Śrī Praśānt Neti
La jīvanmukti secondo l’Advaita Vedānta Śāstra
1. A proposito della jīvanmukti
Ciò che il Vedānta e l’Ācārya indicano con avidyā o adhyāsa è solo un’etichetta usata a scopo didattico per trasmettere il messaggio non duale (advaita). Śaṃkarācārya non ha mai voluto dire che un’entità chiamata avidyā–adhyāsa esista per davvero.
Questa etichettatura è fatta tenendo d’acconto il comportamento umano osservabile ed esistente. Ecco perché non spieghiamo avidyā–adhyāsa come qualcosa di diverso o al di là del comportamento naturale umano basato sulle nozioni fondamentali: “Io sono questo” e “Questo è mio”. Questo è un punto molto importante da tenere sempre presente.
Il comportamento umano più naturale, sia nelle relazioni mondane sia in quelle sacre (laukika–vaidika vyavahāra), è nient’altro che quello che chiamiamo avidyā–adhyāsa. Ciò significa che l’idea “io sono questo”, o un’idea leggermente più raffinata, tipica d’un pūrva mīmāṃsaka, vale a dire “Io sono in questo”, è ciò che è già stabilito e osservato.
L’idea di essere incorporato (śarīri), la nozione di essere in un corpo, è qualcosa che diamo per scontato. I Veda non ci insegnano di “essere incarnati e limitati”, ma questa è una convinzione naturale di tutti gli esseri umani. Perciò è una componente empirica mondana innata (naisargikoyam loka vyavahāraḥ), come Bhagavatpāda dice nel suo Adhyāsa Bhāṣya. È il nostro stesso comportamento, talvolta provvisoriamente sostenuto anche in alcuni passaggi del Veda, che ci fa considerare uno śarīri e, quindi, pensare: “sono incorporato e vincolato a causa dell’upādhi limitante corpo-mente”. Per eliminare questa convinzione (che è la causa (hetu) di tutte le difficoltà, miserie e sofferenze (anartha), per cui tutti coloro che pensano di “essere legati”, desiderano e cercano di “essere liberi”), è opportuno presentare la Libertà o Liberazione (mokṣa) come la meta più ambita dagli esseri umani (puruṣārtha).
Il paramaguru, Śrī Gauḍapādācārya, sottolinea che:
Se fosse mai esistito qualcuno a immaginare idee molteplici [quali, per esempio, quella del Guru, del discepolo e della Scrittura], queste potrebbero scomparire. Questa è una spiegazione a scopo di insegnamento. La dualità [implicita nella spiegazione] cessa di esistere quando si conosce la Verità suprema. (MUGK I.18)
Anche l’idea di mokṣa rientra in questa categoria di “concetti immaginati” a scopo didattico. In altre parole, non c’è un vero bandhana (legame) per liberarsi del quale venga insegnato un reale strumento di Liberazione (mokṣa upāyam).
L’errata concezione di essere incorporati-legati (bandha) nasce in noi perché non “conosciamo” la verità. Gli Śāstra ci rivelano la verità: non siamo mai stati in bandhana: ci insegnano che la schiavitù, ovvero l’essere incarnati, non è la nostra vera natura. Senza verificarlo, noi solo pensiamo di essere in schiavitù.
L’insegnamento implicito nell’affermazione precedente indica una causa del bandhana quando afferma “perché non ‘conosciamo’ la verità”. Tuttavia, ciò non implica automaticamente che il fatto di non “conoscere” la verità comporti che il bandhana sia reale. Come abbiamo detto, bandhana, ossia l’idea di incorporazione, è ciò in cui un uomo “si trova” spontaneamente e in modo del tutto naturale. Stiamo semplicemente indicando quella convinzione del bandhana, data per scontata da chi ripete sempre la stessa idea, solo per facilitarne l’insegnamento.
Il fatto è che tutti danno per scontato di “essere legati e limitati” senza esaminare la natura della schiavitù (bandhana). Le Scritture e l’Ācārya ci invitano a esaminare tale presupposto. Questo è il senso del Vedānta. Niente di più e niente di meno.
Questi fatti fondamentali devono essere valutati e compresi con grande attenzione. Riassumendo:
- Noi, spontaneamente, presumiamo falsamente di essere incarnati e vincolati e, quindi, in schiavitù;
- Per ovviare a questa falsa idea, l’insegnamento inizia assegnando una “causa” a questa nostra presunzione. La “causa” consisterebbe nel “non conoscere la Verità”. Questo viene fatto solo a scopo di insegnamento e non si deve pensare che “non conoscere la Verità” produca una vera e propria schiavitù.
