Gian Giuseppe Filippi
La concezione imperiale nell’India tradizionale
Alcuni storici dell’India sostengono che esiste una forte anomalia nello sviluppo primigenio di questa civiltà. Da circa la metà del secondo millennio dell’evo antico, in quello snodo cronologico di passaggio tra l’età del bronzo e quella del ferro, presso tutte le popolazioni storicamente attestate lo stato s’identificò con la figura del Re, grande conquistatore, eroe culturale e figura divina. Dalla Cina a Creta, dall’Egitto all’Assiria, tanto per citare esempi ben noti, monarchie personali si tradussero in regimi dinastici consolidati nel tempo. In India, invece, l’istituzione del Re divino non si sarebbe mai realizzata in ragione della presenza di una casta sacerdotale stabilmente dominante, tale da oscurare il sovrano, Rājan e l’intera casta nobiliare dei guerrieri, rājanya1, considerati individualmente come Re virtuali2. Secondo quest’opinione, ciò costituirebbe un’eccezione nello sviluppo storico delle istituzioni statali, tale da penalizzare lo svolgimento successivo degli eventi indiani, condannando un Subcontinente altamente civilizzato a un continuo fallimento nell’affermazione delle sue strutture politiche e a una debolezza patologica nei confronti dei popoli confinanti3. Questa dell’anomalia indiana è teoria d’indubbia suggestione e fonda i suoi postulati su alcune evidenze obiettive. Il limite della teoria consiste, tuttavia, nell’appoggiarsi su alcune osservazioni ignorandone altre; o, meglio, nel selezionare tra diversi dati storici quelli metodologicamente più controllabili e atti a confermare l’ipotesi iniziale –già promossa a teoria; ciò s’opera semplicemente ignorando evidenze altrettanto obiettive, ma in contraddizione con l’impostazione ideologica dello storico. Per esempio, gli storici dell’India spesso sono forniti di nozioni archeologiche, più facili da acquisire, mentre lo stesso non si può dire riguardo alla loro formazione filologica. Tendenzialmente lo storico si troverà maggiormente a suo agio nell’interpretare i dati provenienti dagli scavi, essendo l’archeologia una scienza introduttiva alla storia, piuttosto che a dipendere controvoglia dalle traduzioni delle fonti letterarie pubblicate da indologi ed esperti di lingue dell’India antica altre dal sanscrito, il cui interesse filologico spesso prescinde da una impostazione storica4. Purtroppo l’archeologia dell’India del periodo da noi indicato rimane una fonte d’informazione poco trasparente, a causa di fattori ambientali devastanti (sommovimenti tellurici, variazioni repentine dei corsi fluviali, bradisismi di grande portata) e climatici particolarmente erosivi (monsoni, esondazioni, muffe, insetti). A questa scarsità d’informazione s’aggiunga il particolare che in India l’antichissima pratica della cremazione sottrae agli archeologi le loro principali fonti d’indagine, vale a dire le inumazioni. Se a questo quadro sconfortante si aggiunge la particolare litigiosità dilagante tra gli archeologi che si occupano d’India, apparirà evidente come l’indagine letteraria rimanga privilegiata. Non che su questo versante tutto risulti cristallino ed esente da controversie; ma, per lo meno, la copia di informazioni di una delle letterature più ricche del pianeta a partire dal Ṛg Veda in poi, garantisce un campo di ricerca ricco e ben fondato.
Anzitutto si deve dare atto che i sostenitori della teoria dell’anomalia indiana partono da un dato certo: il sistema castale assegna inequivocabilmente la supremazia sociale ai sacerdoti, i brāhmaṇa, riconoscendo ai Re e all’aristocrazia guerriera solamente un ruolo di secondo piano5. Ciò appare evidente fin dagli inni ritenuti più antichi fra le saṃhitā del Ṛg Veda6. Se vi furono degli episodi di rivolta di aristócrati (kṣatriya)7 contro la casta sacerdotale in un’antichità insondabile, essi furono privi di risultato, come appare evidente dal mito di Paraśurāma8. Secondo questo mito, gli kṣatriya si sarebbero presi delle libertà nei confronti della casta brahmanica, per cui furono puniti dal dio Viṣṇu9. Egli, sceso sulla terra sotto le spoglie di un bellicoso sacerdote, Rāma con l’ascia, mise in atto un vero sterminio di kṣatriya, per la qual cosa ancor oggi si sostiene che l’esiguo numero di appartenenti alla seconda casta va fatto risalire a quel mitico evento10.
Avendo stabilito quanto precede, ovvero la singolarità del caso indiano per cui anche il Re deve essere considerato incomparabilmente inferiore al sacerdote, si procederà dimostrando che anche l’India antica conobbe e riconobbe la funzione civilizzatrice dei Sovrani. Anche in questo caso, però, sono necessarie alcune precisazioni. Dai testi appare evidente che la figura del Re con caratteristiche divine appartiene a un’antichità insondabile. Il Re, sovrano di tutta la terra, è per eccellenza Manu, il primo uomo, che stabilì le regole11 per l’esistenza degli esseri di questo mondo. Il termine Rājan, negli altri casi, è attribuito a divinità che svolgono la funzione di reggitori, quali Varuṇa, Agni, Soma e, per eccellenza, Indra, Re degli Déi. Si deve intendere che il regno (rājya) di Manu rappresenta davvero l’età dell’oro della mitologia indiana12; dopo di che, con il succedersi di un’altra era, l’equilibrio e la perfezione delle origini vennero a oscurarsi. Lo stesso Regno unico dei primordi rimase suddiviso tra diversi Re13, frequentemente in lotta tra loro, e il vero Regnum (Sāṃrājya), la sovranità su tutta la terra, rimase come il ricordo di un Eden perduto. Tuttavia si concepì che, sebbene in un’epoca decaduta14, alcuni rājan d’eccezionale personalità, inclini alla verità e alla virtù, potessero restaurare il Regno primordiale, assoggettando tutta la terra alla pace e alla giustizia15. Un monarca di un singolo regno, dunque, poteva ripristinare l’ordine primigenio perseguendo gli ideali di santità e di conquista, diventando così Imperatore (Samrāj). Come si può notare, l’ideale imperiale, a differenza di quello regale, è basato sul principio della restaurazione. In questo modo il Regno, andato in frantumi come un vaso di ceramica, poteva essere riunificato nell’Impero16. Non a caso Imperatore suona in sanscrito sam-rāj, colui che riunisce i regni, e impero sām-rājya, integrazione di regni. Ben presto però il termine Samrāj fu usato come sinonimo dei più popolari titoli di Sārvabhauma, Signore dell’intero mondo, Ādhipati, supremo signore, Adhirāja rajñām, Re dei re, e di Cakravartin, colui che fa girare la ruota del mondo, Signore di tutto ciò che si estende fino all’oceano esterno, āsamudrakṣitīśa17.
Per meglio capire quali sono rispettivamente le funzioni caratteristiche di un singolo Re e quelle di un Imperatore universale, sarà necessario aggiungere alcune note sui fini della vita com’erano concepiti dagli antichi indiani. Nell’India classica si enumerarono quattro ideali, caturvarga, e precisamente: kāma, artha, dharma e mokṣa. Kāma comprende la sfera del desiderio e della sua soddisfazione. Si tratta del dominio sottoposto all’esperienza del mondo attraverso i cinque sensi, e al piacere che se ne deve trarre con l’uso delle cinque facoltà d’azione18, evitandone le implicazioni sgradevoli. La concezione di massima prevede che l’essere umano sia provvisto dei mezzi per trarre piacere dal mondo che lo circonda, per cui egli ha una naturale inclinazione a ricercare il godimento e a evitare la sofferenza. Questo ideale presuppone la capacità di scelta e di rifiuto che accomuna la casta dei nobili kṣatriya e a quella dei viś, i possidenti.
