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Gian Giuseppe Filippi

L’evidenza e la sua comprensione

Uno dei punti più difficili da superare per l’iniziato impegnato nella pratica di un metodo operativo tipico del karma kāṇḍa riguarda la chiara comprensione del metodo puramente conoscitivo perseguito dai jijñāsu. Abituati all’uso metodico basato sulla ripetizione di un mantra, sulla concentrazione della mente su un simbolo e sulla meditazione a cui applicarsi in certi tempi della giornata seguendo le ingiunzioni del Guru, il metodo che prescinde da ripetizioni e da contingenze spazio-temporali appare alquanto oscuro.

È facile che propenda a credere che la jñāna prakriyā, non avvalendosi di rituali, si riduca a semplice speculazione (vitarka), a mera teoria (bhāvanā), a gioco compiaciuto dell’intelletto e della ragione (mānasa rasāsvāda) senza alcuna vera e positiva “realizzazione” (sākṣātkāra). Tale fraintendimento è dovuto a una falsa concezione circa il senso da attribuire alla realizzazione. In questo caso si pensa che la realizzazione consista nella conquista di una meta che non si possiede ancora, di un oggetto di conoscenza finora ignoto, di uno stato più elevato da cui si era esclusi, di un potere straordinario che si acquista in più delle proprie capacità naturali. Ebbene, questo modo di vedere, tipico del karma kāṇḍa, non è altro che una sādhanā che persegue, a un livello più sottile, il mamakāra, ossia la brama di appropriarsi di ciò che “non è mio”. Anche l’aham dell’uomo ignorante ha la percezione della propria limitazione, inadeguatezza, miseria, e intende compensare a questa manchevolezza conquistando sempre più mama da ciò che chiama “mondo esterno” (bahiḥ prapañca): figli, ricchezza, posizione sociale, fama, ecc. Il sādhaka ignorante cerca di compensare alla medesima manchevolezza conquistando sempre più mama da ciò che chiama “mondo interno” (āntara prapañca): potere sui prāṇa, controllo dei sensi e della mente, siddhi, ecc. Per conquistare ciò che considera “realizzazione”, si avvale dell’azione (karma), perché tutto ciò che è altro da “me” è distante e deve essere raggiunto, deve essere ottenuto, deve essere unito a “me”. Ciò significa che ci si limita al dominio dell’azione. Tuttavia, con l’azione non si esce dal dominio dell’azione. Ecco dunque che il sādhaka più acuto si rende conto che solo la conoscenza libera dal dominio dell’azione. Percorrerà, dunque, una via proposta dal karma yoga non per conquistare altro da sé, ma per purificare la mente (śuddhadhī) in modo da poter, alla fine, perseguire la conoscenza (jñāna). Ed ecco che “realizzazione” (sākṣātkāra) assume il suo vero significato: realizzare significa riconoscere il Reale al di là delle false apparenze, significa riconoscere la propria vera natura di Ātman respingendo le illusioni di tutto ciò che appare erroneamente quale anātman, significa prendere Coscienza (Cit) che la Esistenza (Sat) e la Pienezza (Ānanda) assolute sono eternamente in proprio possesso (sampatti). Vera conoscenza, per il Vedānta, non è mai conoscenza di altro, ma è coscienza di Sé. La conoscenza di altro da Sé è fallace e ricade nel dominio dell’ignoranza (avidyāadhyāsa) e dell’azione (karma).

La conoscenza di altro da Sé è dunque un’azione conoscitiva della mente, un percorso d’indagine con il quale si copre progressivamente la distanza tra l’iniziale assenza di informazione e il successivo raggiungimento dell’apprendimento dell’oggetto da conoscere. Ciò avviene in varie tappe corrispondenti all’acquisizione progressiva delle nozioni riguardanti i dettagli dell’oggetto sotto indagine. Tale conoscenza, dunque, è la conquista di altro da Sé, di qualcosa che non si possedeva previamente e che, ancor prima, si ignorava esistesse. La mente che s’impegna in questo studio raggiunge il frutto (karma phala) di una azione mentale (mānasa kriyā).

