Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja
1. Estratti dal Commento all’Adhyāsa Bhāṣya Sugama
Che cos’è l’adhyāsa? Per rispondere Śrī Satchidānandendra Svāmījī inizia con una obiezione sollevata da un Pūrvapakṣin1. Questo Pūrvapakṣin, è però particolare; infatti la sua posizione è riscontrabile solo tra gli advaitin che cercano di spiegare l’adhyāsa in modo diverso. Inizia così: “Jñānasya viṣaya pakṣa patitvāt”. “Jñāna richiede necessariamente un oggetto”. In generale si può dire che conoscenza sta per pensiero, concezione, idea o nozione; ora, qualsiasi pensiero, idea, nozione o modificazione mentale (manovṛtti) richiede un oggetto esterno. Questo è ciò che sostiene: ogni volta che si ha un pensiero, deve esserci un oggetto corrispondente a quel pensiero. Senza un oggetto, nessun pensiero può avere luogo. Questo è il suo punto di vista, che è in parte vero e che si avvicina all’Advaita, ma che in alcuni punti è imperfetto. Per questa ragione si può considerare il Pūrvapakṣin come interno all’Advaita. La sua posizione ci aiuta a cogliere una differenza molto sottile.
“Jñānasya viṣaya pakṣa patitvāt”. Questa prima frase è di difficile interpretazione. Jñānam in sanscrito è una parola comune che può significare qualsiasi corretta comprensione, ma anche fraintendimento oppure dubbio. Quindi, si tratta di un termine molto generico. In italiano, invece, conoscenza indica solo la conoscenza corretta, la conoscenza che corrisponde fedelmente all’oggetto. Quindi, per voi conoscenza è ben diversa dall’errore. Invece, in sanscrito, conoscenza può essere falsa (mithyā jñānam), corretta (samyag jñānam) o incerta (saṃśaya jñānam): noi usiamo la parola jñānam in tutte e tre le accezioni. Anche l’incomprensione è un tipo di conoscenza; anche il dubbio è un tipo di conoscenza, come anche la conoscenza corretta, fedele ai fatti, è un tipo di conoscenza. Quindi, jñānam è una parola applicabile a tutte queste diverse comprensioni. Si deve, perciò, tener d’acconto che si sta discutendo su una parola sanscrita e che le persone coinvolte nella discussione sono indiani.
Iniziamo con un breve commento della frase del Pūrvapakṣin “Jñānasya viṣaya pakṣa patitvāt”, non dimenticando che, per il siddhānta,la conoscenza corretta, samyag jñānam è sempre fedele al fatto che ne è l’oggetto. Tuttavia, nel caso di un fraintendimento, di un dubbio o di una incomprensione, questa conoscenza non richiede un oggetto, perché fraintendere significa esattamente comprendere il fatto per ciò che non è. Si tratta, quindi, d’una conoscenza a cui non corrisponde un oggetto. La realtà è una, la differenza sta solo nella sua comprensione. Prendiamo l’esempio della corda. La corda è un oggetto reale e quando la si fraintende, quando la si prende per un serpente, cosa succede? Il serpente non c’è; soltanto si sta pensando che sia un serpente. Ma in realtà il serpente non c’è. Quindi, quando c’è un fraintendimento, non c’è un oggetto corrispondente al proprio fraintendimento. L’oggetto corrispondente è la corda, non il serpente. Il serpente è soltanto la vostra comprensione. In verità, ciò che corrisponde al serpente è solo la corda, non c’è alcun serpente. Questo è il punto di vista del Vedānta.
Pertanto, questo pūrvapakṣa può essere mosso solo in una discussione tra vedāntin: è un advaitin pūrvapakṣa. I non advaitin sono totalmente esclusi da questa particolare discussione. Quando si ha una conoscenza della corda, ciò che corrisponde alla conoscenza della corda è l’oggetto corda. Ma quando si scambia la corda per un serpente, ciò che corrisponde alla conoscenza del serpente non è un oggetto serpente: la conoscenza del serpente è conoscenza errata, è un fraintendimento. Non è una conoscenza errata del serpente, perché non c’è alcun serpente. La conoscenza del serpente è conoscenza errata della corda. La corda è il fatto. Riguardo alla corda, si ha la conoscenza (nella forma) di un serpente, motivo per il quale si dice che sia errata. Allo stesso modo qui, ora, nel Vedānta, applichiamo immediatamente lo stesso ragionamento all’Ātman.