Artha, invece, è la sfera del potere, inteso come gestione della cosa pubblica, della giustizia e della difesa. È cosa propria ai rājanya e, in particolare, al Re. Dharma è il dominio della Legge universale, che dà regola al mondo e ordina e armonizza le gerarchie degli esseri. Dharma s’imparenta per mezzo della radice √dṛ–dhru al termine dhruva, l’immobile, che definisce la stella polare, unico punto fisso dell’universo mondo. Da quest’ultima affermazione si può ben comprendere che il dharma è l’ideale del Cakravartin.19 Ora, poiché l’ordine cosmico, ṛtam, non è conservato dalla volontà degli individui, ma dai rituali solenni che sono in grado di contrastare la decadenza ciclica, si comprenderà che questo dominio sarà comune all’Imperatore e ai brahmani20, a esclusione dei semplici rājanya21. Quest’affermazione è d’importanza centrale per l’argomento trattato; da quanto appena affermato si trae, dunque, che, a differenza del Re, che agisce in base a ragioni di opportunità politica, l’Imperatore svolge una funzione carismatica nel dominio del rituale22. In definitiva, dharma è il principio di stabilità che regge l’universo rotante, senza tuttavia rimanere coinvolto da questo divenire, imponendo l’ordine tṛam e contrastando il disordine, anṛtam23.
Sarà ora opportuno stabilire in che modo un semplice guerriero, rājanya o kṣatriya che dir si voglia, ottenga di essere proclamato Re, Rājan, per poi determinare le sottili differenze per l’ottenimento della dignità imperiale. Come sempre, nella civiltà hindū tutto dipende dalla funzione sacerdotale, che s’esprime in forma rigorosamente rituale. Comunque sia, l’elevazione di un rājanya al trono, fin dall’ epoca più antica, dipende da regole dinastiche, per cui è eccezionale che sia proclamato Rājā chi non sia figlio di Re. Queste regole prevedono rigorosamente quella legge che in Occidente è detta salica, sebbene l’India non tenga in altrettanta importanza la successione per primogenitura. L’erede al trono24, sotto la guida del purohita, il brahmano prescelto per essere il cappellano di corte, doveva sottoporsi al rito di consacrazione regale (rājasūya), che poteva avere una durata di oltre due anni, e che comprendeva molteplici oblazioni di soma25, tra cui il più importante era il pavitra26, e diversi sacrifici animali. A conclusione del primo anno dedicato ai sacrifici, il purohita impartiva al kumāra l’iniziazione regia (dhīkṣā27), che si svolgeva ritualmente simulando la morte e rinascita del principe, a cui seguiva un altro anno dedicato al rito di abhiṣeka, lustrazione o purificazione del Re. L’abhiṣeka si realizzava con abluzioni, alternate alla vestizione di dieci sottovesti e vesti, che rappresentavano la crescita dell’embrione durante i dieci mesi lunari della gestazione. Alla fine, la collocazione sul capo del principe di un ricco turbante, uṣṇīsa, rappresentava una vera e propria incoronazione, a cui seguiva un rituale che simulava un matrimonio tra il brahmano e il Re, in cui al sacerdote spettava la funzione maschile: “Io sono quello, tu sei questa, io sono il Cielo, tu la Terra”28. Il tutto si concludeva con il conferimento dello scettro (vajra29), alla recitazione d’una vera e propria formula di accipe sceptrum: “Noi sacerdoti t’abbiamo messo in mano la folgore!”30
Come s’è detto innanzi, tutto ciò riguarda l’incoronazione del Re. I testi sacri affermano infatti: “Compiendo il rājasūya si diventa un Re (Rājan); ma compiendo il rito vājapeya si diventa Imperatore, Samrāj: la dignità regale deve essere ottenuta per prima e poi quella imperiale.”31
Anche nel caso della consacrazione imperiale, le scelte sono da attribuire ai sacerdoti, per cui lo svolgimento è strettamente rituale. Il purohita di un Rājan, dopo aver verificato le alte virtù del sovrano e consultati i brahmani del regno, indìce il rito detto libagione per la corsa dei carri (vājapeya). Anche in questo caso il vājapeya appare come l’aggregazione di moltissimi rituali vedici di lunga e complessa preparazione. Il candidato Imperatore dovrà ricevere una nuova iniziazione (dīkṣā) e presenziare al rito sempre in un abito da neonato in sera bianca. Sul far dell’autunno è allestito un ippodromo di pianta ellittica, che ha due pali (yūpa) ai due fuochi della figura geometrica di base. Sono allestiti diciassette carri da corsa, dei quali uno sarà condotto dal Re, gli altri dai più prestigiosi guerrieri del regno. Prima della partenza i diciassette aurighi brindano con del vino, surā, con auree coppe, mentre i brahmani libano con il soma. La gara ha inizio nel verso del movimento apparente del sole; il Re sta all’interno e gli altri sedici concorrenti all’esterno del recinto che circonda il percorso. Il vincitore, quindi, non può non essere il Re. Conclusa la gara, il purohita fa innalzare un palo tra i due yūpa già presenti sul terreno di gara, su cui fa fissare in alto una ruota di carro, alla maniera di un albero di Cuccagna delle feste agresti europee. A questo terzo palo è appoggiata una scala, su cui s’arrampica il vincitore tenendo per mano la Regina. Il Re pronuncia dunque la fatidica formula: “Moglie vieni, saliamo in cielo!” a cui la Regina risponde: “Orsù, saliamo!”. Raggiunta la sommità del palo il Re esclama: “Tutti e due stiamo salendo in cielo!” Infine, sporgendo il capo al di sopra della ruota attraverso i raggi, egli dichiara: “Abbiamo raggiunto il cielo, abbiamo visto gli Déi, siamo diventati immortali!”32. A conclusione del rituale il sacerdote principale, menzionando il nome del nuovo Imperatore, per tre volte griderà: “Il ‘tal dei tali’ è ora Samrāj!”
Il vājapeya è dunque un rituale carico di simboli e significati che ci consentono di comprendere meglio la nuova dignità imperiale del Sovrano. Una delle chiavi di lettura per interpretarne il significato principale è l’ossessiva presenza del numero diciassette che si ripete nel corso di ogni fase del vājapeya. Questo numero è la somma del dodici e del cinque: il primo rappresenta il tempo impiegato dal sole per attraversare le dodici case zodiacali nel corso del ciclo annuale. Il secondo, invece, rappresenta l’intera estensione della terra contenuta dai quattro punti cardinali, più il centro. Chi compie il sacrificio vājapeya, dunque, s’impadronisce del dominio compreso tra le coordinate di tempo e spazio. Se il sole, nel suo viaggio lungo il piano dell’eclittica, determina lo scorrere dei mesi, è sempre lo stesso astro, con i suoi due solstizi e i due equinozi, a fissare i punti cardinali. Il Saṃrāj, a conclusione del rito, s’identifica perciò al sole33, stabilendosi nel punto centrale di questa sfera armillare. Signore dello spazio e del tempo, egli potrà, quindi, a buon diritto affermare: “Siamo diventati immortali!”34. La stessa corsa dei carri simboleggia il percorso annuo del sole nella fascia zodiacale (raṣi cakra) lungo il piano dell’eclittica, quest’ultima rappresentata dalla forma dell’ippodromo. I sedici nobili concorrenti personificano i dodici mesi e i quattro punti cardinali, mentre il Re, che corre avvantaggiato all’interno del recinto, s’identifica al centro. Dopo la corsa dei carri, il Sovrano è dotato dei dodici gioielli, di cui la regina è il primo, seguito dal ministro, dal generale, dal suo cavallo, dall’elefante e così via35. Il sole diventa il suo simbolo d’Imperio, e al suo nome è aggiunto il titolo di Siṃha, leone, il Re degli animali.
