l’Ātman, ma l’Ātman non si oggettiva: è ancora te stesso perché senti una parola e la sua denominazione e inizi a immaginare. Senti la parola ‘Brahman’ e inizi a immaginarlo come qualcosa d’altro. È per questo che la śruti dice “tu sei Quello”. Prova a immaginare “tu”: quando immagini “tu”, spontaneamente ti viene da pensare che quello che immagini non sei tu: invece quello che stai immaginando sei proprio tu. È molto difficile immaginare la denominazione della parola “tu”. “Tu” è il termine migliore per trasmettere la Realtà. Quella Realtà sei tu, non immaginarla: quel decimo ragazzo sei tu, non è una tua immaginazione. Provare a immaginare il “signor tu” è il pensiero di un pazzo. Ciò che vedi non è la luce, chi vede è la luce, il visto è loggetto. La luce fisica non è la luce; anche se tu conosci la luce fisica, la luce fisica non conosce te. Ciò che vede la luce fisica è la luce cosciente che illumina la luce fisica. Puoi vedere il sole ma il sole non può vedere te. È questo il significato delle parole di Bhagavān Kṛṣṇa quando dice “Io sono più luminoso del sole”. Vuol significare che il sole è la luce fisica, ma che la luce cosciente è più luminosa.

La comprensione del Vedānta richiede una certa familiarità con il suo approccio. È necessaria una buona dose di insegnamenti (upadeśa), senza i quali si inizia a immaginare, a fantasticare. Il Vedānta impedisce di immaginare. Dice “tu sei Quello”: come si fa a immaginare cosa vuol dire “tu”? Sūreśvarācāryajī dice: “Non cè alcuna altra parola che possa trasmettere quel che vuol dire ‘tu’”. Persino ‘ayam Ātman’, ‘questo Sé’ può essere interpretato come qualcosa di diverso da te; in ‘prajñānam Brahman’, anche la parola prajñānam può essere scambiata per qualcosa di diverso da te. Qualsiasi parola può essere immaginata come se indicasse qualcosa di diverso da te, ma ‘tu’ non può essere preso come qualcosa di diverso da te1. Ecco perché ‘tu’ è il termine migliore per trasmettere la Realtà. Ciò che è evidente in quanto Realtà è anche il “tu”: la parola “tu” indica l’evidenza. Il fatto che “tu” sia evidente in quanto onnicomprensivo è implicito nel “tu”. Un essere umano, se non sente queste sfumature, vive solo nella sua realtà soggettiva; ma allora, come può controllare la soggettività? Non può, perciò ogni sua interpretazione diventa soggettiva. L’Essere non può essere interpretato: ogni vākya e la śruti intera non fanno altro che sottolineare che l’Ātman è Brahman. È vero che c’è un altro vākya che recita: “è sia dentro sia fuori”. Ma neppure questo può essere frainteso per immaginazione; “è sia dentro sia fuori” è il modo in cui si insegna che è libero dall’idea di dentro e fuori e che quella è la sua natura. Ayam Ātma Brahman significa “tu sei Brahman”; prajñānam Brahman significa “tu sei Brahman”, aham Brahman asmi significa “tu sei Brahman”: ogni mahāvākya deve essere riferito a “te”, cioè a quel “tu” che è il soggetto che sperimenta i tre stati. Non cè quindi motivo per cui la Realtà non possa essere compresa, perché il Vedānta non fa altro che indicare le prove che tu sei già Quello, e vedere le prove si chiama comprensione. Anche se dico “in base alle prove si capisce”, quest’ultima frase non significa che la comprensione sia un altro processo: vedere le prove che sono indicate dalla śruti, vedere le prove che tu sei il tuo proprio Sé, com’è indicato dalla śruti, è ciò che si chiama comprensione. Comprensione non è un processo diverso dal vedere l’evidenza, l’evidenza è patente. Assuefatto dall’essere un soggetto ti credi dessere un “io”. Ma tu che dici di essere un “io” non puoi essere una forma perché la forma è un oggetto. Se tu fossi una forma non potresti oggettivarla. Ma tu che pensi alla forma non puoi essere una forma; tu, che sei il vedente della forma, devi essere senza forma; tu che ascoltati il suono sei libero dal suono. Come assaggiatore sei libero dal gusto, come toccatore e annusatore sei libero dal tatto e dall’odore, come pensante sei libero dal pensiero, come sognatore sei libero dal sogno, come vegliante sei libero dalla veglia, come sperimentatore dell’assenza di entrambi sei libero dall’assenza di sogno e veglia. In questo modo la śruti indica levidenza.