Consideriamo il Brahman. Riguardo al Brahman si ha quella conoscenza che è la conoscenza del mondo (jagat) – e non una conoscenza ad Esso appropriata; si conosce Brahman come jagat, si prende Brahman per jagat. Perciò, avere una conoscenza di jagat non significa che ci sia un jagat di cui si ha conoscenza. Non è nemmeno che ci siano due cose. La forma assunta dalla conoscenza, ciò è jagat. Jagat è solo una forma di conoscenza, non una forma di oggetto. La conoscenza di jagat o la conoscenza sotto forma di jagat è solo una conoscenza senza il corrispondente oggetto-jagat, perché in realtà il corrispondente oggetto2-fatto è solo Brahman, esattamente come la corda dell’esempio. La verità è Brahman. Quando si cerca di capire il Brahman e non si riesce a capirlo a causa di qualche problema, allora lo si fraintende. La forma del fraintendimento è jagat. Jagat non è un oggetto (un presunto falso oggetto-mondo), è solo la forma dell’incomprensione del Brahman. Jagat è solo una forma di fraintendimento del fatto, che è Brahman. Quindi, Brahman è il fatto di cui si ha una comprensione errata, che si presenta sotto forma di jagat. La forma del jagat è quindi il Brahman frainteso. Perciò, il fraintendimento non ha un oggetto corrispondente. L’oggetto corrispondente è la Realtà (Satyam), non l’errore (mithyā).
Tutta questa argomentazione è quella di un Siddhāntin. Ora veniamo al Pūrvapakṣin. Il suo pūrvapakṣa manifesta una comprensione errata: “ogni conoscenza richiede un oggetto corrispondente”. Ciò significa che se si ha un fraintendimento, esiste un oggetto sbagliato corrispondente. In sanscrito suonerebbe come se a mithyā jñānam (conoscenza erronea) corrispondesse un reale mithyā vastu (reale oggetto falso). Ma non si è mai sentito parlare di un mithyā vastu, di uno falso reale. Chi ha mai visto un mithyā-serpente? Mithyā è solo un qui pro quo; la forma del qui pro quo – cioè della comprensione erronea – è un serpente. Non esiste un mithyā-serpente che sia un padārtha3. Ma il pūrvapakṣin, sulla base del “Jñānasya viṣaya pakṣa patitvāt”, afferma che necessariamente esiste un mithyā padārtha che corrisponde al mithyā jñānam del serpente. Tra gli advaitin ci sono alcuni che affermano così: “Jñānam richiede necessariamente un oggetto”. Se un oggetto non d’argento, come una conchiglia di madreperla, sembra essere d’argento, allora che la sua conoscenza sia l’argento e che l’oggetto sia una conchiglia è una pura contraddizione. Quindi, poiché per la conoscenza sarebbe indispensabile un oggetto corrispondente, essa non può esistere senza il suo oggetto. Non è forse così? È un controsenso (vaiparitya), questo si chiama errore. Una conchiglia che non è d’argento, ma di madreperla, appare come argento. Appare significa che la si considera4 d’argento, la si prende per argento, la si conosce come argento. È una cosa molto strana quando la si conosce come fosse d’argento: l’oggetto è la conchiglia ma la comprensione che si ha di essa è l’argento. Ora applichiamo questa argomentazione al Brahman. L’oggetto è Brahman, ma la sua comprensione è jagat. Quindi, io comprendo Brahman come jagat. Ciò significa che jagat è solo una forma di comprensione, una forma di conoscenza, non ha natura di oggetto. È una forma di conoscenza di Brahman, che è la Realtà. Brahman è l’oggetto reale e la forma di comprensione che si ha è jagat. Non è contraddittorio? Contraddizione qui sta per (essere l’) opposto. Opposto significa che è una comprensione sbagliata. La forma di comprensione di Brahman è jagat. L’oggetto reale, quello che c’è davvero, è Brahman. Ciò che esiste veramente è Brahman, cioè la Pura Coscienza non duale (advitīya Caitanyam), ma ciò per cui io la “prendo” è la dualità soggetto-oggetto, vale a dire che io sono un conoscitore e sto conoscendo il mondo – cioè che io sia un individuo circondato dal mondo, connesso al mondo. “Sono un individuo e sono connesso al mondo”: questa è la forma di comprensione del jagat ed in cui il jagat stesso consiste. Una forma di comprensione che non riguarda il jagat: è una comprensione in forma di jagat, non del jagat, ma del solo Brahman. Riguardo a Brahman, la forma di comprensione è jagat. Ora, si suppone che la forma di comprensione sia generalmente in funzione dell’oggetto. Questo è simile alla conoscenza che abbiamo dell’argento, a una conoscenza sotto forma di argento, che riguarda un oggetto che non è argento. Allo stesso modo abbiamo una conoscenza sotto forma di jagat. Jagat, ossia tutta questa intera avasthā comprendente soggetto e oggetto, è una forma di conoscenza che riguarda che cosa? Riguarda Brahman che è Suṣupti svarūpam, libero dalla dualità soggetto-oggetto, che è nient’altro che Coscienza.