A questo punto si possono trarre le differenze tra il Samrāj e qualunque altro Re . Quest’ultimo ha ricevuto un’iniziazione che gli permette d’impadronirsi degli strumenti offerti dall’artha, per rendere giusto, pacifico, potente e prospero il proprio regno. Man mano che questo ideale politico viene a realizzarsi, il Re si purifica perseguendo la virtù e l’amore della verità. Il suo regno e i suoi sudditi sono coinvolti in questo processo di perfezionamento, godendo gli effetti positivi di una situazione che si fa sempre più armonica. Un sovrano così virtuoso, la cui virtù è resa palese dalla felicità in cui versa il suo regno, meriterà che la casta sacerdotale gli offra l’elevazione a Imperatore. Si può, però, notare che il Re, diventato Samrāj, è solamente virtualmente a capo d’un Impero. Di fatto egli rimane signore del medesimo territorio di cui era in possesso quando era un semplice Rājā.
Il Samrāj, durante il rito vājapeya, ottiene dal purohita36 una iniziazione superiore, con il fine di realizzare, al di là dell’artha, anche il dharma37. Si tratta dunque di perseguire un ideale più elevato, che si potrebbe descrivere come l’abbandono della sfera semplicemente politica per abbracciare un orizzonte più universale che definiremmo “realizzazione del Potere temporale”. È dunque in seguito al vājapeya che il Sovrano può dedicarsi a una visione cosmica della sua alta funzione. Per usare un linguaggio preso in prestito dallo yoga, il Re che ha ricevuto l’iniziazione per essere Imperatore, percorrendo il nuovo sentiero che gli si apre davanti, deve realizzare progressivamente tutti i poteri (siddhi) e le conoscenze (vidyā) che gli si parano innanzi.
Allorquando l’aspirante Cakravartin ha concluso fino in fondo la sua realizzazione spirituale, irraggiandone abbondantemente gli effetti sul suo regno e sui regni confinanti, i sacerdoti lo preparano per l’ultimo riconoscimento pubblico e storico della sua santità38. Questa volta il purohita lo proporrà per il sacrificio del cavallo (aśvamedha) il più solenne rito vedico accessibile ai guerrieri39.
La durata di tale sacrificio è di un anno intero. Per prima cosa è selezionato uno stallone bianco fornito di alcuni segni fisici che lo indicano come predestinato a questo fine. La maggioranza dei testi richiede che il cavallo porti sulla fronte sei circoli di pelo più scuro, a rappresentare le stelle delle Pleiadi, kṛttikā.40 La spiegazione si trova nel fatto che, all’epoca in cui fu elaborato questo rituale antichissimo41, doveva cadere nel punto vernale in cui il sole sorgeva42, come si ricava chiaramente dal testo che segue:
Oṃ. La testa del cavallo sacrificale è l’aurora, il sole è il suo occhio, l’aria il suo respiro, quel fuoco chiamato vaiśvānara è la sua bocca aperta, l’anno è il suo corpo. Il cielo è la sua groppa, l’atmosfera il suo addome, la terra il suo zoccolo, i punti cardinali i garretti e i suoi fianchi i punti intermedi, le stagioni le sue membra, i mesi lunari e le mezze lunazioni le sue articolazioni, i giorni e le notti le sue zampe, le costellazioni le sue ossa, le nubi la sua carne; il suo cibo digerito è la sabbia, le sue vene i fiumi, il suo fegato e la sua cistifellea sono i monti, erba e alberi il suo pelo. Il sole che sorge è la sua parte frontale, il sole al tramonto è il suo posteriore. Quando sbadiglia, lampeggia, quando sbuffa, tuona, quando orina, piove; il suo nitrito è Vāc.43
Il testo upaniṣadico qui proposto ha anche una grande importanza per comprendere quali dovevano essere gli scopi dell’aśvamedha. La vittima del sacrificio, che, nella dottrina del rituale vedico, s’identifica al sacrificatore, al Samrāj medesimo, assume dimensioni cosmiche, facendo coincidere non più solamente per analogia, ma effettivamente il microcosmo con il Macrocosmo. Nel corso del lungo sacrificio, dunque, il Samrāj subirà un processo di universalizzazione e di totalizzazione che gli permetterà di superare di gran lunga i confini spaziali e temporali del suo dominio, per impadronirsi e identificarsi all’intero perenne universo. Veniamo dunque a un breve sunto di ciò che accade in questo fatidico anno: dopo i riti di lustrazione e unzione regale del cavallo, che ripercorrono quanto già compiuto durante il rājasūya, si avvicina all’area sacrificale un cane con quattro occhi. Si tratta di uno di quei cani che, sopra gli occhi, portano due macchie più chiare come sopraccigli. Quest’animale rappresenta sulla terra uno dei cani infernali sārameya, provvisti di quattro occhi con cui tengono sotto controllo i quattro punti cardinali, per impedire ai morti di fuggire nel mondo dei viventi e ai vivi di violare il regno dei defunti44. Il cavallo è condotto nel mezzo di un torrente e lì il cane è ucciso con un colpo di mazza. La carcassa dell’animale, poi, è fatta galleggiare con la corrente attraverso le zampe del cavallo. Ciò riassume il superamento della morte e il raggiungimento dell’immortalità che il Re ottenne durante il vājapeya. A questo punto l’identificazione dell’Imperatore con la vittima sacrificale è ritualmente compiuta. Il cavallo, scortato da quattrocento guerrieri, sarà spinto per sei mesi verso nord. Tutti i regni che dovessero essere attraversati dal piccolo esercito dovranno riconoscersi spontaneamente vassalli del Cakravartin, o essere obbligati a diventarlo con la forza. Infatti nel corso dell’anno almeno dodici Re che già abbiano compiuto il rājasūya devono accettarlo come loro Imperatore e diventare suoi discepoli45. Allo scadere dei sei mesi, il cavallo è sospinto verso sud e in altri sei mesi si ritroverà nei pressi dell’area sacrificale. Con ogni evidenza il quasi libero girovagare della vittima designata verso nord e verso sud rappresenta il viaggio annuale del sole compreso tra il solstizio del cancro (kūrma) e quello del capricorno (makara)46.