- Lo scopo della Scrittura e del Guru è quello di spingerci a esaminare i nostri presupposti non verificati e a scoprire da soli la nostra vera natura intrinseca.
Ora, dopo questi chiarimenti, possiamo esaminare in cosa consiste la mukti o mokṣa.
Mukti, la Liberazione, è semplicemente l’abbandono dell’idea errata che “io sono in bandhana, io sono incorporato”, sulla base dello śruti pramāṇa che conferma la nostra vera natura di Ātmā, l’essenza o il sostrato dell’“io”. Questo abbandono si basa sullo śruti pramāṇa, che risulta immediatamente dopo aver accertato il significato delle frasi delle Upaniṣad; Śaṃkara afferma:
[La conoscenza del Brahman] si realizza simultaneamente alla realizzazione del significato del testo; infatti, non c’è null’altro da fare se non essere concentrati sulla conoscenza espressa da semplici parole. (MuU I.1.6)
E questa rinuncia, se guardiamo bene, è l’abbandono dell’idea sbagliata che “io sono legato”. Ma non si tratta di una vera mukti da una bandhana reale. La natura del Sé è tale che non è mai in schiavitù. E, soprattutto, la natura del Sé come eternamente libero è la stessa in tutti, il Sé essendo, dopo tutto, Uno e non molteplice
Riassumendo, le mie conclusioni sono:
- Nel puro metodo śaṃkariano (śuddha Śaṃkara prakriyā), se dobbiamo insegnare la mukti, solo la jīvanmukti è mukti. Anche se qua e là si trova usata la parola videhamukti, questa non è usata in senso primario: tutti gli insegnamenti si “concludono” con la jīvanmukti.
- La jīvanmukti di cui parliamo è l’intuizione della vera natura dell’Ātmā che si basa sull’accertamento del significato della frase upaniṣadica per cui “l’Ātmā è sempre non nato (aja) e non duale (advaya)”. Pertanto, a prescindere dal cosiddetto stato di Liberazione, Ātmā è nella sua vera natura sempre libero e la nostra idea errata di considerare Ātmā vincolato non lo rende mai veramente vincolato. Si deve ricordare questa affermazione dell’Adhyāsa Bhāṣya:
Stando così le cose, ogni volta che si sovrappone qualcosa a qualcos’altro, il sostrato non è influenzato in alcun modo dai meriti o dai demeriti della cosa sovrapposta.
- Non c’è uno status speciale per il jīvanmukta in questa grande prakriyā, nel senso che l’Ātmā non è molteplice e non è mai in alcuna schiavitù da cui partire.
2. Solo mukti e non mukta
Questo vuol forse dire che ci si comporta con mancanza di rispetto o con uno sfrontato orgoglio intellettuale del tipo: “Io sono Brahman e, dopo tutto, questo Guru è solo un personaggio di sogno”?
La risposta è che non sarà mai così per un discepolo veramente qualificato (adhikāri). Il comportamento sarà sempre come quello che Śrī Śaṃkara Bhagavatpāda esprimeva nel saluto a conclusione della Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā, al terzo verso:
Mi prosterno con tutto il mio essere a quei sacri piedi, che dissipano la paura di questa concatenazione di nascite e di morti, del mio grande Maestro che, attraverso la luce della sua mente illuminata, ha distrutto le tenebre dell’illusione che avvolgevano la mia mente; che ha distrutto per sempre le mie credenze sull’apparizione e scomparsa in questo terribile oceano di innumerevoli nascite e morti; e che fa sì che anche tutti gli altri che si rifugiano ai suoi piedi raggiungano l’indefettibile conoscenza delle Scritture, la pace e lo stato di perfetta non differenziazione.
Pertanto, i cercatori sinceri ricordino sempre questi versi:
Saluti a quel Dakṣiṇāmūrti che, sotto le diverse forme di Īśvara, del Guru, dell’Ātman solo apparentemente separate, sta onnipervadente, come la Coscienza simile allo spazio (cidākāśa). (Mānasollāsa I.301)
Nel complesso, lo status di jīvanmukta non dovrebbe mai essere un segno di vanto per l’eccelsa realizzazione. Il rispetto che un discepolo nutre per il suo Guru non dovrebbe mai basarsi sull’orgoglio di essere sotto la tutela di un maestro jīvanmukta. Dovrebbe solo rendere il discepolo umile e non pieno di orgoglio.