Non così la conoscenza di Sé che si sperimenta pur sempre tramite un supporto mentale, ma che non costituisce affatto il frutto d’una azione mentale di cui precedentemente non si era in possesso: la mente, mediante l’indagine vedāntica, non crea nuovi pensieri, ma corregge l’errore. La semplice liberazione dall’errore rimuove l’ignoranza (avidyā adhyāsa) e fa emergere la Conoscenza.

Ma vediamo di chiarire ulteriormente questa argomentazione, che è il cuore stesso dell’Advaita. L’essere umano ha una sola assoluta certezza: al di là di qualsiasi dubbio sa di esistere e di essere cosciente. È del tutto cosciente di esistere e sa di esistere coscientemente. Esistenza e Coscienza gli appaiono in tutta evidenza come un tutt’uno. Questa conoscenza è naturale, spontanea e immediata ed è universalmente condivisa da tutti gli esseri coscienti (sarvaloka prasiddhānubhava). Il Vedānta chiama questa consapevolezza Ātma pratyaya, incrollabile certezza d’essere il Sé dovuta a conoscenza diretta. Ripetiamo: questa è l’unica certezza assoluta perché è conoscenza di Se stesso (Ātma jñāna Ātma vidyā), la quale esclude la dualità di soggetto-oggetto. Infatti, qualsiasi altra conoscenza è conoscenza di altro da Sé (anātma pramā). In quest’ultimo caso la conoscenza non è immediata; si tratta di un processo conoscitivo, di una azione investigativa compiuta da un soggetto al fine di raggiungere per approssimazione la conoscenza di un oggetto: ricade pienamente nel dominio dell’azione (karma kāṇḍa) e per tale ragione questa indagine conoscitiva non è espressa dal termine jñāna o da vidyā, ma da jñapti, che esprime più propriamente un “accertamento”, un “apprendimento”, ovvero un esercizio intellettuale (bauddha vyāpāra) al fine d’informarsi su qualche cosa. Un altro modo per rendere l’idea di una azione conoscitiva è pramā, vale a dire l’uso degli strumenti di conoscenza sicura (pramāṇa). I pramāṇa più usati dall’Advaita sono: pratyakṣa, l’indagine del mondo tramite i cinque sensi (indriya); anumāna, l’inferenza o deduzione; śābda, la parola, ossia le Upaniṣad udite dalla bocca del Guru. A queste tre si aggiungono anche upamāna, la comparazione per somiglianza o contrasto (anvaya-vyatireka); arthāpatti, la supposizione o ipotesi; e anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto. Si deve fare attenzione al fatto che il primo pramāṇa, il pratyakṣa, sta a fondamento di tutti gli altri che, quindi, ne sono dipendenti. Infatti, si deduce soltanto considerando gli oggetti percepiti; si apprende śābda tramite l’udito o la lettura d’una śruti; si paragona ciò che si è indagato con i sensi o su cui, oltre a ciò, si è inferito con la logica. In definitiva, ogni conoscenza raggiunta con i pramāṇa è dipendente in primis dalla mediazione dei sensi e, solo in seconda battuta, dalla mente. Per questa ragione la conoscenza prodotta da pramā (o da jñapti, che dir si voglia) è mediata e indiretta e non è vera conoscenza, non è conoscenza della Realtà.

Invece, la certezza d’esistere e di essere unico (ekātma pratyaya sāra) è conoscenza immediata che non può essere provata per mezzo dei cinque sensi né tramite alcun ragionamento. È esperienza libera dal pensiero. Quando si pensa a se stessi, allora si dice “io sono così e così” (aham amukaḥ asmi). Ma questo è un pensiero, un pensiero elaborato dalla mente individuale sulla base di un’indagine sensoriale sulle proprie caratteristiche corporee (daihika lakṣaṇa): “Io sono alto, magro, vecchio, giovane, uomo, donna, robusto, villoso, glabro, ecc.”; e sulla base di una riflessione delle proprie caratteristiche mentali (mānasa lakṣaṇa) e intellettuali (bauddha lakṣaṇa): “Io sono generoso, coraggioso, schivo, intelligente, colto”. Tutti questi sono pensieri che si sovrappongono al Sé nell’intento di qualificarlo, di oggettivarlo. Ma il Sé, pur così interpretato, rimane libero da ogni caratteristica (alakṣaṇa), privo di qualsiasi forma (arūpin), diverso da qualunque pensiero (acintya), non qualificato (nirguṇa) e non differenziato (nirviśeṣa). Il Sé è per sua natura evidente (prakāśita svarūpa) e non può essere oggetto di pramā.

