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Pāpahara Daṇḍakartā Nagottama

Significati del pellegrinaggio nelle tradizioni dell’India

Il pellegrinaggio è definito non solo in sanscrito, ma anche nei vernacoli dell’India moderna, con i termini di tīrthacaryā e tīrthayātrā, che significano rispettivamente ‘viaggio alla volta di un tīrtha’ e ‘processione verso un tīrtha’. I due suffissi caryā e yātrā sono, dunque, sinonimi e si riferiscono al sostantivo tīrtha che definisce perciò il luogo verso il quale ci si muove.

Tīrtha deriva dalla radice verbale tṛī, che significa attraversare, passare sopra o attraverso, e si riferisce in ogni evidenza a un passaggio per un luogo difficile o pericoloso da superare. In questo senso tīrtha è sinonimo di mārga, con cui nel tempo antico, si descrivevano i sentieri aperti nel folto della foresta dal passaggio delle fiere (mṛga). Seguire le orme (mṛg) delle belve, dunque, permetteva l’attraversamento della natura ostile, pur con tutti i rischi di potersi imbattere negli animali feroci o in briganti, banditi dall’ordine civile. Tuttavia, questo mārga, questo periglioso andare, certamente fin dalla preistoria indiana, era stato usato simbolicamente per indicare il percorso spirituale che l’iniziato (dīkṣita) doveva compiere seguendo le orme di un uomo della selva, un vānaprastha, ovvero un maestro spirituale che si era ritirato a vivere da anacoreta nella foresta. L’abbandono dell’ambiente sociale rappresentava e rappresenta tutt’oggi una scelta di libertà spirituale incondizionata; incondizionata in quanto affrancata dalle pastoie (pāśa) della convivenza profana che rende l’uomo un animale domestico (paśupecus-pecora; rad. pec, legare), privo cioè di quella fierezza che caratterizza, appunto, le fiere. Per questa ragione l’anacoreta non è soltanto chiamato mṛga, il selvatico, ma anche vīra, l’eroe, il vir latino, in quanto costui ha rinunciato totalmente alle limitazioni d’autonomia, alle convenienze del reciproco sostegno e all’ottusità culturale diffusa nel convivere sociale: ha, cioè, abbandonato l’azione finalizzata per dedicarsi alla contemplazione distaccata. Il discepolo dovrà seguire, dunque, il suo esempio, il suo insegnamento, il suo distacco da quel superfluo che conduce a disperdersi nel molteplice, in visioni analitiche e in frenesie utilitaristiche.

Sadhu

Ritornando a tīrtha, vedremo come le caratteristiche intrinseche del sentiero periglioso, mārga, vi si applichino ugualmente, anche se con qualche modifica formale. Le differenze consistono nel fatto che tīrtha è stato usato fin dal Ṛg Veda in relazione a corsi o a bacini d’acqua. Il viaggio del pellegrino deve dunque culminare con un passaggio o un attraversamento d’un guado, ovvero un varco o passaggio che permetta di superare uno specchio d’acqua. In questa immersione, che nell’Induismo deve essere completa, consiste la pericolosità del passaggio sia per il rischio d’affogare sia per il pericolo rappresentato da pesci voraci, coccodrilli, serpenti e altri animali acquatici letali. Anche in questo caso la riemersione o il raggiungimento dell’altra riva segnerà il superamento della prova. Nella pratica rituale, il pellegrinaggio comporta di fatto sempre il raggiungimento di una sponda o riva, a cui segue un bagno rituale (snāna) per totale immersione1.

Varanasi

L’immersione simboleggia con grande efficacia l’esperienza della morte: la profondità dell’acqua rappresenta l’entrata in un ambiente di vita aliena, in cui vivono e si muovono esseri sottoposti a condizioni d’esistenza diverse e incompatibili con quelle della vita di superficie. Gli animali acquatici respirano l’acqua e non annegano. Possono, bensì, soffocare se pescati e costretti all’aria aperta. Si tratta di quel rovesciamento di rapporti che è caratteristica simbolica delle descrizioni del regno dei defunti. Immergendosi, il pellegrino ha dunque una visione simbolica dell’aldilà e, allo stesso tempo, trattiene il respiro, non respira, esattamente come il cadavere. Quando si trattiene il respiro, come nel kumbhaka2 dello Yoga, si consente alla propria coscienza di affacciarsi al mondo dei morti. D’altra parte, il mondo subacqueo è una rappresentazione classica nei testi hindū, dove le acque ctonie, i sette oceani o pātāla situati a sud delle terre emerse, corrispondono al dominio di Yama, il Re dei morti.