Questa argomentazione è difficile e deve essere seguita con attenzione, perché anche se è spiegata con parole semplici, non è di facile comprensione. È facile solo dopo averla capita. La contraddizione sta nel fatto che una conchiglia non d’argento appare come argento. L’oggetto è una conchiglia di madreperla e la comprensione che si ha di essa è l’argento. La cosa è una, la sua conoscenza è un’altra. Cosa si deve fare per risolvere questa discrepanza? Beninteso, è il Pūrvapakṣin che la chiama discrepanza (vaiparitya) e la ritiene un problema: l’oggetto è una conchiglia di madreperla e la sua conoscenza è che è d’argento. Come può esserci una conoscenza dell’argento riguardante un oggetto che non è d’argento? E perché? Si può rispondere che questo è ciò che accade in ogni malinteso. Quando si fraintende, l’oggetto è uno e la sua comprensione è diversa. È il risultato di una conoscenza errata. Ma il Pūrvapakṣin ribadisce che non è così, perché “ogni conoscenza deve avere un oggetto corrispondente”. Perciò, se si tratta di una conoscenza errata, deve esserci un oggetto errato corrispondente. Se si tratta di una conoscenza sbagliata, deve esserci un oggetto “falso” corrispondente. Di converso, quando si dice la verità, essa deve corrispondere a un oggetto vero, a un evento vero. [Svāmījī alza una penna.] Se dico che questa è una penna, è un’affermazione vera. Quindi l’affermazione ha un oggetto corrispondente. Ma se dico che è un libro, cosa dico? Questa bugia ha necessariamente un oggetto corrispondente sbagliato; questa è un’argomentazione molto strana che è stata inventata da alcuni advaitin. Svāmī Satchidānandendra Mahārājajī, sulla base dei testi di Bhagavatpāda, critica questo punto: si tratta d’un errore. Il Pūrvapakṣin afferma che è un problema: ma è un problema soltanto perché si è dato la regola per la quale ogni conoscenza, vera o falsa, giusta o sbagliata che sia, richiede per forza un oggetto corrispondente; e senza oggetto, nessuna conoscenza può sorgere. L’errore è nella premessa (samūladhāra) da cui parte. Quando si dice: “Perbacco, ho visto per errore l’argento a posto della conchiglia”, cosa e come lo si deve intendere? Secondo il Pūrvapakṣin ogni mithyā jñānam richiede un corrispondente mithyā padārtha (passando al sanscrito, il Vedānta diventa più facile da capire). Perciò, avendo avuto visione di un qualche argento, bisogna accettare la presenza di un argento di tipo mithyā. Per la mia comprensione (nella forma) dell’argento dev’esserci un oggetto falso corrispondente, ma com’è possibile? Di che argento si tratta? Si risponde che il mithyā-argento è diverso dal vero argento conosciuto al mondo da tutti (mithyā rajatam laukika paramārtha rajata vilakṣaṇam). Il vero argento è diverso da quello falso. Hanno creato un altro argento. Ma dove mai lo si riscontra? Nessuno lo sa, ma ci dicono che dobbiamo accettarlo per forza perché a ogni conoscenza, vera o falsa, deve necessariamente corrispondere un oggetto, vero o falso. Sotto illusione (brāhma), durante l’illusione dell’argento, quando si scambia la conchiglia per argento, quando si ha un mithyā jñānam, c’è un mithyā padārtha; l’argento illusorio (mithyā rajatam) è presente in quanto oggetto-argento falso (mithyā padārtha rajatam). È diverso, anomalo (vilakṣaṇam). A differenza dell’argento conosciuto nel mondo, questo argento è qualcosa di nuovo (abhinavam eva rajata jñāna lambhanam). Abhinavam significa che non è mai esistito prima, è totalmente nuovo. Viene creato ex novo. Similmente, accade nell’esempio della corda e del serpente: quando confondo la corda per un serpente, mentre sto percependo, durante quel bhrāma si dice che c’è un serpente-oggetto che corrisponde alla mia conoscenza del serpente. Questo oggetto-serpente è un mithyā-serpente. Infatti, in base alla conoscenza del mithyā-serpente, esisterebbe un serpente falso quale oggetto della conoscenza (mithyā sarpa padārtha). Che cos’è questo mithyā sarpa? È un mithyā sarpa padārtha che è diverso da un vero serpente, da quel serpente che esiste nel mondo. È diverso dal vero serpente. Ma, allora, dove lo si trova? Secondo la logica