Se l’evidenza è sotto il naso di tutti, perché pochi riconoscono la propria vera natura? La risposta è che l’evidenza deve anche essere capita. Chi non la capisce, ce l’ha davanti, la guarda, ma non la vede. Chi non capisce l’evidenza pensa di essere un individuo (pratyagātman), descrivibile in quanto “così e così”, che vive nel mondo (prapañca) che esisteva prima della sua nascita e che continuerà anche dopo la sua morte. Invece, non è così: chi è ed è cosciente è sempre e solo l’Ātman non individuale. Il non individuale è diverso dall’individuale, ma non è altro dall’individuale, perché non c’è nessun “altro” oltre a lui. Se la nostra esistenza–coscienza fosse “altro” dall’ego individuale, non potrebbe essere evidente qui-ora. Il senza forma è diverso dalla forma, ma non è altro dalla forma, perché non c’è nessun “altro” oltre a lui; non è caratterizzato dalla forma, ma non è altro dalla forma. Comprende l’individualità, comprende la forma, comprende la limitazione, ma non è qualificato dall’individualità, dalla forma, dalla limitazione. Il fatto che comprenda l’individualità, la forma e la limitazione, il tempo e lo spazio lo rende onnicomprensivo (vyāpta), privo di forma (nirākāra), illimitato (aparimita), eterno (nitya) e infinito (ananta). Colui che vede la forma individuale (jīva), che vede la forma dell’universo (jagat) è diverso dalla forma, ma è comprensivo della forma. Il soggetto è comprensivo dell’oggetto, pur non essendo qualificato dall’oggetto. La corda è l’origine dell’immagine del serpente, ma non è qualificata dal serpente.

Tuttavia si deve prestare attenzione a questa ulteriore e sottile riflessione: la corda è l’origine del serpente, perché senza la corda non si potrebbe commettere l’errore del serpente. La corda, dunque, è la realtà e la realtà come tale è comprensiva dell’errore del serpente. Chi vede direttamente la corda di primo acchito, vede la realtà, il fatto (vastu) così com’è: ma questo succede soltanto ai cercatori eccezionalmente qualificati (uttamādhikari vicārin). Invece, per chi erroneamente vede il serpente, il serpente è un indizio per la realtà della corda, una prima traccia da seguire per fare emergere la realtà della corda. A prescindere dall’esempio vedāntico classico della corda e del serpente e venendo alla dottrina, quel jīva “così e così” e quell’universo che appare davanti a lui, altro non sono che falsa apparenza del BrahmanĀtman. L’Assoluto, dunque, è il sostrato reale su cui si sovrappone la conoscenza errata, il jīva e il jagat. Se non ci fosse una corda nessuno potrebbe vedere il serpente; senza un sostrato reale nessuno potrebbe proiettarvi una immaginazione non reale1. Come il serpente è immaginato per errore al posto della realtà della corda, così il mondo e l’ego sono immaginati per errore al posto della Realtà non duale di BrahmanĀtman. È opportuno sottolineare che si tratta di Realtà non duale perché la stessa śruti potrebbe essere intesa come se la Realtà del jagat fosse il Brahman e quella del jīva fosse l’Ātman. Invece, Brahman-Ātman è l’Assoluto non duale, come la sua apparenza sbagliata jīva-jagat è un unico errore. Quindi l’Assoluto è l’origine dell’errore, include l’errore, senza essere qualificato dall’errore, perché il Reale è il Vero. Realtà e Verità in sanscrito sono rese da un’unica parola: Satya.

In base a quanto precede, si deve forse concludere che l’errore è l’indizio da cui si parte per raggiungere la conoscenza di Satya? No, non è così; e questa domanda rivela contraddizioni e sbagli palesi. Se l’errore fosse l’indizio da cui procedere per la conoscenza della Realtà, l’errore la qualificherebbe. Inoltre, la Realtà non può essere oggetto né di conoscenza né di raggiungimento. E, ancora, così sostenendo si darebbe realtà all’errore, alla falsa conoscenza e all’ignoranza, cosa espressamente negata da Śaṃkara Bhagavatpāda nel suo Adhyāsa Bhāṣya.

