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🇮🇹Svāmī Karpātrī, Symboles du monothéisme hindou: Le Liṅga et la Déesse, prefazione dello Jagadguru Śaṃkarācārya Svāmī Śrī Svarūpānanda Sarasvatī, trad. e cur. di Jean-Louis Gabin e Gianni Pellegrini, Paris, éd. du Cerf, 2013.

Questo paziente lavoro di critica e di traduzione nasce da una necessità di fare chiarezza. Il promotore di una tale impresa, il Dr. Gabin, ha avuto il merito e il coraggio di denunciare in un precedente libro (L’Hindouisme Traditionnel et l’interprétation d’Alain Daniélou, Paris, éd du Cerf, 2010) le spudorate falsificazioni di Daniélou nelle sue traduzioni degli scritti di Svāmī Karpātrī. Il libro che qui recensiamo vuole restituire i loro vero senso a due lunghi articoli dello Svāmījī: si tratta de “Il segreto del culto del Liṅga (Liṅgopāsanārahasya)” e de “Il principio della Gloriosa Dea (Śrī Bhagavatātattva)”. Con estrema puntualità in nota sono riportate le numerosissime alterazioni, mutilazioni, e falsificazioni operate da Daniélou nelle sue traduzioni in inglese e francese. Quest’azione di demolizione del testo karpatriano può essere sintetizzata in questi punti principali:
1) L’Induismo è una religione politeista che ignora l’esistenza di un Principio divino unico.
2) L’Induismo è una religione composta da un essoterismo, il Vedismo, e da un esoterismo, lo Śivaismo.
3) Il Vedismo è una ottusa religione ritualistica portata in India dall’invasione ārya (o ariana, indoeuropea).
4) Lo Śivaismo, espressione della popolazione dravidica, è fonte della Conoscenza esoterica suprema.
5) La Conoscenza esoterica suprema (cioè la Voluttà) è raggiungibile attraverso una via di lussuria, principalmente per mezzo del culto del fallo.
6) Lo stesso fallo è la reale persona di Śiva.
7) Śiva è tamas, il principio tenebroso dell’ignoranza.
Tutte queste affermazioni sono contraddette ripetutamente e con estrema precisione dallo Svāmī Karpātrī. Perciò la traduzione dei due articoli ha costretto Daniélou a un continuo intervento mistificatore.
Considerando che Alain Daniélou era stato accettato come discepolo dal celebre saṃnyāsin, ci si chiederà chi e cosa lo abbia spinto a intraprendere una simile azione contro-tradizionale. Certamente i legami con la Società Teosofica possono dare una risposta parziale. Tuttavia, considerando che Svāmī Hariharānanda Sarasvatī Karpātrījī, Guru di Advaita Vedānta e di Śrī Vidyā, ha svolto nel XX secolo una funzione di restauratore dell’intero Sanātana Dharma, il burattinaio di Daniélou andrebbe ricercato in un qualche ambiente ben più temibile. Il tradimento del pensiero del suo Guru rende inoltre inaffidabili tutti gli scritti del musicologo francese. D’altra parte, come si può definire un dīkṣita che consapevolmente distorce e rovescia gli insegnamenti ricevuti?
La via iniziatica śākta nota come Śrī Vidyā, è l’insegnamento intellettualmente più elevato della tradizione tantrica. Infatti esso fu insegnato anche dall’Ādi Śaṃkarācārya e da allora è trasmesso, assieme all’Advaita Vedānta, presso tutti i pīṭha śaṃkariani. Śrī Vidyā comprende tre livelli iniziatici: il primo è quello della Pūjā, che i discepoli compiono nelle loro riunioni (satsaṅga), il cui scopo principale è l’ottenimento di benefici in questa vita e la purificazione del proprio veicolo corporeo; il secondo è quello del mantra che ognuno compie meditando singolarmente e che comporta una purificazione della propria individualità, in particolare del proprio organo interno (antaḥkāraṇa). Il terzo livello è quello del Vedānta, con il quale si aspira al mokṣa. In quest’ultimo caso l’iniziato potrà continuare a utilizzare il simbolismo e il linguaggio śākta. Oppure potrà assumere direttamente la dottrina advaita. I due trattati tradotti in questo libro esprimono i due livelli più elevati. Il Liṅgopāsanārahasya esprime in modo limpido la dottrina mantrica di Śrī Vidyā, mentre il Śrī Bhagavatātattva si apre alla prospettiva vedāntica, raggiungendo infine livelli ineffabili di metafisica pura. Il contenuto delle pagine 159-161, certamente di non facile lettura, si spinge fino agli estremi limiti della formulazione dottrinale in linguaggio umano. Queste tre pagine sublimi basterebbero a rendere straordinario l’intero libro.