del Pūrvapakṣin questo mithyā sarpa sarebbe stato creato improvvisamente proprio durante l’errore. Allo stesso modo, anche durante la percezione errata della conchiglia presa per argento, ci sarebbe un falso argento; infatti in base alla conoscenza dell’argento falso (mithyā rajata jñānam), esisterebbe un falso argento quale oggetto corrispondente della conoscenza (mithyā rajata padārtha). È come se il Pūrvapakṣin dicesse: “Non l’abbiamo mai visto, ma mentre si fraintende, e solo durante l’errore, è presente. È appena nato. Quando fraintendi, immediatamente per te nasce un nuovo serpente”. Supponiamo che si scambi una persona per un’altra: durante tale fraintendimento, in quel momento, viene forse creata un’altra persona? Chi mai direbbe una cosa simile? Lo dice il Pūrvapakṣin: “In quel momento appare la creazione d’un indescrivibile argento (tat kāle samutpadyate anirvacanīya rajata utpatti)”. Quando si ha una conoscenza errata, insieme ad essa sorgerebbe, dunque, un oggetto errato in modo concomitante (athavā); concomitante significa immediatamente insieme ad essa, fianco a fianco, simultaneamente, o parallelamente. Satchidānandendra Svāmījī, conformemente al Vedānta di Śaṃkara, ammette l’esistenza d’una conoscenza sbagliata, ma non accetta che ci sia un corrispondente oggetto falso (mithyā padārtha). Mithyā è sempre e solo jñānam, mentre non può esistere alcun mithyā padārtha. Una cosa del genere non esiste, è solo una falsa creazione (mithyā prakriyā) della mente, una speculazione astratta (pakṣābhāsa) che, invece di spiegare, confonde ancora di più le cose. Non soltanto non esiste in nessun testo, né se ne trova traccia in Śaṃkara né in Satchidānandendra Svāmījī; non soltanto è contro ogni logica, ma non si trova nemmeno nell’anubhava di nessuno.
Ma perché la conoscenza sbagliata dovrebbe sempre essere accompagnata da un oggetto sbagliato? Secondo l’opinione (pakṣa) del Pūrvapakṣin, senza falso oggetto, non può aver luogo la conoscenza errata. Noi vedāntin diciamo che il mithyā jñānam è un mithyā jñānam da solo, non ha bisogno di mithyā padārtha. C’è semplicemente solo il vero oggetto di conoscenza di cui si ha un mithyā jñānam. Per ritornare all’esempio del serpente e della corda, questo falso serpente che è creato nel momento in cui se ne ha la falsa conoscenza, per essere creato, richiede un materiale. Come viene creato? Chi lo ha creato? Chi ne è il produttore? Scopritelo: ci deve essere un produttore, ci deve essere una materia prima. Il pūrvapakṣin, per spiegare tutto ciò, come si comporta? Invece di comprendere l’errore che sta nel presupposto, egli continua e si inoltra sempre più nella propria speculazione teorica. Ora, una volta accettato che c’è un serpente falso che viene creato temporaneamente in quanto oggetto corrispondente alla falsa conoscenza, anche per un tal genere di creazione è necessario un materiale. Senza causa materiale (upādāna kāraṇa) la creazione temporanea di quello strano serpente, che sebbene percepito solo durante l’incomprensione e non all’esterno, non nel mondo, non può esserci; nulla può essere creato senza una causa materiale. Per il falso argento e per il falso serpente è necessaria una corrispondente falsa causa materiale. Questa deve essere una sostanza positivamente esistente (bhāvarūpam). Non può essere una semplice negazione, non è una semplice assenza, deve essere qualcosa di positivo. Per il Pūrvapakṣin, è falsa (mithyā), ma è, ciò nonostante, una sostanza positiva (bhāvarūpam). Lo si deve accettare. Vedete, egli sta logicamente postulando che dovete accettarlo. Deve esserci perché è logicamente necessario. È necessario per la logica. Non lo sta indicando al vostro anubhava. Prima presuppone che qualsiasi jñānam (anche quello sbagliato) richieda necessariamente un oggetto, e poi va avanti con la logica: quando si è in preda alla falsa conoscenza si produce istantaneamente un falso serpente temporaneo. Per questa produzione è necessaria una causa materiale. Questa falsa causa materiale è chiamata ignoranza (ajñānam). Tutto ciò è una pura astrazione teorica, una vuota speculazione, un viaggio mentale.