tīrtha sono collegati a sette fiumi sacri (sapta sindhavah), che sono precisamente i cinque Pañcanaḍa3 chiamati Pañjāb in persiano antico, più la Sarasvatī e l’Indo (Sindhu). Tutti questi sette fiumi o nāḍī avevano la loro sorgente nell’area himalayana vicina al monte Kailāśa, la vetta principe della catena montuosa, immagine visibile del mitico Monte Meru. Vuole l’antichissima leggenda che la Sarasvatī celeste, la Via Lattea, chiamata somapatha, surapatha o chāyāpatha, facesse defluire le acque superiori sullo Himavat. Nell’antica tradizione hindū la Galassia è chiamata in generale somapatha, il cammino del Soma, la bevanda degli Dei, che in India sostituisce il latte fuoriuscito dal seno di Hera del mito greco. Gli altri due nomi che le vengono attribuiti sono: surapatha, la via degli Dei (devayāna), e chāyāpatha, la via delle ombre degli antenati (pitṛyāṇa), che corrispondono a due destini celesti riservati ai soli iniziati. Qui, sulla vetta sacra himalayana, le acque si divisero in sette corsi precipitando lungo sette valli differenti, benedicendo la terra dell’India e poi andando a riempire il bacino secco dell’emisfero meridionale formando così il mare australe, i sette oceani. Dilavando le colpe umane (pāpa) nel loro corso, le acque che si riversavano nel mare assumevano il sapore salato e amaro delle lacrime.

(w:user:Planemad, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

Le acque celesti sono perciò purificatrici e trascinano con loro le colpe di coloro che in esse compiono il bagno lustrale. La concentrazione salata e amara del mare rappresenta perciò il mondo dei morti e, in particolare, gli inferi. I sette fiumi, nelle più antiche menzioni testuali, sono raramente associati alla concezione fecondatrice delle acque, contraddicendo l’ideologia del primato della fertilità nel pensiero religioso arcaico sostenuto dalla cosiddetta scienza delle religioni.

I pellegrinaggi dell’India arcaica si dirigevano verso questi sette fiumi sacri. Tra i sette fiumi, il primo, più pregno di benedizioni (prasāda), quello che trasportava la massima copia d’acque, era la Sarasvatī. E sulle sue rive si trovava il più importante tīrtha dell’India primordiale, detto Puṣkara il loto blu, che l’Atharva Veda e l’epica del Mahābhārata ricordano e onorano come luogo di pellegrinaggio dell’antichità più remota. Le altre località di pellegrinaggio presso i sei fiumi restanti sono cadute nell’oblio. Rimane a triste testimonianza di un’epoca aurea, il bacino d’acqua della moderna Pūṣkara nel bel mezzo del deserto del Rājasthān. Cos’era successo? Verso il 2000 a.C. avvenne un cataclisma climatico: su sette fiumi, sei, e per prima la Sarasvatī, sprofondarono nelle sabbie a causa di una diminuzione drastica della copia delle acque provenienti dai monti dovuta alla fine della glaciazione. Qua e là alcuni meandri degli antichi corsi d’acqua affiorano ancor oggi, formando ciò che si denomina sattra, stagni, acquitrini, laghetti e paludi, oasi nel deserto, sedi di pellegrinaggi minori conservati dalla trasmissione orale, centri sacerrimi per la loro immemorabile antichità. Il Ṛg Veda ci tramanda l’eco dell’immane disastro, da cui fu risparmiato soltanto l’Indo. Negli inni più recenti del Ṛg Veda al posto della Sarasvatī e delle sue sorelle minori4 compare come principale fiume sacro il Gange o, meglio, la Gaṅgā.