Il Cakravartin sarà allora sottoposto a un’altra sessione iniziatica che lo renderà identico non più agli Déi, come nel vājapeya, ma alla divinità suprema, Prajāpati47;
Egli desiderò: «Possa questo corpo essere sacrificato al mio posto: per suo tramite possa io raggiungere il Sé.»48, poiché ciò lo permeava49, aśvat, allora divenne un cavallo, aśva; e dato che divenne oggetto di sacrificio, medhya, questo sacrificio del cavallo è detto aśvamedha. Chi concepisce così l’idea dell’aśvamedha conosce la verità. Costui decise di lasciarlo libero e, alla fine di un anno, lo sacrificò al suo Sè. Dedicò le altre vittime agli Déi. Per questa ragione queste ultime si dedicano a tutti gli Déi, mentre la vittima consacrata si sacrifica a Prajāpati. [Il sole] che brilla lassù è l’aśvamedha il cui corpo è l’anno. Il fuoco sacrificale di quaggiù è Arka50 e le sue membra sono questi mondi. Così questi due [il fuoco e il sole] sono l’Arka e l’aśvamedha. Questi due diventano un unico dio: la Morte51. Chi conosce ciò vince le molteplici morti, la Morte non lo coglie52, la Morte diventa il suo Sé ed egli s’identifica con questa divinità.53
Seguono dieci giorni d’istruzione iniziatica che l’adhvaryu impartisce all’Imperatore: nel primo giorno, gli è spiegato che egli è Manu tra gli uomini; nel secondo, che tra gli antenati è Yama; nel terzo, che egli è Varuṇa tra i gandharva54; nel quarto, che è Soma tra le apsaras55; nel quinto, che è Arbuda Kādraveya tra i serpenti56; nel sesto, che è Kubera tra i rākṣasa57; nel settimo, che egli è Asita Dhānvana tra gli asura58; nell’ottavo, che è Matsya Sāmada tra i pesci; nel nono, che è Tārkṣya59 tra gli uccelli; infine, il decimo giorno, gli si comunica che egli è Indra tra gli Déi60. L’impero del Samrāj si estende dunque ben al di là della terra, per comprendere tutti i mondi dell’intero universo.
Dopo di ciò si potrà procedere con gli ultimi riti dell’aśvamedha. Nell’area sacrificale sono eretti trentaquattro pali (yūpa), a cui saranno in seguito legati gli altri animali. In totale il numero di vittime sacrificali supera il migliaio, tutti rappresentanti di specie diverse appartenenti ai tre regni, degli uccelli, degli animali di superficie e dei rettili sotterranei. In realtà gli animali selvatici (mṛga), colpiti alla nuca da un bastoncello, sono poi lasciati liberi di ritornare alla natura, mentre solamente trentaquattro animali domestici (paśu) saranno uccisi. Anche il cavallo, unto e accarezzato dalle quattro mogli del Sovrano, ricoperto dalla veste brahmanica tārpya, color della porpora e tempestata di stelle, è condotto e legato allo yūpa principale. Quindi è strangolato con un lembo dello stesso abito61. Il cavallo muore, dunque, avvolto dal cielo stellato e assicurato con una cavezza all’axis mundi. Lo spirito del cavallo, presa la forma d’un grande uccello, un’aquila, o di un Pegaso, vola quindi in cielo seguendo l’asse del mondo rappresentata dallo yūpa62. Il volo celeste dello spirito del cavallo, ovvero dello stesso Cakravartin, abbandonando la cintura zodiacale, lo conduce a una situazione polare. Qui l’Imperatore finalmente si trova nel mozzo vuoto e immobile della ruota, intorno a cui vortica la sfera del divenire. Per questa ragione i gioielli che rappresentano il potere imperiale non sono più dodici come i segni zodiacali, ma sette, come le stelle dell’Orsa. Questi gioielli sono: il cakra, la ruota, arma da lancio di forma circolare, dal bordo affilato63; la Regina (Mahīṣī), simbolo del potere terreno; il parasole, chattra, che rappresenta l’emisfero boreale celeste; l’aquila Garuḍa, Re degli esseri volanti e cavalcatura di Viṣṇu; l’elefante (gaja), che rappresenta la fissità della terra; la spada, khadga, segno di giustizia e di potere; la pietra preziosa (maṇi), che rappresenta l’abbondanza e la ricchezza garantita a tutto l’Impero64.
La morte del cavallo-Imperatore, rappresenta il superamento di ogni condizionamento cosmico e l’identificazione reale con la vita eterna. La prima Regina65, quindi, è condotta sotto al tārpya, a giacere con il cadavere del cavallo per mimare con lui un rapporto sessuale. Dato che il povero cavallo non è in grado di reagire, la situazione è caricata d’erotismo per mezzo di un dialogo osceno che intercorre tra la Mahīṣī e l’adhvaryu. Anche le altre tre Regine intervengono, aggiungendo a voce particolari osceni, in modo da sostituire una sessualità impossibile con un ambiente psicologicamente saturo di orgasmo. Lo scopo è ottenere la discesa del seme dello stallone celeste per fecondare di grazie spirituali la Regina, ossia l’Impero stesso, l’intero cosmo. Infine il sacrificio del cavallo si conclude con la cottura della carne e la sua divisione tra il popolo presente.
Non pochi Cakravarti decisero di abdicare per potersi infine dedicare esclusivamente alla contemplazione, scegliendo la vita anacoretica che fece di loro dei rājāṛṣi. Morissero da asceti, o finissero la loro vita ancora da sovrani, i Cakravarti erano cremati e per loro era costruito un monumento funebre particolare, lo stūpa, a base quadra come la terra e con la copertura emisferica come il cielo66. Con l’andare dei secoli molti di questi monumenti, disseminati nelle pianure dell’India, furono considerati dagli abitanti la dimora di un antenato totemico o di un genius loci. Il Buddha, quando si trovava morente nei pressi di Kuśinagara, scelse come sua sepoltura lo stūpa, come s’usava per “gli antichi Cakravarti.” Ben presto lo stūpa divenne il monumento principale del Buddhismo, e molti degli antichi reliquiari dei Cakravarti furono restaurati e abbelliti, e considerati edifici religiosi della nuova religione67.
Come si può evincere da quanto sopra esposto, la concezione indiana d’Impero è prevalentemente spirituale: l’Imperatore stesso, innalzandosi dallo stato di semplice Re, assume carismi che riguardano la santità e la virtù, piuttosto che il potere terreno. Si può dire che, come il brahmano per sua natura è indotto a superare il suo stato sociale68, per assumere l’abito del rinunciante, dell’anacoreta e dell’asceta, così il Rājan ambisce a diventare un Samrāj. Per questa ragione non è necessario che l’Imperatore conquisti effettivamente in modo capillare l’intero globo terracqueo, come fu tentato da Alessandro o da Gingis Khan69. L’importante è il riconoscimento unanime della dignità di Cakravartin da parte dei brahmani dell’India, e la sottomissione formale di almeno dodici Re vassalli. L’estrema decadenza dell’umanità, l’ignoranza e la matta bestialità che ne conseguono, spiegano perché barbari (mleccha) e selvaggi (vanyajāti) non abbiano la capacità intellettuale e la purezza spirituale per riconoscere un Signore universale. Il non riconoscimento da parte loro, dunque, non inficia in nulla la realtà del sāmrājya. Con grande senso pratico, i commentari tradizionali dei testi sacri s’impegnarono a definire le dimensioni del dominio territoriale dell’Impero, cakravartikṣetra: all’inizio si sostenne che questo territorio doveva estendersi all’intero Jambudvīpa, che anticamente rappresentava la totalità delle attuali terre emerse.70 Presto però Jambudvīpa divenne sinonimo di Bhāratavarṣa, ossia l’India compresa tra l’Himālaya e l’oceano, ad esclusione, perciò dell’India esterna71. Durante il regno di Gautamīputra Śātakarṇi della dinastia Śātavāhana (106-130 d. C.) il cakravartikṣetra si era ulteriormente ridotto a un’area che poteva comprendere o l’India settentrionale dall’Himālaya ai Vindhya, o il solo Deccan72. Come sopra si è accennato, l’indiscussa santità e saggezza di un Sovrano, divulgate ovunque e sostenute dalla casta sacerdotale, inducevano facilmente i Re pii a riconoscerne la superiorità morale e ad accettarlo come proprio Imperatore; ciò era facilitato dalla modestia del tributo di vassallaggio che, in certi casi, poteva ridursi a un gesto simbolico, come, per esempio, la consegna d’una vacca all’anno. Alcune volte però il fascino di un Imperatore saggio, eccellente nella dottrina, nella letteratura e nella musica, abile nell’arte di governo e della guerra, e fautore di una rinascita del benessere e dell’arte, come fu il caso di Samudragupta della dinastia Gupta (335-380 d. C.), riuscì a indurre varie decine di rājā a implorare di diventare suoi vassalli, costituendo così un colossale Impero che copriva gran parte del Subcontinente e notevoli aree nel sudest asiatico. Si tratta di un caso unico, ma pur sempre la prova della possibile realizzazione storica dell’Impero ideale indiano.