Come conclusione di questo procedimento logico, l’ajñānam non è semplicemente comprensione erronea o assenza di comprensione, come da noi sostenuto: per il Pūrvapakṣin, ajñānam è una materia speciale e particolare, prodotta miracolosamente. È come se ajñānam fosse prodotto in cielo in un laboratorio che nessuno può visitare, se non chi ha un permesso speciale. Lì c’è la materia prima speciale che produce il falso serpente o il falso argento o qualsiasi altro falso oggetto. Il Pūrvapakṣin ammette che i falsi oggetti appaiono quando si è in preda alla falsa conoscenza, ma sostiene che questo ajñānam è una sostanza. Ma dove si trova questo ajñānam necessario a creare un falso serpente o un falso argento non appena si è sottoposti all’incomprensione? Vediamo: c’è una corda, o, come dicono tecnicamente, “la coscienza delimitata dalla corda” (rajju avacchinna caitanyam); su essa appare il serpente illusorio o falso e dunque è in quella coscienza limitata che giace la causa materiale che si trasforma in serpente. Allo stesso modo, in ogni oggetto c’è la coscienza limitata dall’oggetto (viṣaya avacchinna caitanyam), come la coscienza limitata della madreperla (śuktikā avacchinna caitanyam) ecc. Nessuna scuola di filosofia del mondo orientale né di quello occidentale ha mai sostenuto una teoria simile. È l’idea più unica che rara di certi advaitin che, con ragionamenti capziosi e una logica viziata, hanno trasformato il Vedānta in qualcosa di molto complicato, più affine alle correnti più sofistiche del tarka śāstra. Poiché la risposta del Siddhāntin sarà molto interessante per capire il vero Advaita, dovrete sopportare se mi dilungo a illustrare le follie del Pūrvapakṣin. Dunque, śuktikā avacchinna caitanyam, la coscienza delimitata dalla madreperla, in essa ristà l’avidyā sostanziale, questa ignoranza-radice (mūlāvidyā) che è ignoranza positiva (bhāva avidyā), la quale a sua volta produce il falso argento (mithyā rajatam) avente natura di oggetto.
Si devono, perciò, stabilire tre punti di questo ragionamento: il primo è che ogni jñānam richiede un oggetto corrispondente; e se il jñānam è sbagliato necessariamente l’oggetto corrispondente deve essere un mithyā-oggetto. Quando abbiamo la falsa conoscenza del serpente, abbiamo bisogno di un falso oggetto-serpente. Il secondo punto è che il falso oggetto-serpente sorge immediatamente quando si ha la falsa conoscenza del serpente. Assieme alla falsa conoscenza nasce immediatamente e contemporaneamente un falso oggetto-serpente. Il terzo punto è che una volta accettato il sorgere di un falso oggetto-serpente, è necessario un materiale per produrlo; questo materiale è chiamato ignoranza (ajñānam). Una volta accettati i tre punti come postulati, il Pūrvapakṣin spiega qual è il processo che porta la falsa causa materiale a diventare un falso serpente. Come si produce? La spiegazione somiglia a un racconto che ascoltavo durante la mia infanzia: un mago fachiro musulmano aveva rapito la moglie di un Re. La Regina aveva un figlio che, cresciuto, andò in cerca della madre per liberarla e uccidere il mago. Ma la vita del mago era nascosta in un pappagallo che abitava in una grotta al di là dei sette oceani. Per uccidere il fachiro, il giovane principe doveva percorrere il lungo itinerario irto di difficoltà e di pericoli prima di trovare il pappagallo.
Mūlāvidyā è così. Il mondo reale è qui, ma la mūlāvidyā è lì in qualche luogo misterioso, nascosta in un pappagallo: per arrivarci bisogna traversare sette oceani.