Si tratta di una pubblicazione che, mondata dalle profanazioni di Daniélou, rappresenta un vero gioiello come supporto di riflessione per i cercatori della conoscenza. Poiché certamente una tale pubblicazione sarà meritevole di ripubblicazione, ci permettiamo di segnalare qualche piccola imperfezione che potrà essere corretta: upāsanā, “culto”, in ambito iniziatico, significa meditazione su un simbolo (liṅgopāsanā); manas, la mente, non può mai essere tradotto con “spirito”; lakṣaṇā, sarebbe meglio tradurla con “metafora”; prātibhāsika sattā, non è un errore della percezione ma della mente. Infine, talvolta guṇa è trattato come se fosse femminile.
Indipendentemente da questi piccoli refusi, consigliamo vivamente i nostri lettori francofoni di procurarsi questo libro e di utilizzarlo come supporto conoscitivo. Ci permettiamo anche di ricordare rispettosamente ai Guru tradizionali che ci leggono, di valutare con estrema attenzione gli aspiranti occidentali.

Svāmī Karpātri, Symboles du monothéisme hindou: Le Liṅga et la Déesse, prefaced by the Jagadguru Śaṃkarācārya Svāmī Śrī Svarūpānanda Sarasvatī, Jean-Louis Gabin and Gianni Pellegrini (trs. and eds.), Paris, éd du Cerf, 2013.

This patient effort of critique and translation, was dictated by a need for clarity. Dr. Gabin, promoter of such a deed, in a previous book (L’Hindouisme Traditionnel et l’interprétation d’Alain Daniélou, Paris, éd du Cerf, 2010) had already bravely denounced the impudent falsifications of Svāmī Karpātrī teachings perpetrated by Daniélou. The book under review here wants to restore the true meaning of two long articles by Svāmījī: “The Secret of the Liṅga Cult (Liṅgopāsanārahasya)” and “The Principle of the Glorious Goddess (Śrī Bhagavatātattva)”. Very punctually in the footnotes the Authors underline the many alterations, mutilations, and falsifications performed by Daniélou in his English and French translations. His demolition of the Karpātrījī’s texts can be summarized in the following main points:
1) Hinduism is a polytheistic Religion ignoring the existence of a unique Divine Principle.
2) Hinduism is a Religion composed of an exoterism, the Vedic one, and an esoterism, the Śaivism.
3) Vedism is a dull ritual Religion brought to India by the Ārya (Arian, or Indo-european) invasion.
4) Śaivism, the expression of the Dravidian population, is the source of supreme esoteric knowledge.
5) Supreme esoteric knowledge (i.e. voluptuousness) can be reached through the path of lust, mainly through the phallus worship.
6) The same phallus is the real person of Śiva.
7) Śiva is tamas, the dark principle of ignorance.
All these statements are repeatedly contradicted by Svāmī Karpātrī with extreme precision. Hence the translation of the two articles forced Daniélou to a continuous mystifying intervention.