Per quello che riguarda i nomi dei Samrāj antichi, di cui si hanno informazioni esclusivamente da fonti mitiche ed epiche, essi sono: Marutta Āvīkṣita, Śotra, Ātithina, Bṛhadratha Vīra, Sivi Auśīnara, Bharata Dauṣyanti, Rāmacandra Dāśarathi, Bhagīratha, Dilī Ailavila Khaṭvā, Māndhātṛ Yauvanāśva, Yayāti Nāhuṣa, Ambarīsa Nābhāgi, Śaśabiṇḍu Caitraratha, Gaya Āmūrtarayasa, Rantideva Sāṅkṛti, Sagara Aikṣvāku, Pṛthy Vainya73. Fra tutti costoro il più celebrato è certamente Rāmacandra figlio di Daśaratha, poiché, prima ancora di essere un Cakravartin, per tutti gli hindū egli è il settimo avatāra, la settima discesa, di Viṣṇu sulla terra, e il protagonista del poema epico Rāmāyaṇa.74 Circa a metà del tretāyuga, alla fine della lunga spedizione per liberare sua moglie Sītā, rapita da Rāvaṇa, Re dei rākṣasa, Rāma ritornò sul trono del padre ad Ayodhyā per poi fondare un Impero universale che si estese su tutta la terra abitata. La pace e la giustizia regnarono come mai, al punto che il nostro mondo non poté conoscere né prima né dopo di allora, una simile armonia. Durante la vita di Rāma gli Déi ripresero a frequentare la terra e avere rapporti d’amicizia con il genere umano. Anche gli animali godettero di questo clima edenico, e i carnivori divennero vegetariani, di modo che il leone e l’antilope fraternizzarono. Gli alberi e le piante tutte, spontaneamente producevano il cibo necessario per nutrire tutti gli esseri. Persino in demoni frequentavano i santi brahmani dell’India per imparare le virtù e la saggezza. Il mito di perfezione del rāmarājya fu tale da oscurare persino l’età felice dell’inizio del mondo, quando regnava Manu, e divenne ideale e punto di riferimento per tutti i Cakravarti storici.
Uscendo nel mito per approdare alla storia, il più antico Samrāj ricordato nei documenti fu il già citato Puṣyamitra della dinastia Śunga, che fu proclamato tale nel 187 a. C. Documentato è anche l’Impero universale di Senānī Kāśyapadvija (I sec. a. C.), e quello di Khāravela, Re del Kalinga (I sec. a. C.- I sec. d. C.), che pone un problema storico, dato che questo monarca era jaina di religione, perciò, almeno teoricamente, contrario ai sacrifici di animali.
Altri Cakravarti che compirono l’aśvamedha furono: Bhavanāga della dinastia Bhāraśiva (200 a. C. circa), e suo figlio Pravarasena I, fondatore della dinastia Vākāṭaka (250 a. C. circa). Dopo di loro divenne Samrāj il grande imperatore Samudragupta della dinastia Gupta (335-380 d. C.), di cui abbiamo già magnificato le doti, e l’ultimo grande sovrano della stessa dinastia, Skandagupta (450-467 d. C.). Caduto il grande impero Gupta, fu il Re Pallava Simhavarman che celebrò l’aśvamedha a metà del VI sec. d. C., seguìto dal rivale Pulakeśin I della dinastia Cālukya (570 d. C. circa); all’inizio del VII secolo fu proclamato Cakravartin Adityasena, discendente dai Gupta imperiali, e trent’anni dopo Svaskondavarman Pallava: alla fine dello stesso secolo, Pulakeśin II Cālukya eseguì un aśvamedha, come, a metà dell’VIII sec. d. C., il re Viṣṇukuṇḍin Mādhavavarmā della dinastia Vākāṭaka. Si trova un altro riferimento storico circa un aśvamedha compiuto da Anantavarman Chodagangā Deva (1077–1147), Re del Kaliṅga, il fondatore del tempio di Jagannātha a Puri. Gli ultimi grandi Cakravartin furono Kṛṣṇadeva Raya (1509-1529) e Rāma Raya, sovrani di Vijayanagar, sebbene su quest’ultimo ci sia il sospetto d’essere un usurpatore. Ci sono notizie di altri Re che, fuori dall’India, celebrarono l’aśvamedha durante il tredicesimo secolo: si tratta di sovrani giavanesi, cambogiani e thailandesi, che però rimasero sconosciuti all’ambiente brahmanico del Subcontinente75. I sovrani di Vijaranagar furono gli ultimi Cakravarti storici; dopo di loro non fu più sacrificato il cavallo. Vi fu un unico timido tentativo, quando nel 1674 si radunarono circa centomila brahmani nei pressi di Pune, per proclamare samrāj il grande generale Śivājī. Non si sa per quale ragione, dopo qualche titubanza, Śivājī rifiutò il titolo imperiale; forse fu la ripugnanza per i sacrifici cruenti, che si era imposta nel corso dei secoli; forse qualche dubbio sollevato sull’ascendenza kṣatriya del condottiero; forse un senso d’indegnità da parte sua. Sta di fatto che l’aśvamedha non fu eseguito. Fu invece allestito un rito vājapeya abbreviato, che conferì a Śivājī il titolo, invero molto significativo, di chattrapati, Signore del parasole76.
Anche se non portato a termine per mezzo degli indispensabili riti sacrificali di vājapeya e di aśvamedha, la dignità di Cakravartin mantenne un prestigio ineguagliabile in India. I buddhisti, tenaci avversatori dei sacrifici di animali, tuttavia utilizzarono abusivamente questo titolo per celebrare la grandezza dei grandi monarchi appartenenti alla loro comunità. Così Aśoka, il grande sovrano della dinastia Maurya (304-232 a. C.), convertito al Buddhismo, è ricordato correntemente come un Cakravartin. Ugualmente si menzionano dodici Cakravarti jainisti; tuttavia il rifiuto del sacrificio del cavallo a motivo della non violenza (ahiṃsā) rende vana la loro prstesa di sovranità universale77. Non solamente in India il fascino del Cakravartin ha profondamente influenzato i buddhisti: in Cina essi attribuirono questo titolo anche agli Imperatori della dinastia Tang, protettori del Buddhismo.