Come fa questa ignoranza materiale, il bhāva rūpa ajñānam, a trasformarsi in serpente o in argento? A questo fine, ci viene illustrata una prakriyā, che qui significa processo di produzione del mithyā padārtha. Di fatto, gli stessi mūlāvidyāvādin ne sono i produttori: all’inizio hanno preparato una materia prima per poi produrre adhyāsa. Abbiamo detto che prakriyā significa processo, il che presuppone un krama, un ordine, una sequenza con cui è prodotto questo falso oggetto. La sequenza è così descritta: nella vostra mente c’è una modificazione (antaḥkaraṇa vṛtti) capace di viaggiare all’esterno. Quando guardate il mondo esterno, la coscienza che è nella vostra mente, arriva agli occhi, alla finestra degli occhi, attraverso i quali salta fuori e viaggia fino alla corda, lì dove la corda è stesa. Un vero feuilleton! Questa conoscenza, che si trova nell’antaḥkaraṇa come vṛtti esce dagli occhi e va a toccare la corda. Non solo la tocca, ma la pervade. Pervadendo la corda, ottiene la conoscenza della corda. Ma, come avviene davvero la percezione?
Ogni corrente, come ogni pensatore, ha elaborato la sua teoria, che non convince gli altri. Continuano a spiegare teorie su teorie. I naiyāyika hanno una teoria, i sāṃkhya hanno una teoria, i mādhva hanno un’altra teoria, i mūlāvidyāvādin hanno questa loro teoria. Tutti hanno le loro teorie. Ma come avviene davvero il processo della percezione? Satchidānandendra Svāmījī, seguendo l’esempio di Śaṃkara non ha mai toccato questo argomento. L’Advaita dice che è impossibile da spiegare. Come non si può spiegare in qual modo si percepisce l’oggetto esterno nel sogno, così non si può nella veglia. Se si legge il Paramārtha Cintāmaṇi5, Svāmījī parla della percezione come di un processo che nessuno può spiegare, dato che è un problema mal impostato. Se ne discute solo dopo aver percepito, ma prima di percepire non si può dire come avviene la percezione. Si ha una percezione e questo è quanto. In ogni caso, quello che prima abbiamo esposto è spiegazione del Pūrvapakṣin e ne lasciamo a lui la responsabilità. Cerchiamo però di capire cosa vuol dire. Questo jñānam va a coprire la corda. Cosa succede allora? Sulla corda è posato un velo (āvaraṇa) di ajñānam che la copre. C’è un velo di ignoranza per la corda e per qualsiasi oggetto che si percepisca. È il burqa di questi strani advaitin. Il jñānam va a togliere quel burqa d’ignoranza e, allora, riesce a individuare la corda. Ora, la Coscienza in cosa è presente? La Coscienza è onnipresente (sarvavyāpaka); quindi, secondo il Pūrvapakṣin, la coscienza sta in tre luoghi: è nel conoscitore (pramāta), nell’oggetto conosciuto (prameya), cioè nella corda, e nella conoscenza-percezione (jñānam-pramā). Pertanto, questa Coscienza, che è il Sé supremo di natura cosciente (Paramātman Caitanyarūpa), quando è in me appare come pramāta. Quando la Coscienza è nella corda appare come prameya; ora si capisce meglio perché, come si è anticipato, la Coscienza sia, secondo questa teoria, limitata all’oggetto (rajju avacchinna caitanyam). In definitiva caitanyam come prameya, è in forma di corda, e l’altro caitanyam è in forma di persona vedente (manuśyanalli pramātṛ avacchinna caitanyam, prameya avacchinna caitanyam). Quando questi due caitanyam si uniscono, sorge la coscienza limitata all’atto di conoscere (pramā avacchinna caitanyam). Allora avviene la conoscenza-percezione. Ciò accade quotidianamente quando si vede. Non prendetela per siddhānta: questo è solo pūrvapakṣa. Ricapitolando questo fittizio processo di produzione e di percezione, è come se la modificazione dell’antaḥkaraṇa viaggiasse verso l’esterno attraverso gli occhi fino a pervadere la corda. Quando c’è l’āvaraṇa, l’ajñānam che ricopre la corda è distrutto da questa conoscenza. La conoscenza distrugge l’ignoranza che copre la corda; quel burqa che copre la corda si brucia e, allora, si vede la corda. Ma, a volte, cosa succede? Succede che l’ajñānam non si bruci e, allora, non si vedrà perfettamente la corda. Non si vede correttamente la corda quando la luce della mente attraversa gli occhi e viaggia lontano, sempre più lontano, per andare vicino, vicino, vicino, fino al punto più vicino alla corda, ma non riesce a coprire completamente la corda. Quando non riesce a coprire la corda, cosa succede? Si avvicina e basta. L’ajñānam, cioè la mūlāvidyā o l’ignoranza sostanziale