Il mito che ci informa di questo epocale mutamento della geografia sacra dell’India è riportato da diverse fonti, anche seoltre alle molteplici versioni purāṇiche, le più autorevoli e arcaiche sono certamente il Rāmāyaṇa5 e il Mahābhārata6. Vi si narra che la terra stava soffrendo un lungo periodo d’arsura, che faceva morire piante, animali e uomini. Persino l’oceano era scomparso, lasciando emergere il suo fondale asciutto. Per por rimedio alla situazione disperata, e che noi associamo con la scomparsa della Sarasvatī e la desertificazione del Rājasthān, il Re di Ayodhyā, Bhagīratha, lasciò il trono per dedicarsi all’ascesi al fine di attirare nuovamente sulla terra le acque celesti. Dopo mille anni divini di severe austerità, la Gaṅgā celeste, che è sempre un’altra ipostasi della Via Lattea, gli apparve, disposta ad appagare un suo desiderio in cambio di tanta devozione. Bhagīratha chiese che la Dea scendesse per far rinascere la terra riarsa. La Dea acconsentì: dal cielo, per smorzare la potenza dei flutti divini, la Gaṅgā discese sul capo del Dio Śiva seduto in meditazione sulla vetta del monte Kailāsa. Da lì, scorrendo sulle pendici himalayane, si suddivise in sette correnti gettandosi nell’asciutto letto del mare. Anche in questo mito più recente le acque versano nell’oceano le colpe degli uomini. Ma in questo caso il racconto assume un nuovo simbolismo. Scendendo dall’Himavat lungo la valle del Gange, le acque travolsero e portarono con sé le ceneri dei sessantamila figli di Sagar, ognuno dei quali rappresenta una colpa o un vizio. E le ceneri, che sono sali della cremazione, versati nel golfo del Bengala, resero salato il mare.

Nel mito di Bhagīratha, dei sette fiumi in cui si suddivise la Gaṅgā celeste, il principale non è più la Sarasvatī primordiale, ma è il Gange stesso. Tra gli altri sei fiumi s’enumera la Yamunā, che scorre quasi parallela alla Gaṅgā in cui affluisce poi nella località detta Prayāga, ossia luogo sacrificale; confluenza sacra oggi nota con il nome islamico della città di Allahabad. Il terzo è poi la Sarasvatī: questo fiume, però, si distingue dal suo corso primordiale, in quanto esso scorre sotterraneamente e si getta nelle acque miste di Gange e Yamunā sempre nei pressi di Prayāga. Questi fiumi rappresentano la triade principale di purificazione, come si vedrà in seguito. Viene poi per quarto l’Indo, che appare così confermato nel suo rango di fiume perenne. Il quinto fiume sacro è la Narmadā che scorre da est a ovest dividendo in due la penisola del Deccan. Segue poi la Godāvarī e l’ultimo fiume, il settimo è la Kaverī.

Come si potrà notare, i fiumi che, in un ciclo storico più recente, il kali yuga,sostituiscono i sapta sindhavah dell’arcaica tradizione vedica, sono distribuiti sulla vasta area del Subcontinente indiano. Si mantiene però il numero simbolico di sette. La ragione dell’importanza sacrale di questo numero risiede nell’antica cosmografia di origine vedica che vuole che sopra la terra abitata da uomini, animali, piante e minerali, si trovino sette cieli od oceani boreali. Il firmamento, che copre e protegge l’atmosfera e la terra come un carapace, permette soltanto un passaggio tra i cieli e la terra, in un luogo che si trova al centro della circonferenza disegnata dall’asse terrestre durante la precessione degli equinozi (nella mappa stellare segnata con E). Questo foro nel firmamento, in un’area completamente priva di stelle, è chiamato Viṣṇupāda, perché lì posa il piede di Viṣṇu. Questo piede, alzandosi o abbassandosi periodicamente per volontà del Dio, permette il passaggio delle acque dei sette oceani celesti, nel nostro mondo. La strada che queste acque hanno scavato nel firmamento per il loro corso verso le cime himalayane è la Via Lattea.

Non appena la cascata raggiunge la vetta del Kailāsa, le acque si suddividono nuovamente, spargendo sulla terra le grazie e le virtù di ciascuno dei sette cieli. Ecco, dunque, che il pellegrinaggio e il bagno sacro permettono ai viandanti di purificarsi da determinate colpe e di acquisire le virtù corrispondenti elargite dalle sette sacre correnti. Le acque, nella loro corsa verso il basso, scaricano poi nell’oceano il male dilavato. Per questa ragione, al contrario dell’acqua dolce, l’acqua del mare rende sterile e morta la terra su cui è versata. E le acque, a seconda della pesantezza delle colpe da loro trasportate, si riversano in sette strati liquidi di densità e gravità maggiore, man mano che si procede verso il basso. Così si sono formati i sette oceani australi o pātāla.