Quando lo Śāstra parla di creazione, non parla della creazione come di qualcosa che accade da qualche parte; la percezione non avviene là fuori, la percezione avviene in se stessi. Il pensiero avviene in se stessi, il pensiero dell’incarnazione avviene in se stessi, ci si ritrova con la percezione, la percezione è in me stesso. Dunque l’intero stato di veglia appare proprio in se stessi; dove appare la percezione appare anche l’oggetto della percezione perché la percezione dell’oggetto e l’oggetto della percezione non sono due cose. La percezione del sogno e del mondo onirico non sono due cose; allo stesso modo la percezione del mondo della veglia e del mondo della veglia non sono due cose, è una percezione della Realtà. Quindi la percezione della Realtà avviene nella Realtà. Io mi ritrovo con la percezione. Perciò quando lo Śāstra parla di creazione non parla della creazione che emerge da qualcosa. Tu cominci a oggettivare Parameśvara e, subito dopo, oggettivi l’avvenimento della creazione e, allora, ti sorge il dubbio “yeh sab kaise sambhav hota hain?” [hindī: comè possibile tutto questo?]. Tutti i dubbi nascono da un pensiero sbagliato quando lo Śāstra non è ascoltato correttamente. Ogni frase deve essere ascoltata correttamente, ogni parola deve essere intesa correttamente. Quando ogni evidenza indicata dalla śruti è intesa correttamente non è possibile non capire la verità. Soyam Ātman, il Sé in quanto tale, il proprio Sé.

Tutta loggettivazione avviene nella propria esistenza. La percezione comincia nel proprio Sé, nel Sé privo di percezione, nel Sé privo di pensiero. È proprio all’interno del Sé privo di pensiero che inizia il pensiero. All’interno del Sé privo di percezione ha inizio la percezione, all’interno del Sé libero dalla percezione ha inizio lo stato di veglia. Nel senza percezione inizia la percezione, all’interno del Sé che è libero dalla percezione ha inizio lo stato di veglia. Nel Sé libero dallo stato di veglia ciò che è non manifesto diventa manifesto.

Tu come Realtà sei sia gli stati sia l’esperienza degli stati: come sperimentatore degli stati sei paramārthaParamārtha significa Verità assoluta e i tre stati sono gli errori, aparamārtha. Colui che sperimenta gli stati è paramārtha e i tre stati sono aparamārtha. Quindi la Realtà è sia paramārtha sia aparamārtha. La corda è sia la corda sia il serpente, cioè la realtà del serpente. La corda come realtà del serpente è aparamārtha, la corda come corda è paramārtha; la corda come luogo del serpente è aparamārtha e come corda è paramārtha. La Realtà è sempre insegnata come avente quattro pāda; tre pāda sono aparamārtha e Turīya pāda è paramārtha. I tre stati dell’esperienza sono aparamārtha, mentre colui che sperimenta è paramārtha e ciò che sperimenta non è al di fuori dello sperimentatore: lo stato di veglia, lo stato di sogno e la loro assenza non sono al di fuori di chi sperimenta. Pertanto, in quanto sperimentatore, tu sei paramārtha, sei Satyam, e ciò che sperimenti, il nāmarūpa, che sia presente o assente è sempre aparamārtha. Perciò la Realtà è sempre insegnata come catuṣpāda, che è sia empirico sia assoluto; è la Realtà di ciò che è percepito dai sensi (pratyakṣa upalabdha), è la Realtà di ciò che ne viene dedotto (anumeyam), è la Realtà di ciò che è oggettivato (viṣayavat) e tuttavia trascende l’oggettivo; è l’origine dell’oggettivo, ma non è qualificabile dall’oggettivo, trascende l’oggettivo. La corda è il luogo in cui appare il serpente che vedi e tuttavia non è qualificata, definita e limitata dal serpente.

Bhagavān è la Realtà del mondo, ma non è qualificato dal mondo; è la Realtà di ogni individuo, ma non è qualificato dall’individualità; è la Verità di tutti i pensieri, ma non è qualificato dai pensieri. Ecco perché le sofferenze del jīva non diventano le sofferenze di Īśvara; cioè i pensieri non diventano la tua natura e come fonte del pensiero non sei qualificato dal pensiero. Perciò la migliore descrizione di Brahman è che Brahman è catuṣpāda; come s’è già detto, tre pāda sono aparamārtha e il caturpāda è paramārtha. I tre stati sono avidyā kalpitam, i tre stati ci sono perché non compresi, i tre stati sono avidyā kalpitam come la percezione del serpente al posto della corda. I tre pāda sono la mutua sovrapposizione di rajju e sarpa, mentre il quarto pāda è rajju. I tre pāda sono come rajju-sarpa e chi sperimenta i tre stati è come rajju. Questi tre pāda hanno la forma di bījaaṅkura, non manifesta e manifesta; il seme non è altro che un germoglio non manifesto e il germoglio è un bīja manifesto. Non porti la domanda “viene prima il bīja o l’aṅkura”: non si tratta di due cose, sono una cosa sola. Una volta detto che sono una cosa sola non ci sono problemi; molte difficoltà possono essere risolte comprendendo correttamente che bīja e aṅkura non sono due. Bīja è un albero (vṛkṣam) non manifesto e vṛkṣam è seme manifesto: quindi non sono due. Se fossero due si potrebbe stabilire quale viene per primo e quale per secondo. Invece, non c’è sequenza (krama), dove c’è un ciclo non c’è krama; in tutti i cicli è difficile trovare il krama perché non è possibile: in un ciclo non c’è krama, perché è un unico dominio di correlazione. Tra jīva jagat, qual è il primo? Viene prima jīva o viene prima jagat? Nessuno dei due, sono solo una correlazione, anche se usiamo dire che è l’incarnazione come jīva a creare in noi l’idea di jagat. In realtà, tra jīva e jagat non cè alcun krama. I tre pāda sono come bīja e aṅkuraSuṣupti è come il bīja e il sogno e la veglia sono l’aṅkuraBīja è avidyā kalpitam, ma anche aṅkura è avidyā kalpitam. Chi sperimenta bīja e sperimenta aṅkura è paramārtha; questo è evidente come tvam. Chi sperimenta i tre stati sei proprio solo “tu”.