che copre la corda invece di essere rimossa, rimane e si trasforma in un serpente. Quel rivestimento di avidyā che esiste nella coscienza circoscritta, limitata alla conchiglia di madreperla (śuktikā avacchinna caitanyam), o limitata alla corda (rajju avacchinna caitanyam), quell’ajñānam materiale che giace lì si trasforma in argento o in serpente. Questa nostra antaḥkaraṇa vṛtti, avrebbe dovuto percepire direttamente la corda o la conchiglia, ma purtroppo non è stata in grado di percepirle perché c’è una mūlāvidyā che si trasforma in serpente o in argento. Per questa ragione, invece di vedere la corda, si finisce per vedere il serpente; invece di vedere la conchiglia, si vede l’argento, l’argento in cui l’avidyā che copre la conchiglia si è trasformata. Tuttavia c’è anche un’altra cosa da tenere in considerazione. L’avidyā non solo giace sulla corda e copre la corda quando si trasforma in serpente, ma, allo stesso tempo, ancor prima che nell’ antaḥkaraṇa, c’è una mūlāvidyā nel mio Sākṣin (mūlāvidyā mithyā vastu pratibhāsa artham Sākṣi Caitanyastha avidyā). Mūlāvidyā si trova in due posti: nel Sākṣin e sulla corda. Quindi la stessa mūlāvidyā che risiede nel mio Sākṣin si trasforma in falsa conoscenza (mithyā jñānam) nel mio antaḥkaraṇa, mentre quella mūlāvidyā che giace sulla corda – che è rajju avacchinna caitanyam – si trasforma in un mithyā-serpente corrispondente al mio mithyā jñānam. Queste due cose accadono simultaneamente: la mithyā-conoscenza del serpente e l’oggetto-mithyā-serpente sorgono entrambi contemporaneamente. Che bel fumettone!
Certi advaitin hanno creato tutto ciò. Se pensate che sia solo difficile da capire e che con un Guru di mūlāvidyā sareste in grado di comprendere questi ragionamenti, allora fate molti riti e accumulate molti meriti (puṇya). Prima o poi nascerete come brāhmaṇa e poi come saṃskṛta paṇḍita e, infine avrete un Guru di mūlāvidyā che vi insegnerà tutte queste belle cose. Non saprete mai dell’esistenza di Svāmī Satchidānandendra Mahārāja e del suo insegnamento, né delle spiegazioni di Prakāśānandendra Svāmījī. Guardate come hanno spiegato magnificamente l’adhyāsa, che noi non sappiamo spiegare.
Dunque da mūlāvidyā nascono due cose. Una è il falso oggetto-serpente e l’altra la falsa conoscenza del serpente. Mūlāvidyā si trova in due parti. Una è sull’oggetto, l’altra è nell’antaḥkaraṇa e, in fondo all’antahkarana, nel Sākṣin, ed entrambe hanno una grande capacità di contatto. Hanno una connessione wireless. Pertanto, questa mūlāvidyā o tūlāvidyā producono simultaneamente la falsa conoscenza del serpente e il falso oggetto del serpente. Allora si è nell’equivoco, si è nell’adhyāsa.
Anche su mithyā c’è una storia interessante da imparare. Che cos’è mithyā? Si chiama mithyā perché questo oggetto mithyā-serpente e la mithyā-conoscenza del serpente, non sono fedeli alla corda. La corda è davvero lì, ma voi la vedete in forma diversa dalla corda. Per questo si chiama mithyā. Si tratta, quindi, di mithyā padārtha e mithyā jñānam. Da una parte non potete dire che questi due siano non-esistenti, perché vedete il serpente. Quando si è in preda all’errore, li si vede; tuttavia, d’altra parte, non si può dire che siano reali perché, una volta riconosciuta la corda, vengono distrutti. Una volta che sorge il jñānam, una volta che si porta la luce, quel serpente viene distrutto. Ogni volta che si ha una falsa conoscenza nasce un nuovo serpente. Poi, una volta vista la corda, il serpente mithyā jñānam e il serpente mithyā padārtha vengono entrambi distrutti. Perciò il serpente non c’è, è asat. Quando è distrutto è asat; quando lo si percepisce è sat: quindi, non si può dire né che sia sat né che sia asat. Perciò è sadasadbhyam anirvacanīya: è indefinibile, inspiegabile, né esistente né inesistente. Non si può dire né che esiste né che non esiste. È a metà esistente e non esistente. È in parte esistente, in parte non esistente. Questo lo si definisce anirvacanīya. Se esistesse davvero, non scomparirebbe dopo il jñānam, non potrebbe essere distrutto. Se fosse inesistente, non lo si percepirebbe, e invece lo si sta percependo. Pertanto, questa mūlāvidyā e la sua trasformazione (pariṇāma) in serpente sono entrambi anirvacanīya. Mithyā jñānam e mithyā padārtha sono anirvacanīya. Pertanto, quell’avidyā o mūlāvidyā, si trasforma in serpente e si trasforma in conoscenza del serpente.