Discussione:
I Questione: Esattamente chi o cosa può essere denominato jīvanmukta?
Nel mio commento, come vedete, ho parlato solo di mukti. Non ho spinto la mia interpretazione fino a trattare del mukta. In effetti, ho usato la parola mukta solo una volta (al punto 1.3) per dire che “non c’è uno status speciale per il jīvanmukta”. Ho, invece, usato la parola mukti undici volte. Pertanto, il mio commento riguardava solo la mukti, non il mukta. A mia conoscenza, dal punto di vista in cui l’insegnamento e la cerca spirituale sono validi, mokṣa è puruṣārtha e jñāna è il mezzo per mokṣa, in quanto il jñāna stesso è mokṣa. Pertanto, nella mia comprensione c’è jñāna, ma non jñāni. C’è mukti, ma non c’è mukta. È sempre chi guarda dall’esterno che chiede informazioni sul jñāni o sul mukta, proprio come quando Arjuna chiedeva:
Qual è, o Keśava, la descrizione di una persona dalla conoscenza stabile, che è costante nella contemplazione? Come parla, come si siede e si muove chi ha una conoscenza stabile? (BhG II.54)
Concordo che a questa domanda, segua tale insegnamento:
O Pārtha, quando un uomo si libera completamente di tutti i desideri della mente e sta soddisfatto nel solo Sé tramite il Sé, allora si dice che è un uomo dalla conoscenza stabile. (BhG II.55)
Ma qual è l’insegnamento principale o primario dello Śāstra? Cioè, si tratta dello “stato supremo” (paramagati) o di qualcuno che ha raggiunto paramagati? Per come l’ho capito io, l’insegnamento riguarda la paramagati, non il detentore della paramagati. È vero che qua e là ci sono effettivamente insegnamenti sull’“uomo di realizzazione”. Penso che lo scopo di questi insegnamenti sia solo quello di far sì che il cosiddetto cercatore (ovvero colui che si considera tale) intraprenda un sādhana, per aiutarlo a ridurre l’attaccamento alle sue idee sbagliate e, quindi, indirettamente aiutarlo a “conferirgli” mokṣa (notare che “conferirgli” è tra virgolette).
Bhagavatpāda così si esprime:
Infatti, in tutte le scritture che trattano di spiritualità, senza eccezione, qualsiasi caratteristica dell’uomo di realizzazione è presentata come disciplina per il cercatore, perché queste (caratteristiche) sono il risultato di uno sforzo. E quelle che sono le discipline che richiedono uno sforzo, diventano le caratteristiche (per descrivere l’uomo di realizzazione). (BhGŚBh II.55)
Solo questo è lo scopo dell’insegnamento sull’“uomo di realizzazione”. Lo scopo non è quello di promuovere un concetto di jñāni e di mukta come se fosse la persona a detenere questo jñāna; o come se jñāna risiedesse in un corpo specifico e non in altri corpi. In questo modo, considerare jñāna come personale e fare domande sul jñāni è ciò che fa un ignorante; lo Śāstra, invece, da ciò coglie l’occasione per prescrivere il sādhana. A mia conoscenza il brahmajñāna è impersonale. Pertanto, alla domanda “Esattamente chi o cosa può essere denominato jīvanmukta?”, la mia risposta è: “Se è questa la domanda che un osservatore si pone, allora lo Śāstra dà provvisoriamente alcune caratteristiche (lakṣaṇa) come indicative della mukti. Ma anche se dà questi lakṣaṇa, il messaggio finale dello Śāstra è sempre:
Non c’è dissoluzione, né nascita, né schiavitù, né aspirazione alla conoscenza, né cerca della Liberazione, né Liberazione. Questa è la Verità assoluta. (MUGK II.32)
Se si presta attenzione a ciò che viene negato in questo śloka, si scopre che vengono negati tutti i concetti mentali quali: nirodhaḥ, dissoluzione, morte; utpatti, [creazione,] nascita; baddhaḥ, essere limitati; sādhakaḥ, essere cercatori della conoscenza; mumukṣuḥ, essere desiderosi della Liberazione; muktaḥ, essere liberati. Tutte queste parole citate nel versetto sono meri concetti dovuti all’Ātmā-anātmā adhyāsa, dovuti all’identificazione con l’upādhi-aggregato corpo-mente e, pertanto, sono negate.