Finora abbiamo visto il primo pāda, il secondo pāda e il terzo pāda. Il primo pāda è Virāṭ, il vegliante più luniverso della veglia, il secondo pāda è il sognatore e il mondo sognato, insieme chiamato Hiraṇyagarbha, e il terzo pāda è Īśvara, l’origine; e tutti questi dipendono da avidyā kalpitam. La relazione origine-creazione deve essere messa a confronto con la creazione; infatti la relazione origine-creazione è avidyā kalpitam, mentre l’origine in quanto tale non è avidyā kalpitam: Īśvara in quanto tale non è avidyā kalpitamĪśvaratvam è avidyā kalpitam; la relazione fonte-creazione è avidyā kalpitam. Abbiamo visto che tutto ciò è avidyā kalpitam. Il prossimo verso che prenderemo in considerazione è il settimo mantra dell’Upaniṣad. In esso si tratta del Quarto pāda che è libero dallo stato di veglia, libero dallo stato di sogno e libero dallo stato seminale (bīja avasthā) detto di sonno profondo. Questo Quarto non è al di là dei tre stati, questo Quarto è lo stesso sperimentatore dei tre stati; il soggetto stesso dei tre stati è il Quarto, la Realtà stessa dei tre stati, libera dal primo pāda, libera dal secondo pāda, libera dal terzo pāda: il Quarto è l’origine stessa dei tre stati, ma libera dai tre stati. Esattamente come lorigine stessa del serpente in quanto libera dal serpente, è rajjuTurīyam si rivela libero dai tre stati quando si evidenzia il fatto che i tre stati non qualificano chi fa l’esperienza. Questo si chiama correzione: l’esperienza non qualifica. Ciò che sperimenti non ti qualifica, tu non sei ciò che sperimenti. Tu sei colui che sperimenta e qualsiasi forma sperimenti, qualsiasi nome che sperimenti o sua assenza che sperimenti non ti qualifica. Non sei la presenza di una forma né sei l’assenza di una forma. Sei la presenza di te stesso, libero sia dalla presenza della forma sia dall’assenza della forma. Riconoscere che questo non ti qualifica significa correggere la tua percezione. Infatti, ora vivi con l’idea: “La forma mi qualifica, il suono mi qualifica, tutto ciò che vedo mi qualifica, tutto ciò che sperimento mi qualifica, mi contamina”. Capire che non ti qualifica si chiama comprensione; tu senti che la forma, ecc., ti qualifica, ma la śruti afferma che non c’è alcuna prova che tutto ciò ti qualifica. Al contrario, c’è la prova che non ti qualifica e vedere questa prova corregge la tua idea di essere qualificato. In questo modo, il settimo mantram parla del Quarto negando i tre stati, correggendo i tre stati, dicendo che la veglia è tua percezione, che il sogno è tua percezione, che il sonno profondo, come è pensato nella veglia, è anch’esso tua percezione. La tua stessa percezione non qualifica la tua natura; la tua natura è indipendente dal tuo pensiero, la tua stessa natura non si auto qualifica. Qualsiasi cosa pensi non ti qualifica, le tue credenze non qualificano la tua natura, le tue percezioni non qualificano la tua natura, le tue abitudini non qualificano la tua natura: nulla può qualificare la tua natura. Vedere questa evidenza è ciò che si chiama comprensione; vedere l’evidenza che è indicata dagli śāstra si chiama comprensione. La comprensione non è un processo diverso dalla visione dell’evidenza; non c’è un altro processo oltre alla visione dell’evidenza, cioè oltre alla comprensione. Colui che comprende è autoluminoso. Vedere l’evidenza indicata dagli śāstra si chiama comprensione. La Realtà è sempre indicata come non qualificata da questo (idam). È libera da questo perché non è qualificata da questo, è libera da questo, è libera da questo, è libera da tutto ciò che pensi di essere.

  1. Si confrontino le importanti righe che seguono con l’illuminante articolo di Śrī  K.A. Krishnaswami Iyer “Solipsismo e Vedānta”, apparso su questo Sito.[]