Breve Introduzione
Nel distretto di Śivamogga, c’è un famoso villaggio vedico chiamato Mattūr, noto come “Saṃskṛtagrāma” (villaggio del sanscrito). L’autore di quest’opera fu il quinto di sei figli della benedetta coppia, Ve. Br. Śrī Subrāya Avadhāni e Cennammā, residenti in quel villaggio. Nacque il 24 febbraio 1960. Alla tenera età di otto anni, ricevette l’Upanayana per poi continuare i suoi studi vedici tradizionali. Senza essere distolto dall’istruzione moderna, completò l’intero Yajurveda all’età di quindici anni. Successivamente, trascorse due anni nella sede di Bengaluru, studiando sanscrito e Vedānta con il Ve. Br. Śrī K.G. Subrāyaśarmā. Inoltre, dall’età di diciotto a venticinque anni, ricevette l’insegnamento della grammatica sanscrita, del (Vedānta) Śāṅkarabhāṣya e di un’introduzione ai commentari vedici da parte di suo fratello maggiore, Ve. Br. Śrī Aśvatthanārāyaṇa Avadhāni, e un’introduzione al Jyotiṣa da suo padre. Nel 1989, fondò la sua scuola vedica a Mattūr, dove impartì la conoscenza del sanscrito, Veda, Vedānta e Jyotiṣa a numerosi studenti. Dal febbraio 2003, ha prestato servizio come preside presso l’Adhyātma Prakāśa Kāryālaya di Holenarasipura, tenendo lezioni sul Śāṅkarabhāṣya, di sanscrito, Jyotiṣa e Veda. Anche qui, molti studenti hanno completato i loro studi in Prasthānatrayabhāṣya sotto la sua guida. Ancora oggi vi si tengono quotidianamente lezioni e discussioni tradizionali sul Bhāṣya. Nel maggio 2010, abbracciò Tūrīyāśrama e divenne noto come Śrī Śrī Advayānandendra Sarasvatī. Nel dicembre 2011, all’unico scopo di diffondere Śāṅkarabhāṣya agli aspiranti cercatori, fondò la fiorente istituzione chiamata Śrī Sacchidānanda Advaitāśrama. Grazie a questa istituzione, continua a tenere discorsi sul Vedānta in varie località. I suoi insegnamenti e le sue lezioni sul Vedānta aderiscono strettamente alla tradizione Śuddha Śāṃkara che sono caratterizzati dalla loro chiarezza, precisione e aderenza all’autorità delle scritture. Ancora oggi, dedica la sua vita allo studio, all’insegnamento e alla propagazione del Śāṅkarabhāṣya, considerandolo come il suo stesso soffio vitale e trovando appagamento nel servire il suo Guru.
Si ringrazia Smt. Manjushree Hegde per i gentili consigli sulla lettura del testo.
André Marques Santana Santos
Śrī Śrī Svāmī Advayānandendra Sarasvatī Mahārāja
La natura essenziale del metodo di causa ed effetto
(kāryakāraṇaprakriyāsvarūpam)
A cura di André Marques Santana Santos
È noto a chi si occupa di Vedānta che tutti i metodi sono usati solo per riconoscere la natura di Brahman come Ātman. A questo proposito, ci si può chiedere come il metodo della causa e dell’effetto lo dimostri. Un effetto (kārya) è un’entità prodotta, in virtù della derivazione etimologica secondo cui “è effettuato, quindi è un effetto”. Una causa (kāraṇa) è un’entità che produce, a causa della derivazione etimologica “produce, quindi è una causa”. Parimenti, l’effetto, l’entità prodotta, è il mondo molteplice a partire dallo spazio (ākāśa). Ma la causa è solo Brahman.
Dall’aforisma “Tadananyatvamārambhaṇaśabdādibhyaḥ” (“Sulla base dei testi sull’origine, ecc., tra essi non c’è alcuna differenza”, BSŚBh II.1.14), si apprende che tra causa ed effetto non c’è differenza. Sebbene la creazione sembri insegnata nelle diverse Upaniṣad in forme incompatibili, dato che-in qualche parte la si fa iniziare con il fuoco (tejas), in qualche altra parte con l’ākāśa e altrove senza alcuna sequenza, il venerabile autore dei [Vedānta] Sūtra ha riunito tutti questi insegnamenti su [causa-] effetto nell’aforisma che recita “na viyadaśruteḥ” (“Né s’è mai udito che lo spazio [abbia un’origine]”, BSŚBh II.3.1).