Qual è la risposta degli advaitin? Il Siddhāntin risponderà che tutto questo è una speculazione, che è inesistente, che crea solo confusione. Semplicemente si fraintende. Durante il fraintendimento, si pensa che ci sia un oggetto. Il fraintendimento è come quello vedete in sogno; il sogno è solo un pensiero, ma mentre lo sperimentate sembra un oggetto. Non è così? Il sogno sembra un oggetto mentre lo si sta vivendo, ma una volta svegli, si capisce che è solo un pensiero e che non c’è alcun oggetto. Allo stesso modo, l’adhyāsa è solo qualcosa che ha la forma di un pensiero erroneo (mithyā pratyaya rūpa). Adhyāsa mithyā jñānam. Non c’è falso oggetto. Mithyā padārtha è totalmente inesistente, è pura immaginazione (kalpitam), inutilmente kalpitam. È una cosa confusa. Non esiste nell’esperienza di nessuno. Si tratta di un pur artificio per confondere le persone.
Ora, come si corregge l’adhyāsa? Il nostro modo di capire sta semplicemente in due frasi: l’ignoranza è solo un pensiero sbagliato, un punto di vista sbagliato. La correzione consiste solo nell’assumere un punto di vista corretto. Non esiste alcun errore. Per loro adhyāsa è un processo, una produzione, un oggetto, un materiale che lo produce. Allora come fa la conoscenza a rimuoverlo? Il Siddhāntin risponderà che tutto questo non è necessario: troppa confusione, troppa speculazione che non è in linea con l’anubhava, che non è logica e che non si trova in nessun Bhāṣya. Ribattono che, anche se non si trova negli Śaṃkara Bhāṣya, la si trova presso i sotto commentari (vyākhyāna) dei post śaṃkariani. Ci fermiamo qui e di questo discuteremo nei prossimi upadeśa.
- Pūrvapakṣin è colui che solleva una obiezione (pūrvapakṣa, lett. prima osservazione) divergente dalla dottrina dell’Advaita Vedānta, spesso tradotto con “oppositore del Vedānta”; nel caso esposto da Svāmījī, come si vedrà, non si tratta propriamente di un oppositore o di un rivale, quanto piuttosto di un vedāntin che esprime un punto di vista errato (nel caso specifico l’Autore si riferisce a quei post śaṃkariani che hanno inventato la dottrina della mūlāvidyā). Siddhāntin è colui che risponde al Pūrvapakṣin, esponendo la corretta dottrina (siddhānta) vedāntica [N.d.C.].[↩]
- Si deve precisare che il Brahman-Ātman non è mai oggettivabile. Solamente a scopo di insegnamento nella fase metodica dell’adhyāropa può essere consentito di indicare al principiante advaitin l’Assoluto quale oggetto da conoscere. È esclusivamente in questo senso e al fine di confutare gli errori dei mūlāvidyāvādin che qui l’Autore si è permesso d’usarlo [N.d.C.].[↩]
- Oggetto descrivibile a parole [N.d.C.].[↩]
- Sia detto qui per inciso, per sottrarre ulteriori incomprensioni il termine “manifestazione”, in contesto vedantico, va inteso come “apparenza”, e a sua volta l’apparenza in questione non va ontologizzata quasi fosse un genere particolare di creazione – una sorta di creazione mithyā – bensì è solo conoscenza erronea: appare significa che è “presa per” qualcos’altro che non è [N.d.C.].[↩]
- Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, Paramārtha Cintāmaṇi, Holenarasipura, Adhyātma Prakāśa Kāryālaya, 1966.[↩]