I testi vedici affermano che i cieli (svarga), come è anche suggerito dall’etimo della radice verbale svar/sur, brillare, siano sempre luminosi, mentre il loro riflesso infero è il dominio delle tenebre. Dal punto di vista astronomico l’orizzonte celeste, che scorre come un fiume al centro della fascia zodiacale (rāśi cakra), divide gli svarga, gli oceani superiori, dai pātāla, gli abissi inferiori. I due punti in cui luce e tenebre s’incontrano e si equilibrano sono le porte equinoziali, che sono anch’esse definite tīrtha, guadi7. Infatti, soltanto attraversando queste porte equinoziali, vale a dire i punti astronomici delle sizigie, i defunti che percorrono il devayāna e quelli che compiono il pitṛyāṇa potranno raggiungere rispettivamente la porta degli Dei al solstizio d’inverno o la porta degli antenati al solstizio estivo. Per queste due categorie di trapassati il passaggio attraverso il guado che separa e unisce l’australe dal boreale, costituisce un vero e proprio snāna, un bagno lustrale in quello che per i greci era il fiume Oceano. Il cammino successivo sarà rappresentato per loro dalla processione lungo la Via Lattea. A conclusione del suo cammino, la Via Lattea si suddivide in due nelle vicinanze di una stella polare precedente, la stella Deneb (α Cygni, in sanscrito Kṛṣṇā Śākhā, “diramazione, bivio oscuro”), formando una “Y” paragonabile a quella del mito di Eracle, com’è visibile a tutti durante una notte limpida. La deviazione meridionale della Galassia, dakṣiṇāyana, conduce verso due stelle dello Scorpione (Vṛścika), jyeṣṭhā (Antares) e mūla (Shaula o λ Scorpii), che significano ancestrale e primordio. Quella settentrionale, uttarāyaṇa, porta alla costellazione śravaṇā (Aquila), ossia colei che dà śrāvaṇa, l’insegnamento, la cui stella principale è Garuḍa, la mitica aquila che conduce lungo il percorso solare. L’uttarāyaṇa, poi, dirotta più a nord verso la stella abhijit (Vega, la più antica stella polare conosciuta dall’astronomia indiana), colei che dà la vittoria, nella costellazione della Vinā, la citara della dea della sapienza Sarasvatī, il che ci riporta all’antico principale fiume sacro. Così è stabilito che anche i defunti devono attraversare i tīrtha per raggiungere le loro dimore celesti. Per gli esseri umani ancora vivi ciò che corrisponde ai sette cieli luminosi dell’emisfero boreale è il dì, mentre i sette abissi tenebrosi sono rappresentati dalla notte. Perciò alba e tramonto corrispondono nel corso del giorno a ciò che sono l’equinozio di primavera e quello d’autunno nell’anno. Questa è la ragione per la quale il bagno sacro durante il pellegrinaggio è indicato a questi due crepuscoli della giornata; naturalmente l’alba avrà nettamente la prevalenza essendo apportatrice di luce.

C’è da considerare però che la ricchezza della mitologia hindū dà risposte a numerosi quesiti e previene ogni obiezione. Non ci sarà possibile in questa sede esaurire tutte le argomentazioni che riguardano il pellegrinaggio ai fiumi sacri. Affinché le acque che, defluendo dal cielo dilavano la terra e si scaricano negli oceani meridionali, non saturino il mondo degli uomini, accorciando così la durata di una umanità con un diluvio anticipato8, il mito prevede periodiche siccità immani, a cui segue una nuova discesa di acque dal cielo. La storia di Agastya, che beve l’oceano e tutte le acque della superficie, è indicativa, e corrisponde alla desertificazione provocata dallo sprofondamento del fiume Sarasvatī, geologicamente ben nota. Tra una cascata d’acque celesti e la susseguente grave carestia, l’equilibrio della natura è conservato da una circolazione minore di acque. Si tratta dell’evaporazione che i corpi celesti esercitano sulle superfici oceaniche, laghi, corsi d’acqua, nebbie e rugiade. Il vapore, condensandosi in nubi, nuovamente precipita poi in pioggia, ridistribuendo così le acque su tutta la superficie, rallentando la frequenza delle catastrofi. Abbiamo definito questa una circolazione minore, in quanto, mentre il fiume che proviene dai cieli, irrora la terra e, scendendo, raggiunge i mari inferi, l’evaporazione e la pioggia compiono un percorso più breve, dalla terra all’atmosfera, dall’atmosfera alla terra.