Considering that Alain Daniélou had been accepted as a disciple by the celebrated saṃnyāsin, one would wonder who and what led him to undertake such a counter-traditional action. Certainly his ties with the Theosophical Society can give a partial answer. However, considering that Svāmī Hariharānanda Sarasvatī Karpātrījī, Guru of Advaita Vedānta and of Śrī Vidyā, played in the twentieth century a role of the whole Sanātana Dharma restorer, the Daniélou’s puppeteer would be sought after in a somewhat more fearsome environment. Furthermore the betrayal of his Guru also makes untrustworthy all the writings of the French musicologist. On the other hand, how can one define a dīkṣita that consciously distorts and overturns the received teachings?
The initiatory Śākta way known as Śrī Vidyā, is the intellectually highest teaching of Tantric Tradition. In fact, it was also taught by Ādi Śaṃkarācārya himself and since then it is transmitted, along with Advaita Vedānta, in every Śaṃkara PīṭhaŚrī Vidyā comprises three initiatory levels: the first is the Pūjā, which the disciples perform in their meetings (satsaṅga), whose main purpose is to obtain benefits during this life and the purification of the bodily vehicle. The second is the mantra level, which every person pronounces individually involving the purification of his own individuality, in particular of his inner organ (antaḥkāraṇa). The third level is Vedānta, with which one aspires to mokṣa. In the latter case, the initiate may continue to use the śākta symbolism and language; or he can directly assume the advaita doctrine. The treatises here translated express the two higher Śrī Vidyā’s levels. The Liṅgopāsanārahasya clearly describes the mantra doctrine of Śrī Vidyā, while Śrī Bhagavatātattva opens to the vedāntic perspective, finally attaining ineffable levels of pure metaphysics. The content of pp. 159-161, certainly not an easy reading, moves up to the extreme limits of the doctrinal expression possible in human language. These three sublime pages would suffice to make the whole book extraordinary. It is a publication that, sweeping away the profanations of Alain Daniélou, shall be a real jewel as a reflection support for the seekers of knowledge. Since, of course, such a publication should be worthy of republishing, let us point out some minor imperfections that could be corrected. Upāsanā, “cult”, in initiatory domain means meditation on a symbol; manas, mind, cannot be ever misinterpreted as “spirit”; lakṣaṇā, should be better translated as “metaphor”; Prātibhāsika sattā, is not a mistake of perception but of the mind; lastly, sometimes guṇa is treated as if it were female.
Apart from these misprints, we strongly recommend our French-speaking readers to get a hold of this book and use it as a cognitive support. Let us also respectfully remind the traditional Gurus who are reading us, to assess Western aspirants with greater circumspection.

Svāmī Karpātri. Symboles du monothéisme hindou: Le Liṅga et la Déesse, prefacio del Jagadguru Śaṃkarācārya Svāmī Śrī Svarūpānanda Sarasvatī, trad. y ed. de Jean-Louis Gabin y Gianni Pellegrini, Paris, éd du Cerf, 2013.

Este paciente trabajo de crítica y traducción, nace de la necesidad de aclarar un hecho. El promotor de tal compromiso, el Dr. Gabin, tuvo el mérito y la valentía de denunciar en un anterior libro (L’Hindouisme Traditionnel et l’interprétation d’Alain Daniélou, Paris, éd du Cerf, 2010) las descaradas falsificaciones de Daniélou en sus traducciones de los escritos de Svāmī Karpātrī. El libro aquí reseñado quiere devolver  su verdadero sentido a dos largos artículos de Svāmījī: es decir “El secreto del culto del Liṅga (Liṅgopāsanārahasya)” y de “El principio de la Gloriosa Diosa (Śrī Bhagavatātattva)”. Muy puntualmente en las notas a pie de página se destacan las numerosas alteraciones, mutilaciones y falsificaciones realizadas por Daniélou en sus traducciones en Inglés y Francés. Su demolición de los textos de Karpātrījī puede resumirse en los siguientes puntos principales:
1) El hinduismo es una religión politeísta que ignora la existencia de un único Principio Divino.
2) El hinduismo es una religión compuesta de un exoterismo, el Védico, y un esoterismo, el Śivaismo.
3) El Vedismo es una embotada religión ritual traída a la India por la invasión ārya (aryana, o indoeuropea).