In India, dopo che l’Impero Mughal si era radicato soprattutto nelle pianure dei grandi fiumi settentrionali, i Sovrani musulmani elaborarono una vera e propria dottrina mistica relativa al loro dominio, per larghi versi simile a quella del sāmrājya. Il carisma imperiale era ancora così vivo tra i prìncipi rājapūta del XVI, XVII e XVIII secolo che essi attribuirono all’Imperatore musulmano di Delhi e Agra il titolo di Dharmarājā;78 in questo modo lo riconobbero come loro Imperatore legittimo. Certo, considerazioni di questo genere dovettero consigliare il governo britannico ad attribuire il titolo di Imperatrice delle Indie alla regina Vittoria, quando, dopo aver soffocato nel sangue il Mutiny del 1857-58, sollevarono dal trono l’ultimo Gran Mughal. La manovra politica dei britannici non ottenne tutto il successo che si poteva aspettare; tuttavia, dopo qualche anno di indecisione, i prìncipi sovrani dell’India, fossero nawab e amir musulmani, o fossero rājā e mahārājā hindū, ossequienti al mito imperiale, strinsero dei legami di fedeltà con la corona britannica, che li portò a diventare il nerbo delle armate britanniche durante i due conflitti mondiali. Diversamente si comportarono le emergenti classi borghesi dell’India, che s’esprimevano per mezzo del Partito del Congresso. Pur essendo un partito ampiamente controllato dai britannici, molti suoi aderenti di grande prestigio manifestavano la loro intolleranza nei confronti del colonialismo inglese. Tra essi Bal Gangadhar Tilak (1856-1920), noto come Lokamanya, gloria del mondo, che all’inizio del XX secolo proclamò, quale discendente da una famiglia di brahmani citpāvan, di essere in grado di ungere un cakravartin. Egli vedeva il riscatto dell’India possibile solamente ritornando all’ideale del Rāmarājya e alla figura di un Cakravartin che potesse cacciare gli inglesi dal suolo dell’India.79 Tilak predicava perciò lo svārājya nel senso di Impero autocratico, a differenza dei suoi compagni di partito, che davano a questo termine il senso di indipendenza.
Tilak fu facilmente neutralizzato dal raj britannico con una lunga incarcerazione. Nel frattempo nel Congresso prevaleva la frangia moderata della cosiddetta “opposizione lealista (sic!)” agli inglesi di Gokhale e Annie Besant, che avrebbe aperto la strada a Gandhi. Quest’ultimo statista non fu del tutto insensibile al mito del Cakravartin. A lui si deve la scelta dei simboli della nuova India indipendente: la ruota del Cakravartin al centro della bandiera e il capitello con i quattro leoni di Saranath, simbolo del Sovrano universale. Con questi emblemi, certamente s’intendeva dare un messaggio, più alla popolazione dell’India che non al resto del mondo, per sottolineare un ideale senso di continuità con il passato. Forse si deve alla sua scarsa conoscenza della religione tradizionale il fatto per cui furono scelti simboli non appartenenti all’Induismo, bensì al Buddhismo: il cakra della bandiera, invece di rappresentare l’arma del Samrāj80 è la ruota buddhista del dharmacakra, tratto dallo stūpa buddhista n. 1 di Sanchi; e il capitello di Saranath è uno dei pochi del genere sicuramente attribuibile all’imperatore buddhista Aśoka81. Un altro segno di un certo interesse per la sovranità universale fu lanciato da Gandhi in occasione dell’abrogazione del Califfato da parte di Kemal Atatürk; egli sostenne con energia le agitazioni organizzate in India dal movimento islamico di protesta intitolato alla Khilafat. D’altra parte però Gandhi contribuì in modo definitivo all’alterazione del senso dei termini politici sanscriti, a cui furono attribuiti significati appartenenti alla cultura europea. Con lui svārājya perse per sempre il senso di Impero universale, per convertirsi nel concetto d’indipendenza, se non addirittura per ridursi al modesto significato di autonomia82. La maggioranza del partito del Congresso, invece, mostrò indifferenza ai simboli del passato, nehruvianamente affascinati dalle sirene della terza internazionale. Al social-nazionalismo di questa maggioranza del Congresso fece da contrappeso tutta una costellazione di movimenti e partiti nazionalisti e socialisti, a tendenze più fasciste che fondamentaliste. L’utilizzo delle glorie del passato in funzione politica del Rāṣtrīya Svayamsevak Saṅgha e del Jana Saṅgha, in realtà, allontanò i loro attivisti dagli ideali di ordine e armonia, di pace e giustizia tipici dell’ideale imperiale. Solamente dal 1948 al 1962 un movimento politico-religioso, il Rāma Rājiya Pariṣad, chiaramente antinazionalista e antisocialista e ispirato da ambienti brahmanici, ebbe una parabola di successo nel panorama politico indiano. Fu un fenomeno temporaneo: dopo di che la politica indiana fu dominata dalle tendenze antireligiose del Congresso e quelle neo-hindū del Brāratīya Janatā Party. Ciò non toglie che ambizioni più imperialiste che imperiali, di tanto in tanto affiorino in India, indipendentemente dal fatto che al governo ci sia una coalizione di destra o di sinistra. L’intervento a Goa nel 1961, le guerre con il Pakistan del 1947, 1965 e del 1971, l’annessione del Sikkim nel 1975, spesso mascherate da rivendicazioni anticoloniali, stanno a dimostrazione di un’aspirazione d’egemonia e di dominio nell’area dell’Asia meridionale. I successi cinesi dal 1949 a oggi, l’invasione del Tibet e il recente protettorato del Nepal, hanno messo fuori gioco l’Unione Indiana (che aveva sempre manifestato le sue intenzioni sul piccolo regno himalayano); l’annessione cinese della parte settentrionale del Kashmir83; e, per ultime, le pretese della Cina Popolare sullo stato indiano dell’Arunachal Pradesh e sul territorio del Ladhak, annunciate nel 2008, senza che il governo indiano reagisse minimamente, mettono in evidenza un complesso d’inferiorità verso il potente vicino asiatico. Certamente il nuovo boom economico indiano, più lento ma più sicuro di quello cinese, sta diventando il nuovo terreno del contendere. E, da quanto si può notare dall’osservatorio europeo, su questo terreno l’India potrà soddisfare con successo molte delle sue ambizioni imperialistiche.