Come s’è visto, a causa delle catastrofi che si ripetono nel corso del ciclo d’una umanità, si stabiliscono quattro sottocicli che corrispondono piuttosto esattamente alle quattro età di memoria esiodea. Queste catastrofi alterano e cancellano la geografia fisica, facendo scomparire fiumi, prosciugando mari, per poi subire flussi impetuosi di nuove acque. In ognuna di queste età dovette quindi essere ridisegnata una geografia sacra corrispondente. Nella prima età, nel Satya Yuga, furono gli Dei (deva) a indicare i daiva tīrtha lungo il letto dei fiumi primordiali. Nella seconda, il Tretā Yuga, gli āsura tīrtha furono fondati dai titani (asura). Al terzo Yuga, il Dvāpara, furono i veggenti antichi, ṛṣi che, con i loro eremi segnarono gli ārṣa tīrtha. Infine, nell’attuale era tenebrosa, Kali Yuga, i tīrtha umani (mānuṣa tīrtha) sono stati fissati dai sacrifici solenni offerti dagli imperatori universali (cakravartin).

A questo punto, ci si potrà chiedere verso quale luogo particolare, lungo il corso di un fiume sacro, il pellegrino dovrà incamminarsi per trovare il tīrtha in cui compiere il sacro rito del bagno lustrale. La tradizione non stabilisce alcun punto geografico; è sufficiente trovare un luogo adatto che permetta di bagnarsi senza pericolo d’essere trascinato dalla corrente o essere vittima di qualche predatore. Sarà preferibile che la riva sia orientata verso il punto da cui sorge il sole, poco frequentato dalle masse, in una località in cui santi uomini del passato abbiano compiuto ascesi e austerità, in cui antichi sovrani abbiano celebrato sacrifici solenni o dove siano accaduti prodigi divini9. Oppure il pellegrino dovrà scegliere sponde fluviali in cui la natura fornisce spontaneamente oggetti simbolici come gli svayambhū liṅga10 o gli śālagrāma11; oppure dove rocce, montagne o meandri presentano icone naturali, orme o scritte non scolpite da mano umana12. Tra queste mete di pellegrinaggio, per le divine gesta che ivi sono state compiute, alcune sono diventate imprescindibili, come, citando alla rinfusa, Kāśī, Puśkara, Rāmeśvaram, Tirupati, Gayā, Prayāg, Puri, Badarinātha, Ayodhyā e mille altre.

Da un altro punto di vista si potrà comprendere che il numero dei tīrtha è davvero illimitato; infatti, i testi sacri parlano di 35 milioni di luoghi di pellegrinaggio lungo i fiumi13. Il Matsya Purāṇa14 aggiunge un’osservazione di grande interesse, ossia che i 35 milioni di tīrtha sono collocati non soltanto sulla terra, ma anche nell’atmosfera e nel cielo, riconducendoci così alla grandiosa cosmografia della circolazione delle acque nel trimundio.

Con il bagno sacro tutte le colpe sono dilavate e asportate dal flusso delle correnti. Ma se colui che si reca ai luoghi di pellegrinaggio con ipocrisia, che è in preda all’egoismo, al dubbio, alla mancanza di fede, all’ateismo, in questo caso le sacre acque non sono in grado di purificarlo15. Questo avviene perché costui partecipa al pellegrinaggio con la mente ottenebrata dall’errore, dall’avarizia e dagli irrefrenabili desideri dei sensi. Perciò chiunque si trovi in questa situazione dovrà purificarsi interiormente compiendo un pellegrinaggio ai tīrtha che si trovano sulle rive dei fiumi interiori. E, tra questi, tre sono i tīrtha maggiori: l’indriyanigraha tīrtha, dove si compie il controllo dei propri sensi e se ne ottiene il distacco; il dāya tīrtha, il luogo di pellegrinaggio del dono, che sconfigge il desiderio egoistico e ferma il flusso dei pensieri; infine, il satya tīrtha, quello della verità, in cui si rimuovono i dubbi, la mancanza di fede e l’incredulità16. Secondo lo Skanda Purāṇa17 e il Padma Purāṇa18, questi tīrtha interiori sono molteplici e sono chiamati con il nome delle virtù che essi fanno insorgere: Verità, Umiltà, Controllo dei sensi, Carità, Controllo dei desideri, Appagamento, Castità, Dolcezza nel parlare, Saggezza, Pazienza, Sobrietà. E fra tutti questi il tīrtha più elevato, posto sulla sommità del capo è chiamato Purificazione dell’intelletto (śuddhādhī).