Semplicemente seguendo questa direzione, di seguito si dovrebbe comprendere l’unità di tutte le contraddittorie affermazioni sulla creazione facendo particolare riferimento alla Muṇḍaka Upaniṣad, perché lì è enunciata nella sua interezza. Se si continua a pensare all’idea della creazione, allora Brahman diventa il creatore del mondo a causa del karma degli esseri viventi che desiderano manifestare il mondo. Cioè, è come un seme che desidera produrre un germoglio. Il senso è che, allora, è nato il cibo non manifestato (avyākṛtamanna), la potenza seminale sotto forma di nāma-rūpa, immaginata dall’ignoranza, che ha raggiunto il punto di desiderare di manifestarsi.
Da quel non manifestato (avyakta), emerse Hiraṇyagarbha, dotato delle facoltà di conoscenza e azione. È descritto come il Sé-filo (sūtrātman) nato da quell’avyakta. Poi, è stata prodotta la mente (manas), che è della natura di saṅkalpa (inclinazione, intenzione), vikalpa (dubbi, immaginazione), ecc., il tattva dell’aggregato chiamato organo interno. Si deve intendere che tutti i sensi sono stati prodotti da questo, a causa del seguente testo “manassarvendriyāṇi ca” (“il manas e tutti gli indriya”, MuU II.1.3). Questo, perché i sensi hanno la stessa funzione della mente. Qui bisogna intendere che, dopo aver creato tutti i sensi non grossolani, a questo punto il testo spiega la creazione degli organi grossolani. Poi, la realtà (satyam) che si riferisce ai cinque elementi sottili in forma tangibile e intangibile. Da questi cinque elementi sono stati creati in sequenza i sette mondi dell’uovo cosmico (aṇḍa). Si deve capire che qui è sottintesa anche la creazione di Virāṭ. A tal fine, come ben si sa, si afferma anche la creazione dei cinque elementi grossolani. Si deve capire che sono nati gli Dèi, i saggi, gli esseri umani, gli animali, gli uccelli, i cervi, gli alberi, i rampicanti, i cespugli, ecc., di Virāṭ. Poi sono stati prodotti i karma e i loro frutti. Questa è lo sviluppo della creazione.
A questo punto, va notato che, si osserva la non-differenza (ananyatva) tra oggetti come i vasi e le brocche fatti di argilla e tra ornamenti come gli orecchini fatti d’oro, ma non si osserva la non-differenza tra lo spazio e il vento, il fuoco e la sua dimora, l’acqua e il suo contenitore, la luce e la sua fonte. Tuttavia, anche in questo caso, la non-differenza deve esistere per il compimento dell’aforisma. La non-differenza tra Brahman e il mondo, o il fatto che tutto sia della natura di Brahman, non può essere compresa attraverso la percezione (pratyakṣa), ecc. Come si spiega allora il principio della non differenza tra causa ed effetto, o il fatto che tutto è della natura di Brahman? Non c’è alcun errore. Sebbene gli individui (jīvas) all’interno del mondo (jagat), osservando dal proprio punto di vista (dṛṣṭi) in quanto soggetti (pramātṛ), non percepiscano la non differenza tra gli elementi, tuttavia, la possono capire per mezzo dell’inferenza (anumāna), come ha dimostrato Bhagavatpāda [Śaṃkara] quando afferma: “sūkṣmatāvyāpite jñeye gandhāderottararam” (US IX.2)1. Pertanto, è possibile comprendere che, poiché l’intera dualità dell’esistenza fenomenica (dvaita prapañca) non si trova separata dalla Coscienza (caitanya), la quale è la natura di Brahman, si può comprendere la non-differenza del mondo da Brahman e, di conseguenza, è possibile conoscere anche la reciproca non-differenza dei cinque elementi (pañcabhūta). Ciò è indicato anche in “Questa apparenza (māyā) della Realtà ultima nella forma dei tre stati è, in effetti, mera illusione” (BSŚBh II.1.9)
C’è ancora un altro punto: L’origine di tutte le cose, come vasi, stoffe, ecc., all’interno del mondo (prapañca), avviene con il supporto del tempo e dello spazio (kāla-deśa). Ma quando si vuole esprimere l’origine del mondo intero insieme agli stessi spazio e tempo, come si può pensare che tale origine avvenga con il supporto dello spazio e del tempo? Pertanto, definire la causa come invariabilmente antecedente è valido per gli oggetti del mondo, ma non per l’intero mondo che comprende tempo, spazio, effetto, causa, nome e forma (kāla-deśa-kārya-kāraṇa-nāma-rūpa). Quindi, in questo caso, con effetto s’intende un’immaginazione (kalpanā) e con causa s’intende il sostrato di quell’immaginazione. Come si deve comprendere che l’effettività (kāryatva) del serpente e la causalità (kāraṇatva) della corda sono immaginate, allo stesso modo si deve capire che il mondo è immaginato in quanto effetto e che Brahman, in quanto causa, è il sostrato di quell’immaginazione. Dato che il mondo è immaginato, anche la sua effettività viene meno. In assenza di effettività, è assente anche la causalità. In questo modo si stabilisce che il Brahman è libero sia di effetto sia di causa.