Il punto significativo da notare nella Kārikā II.32 di Gauḍapāda (che, per inciso, compare anche in quattro Upaniṣad), è che, come ogni altra cosa, anche muktaḥ (colui che è liberato) è un concetto e quindi viene annullato. Tuttavia, solo mukti (Liberazione-Libertà) non viene annullata. Possiamo dedurre da quanto sopra che non esiste alcun muktaḥ, ma solo mukti, che è l’Ātmā stesso, Uno senza un secondo. In altre parole, non c’è jñāni, c’è solo jñāna, che non è altro che l’Ātmā stesso. In breve, la jīvanmukti è impersonale, come anche il brahmajñāna è impersonale.
II Questione: Il corpo-mente è insenziente e perisce; non ha mukti. L’Ātmā individuale (pratyagātman) in realtà è l’Ātman equivalente al Brahman e non ha bisogno di mukti. La combinazione corpo-mente, il pratyagātman, è solo un’illusione e quindi non c’è possibilità per un’entità illusoria di avere mukti.
È proprio così: “non avere mukti” non contraddice il messaggio finale: l’Ātman non è mai in schiavitù, quindi non c’è qui alcun errore dottrinale (siddhānta hāni).
3. Mokṣa immaginario per bandha immaginato
III Questione: Il corpo che in precedenza (teoricamente) ospitava un cercatore…
(Interruzione) Per piacere, caro Signore, il corpo non ospita realmente la Coscienza! E nemmeno la cosiddetta coscienza limitata. Al contrario è la Coscienza che fa apparire il corpo come un qualsiasi altro oggetto; e questo è facilmente comprensibile, con un po’ di osservazione attenta e senza pregiudizi, perfino dalla cosiddetta coscienza limitata.
III Questione (continuazione): … che ora è liberato, quel corpo è solo una parte del mondo che esiste solo come apparenza nella percezione degli “ignoranti”. Quel corpo è ora, dunque, “senza nessuno” che ne rivendichi la proprietà?
Supponiamo che sia così. Chiedo agli ignoranti: “Qual è il problema se non c’è chi rivendica la proprietà di un corpo?”. Ebbene, lo Śāstra non dice forse che considerarsi proprietari del corpo (nel senso di “io sono questo” e “questo è mio”) è ignoranza? Inoltre, non è che gli ignoranti si preoccupano del fatto che “non c’è chi ne rivendica la proprietà” perché sono preoccupati di chi e come può mantenersi un corpo, se non c’è chi ne rivendica la proprietà? Non c’è bisogno di preoccuparsene, perché la Bhagavad Gītā dice:
Tutte le attività sono svolte dai tre guṇa della Prakṛti. Ma nell’ignoranza, il “sé”, illuso dalla falsa identificazione con il corpo, pensa di essere l’agente. (BhG III.27)
Pertanto, ricordando l’affermazione del Gītācārya, vorrei chiedere agli ignoranti di indagare innanzitutto sulla validità della loro stessa affermazione di essere il “proprietario del corpo”. Se la loro affermazione non è corretta, perché preoccuparsi del modus operandi del corpo di un cosiddetto mukta?
IV Questione: Il pratyagātman, ora diventato libero dalla sua stessa immaginazione di essere limitato, è impercettibile ai sensi e alla mente; pertanto, nessuno può vederlo e chiamarlo mukta…
(Interruzione) Anzitutto, voi pensate che pratyagātman sia limitato; ma questo è un concetto sbagliato, perché pratyagātman, essendo Brahman, non è mai stato veramente legato. Allora, che dire del vostro “ora diventato libero”, come se fosse un evento nel tempo? Anche questa è solo un’idea sbagliata.
IV Questione (continuazione): … non esiste quindi un’entità che possa essere definita “jīvanmukta”.
È proprio così, Signor mio! Come ho detto prima, non ci preoccupiamo affatto di localizzare un mukta. Ci interessa solo la mukti, ma non il mukta e la sua ubicazione.
V Questione: Ciò equivale a dire che, dopo che il cercatore ha fatto śravaṇa, manana e nididhyāsana come richiesto, la molteplicità (kṣetra) continua a svolgere le sue attività come al solito, con un cambiamento solo fittizio nella mente di chi era cercatore. La jīvanmukti viene quindi banalizzata a mero esercizio concettuale.