Dipinto di uno yogin in meditazione, che mostra i sei cakra (Dal basso in alto: mūlādhāra, svādhiṣṭhāna, maṇipūra, anāhata, viśuddha e ājñā) e i tre canali principali (nāḍī) del corpo sottile (Suṣumna, al centro della colonna vertebrale; Iḍa e Pingala ai lati). Un piccolo serpente, che simboleggia la Kundalini, si arrampica sul canale centrale di sushumna.

Quanto abbiamo appena affermato sulla base della tradizione purāṇica, è stato ripreso e sviluppato ampiamente dallo Yoga darśana. Secondo questa dottrina, all’interno del corpo umano si trovano dei fiumi (nāḍī) che lo percorrono in tutti i sensi e che trovano la loro foce nelle dieci aperture del corpo. Non si devono confondere i vasi sanguigni o linfatici con queste nāḍī, in quanto mentre i primi sono grossolani e corporei, le nāḍī sono psichiche, composte dagli elementi sottili. Vuole la tradizione che tra i trentacinque milioni di fiumi che pervadono l’intero universo, settantaduemila siano racchiusi all’interno della nostra forma corporea.

Tra questi fiumi, tre sono di maggiore importanza e sono noti come IḍāPiṅgalā e Suṣumṇā. La Suṣumṇā è situata al centro e scorre come un asse dal coccige alla sommità della testa parallelamente alla spina dorsale (Merudaṇḍa). Iḍā scorre alla sua sinistra e Piṅgalā alla sua destra, avvolgendosi a spirale attorno al loro asse, la Suṣumṇā. Non sorprende che Suṣumṇā sia sinonimo di Sarasvatī, Iḍā di Gaṅgā e Piṅgalā di Yamunā. Da ciò deriva che il fiume celeste scende sulla sommità della testa di Śiva, al fine di smorzare l’impeto della sua caduta, per poi suddividersi prima nelle tre principali nāḍī, poi nei sette fiumi sacri, infine in tutta una moltitudine innumerevole di fiumi, torrenti e ruscelli che bagnano l’India e tutta la terra emersa per precipitare nel mare. Similmente il medesimo fiume celeste penetra nell’individuo umano dalla sutura sagittale, il brahmarandhra, per dividersi dapprima in IḍāPiṅgalā e Suṣumṇā e, poi, in 72.000 nāḍī, al fine di animare il corpo grossolano. È notevole, comunque, che il fiume principale tra le nāḍī situate nell’individuo sia la Sarasvatī-Suṣumṇā, mentre il Gange-Iḍā ha una funzione ancillare, quasi a richiamarsi a un’antichità davvero preistorica, pre-kali yuga, a ricordo della grandezza della Sarasvatī prima del suo inghiottimento da parte del deserto del Thar. A ogni incrocio delle tre nāḍī è collocato un centro sottile che rappresenta un vero e proprio punto di passaggio, un tīrtha. Ne abbiamo enumerati tre maggiori: ma per lo Yoga ce ne sono altri tre importanti. I sei centri sono chiamati cakra, circoli o ruote, oppure padma kamala, fiori di loto, e rappresentano le tappe che la coscienza dell’individuo deve percorrere al fine di recuperare uno stato di purezza e santità andato perduto. All’altezza della radice del naso, i fiumi Iḍā e Piṅgalā si gettano come affluenti nella Suṣumṇā, esattamente come nella località detta Prayāga, l’odierna Allahabad, avviene la confluenza tra Gange, Yamunā e la invisibile Sarasvatī. Questo punto preciso, sia nella fisiologia sottile dell’essere umano sia nella geografia sacra dell’India, è detto triveṇī, il triplice intreccio, la confluenza dei tre fiumi. In seguito, lo yogi procederà nella corrente unificata verso l’alto, fino al loto dei mille petali che è situato alla sommità della calotta cranica, circondando l’apertura sagittale della testa. In questo luogo avviene il superamento dell’individualità identificata al corpo vivente e la risalita al cielo, percorrendo in senso inverso la corrente del fiume celeste, fino all’uscita dal cosmo, jagad randhra, dove posa il piede divino di ViṣṇuViṣṇupāda, con la conseguente deificazione dello yogi. La risalita della coscienza attraverso i centri sottili, non soltanto procede controcorrente rispetto alla discesa delle acque, ma è anche una risalita attraverso il tempo. Dal Kali yuga, lo yogi ritorna indietro nel tempo recuperando le virtù e le conoscenze che l’umanità ha perduto nel corso del ciclo cosmico, restaurando in sé la perfezione dello stato naturale della prima età, quel Satya yuga in cui gli uomini erano perfetti e simili agli dèi. Questo percorso, dunque, riscopre e si purifica nei tīrtha dimenticati che erano stati stabiliti, nelle ere precedenti, dagli antichi ṛṣi, dagli asura, dagli Dei.