Allora la mente riposa nel solo Brahman, illuminata dalle scritture. In effetti, il metodo della causa e dell’effetto è immaginato solo a tale scopo. Altrimenti, se entrambi fossero reali, ci sarebbe di conseguenza la dualità che minerebbe la conclusione stabilita e, quindi, non nessuna Liberazione sarebbe possibile (anirmokṣa prasaṅgaḥ). Le natura priva di entrambe le forme è sperimentata da tutti nel sonno profondo (suṣupti). Tutti possiamo conoscerla. Non bisogna dimenticare che la causalità nel Brahman e l’effettività del mondo sono affermate dal punto di vista della sovrapposizione (adhyāropa-dṛṣṭi). In assenza dell’effettività del mondo, è assente anche la causalità di Brahman. Pertanto, questo modo di pensare deve essere compreso. In conclusione Quello è il Sé di tutti, pacifico, propizio e non duale.
Śrī Śrī Svāmī Advayānandendra Sarasvatī Mahārāja
La Natura del metodo adhyāropa-apavāda2
(Adhyāropa-Apavāda-Prakriyā Svarūpam)
A cura di André Marques Santana Santos
Le persone dotte non hanno alcun dubbio che i testi di Vedānta [le Upaniṣad] utilizzino il metodo della sovrapposizione (adhyāropa) per guidare i cercatori verso l’esperienza della Realtà ultima (paramārtha Tattva) come propria vera natura. Per descrivere questa Realtà utilizzano termini come “Sat-Brahman” e “Ātman”, conferendole, inoltre, vari attributi non reali quali l’esistenza, la conoscibilità (jñeyatva), in quanto è essenza della Coscienza e della Beatitudine, in quanto è raggiungibile attraverso gli insegnamenti delle scritture e dei maestri, in quanto è la causa dell’universo e in quanto entra nell’universo creato come anima individuale (jīva-ātman).
Tuttavia, non bisogna pensare che questi attributi sovrapposti appartengano effettivamente alla Realtà ultima. Per fugare ogni dubbio, i testi di Vedānta, dopo aver utilizzato questi attributi a scopo d’insegnamento, confutano esplicitamente ciascuno di essi. In particolare, negano che l’indescrivibile Realtà ultima abbia attributi conoscibili, quali sostanza, qualità e azione. Questo non va dimenticato.
È importante ricordare che i testi di Vedānta non rivendicano la propria validità in base alla loro capacità di rivelare verità precedentemente sconosciute, come fanno la percezione e gli altri mezzi di conoscenza. Invece, sono anch’essi considerati in modo figurato come pramāṇa [perché] negano le false sovrapposizioni e trasmettono quella Realtà ultima che trascende la relazione strumenti di conoscenza-oggetti conosciuti (pramāṇa-prameya vyavahāra).