Questa ricerca dell’utilità è ciò che fa ignorante un uomo. Per questo motivo, a un uomo così ignorante, lo Śāstra indica alcuni lakṣaṇa di un realizzato per insegnare il sādhana. La mancanza di sādhana e, quindi, di purificazione mentale (cittaśuddhi), è ciò che ha spinto l’ignorante a cercare utilità del mokṣa. Se l’adhikāritvam (qualificazione, idoneità) è sufficientemente matura, la preoccupazione per cercare di valutare dal di fuori l’utilità della jīvanmukti viene a cadere ed emerge la conoscenza che Ātmā è completo (pūrṇam). D’altra parte, se c’è una ricerca di valutazione e quindi la preoccupazione che la mukti venga banalizzata, l’osservatore-cercatore dovrebbe smettere di preoccuparsi della mukti e concentrarsi sul sādhana prescritto: questo dimostra che l’uomo ignorante è privo di purificazione mentale (cittaśuddhi) per cui cerca qualcosa d’utile nella mukti. Inoltre, dimostra anche che considera mokṣa un evento nel tempo, il che è altrettanto sbagliato. Non credo ci sia un modo migliore di affrontare la questione perché, quando l’insegnamento ci esorta a riconoscere l’Ātmā in quanto pūrṇa, che cos’è questa inutile preoccupazione di banalizzare la mukti?
VI Questione: Mentre alcuni cercatori possono essere guidati dall’insaziabile desiderio di “conoscere” qual è l’Assoluto, Realtà veramente reale nel mezzo del mondo (jagat) in continua evoluzione, la maggior parte dei cercatori cerca una soluzione vedāntica per i loro problemi e sofferenze legati al corpo-mente. Hanno sperimentato tutto ciò che era disponibile a livello di corpo-mente-mondo e non sono riusciti a ottenere una soluzione duratura per la felicità nel mondo tempo-spazio-fenomenico. Se la molteplicità dovesse continuare dopo la Liberazione, il cercatore ora liberato, sarà ancora gravato da un corpo e dovrà continuare ad affrontare la sua sofferenza, il bisogno di cibo ecc. e tutto il guazzabuglio che ne consegue. Usando la negazione come strumento per dire: “Io non sono questo corpo né questa mente”, l’Advaita non diventerà un semplice “meccanismo di difesa”?
No, non c’è continuazione della molteplicità in quello status e lo diciamo sulla base dell’Upaniṣad pramāṇa! Lascia che il cercatore si aggrappi alla śraddhā per ciò che la śruti insegna e che indaghi correttamente sulla realtà del molteplice e delle afflizioni a esso associate, seguendo il giusto metodo (prakriyā) dell’avasthātraya vicāra. Diventerà chiaro che sia la molteplicità sia le sue afflizioni non sono reali poiché nessuna delle due è presente nel sonno profondo, mentre si rimane distaccati nella propria vera natura per sempre (āsaṅgaḥ). Quindi la conclusione è la seguente: poiché lo stato di limitazione (bandhana) è immaginario, anche la Liberazione da esso è immaginaria. Ecco perché adhyāsa e i mezzi per rimuovere adhyāsa, sono tutti solo all’interno di adhyāsa, mentre Ātman-Brahman rimane sempre libero!
Anche se devo la mia fedeltà alla Verità stessa e non a un Maestro in particolare, ai lettori che potrebbero voler saperne di più sul mio collegamento, colgo l’occasione per dire: “Sono grato a un certo numero d’insegnanti di Vedānta che mi è capitato di incontrare, come Śrī Svāmī Tattvavidānanda Sarasvatījī dell’Ārṣa Vidyā Gurukulam da un lato e Brahmaśrī Yellamrāju Śrīnivāsa Rāojī dall’altro. Mi inchino con tutto il mio essere ai santi piedi di Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī, di Holenarasipura, che attraverso i suoi libri ha corretto le mie incomprensioni e mi ha indicato il giusto metodo del Vedānta, che risplende in tutta la sua unicità nel Prasthānatraya Bhāṣya di Śrī Śaṃkara Bhagavatpāda.
P.N.
Oṃ Tat Sat
- Il Mānasollāsa è un commento (vārttika) di Śrī Sūreśvarācārya all’inno Dakṣiṇāmūrti Stotra di Śaṃkara. Il numero totale di śloka sui dieci versi dell’originale è di 367 [N.d.C.].[↩]