Ma allora, l’errore (bhrānti), la falsa conoscenza (mithyā jñāna), la non conoscenza (jñāna abhāva) e il dubbio (saṃśaya) ossia, in parole povere, l’ignoranza (avidyā adhyāsa), di cosa è indizio? È l’indizio dell’illusorietà, della non realtà, del fraintendimento, del pensiero che confonde tra loro Ātman anātman. Quando si scambia la corda per un serpente, due sono i comportamenti che si possono seguire. L’uomo ordinario vede la corda, pensa che sia un serpente, non mette in dubbio questo suo errore d’interpretazione, lo considera reale e fugge lontano. La persona qualificata per l’indagine conoscitiva (adhikārin), invece, mette alla prova ciò che pensa e verifica con l’uso dei pramāṇa se davvero si tratta di un serpente. S’avvicina, aumenta la luce per vedere meglio e comincia a valutare se la forma, le caratteristiche e il comportamento di quell’oggetto corrispondono a quelle di un serpente. Ha il corpo coperto da scaglie? Ha una testa e una coda? Si muove? Osserva, dunque, se i particolari tipici di un serpente si ritrovano in quell’oggetto. Usando i particolari di un serpente, rimuove la credenza iniziale che si tratti di un serpente. Non è un serpente. Ed ecco che, senza ulteriore indagine, emerge l’evidenza della corda. Tra la scoperta che il serpente non c’era e l’evidenza della corda non intercorre alcuno stacco, divario o successione temporale. La scoperta che non è un serpente è simultanea all’evidenza della realtà. Alcuni advaitin di epoca tarda hanno sostenuto che, una volta verificato che non è un serpente, si dovrebbe cominciare un’indagine per scoprire se si tratta di una corda. Ma questo non è l’Advaita śaṃkariano, è la via degli sciocchi (amanas mārga). Se in una stanza buia ci sono molti oggetti invisibili perché coperti dalle tenebre, una volta che si accende una luce e le tenebre scompaiono, gli oggetti appaiono da soli. Non c’è alcuna indagine ulteriore da fare per vedere gli oggetti.