Pertanto, non c’è alcuna differenza significativa tra le sovrapposizioni profane (laukikādhyāropaiḥ) e le sovrapposizioni usate dagli Śāstra e dai maestri a scopo di insegnamento (śāstra ācārya prakalpita upadeśa artha adhyāropa), né tra le loro rispettive confutazioni. Nessuna di queste descrizioni può intaccare il Brahman, che è eternamente immutabile e al di là del dominio dell’universo. Sono solo gli individui ignoranti e dediti alle cose del mondo a immaginare il Brahman associato all’universo e soggetto al mutamento e alla sofferenza.
È per questo che i testi e i maestri di Vedānta, ci insegnano, in conformità con la nostra esperienza empírica3, che “solo Brahman è reale, libero da ogni differenziazione e Uno senza un secondo. L’universo non há realtà separatamente da Brahman, né esiste alcuna anima individuale da esso separata”.
Non si può pensare che le Scritture o che i maestri, con i loro insegnamenti, rimuovano un universo realmente esistente. I testi del Vedānta neppure suggeriscono in alcun modo che la distinzione tra maestro e discepolo o che l’ignoranza presente nel discepolo siano entità reali e che possano essere rimosse dagli insegnamenti.
È solo provvisoriamente che tutto ciò è utilizzato come strumento di insegnamento. In realtà, nulla esiste prima, durante e dopo il processo di insegnamento, al di fuori della Realtà ultima. Questa è l’essenza dell’insegnamento.
L’adhyāropa-apavāda prakriyā è l’unico metodo noto in tutte le Upaniṣad, insegnato dal venerato Ādi Śaṃkara e dagli altri precedenti maestri di Vedānta che conoscevano bene la tradizione. Ciò si apprende dallo śloka citato nel commento alla Bhagavad Gītā: “Ciò che è privo di ogni caratteristica, è descritto mediante una deliberata sovrapposizione e la sua successiva negazione”4.
Il metodo utilizzato in tutto il Vedānta, pur essendo uno nella sua essenza, assume molte forme diverse. I metodi apparentemente differenti, come quello di causa ed effetto e altri ancora, sono soltanto variazioni comprese in questo metodo primario. Altri maestri contemporanei di Ādi Śaṃkara o a lui precedenti, che aderivano a diverse scuole di pensiero, non furono in grado di riconoscere l’importanza fondamentale di questo metodo nel Vedānta. Credevano che il cercatore potesse ottenere la Liberazione rimuovendo una schiavitù o un’ignoranza realmente esistente per mezzo d’una particolare forma di pratica spirituale. Per questo motivo hanno ideato molte varietà di metodi e la ragione di ciò è stata la loro mancanza di comprensione del metodo dell’adhyāropa–apavāda.
Spieghiamo ora la natura di questo metodo. Anzitutto, la radice di tutte le sovrapposizioni è la nozione di “avidyā” (ignoranza) che risiede nel Sé (Ātman). È a causa di questa avidyā che sorgono altre idee sbagliate sull’Ātman. I testi Vedānta utilizzano il termine avidyā per indicare questa ignoranza e, rimuovendola, emerge la vera natura di Brahman.
Pertanto, al Brahman, che è al di là di ogni distinzione, essenza di tutto ed eternamente ‘raggiunto’, si sovrappone a volte la qualità di essere raggiungibile (āpyatva). Tuttavia, grazie a questa [deliberata] sovrapposizione si contraddice l’idea che lo si possa raggiungere con strumenti diversi dalla conoscenza (jñāna). Allo stesso modo, a volte gli si sovrappone la qualità di essere conoscibile (jñeyatva), negando così la conoscibilità di qualsiasi entità diversa da Brahman. A volte gli si sovrappone la qualità di essere un Testimone (sākṣitva) per confutare la nozione di essere un conoscitore (jñātṛtva). A volte, anche la qualità di essere Testimone viene negata per mezzo dell’affermazione “neti neti” (non questo, non questo) circa la vera natura di Brahman.
Allo stesso modo, la comprensibilità attraverso alcuni Detti (vākyagamya) è in alcuni casi riconosciuta per dimostrare i limiti delle frasi dirette. In alcuni casi, considerando la natura [di Brahman] al di là della portata della parola e della mente (vāṅmanasa), si nega che sia conoscibile attraverso frasi o comprensibile dalla mente. Allo stesso modo, avendo sovrapposto al Brahman la qualità di essere la causa del mondo (jagatkāraṇa), si nega la sua natura di effetto (kāryatva). Quindi, negando anche la sua natura di causa (kāraṇatva), si rivela solo la sua vera natura (svarūpa).