- Si tratta di una concezione paragonabile a quella europea dei Pari del Regno.[↩]
- Tant’è vero che in aree fortemente induizzate, ma con scarsa presenza di brahmani, la divinizzazione del Re si affermò con grande facilità. Pensiamo qui alla Cambogia, all’Indonesia e a Champa (Vietnam). A questo si può aggiungere quell’area pede-himalayana corrispondente all’attuale stato del Bihar, che fin da epoca vedica fu retta da repubbliche aristocratiche, proprio perché ivi il sacerdozio era pressoché assente e quindi impotente a imporre il sistema dinastico prescritto dai testi sacri. Questa situazione può essere una delle ragioni per cui in quell’area comparissero poi due religioni antibrahmaniche, entrambe fondate da due Prìncipi: il Jainismo e il Buddhismo.[↩]
- Per la verità, e in modo strettamente paragonabile all’esempio della Cina, l’India subì continuamente invasioni di sciti, kuṣāṇa, unni, parti, persiani, che, paradossalmente, la rafforzarono e ne ampliarono il territorio. Il fascino della sua civiltà riuscì a sempre a conquistare l’animo dei suoi barbari conquistatori, che sempre furono assimilati fino a scomparire nella complessa struttura sociale delle caste. Græcia capta ferum victorem cepit (Orazio, Epist. Il.1.156). Persino i musulmani indiani assunsero forme proprie, accettando, per esempio, il sistema castale. Fecero eccezione i britannici, che subìrono il fascino dall’India, ma la cui presunzione di superiorità razziale impedì l’integrazione in un’unica civiltà.[↩]
- Si prenda come esempio la cronologia del tutto arbitraria dei generi che compongono la letteratura vedica, che risale ancora a Friedrich Max Müller, il quale la azzardò a metà ottocento. Filologi e archeologi, anche se in disaccordo sul metodo di datazione, condividono comunque il pregiudizio evoluzionista e la conseguente ideologia del progresso.[↩]
- La lettura ottocentesca dei testi vedici, secondo la quale in origine non ci sarebbe traccia di alcuna gerarchia castale, è sprovvista di alcun fondamento e deve essere ritenuta ideologica. L’egualitarismo della civiltà primitiva indiana riposa esclusivamente nelle credenze mistico-socialiste del romanticismo. Le caste, invece, nel Veda sono presenti ovunque, e non solamente tra gli esseri umani, ma anche tra gli Déi, tra i demoni e persino tra gli animali.[↩]
- L’antichità di questa raccolta vedica è invero difficile da datare. A questo proposito si deve anche considerare che la trasmissione orale ha la caratteristica di consegnare ai posteri il testo memorizzato con grande fedeltà attraverso i millenni. Friedrich Max Müller, che abbiamo citato poco sopra, stabilì, in base all’arcaicità della sua lingua, che il Ṛg Veda dovesse essere datato intorno al XV secolo a. C. Non entreremo in considerazioni filologiche riguardo questa teoria facilmente confutabile, limitandoci a retrodatare la composizione di gran parte della raccolta al XIX secolo. Infatti, per tutti i primi nove dei dieci libri del Ṛg Veda, il fiume sacro dell’India per eccellenza anziché il Gange, è la Sarasvatī, corso d’acqua scomparso durante il XIX secolo, com’è dimostrato abbondantemente dall’idrogeologia contemporanea.[↩]
- Il vedico rājanya fu sostituito, in epoca successiva, dal termine kṣatriya. Questa parola, che indica la casta dei guerrieri e dei signori di principati, procede da kṣatra, dominio, che, a sua volta s’imparenta a kṣetra, campo, sia inteso come area coltivabile sia come terreno di battaglia. In entrambi i casi si allude ai complessi significati della parola ārya, signore di terre. Il sanscrito kṣatriya corrisponde al più tardo avestico xšathrapâ, satrapo. Per maggiore informazione, aggiungeremo che in epoca antica gli kṣatriya che non appartenevano a famiglie regnanti erano detti ugra, mentre i membri di famiglie reali erano chiamati rājāputra (figli di Re), da cui più tardi il termine rājapūt.[↩]
- Tracce storiche di una rivolta di kṣatriya sono però riscontrabili nella comparsa delle due religioni “eterodosse” (nāstika dharma), il Jainismo e il Buddhismo. Nonostante l’iniziale successo, dopo diversi secoli anche queste rivolte religiose furono neutralizzate. Il Jainismo alla fin fine riconobbe la propria debolezza come religione priva di sacerdozio, accettando che gli officianti nei suoi templi fossero brahmani hindū. Il Buddhismo, invece, migrò fuori dell’India.[↩]
- Mahābhārata, I.66.48.[↩]
- Agni Purāṇa, CCLXXVI.22.[↩]
- Non a caso la radice √rij-reg, da cui derivano i titoli regi in gran parte delle lingue della famiglia indoeuropea, indica l’idea di regolare, mettere ordine, misurare, estendere.[↩]
- Anche la mitologia indiana, come quella esiodea, conosce quattro età, che si succedono nel senso della decadenza. Le quattro età sono dette satyayuga, tretāyuga, dvāparayuga e kaliyuga.[↩]
- Questi sovrani erano riconosciuti come legittimi successori di Manu, la loro limitazione consistendo esclusimamente nella loro pluralità causata dalla decadenza dell’intero mondo. A costoro furono anche attribuiti i titoli di raj, re, pārthiva, signore di un dominio, kṣamābhṛt, capo di una signoria, nṛpa, padrone di uomini, bhūpa, padrone di terre, mahīkṣit, il massimo supervisore.[↩]
- Gli Imperatori cominciarono a comparire nella seconda età del mondo, durante il tretāyuga. Brahmāṇḍa Purāṇa, I.1.98; II.23.71; Matsya Purāṇa, CXLII.64-65; Vāmana Purāṇa, LVII.66-80.[↩]
- Da ciò si evince come la qualifica di Imperatore sia strettamente personale e, perciò, essa non assuma caratteristiche dinastiche.[↩]
- Ci si riferisce qui al simbolo della frantumazione di un singolo vaso in quattro vasi identici per opera prodigiosa dei Ṛbhus. ṚV I.110.3.[↩]
- Sul significato di Cakravartin come axis mundi e motore immobile dell’intero universo, concordano tutti i testi. Certamente il termine può assumere significati più peculiari se attribuiti a personaggi diversi. Per esempio, se attribuito al Buddha, esso significherà, colui che ha messo in moto la ruota della legge. Nel Veda è usato per definire Indra come colui che mise in moto il sole nella sua orbita apparente, dando così inizio al tempo (ṚV IV.17.14). Sulla concezione universale della ruota che dà il nome al Cakravartin è detto: “Il grande cakra che ha forma di una ruota di carro, più grande della ruota del mondo, più grande della ruota del tempo: possa il cakra del Cakravartin proteggerci.” (Vedāntadeśika, Ṣoḍaśāyudhastotram, 2). Nella letteratura sanscrita s’incontrano altri titoli per definire l’Imperatore, come Svārājan, autocratee Māhārājā, Grande Re, termine inflazionato durante il dominio britannico, per cui tutti i più irrilevanti feudatari indiani poterono fregiarsene.[↩]
- Karmendriya: vāc, la parola; pāṇi, la prensione; pāda, la deambulazione; upastha, la generazione; pāyu, l’escrezione.[↩]
- I Dharmasūtra, testi smārta che enumerano le leggi del dharma , sono di più ampio respiro e comprendono i doveri degli appartenenti a tutte le caste; in questi testi, perciò, si trovano anche le parti che riguardano specificatamente i doveri dei Re, rājādharma. L’applicazione totale dei contenuti dei dharmasūtra, invece, spetta al Cakravartin.[↩]
- I brahmani rappresentano nel contesto sociale coloro che, tralasciando l’azione, si dedicano alla contemplazione. L’unica azione che è loro concessa è quella rituale, che, in quest’ottica, ha origini e fini che trascendono la sfera dell’azione mondana (laukika karman).[↩]
- Rivolgendosi allo kṣatriya Arjuna, Kṛṣṇa afferma: “Qualsiasi utilità ci sia in tutti i riti vedici, tutto ciò è contenuto nell’utilità della retta conoscenza posseduta dal brahmano che ha rinunciato al mondo e che ha completamente realizzato la verità concernente la Realtà assoluta […] tu sei qualificato solamente per l’azione, non per la Via della Conoscenza”. Bhagavad Gītā, Śaṃkara Bhāṣya, II.46-47.[↩]