4) El Śivaismo, expresión de la población dravídica, es la fuente del conocimiento esotérico supremo.
5) El conocimiento esotérico supremo (voluptuosidad) se puede alcanzar a través de la lujuria, principalmente a través de la adoración del falo.
6) El mismo falo es la persona real de Śiva.
7) Śiva es tamas, el oscuro principio de la ignorancia;
todas afirmaciones que Svāmī Karpātrī contradijo en varias ocasiones y de forma muy cortante. De ahí que la traducción de los dos artículos empujó Daniélou a una continua intervención mistificadora.
Teniendo en cuenta que Alain Daniélou había sido aceptado como discípulo por el célebre saṃnyāsin, uno se preguntaría quién y qué lo llevó a emprender una acción tan contra-tradicional. Es cierto que sus lazos con la Sociedad Teosófica pueden dar una respuesta parcial. Sin embargo, teniendo en cuenta que Svāmī Hariharānanda Sarasvatī Karpātrījī, Guru de Advaita Vedānta y de Śrī Vidyā, jugó en el siglo XX un papel de restaurador de todo el Sanātana Dharma, el titiritero de Daniélou tendría que ser buscado en un ambiente aun más preocupante. La traición del pensamiento de su Guru también hace indignos de confianza todos los otros escritos del musicólogo francés. Por otro lado, ¿cómo se puede definir un dīkṣita que distorsiona y vuelca conscientemente las enseñanzas recibidas?
La vía iniciática śākta conocida como Śrī Vidyā, es la enseñanza intelectualmente más elevada de la Tradición Tántrica. En realidad, fue enseñado por el mismo Ādi Śaṃkarācārya y desde entonces se transmite, junto con el Advaita Vedānta, en cada Śaṃkara PīṭhaŚrī Vidyā comprende tres niveles iniciáticos: el primero es el de la Pūjā, que los discípulos actúan en sus reuniones (satsaṅga), cuyo principal propósito es obtener beneficios durante esta vida y la purificación de su vehículo corporal. El segundo es el del mantra que cada persona pronuncia individualmente y que implica la purificación de su propia individualidad, en particular de su órgano interno (antaḥkāraṇa): el tercer nivel es el mismo Vedānta, con el cual uno aspira al mokṣa. En este último caso, el iniciado puede seguir utilizando el simbolismo y el lenguaje śākta. O puede asumir directamente la doctrina advaita. Los dos tratados aquí traducidos expresan los dos niveles superiores de Śrī Vidyā. El Liṅgopāsanārahasya describe claramente la doctrina mantrica de Śrī Vidyā, mientras que Śrī Bhagavatātattva se abre a la perspectiva vedāntica, alcanzando niveles inefables de metafísica pura. El contenido de las páginas 159-161, ciertamente no fácil de leer, llega hasta los límites extremos de la posible expresión doctrinal en lenguaje humano. Estas tres sublimes páginas bastarían para hacer extraordinario todo el libro. Es esta una publicación que, barriendo las profanaciones de Alain Daniélou, será una verdadera joya como soporte de reflexión para los buscadores del conocimiento. Dado que, por supuesto, tal publicación será digna de volver a publicarse, señalamos algunas pequeñas imperfecciones que podrían ser correctas. Upāsanā, “culto”, en el dominio iniciático, significa meditación sobre un símbolo (liṅgopāsanā); manas, la mente, no se puede traducir nunca con “espíritu”; lakṣaṇā, sería mejor traducirlo con “metáfora”; prātibhāsika sattā, no es un error de percepción, sino de la mente; por último, a veces se trata guṇa como si fuera femenino. Aparte estas pequeñas equivocaciónes, recomendamos calurosamente a nuestros lectores francófonos de adquirir este libro y utilizarlo como un soporte cognitivo. Recordemos respetuosamente a los Gurus tradicionales que nos estén leyendo, de evaluar a los aspirantes occidentales con cuidadosa circunspección.

Gian Giuseppe Filippi