Si comprende dunque che il pellegrinaggio interiore deve necessariamente corrispondere in ogni dettaglio alle sette tappe del più importante pellegrinaggio hindū: quello delle sette città sacre. Se il pellegrinaggio ai tīrtha è un cammino di purificazione e lustrazione per mezzo dell’acqua, la tīrthayātrā alle sapta purā procederà dall’acqua verso il fuoco trasformatore e liberatore. Tutte le sette città sante sono sulle rive di fiumi. Esse sono, partendo dalla più meridionale: Kāñcīpuram, sul fiume Vegavatī, che corrisponde al cakra coccigeo, il Mūlādhāra che rappresenta l’elemento terra. La seconda tappa del pellegrinaggio è Dvārika, “colei che sta alla porta”, alla foce dell’antica Sarasvatī. È l’unica città santa sul mare, ma è anche alla foce di un fiumiciattolo, la Gomatī19 e corrisponde al svādhiṣṭhāna cakra, sede dell’elemento acqua. La terza città santa da visitare è Ujjayinī, l’arcaica Avaṅti, sul fiume Śiprā, dove è conservato il più importante liṅga di luce di tutta l’India, ed è ricollegabile all’elemento fuoco e al maṇipūra cakra ossia la città del gioiello. La quarta sosta per il pellegrino corrisponde a Mathurā, sulla Yamunā, luogo di nascita di Kṛṣṇa, che si connette con l’anāhata cakra, ed è sede dell’elemento vento. In seguito, il pellegrino procederà verso Haridvāra, la porta di Hari, ossia la gola himalayana da cui il Gange sgorga in pianura, che collima con il viśuddha cakra, la sede dell’elemento etere. La sesta tappa è Ayodhyā, sul fiume Karṇalī, oggi Gaghrā, la capitale del perfetto regno ideale di Rāmacandra, sita a poca distanza da Prayāga, che coincide con l’ājñā cakra, sede dell’ordine e dell’intelletto. Il pellegrinaggio si conclude sul Gange, a Kāśī, compresa tra i fiumi Varuṇa e Assī, la moderna Varanasi, Benares. Questo luogo di pellegrinaggio è anche noto come mahāśmaśāna, il grande campo di cremazione. Tutti gli hindū ambiscono ad andare a morire o a essere cremati sulle rive della Gaṅgā, sui ghaṭ della più sacra località dell’India, perché da lì l’accesso alla meta suprema della vita è facilitato se non garantito. Benares è infatti paragonata al loto dei mille petali che corona il superamento dell’individualità corporea e che permette, con la morte iniziatica, di salire al più alto dei cieli. Questa trasformazione ultima è attuata non più attraverso riti lustrali, ma affrontando una vera e propria cremazione interiore, che brucia al pellegrino quanto di residuale era rimasto della sua individualità, alla luce delle innumerevoli pire del mahāśmaśāna. Dunque, ciò che lo yogi compie attraverso un metodo spirituale introspettivo, il pellegrino lo mette in opera in questo lungo andare di tīrtha in tīrtha fino alla sua conclusione catartica a Kāśī. Per questa ragione il pellegrino indossa le vesti color ocra dei rinuncianti, per tutta la durata della peregrinazione.

Abbiamo voluto limitare questa panoramica sui pellegrinaggi a queste due tīrthacaryā: il pellegrinaggio di purificazione verso i sette fiumi e quello di trasformazione verso le sette città sante. L’India conosce anche molti altri tipi di pellegrinaggi. Il Kuṃbha mela che ogni quattro anni si alterna nelle sacre città di Prayāg, Haridvāra, Ujjayinī e Nāsika e che richiama decine di milioni di persone a concentrarsi in accampamenti che si estendono a perdita d’occhio in bell’ordine e con ammirevole compostezza. Oppure il pellegrinaggio ai cinquantuno śakti pītha, i luoghi consacrati al culto delle diverse parti del corpo della grande Dea. Oppure la yātrā di Jagannāthaa Puri. Senza dimenticare il pellegrinaggio a Oṃkāreśvara; o quello a Tirupati, per avere la visione di Bālajī; o, ancora, a Rāmeśvaram, sulle orme di Rāmacaṅdra; a Gayā, pellegrinaggio interamente dedicato al culto degli antenati. O quello popolarissimo di Ayyappā da e per Śabarimala, che ogni anno muove fino a cento milioni di fedeli. O il paṇcakrośa, il sempre affollato pellegrinaggio di tre giorni attorno alla città di Benares che riassume in centinaia di soste tutti i tīrtha e templi dell’India.