Ritorniamo a considerare l’esempio dell’indagine che la persona d’intelletto acuto e di mente purificata compie per verificare se ciò che appare come serpente sia davvero un serpente. Egli cerca di individuare progressivamente nell’oggetto in esame le caratteristiche del serpente: se non trova una certa caratteristica, ne esclude la presenza da quell’oggetto. Dopo alcuni tentativi per identificare altre caratteristiche, apparirà evidente che quell’oggetto non è un serpente, bensì una corda. Questo esempio illustra in modo efficace il procedere del metodo advitīya del “neti neti”: si demolisce l’errore costatando l’assenza delle caratteristiche tipiche dei serpenti; vale a dire che si usano le caratteristiche dei serpenti per dimostrare la falsità del serpente preso al posto della corda. Si tratta del metodo generale noto come adhyāropa-apavāda prakriyā2Adhyāropa, la prima fase, consiste nell’accettare come un fatto evidente ciò che appare ai sensi spontaneamente e istintivamente nella condizione in cui si è nati e in cui si vive, e che la mente reputa sia la realtà. L’uomo ordinario aderisce a questo pensiero su impulso delle inclinazioni (saṅkalpa) e delle azioni passate dovute a precedenti esistenze, latenti nella sua attuale natura umana (svabhāva), trascurando l’intuizione primordiale “io esisto e sono cosciente”, che pure tutti sperimentano. In questo modo assume quella personalità avventizia (upādhi) di essere “così e così”, costruita mentalmente dall’immaginazione dovuta all’ignoranza (avidyā kalpanā). Il cercatore vedāntico (vedānti vicārin), invece, non dimentica la sua vera natura (Svarūpa), ma mette momentaneamente da parte questa certezza al fine di indagare e correggere l’errore prodotto dallo svabhāva. Assume deliberatamente l’errore al fine di rimuoverlo: questa scelta voluta si definisce śāstra kalpanā, immaginazione suggerita dalla scrittura e spiegata direttamente dal Guru a fine di insegnamento. Infatti l’Assoluto non può essere oggetto di alcun insegnamento; solo l’errore lo è. La śāstra kalpanā non differisce in nulla dall’avidyā kalpanā dell’ignorante, se non per un particolare importante: tale insegnamento è assunto al solo scopo di essere dimostrato falso. Nella successiva fase di apavāda, infatti, l’adhyāropa è metodicamente demolito dall’uso del “neti neti”, “non questo, non questo”. Si tratta della pratica di discriminazione vedāntica (vedānti viveka prakriyā) che annulla la sovrapposizione reciproca tra Ātman anātman, tra reale e non reale. Si tratta esattamente di quel processo di indagine (vicāra) precedentemente illustrato dall’esempio di come si fa ad annullare l’immagine illusoria del serpente confutandone una a una le diverse caratteristiche. Facendo così appare in tutta evidenza l’autoluminosa (svaprākaśa) realtà della corda soggiacente al pensiero errato. È lo stesso senso dello śāstra, cioè della śruti, a dimostrare la falsità della śāstra kalpanā. L’indagine, dunque, si conclude nell’Ātma pratyaya. Ma questa volta, a conclusione del Vedānta vicāra, non si tratta più soltanto dell’evidenza: in più c’è la comprensione dell’evidenza. Infatti una cosa è l’evidenza che è davanti agli occhi di tutti, e altra cosa è la sua comprensione, la sua realizzazione. Questa è la Realtà-Verità (Satya), questo è il Brahmātman, questo è il mokṣa, questo è il nirviśeṣam: è la propria esistenza, è ciò che deve essere capito. Non è affatto uno stato da ottenere, un grado da raggiungere, una potenza da acquisire, un “principio” a cui identificarsi, un mistero da scoprire. Non è upāsyam, qualcosa da meditare, non è qualcosa da adorare, non è qualcosa da immaginare. È qualcosa da capire. Mokṣa è Liberazione dall’ignoranza, è riconoscere la propria vera natura di Assoluto, eternamente reale e dalla quale non ci si è mai separati. Per questa ragione qualsiasi azione compiuta con il corpo, con la parola e con la mente è del tutto inefficace al fine della comprensione: l’unica via è quella della conoscenza. Il problema è capire, non fare. Chi sa può ingiungere al discepolo di agire operando con yantramantra e tantra. Ma nessuno può ingiungere a un altro di capire. È chi non capisce a credere che l’Advaita Vedānta sia mera teoria, speculazione, filosofia. Capire è responsabilità unicamente del cercatore. Il Guru può insegnare che “Quello sei Tu” (tattvamasi), ma spetta al vicārin capire “Io sono Brahman” (aham Brahmāsmi). Il Sé sono Io: non è altro da Me, perché altrimenti il pensiero che il Sé sia diverso da Me sarebbe un altro anātman. Lettore, ricorda: “Quello sei tu, o Śvetaketu”. “Tu sei il decimo ragazzo”. Stiamo parlando di Te.

OṂ TAT SAT

  1. Questo è il grande limite del pensiero buddhista: negando l’esistenza dell’Assoluto, affermando che non esiste alcun sostrato reale alle false immaginazioni della mente e che tutto è śūnya, vuoto, zero, nulla, gli śūnyavādin condannano la loro stessa dottrina alla falsità, all’errore, alla non realtà.[]
  2. Si tratta di un metodo generale che può essere applicato per affrontare e dimostrare false alcune relazioni (sambandha) apparenti assunte quali ādhyaropa. Si tratta dell’avasthātraya sambandha, dell’abhidhāna-abidheya sambandha, della kārya-kāraṇa sambandha, della sṛṣṭi-sṛṣṭikartā sambandha, del dṛg-dṛśya sambandha, ecc. L’applicazione del metodo ādhyaropa-apavāda allo scopo di dimostrare la falsità della relazione (sambandha) tra i tre stati, tra il nome e il nominato, tra causa ed effetto, tra Creatore e creazione, tra il Testimone e il testimoniato, ecc., con l’uso del “neti neti”, fa sì che ognuna di queste argomentazioni diventi un vero e proprio metodo di realizzazione conoscitiva; ragion per cui si può definirle avasthātraya parakriyā, e via di seguito.[]