Le cinque guaine (pañcakośa) gli sono sovrapposte e, in successione, è confutata l’identificazione con ciascuna guaina precedente, portando capire che è al di là delle cinque guaine e, in definitiva, al di là di ogni dualità (dvaita). Allo stesso modo, attraverso la sovrapposizione del vedente (dṛk) e del veduto (dṛśya), si nega l’idea di essere il veduto, seguita dalla comprensione e dalla successiva negazione della dualità stessa. Sovrapponendo i tre stati di coscienza (avasthātraya), si nega progressivamente l’identificazione con lo stato precedente e, attraverso la comprensione del quarto (Turīya), si confuta la stessa idea di avere degli stati.
In breve, tutto ciò che è sovrapposto allo scopo di rivelare la vera natura di Brahman è successivamente falsificato, in modo che l’intelletto possa trovare il suo riposo finale nella stessa reale natura. Qualsiasi cosa sia presentata come mezzo per comprendere la Realtà ultima (paramārtha tattva) è solo una sovrapposizione che è ripetutamente negata grazie al “neti neti” (non questo, non questo), rivelando alla fine il Sé (Ātman). La natura indifferenziata dell’Ātman, alla fine di ogni negazione, emerge autoluminosa. Questa è l’essenza dell’insegnamento.
È importante capire che l’essenza del metodo dell’adhyāropa-apavāda è la seguente: anzitutto, si sovrappongono a Brahman dei falsi concetti, negando quindi ogni realtà opposta a quei concetti sovrapposti; dopo di che si confuta lo stesso concetto sovrapposto. Fino a quando tutte le sovrapposizioni non saranno completamente rimosse senza alcun residuo, si deve continuare a falsificarle. Nei commenti ai tre testi fondamentali (prasthānatraya) si dichiara esplicitamente che solo attraverso la negazione di tutte le forme di sovrapposizione si può realizzare la vera natura di Brahman, per la cui comprensione non esistono altri mezzi.
Sarve bhadrāṇi bhavantu!
Che ciò sia di buon auspicio a tutti!
- “Bisogna sapere che [nella serie] che inizia con la terra e termina con l’Ātman interiore, ogni successivo è più sottile e più pervasivo del precedente che è stato superato.” Sengaku Mayeda (Ed. by), Thousand Teachings: The Upadeśasāhasrī of Śaṅkara, New York, State University of New York Press, 1992, p. 121.[↩]
- DakṣiṇaBhārata-ŚāṅkaraVedānta-Vidvad Goṣṭhi (Commemoration Volume), Holenarasipura, Adhyātma Prakāśa Kāryālaya, 2011, pp. 1-2.[↩]
- Bhrāntiprasiddhyānūdyārthaṃ tattatvaṃ bhrāntibādhayā. ayaṃ netyupadiśyeta tathaivaṃ tattvamityapi. Quando un uomo desidera contraddire l’idea errata di altri, prima conforma il suo discorso a quella nozione errata come se fosse un fatto, e poi dice “non è così” (Sūreśvara, Naiṣkarmyasiddhi, III.73). Questa conformità alla “nozione errata come se fosse un fatto” è un anuvāda, una mera riaffermazione delle nozioni errate che si ritengono vere. Ogni adhyāropa comporta un’anuvāda, una conferma delle nozioni errate che si hanno non deliberatamente. Così, quando i testi degli insegnanti Vedānta affermano: “… L’universo non esiste a parte Brahman, né esiste alcuna anima individuale separatamente da esso”, ecc., non stanno negando l’esistenza di un’entità realmente esistente. Piuttosto, la sola menzione di un universo costituisce un anuvāda, una conferma dell’idea erronea di un universo indipendente. È menzionato e, poi, negato. Questo impiego dell’esperienza empirica è chiamato anuvāda. La parola anuvāda è importante perché si contrappone a quella di altri ācārya che credono di confutare un’ignoranza veramente esistente.[↩]
- “Adhyāropāpavādābhyāṃ niṣprapañcaṃ prapañcyate” (BhGŚBh XIII.13).[↩]