Abbiamo voluto limitare questa panoramica sui pellegrinaggi a queste due tīrthacaryā: il pellegrinaggio di purificazione verso i sette fiumi e quello di trasformazione verso le sette città sante. L’India conosce anche molti altri tipi di pellegrinaggi. Il Kuṃbha mela che ogni quattro anni si alterna nelle sacre città di Prayāg, Haridvāra, Ujjayinī e Nāsika e che richiama decine di milioni di persone a concentrarsi in accampamenti che si estendono a perdita d’occhio in bell’ordine e con ammirevole compostezza. Oppure il pellegrinaggio ai cinquantuno śakti pītha, i luoghi consacrati al culto delle diverse parti del corpo della grande Dea. Oppure la yātrā di Jagannāthaa Puri. Senza dimenticare il pellegrinaggio a Oṃkāreśvara; o quello a Tirupati, per avere la visione di Bālajī; o, ancora, a Rāmeśvaram, sulle orme di Rāmacaṅdra; a Gayā, pellegrinaggio interamente dedicato al culto degli antenati. O quello popolarissimo di Ayyappā da e per Śabarimala, che ogni anno muove fino a cento milioni di fedeli. O il paṇcakrośa, il sempre affollato pellegrinaggio di tre giorni attorno alla città di Benares che riassume in centinaia di soste tutti i tīrtha e templi dell’India.

Ma il nostro scopo, che si spera sia stato raggiunto, era quello di descrivere e far comprendere il pensiero che sta dietro ai pellegrinaggi –compiuti rigorosamente a piedi–, e che permea la fede ancor oggi vivissima delle genti dell’India. Le strade dell’India, spesso brulicanti di pellegrini in veste color zafferano, sono le arterie d’una circolazione sanguigna, che ancor oggi anima una civiltà antica di sette millenni.

  1. Taittirīya Saṃhitā, VI.1.1.1-2.[]
  2. Ritenzione prodotta dalla pressione del mento sulla base del collo.[]
  3. I cinque fiumi sono Śatadru, Vipāśā, Aśkini, Irāvatī e Vitastā. Talora uno di essi è sostituito dalla Sarayū. Sarasvatī, Indo e Sarayū rappresentano comunque le correnti più purificatrici.[]
  4. I fiumi, ovvero le nāḍī, in India sono tutti femminili, eccetto l’Indo e il Brahmaputra[]
  5. Rāmāyaṇa, Bala Kāṇḍa, XXXI-XLIV.[]
  6. MahābhārataTīrthayātrā parvan, CVIII.[]
  7. Śāṃkhāyana Brāhmaṇa, II.9.[]
  8. Oltre alla pioggia, il pralaya appare come una marea che monta violenta fino a toccare il cielo della luna[]
  9. Skanda Purāṇa (SP), I.2.13.10.[]
  10. Pietre naturalmente ovoidali sacre a Śiva.[]
  11. Ammoniti fossili, considerate la proiezione in terra del cakra di Viṣṇu.[]
  12. Padma Purāṇa (PP), Uttarakhaṇḍa, CCXXXVII.25-27; SPKāśīkhaṇḍa, VI.43-44; Nāradīya Purāṇa, II.62.46-47. Cfr. Pandurang Vaman Kane, History of Dharmaśāstra, Poona, Bandarkar Oriental Research Institute, 1991, III ed., vol. IV, pp. 554-555.[]
  13. Matsya Purāṇa (MP), CX.7; Nāradīya Purāṇa, II.63.53-54; Vāmana, XLVI.53.[]
  14. Ibid.[]
  15. Vāyu PurāṇaAnuśāsana CVIII.9[]
  16. Matsya Purāṇa, XXII.80.[]
  17. SP, Kāśīkhaṇḍa, VI.[]
  18. PPUttarakhaṇḍa, CCXXXVII. I tre tīrtha sono situati rispettivamente all’altezza del svādhiṣṭhāna cakra, dell’anāhata cakra e dell’ājñā cakra.[]
  19. Questo breve fiume è stato denominato così in onore del ben più importante corso omonimo, affluente del Gange. È probabile che sia stato chiamato con un nome illustre in quanto doveva sostituire la Sarasvatī, dopo la sua scomparsa.[]