- Il quarto ideale, il mokṣa, consiste nella Liberazione dal ciclo trasmigratorio delle nascite e delle morti, e coinvolge principalmente la casta sacerdotale.[↩]
- ṚV X.124.5. Cfr. G. G. Filippi, “Cakravartin: mithyc and historical symbols”, in Annali di Ca’ Foscari, XXX, 3, S. O. 22, Venezia 1991, pp. 126-127.[↩]
- Al principe ereditario si attribuisce il titolo di kumāra, il fanciullo, esattamente allo stesso modo in cui in Spagna si usa il termine d’Infante. Rājā kumāra è invece d’uso recente.[↩]
- Succo fermentato ottenuto dalla spremitura della pianta omonima.[↩]
- Rito eminentemente purificatorio.[↩]
- Lett. ‘unzione’; in tutti gli altri casi l’iniziazione è definita dīkṣā.[↩]
- Aitareya Brāhmaṇa, VIII.27.[↩]
- Lo scettro, in India, è la folgore usata come un’arma, sia dai Re umani sia da Indra, Re degli Déi. Ciò è in accordo con la mitologia ellenica, in cui la folgore è scettro e arma di Zeus.[↩]
- ṚV II.11.4. Per ragioni di spazio, abbiamo dato una relazione estremamente succinta della numerosissima e complessa serie di rituali che compongono il rājasūya. Pandurang Vaman Kane, History of Dharmaśāstra, II vol., part. II, Pune, Bhandarkar Oriental Research Institute, 1997 (III), pp. 1214-1223.[↩]
- Śatapatha Brāhmaṇa, IX.3.4.8. Per la verità questa appena descritta è la successione normale del cursus honorum. Tuttavia è anche tenuta in considerazione una situazione straordinaria, per cui se un rājanya avesse già compiuto il vājapeya senza ancora essere Re, egli è tenuto a regolarizzare la sua posizione compiendo il rājasūya. Āśvalāyana Śrauta Sūtra, IX.9.19. Probabilmente ciò comprende il caso di generali vincitori proclamati Imperatori sul campo dal loro esercito.[↩]
- Taittirīya Saṃhitā, I.7.9.2; Vājasaneyi Saṃhitā, IX.21.[↩]
- La solarità del Re è simboleggiata dai dodici gioielli di cui s’adorna.[↩]
- Nella tradizione brahmanica con immortalità (amṛta) non s’intende la longevità, cirajīva, che eccezionalmente può essere raggiunta operando uno yoga tantrico o l’alchimia (rasa vidyā). Altrimenti l’immortalità consiste nella certezza, ritualmente ottenuta, di raggiungere il cielo (svarga) nel post mortem.[↩]
- G. G. Filippi 1991, cit., pp. 129-130.[↩]
- In questo caso il purohita deve essere un adhvaryu, sacerdote yajurvedico di alto livello.[↩]
- Questa è la ragione per cui il Cakravartin può essere anche definito dharmarājā. Poiché questo è il principale appellativo di Yama, Re dei defunti, giudice dei morti e Dio della morte, a questo titolo si attribuisce prevalentemente la virtù della Giustizia.[↩]
- Come si può notare, oltre alle peculiarità della sua casta guerriera d’origine, l’Imperatore acquisisce anche caratteristiche sacerdotali.[↩]
- I riti vedici si dividono in due categorie: quelli dvādaśāha, che perdurano fino a dodici giorni e in cui l’offerente può appartenere a una delle tre caste superiori; e i sattra (lett. ‘riservati’), compiuti dai soli brahmani e di durata variabile.[↩]
- Costellazione composta da sei stelle che fecero da nutrici a Skanda, dio della guerra e protettore degli kṣatriya. Si trova all’interno della costellazione del Toro, in India nota come mṛga, l’antilope, o mahīṣa, il bufalo. Vedremo di seguito l’importanza di questi termini nel sacrificio del cavallo.[↩]
- Alcuni testi, invero assai antichi, considerano il sacrificio del cavallo un rito arcaico già caduto in disuso (utsanna). TS V.4.12.3; ŚB XIII.3.3.6.[↩]
- Il punto vernale in Toro ci porta addirittura a un’epoca attorno al 4000 a. C.[↩]
- Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, I.1.1.[↩]
- Anche Cerbero e Argo, i cani inferi della religione greco-romana sono provvisti di innumerevoli occhi per le medesime esigenze.[↩]
- Questo rapporto di guru-śiṣya è un indizio chiaro dell’andamento rituale di queste conquiste. Dalle narrazioni, sia mitiche sia storiche, che riguardano queste spedizioni nel corso dell’aśvamedha, non si trae alcuna traccia di resistenza armata da parte di altri Re, con l’eccezione di casi in cui l’esercito imperiale si è trovato ad affrontare popolazioni tribali o barbare che non erano in grado di riconoscere la statura spirituale del Cakravartin. L’episodio storicamente più celebre concerne l’aśvamedha celebrato da Puṣyamitra Śunga (187 a. C. circa). I Greci di Bactriana rapirono il cavallo; l’Imperatore dovette recuperare il cavallo assoggettando i nemici con la forza e quindi portare a termine il sacrificio. A. Danélou, Histoire de l’Inde, Paris, éd. Fayard, 1971, III.2.[↩]
- Il Cancro, come segno zodiacale, in India è rappresentato dalla testuggine, anch’esso animale marino come il granchio e ricoperto di un carapace; il Capricorno, che nell’astronomia greca è un capro con coda di delfino, è qui invece sostituito da un coccodrillo con le zampe da capro.[↩]
- Āpastamba Kalpasūtra, XX.7.14-16.[↩]
- La divinità suprema presente nell’intimo di ogni essere, nel linguaggio upaniṣadico.[↩]
- I prāṇa, gli spiriti vitali.[↩]
- Il fuoco che arde nel sole.[↩]
- Per comprendere perché la Morte sia la divinità suprema v. G.G. Filippi, “Note sul terrore della morte”, in Grazia Marchianò (a cura di), Elémire Zolla dalla morte alla vita, Viátor, Nuova serie monografica, IX, 2005/2006.[↩]
- Per la differenza tra le molteplici morti e la Morte v. G. G. Filippi, Dialogo di Naciketas con la Morte: Taittirīyabrāhmaṇa, III.11.8. Kaṭha-upaniṣad, Venezia, Cafoscarina, 2001.[↩]
- BU I.1.7. Non si deve dimenticare che il dio della Morte è detto Dharmarājā, uno dei titoli del Cakravartin.[↩]
- Geni atmosferici, musici degli Déi.[↩]
- Ninfe delle acque.[↩]
- Geni sotterranei.[↩]
- Demoni guardiani dei tesori.[↩]
- Antidéi, titani.[↩]
- Il re degli uccelli, nel Ṛgveda, è descritto talvolta come un uccello gigantesco, identificato a Garutman, il Garuḍa della letteratura classica sanscrita. Altre volte appare come un bianco cavallo alato che traina il carro solare. ṚV I.89.6; X.178.1; VII.77.3; Kauṣitakī Brāhmaṇa, XXX.5. Come si vedrà subito di seguito, l’assimilazione Pegaso-uccello è di grande rilevanza nella conclusione del sacrificio del cavallo.[↩]
- Nel mito, la gelosia e il timore di essere spodestato spingono spesso Indra a sabotare i riti di aśvamedha.[↩]
- A differenza del sacrificio con versamento di sangue, che rappresenta una morte innaturale, o morte cattiva, lo strangolamento rappresenta simbolicamente la morte naturale. Infatti, ogni essere vivente muore soffocato, esalando l’ultimo respiro, e incapace di effettuare una ulteriore inspirazione. Per questa ragione Yama, Dio della morte, è armato di un cappio (pāśa). G. G. Filippi, Mṛtyu: the concept of Death in Indian Traditions, II revised ed., New Delhi, DK Printworld, 2005, Ch. VIII.[↩]
- “«Chi era stato il grande uccello? ». «Il grande uccello, di certo, era stato il cavallo.»” ŚB XIII.2.6.15.[↩]
- O. H. de A. Wijesekara, Discoid Weapon in Ancient India, Madras, Adyar Library Bulletin, 25.[↩]
- G. G. Filippi 1991, cit. 131-135. Sull’iconografia del Cakravartin di Jaggayyapeta, v. Heinrich Zimmer, The Art of Indian Asia, Princeton, Princeton Un. Press., 1955, pp. 245-246.[↩]
- La religione brahmanica è, in linea di principio, strettamente monogama. Fanno eccezione le regole matrimoniali che concernono alcuni casi di brahmani e i Re, per motivi evidentemente dinastici: le Regine concesse ai sovrani sono quattro, gerarchicamente distinte tra loro. La prima Regina è quella più importante dal punto di vista delle alleanze che comporta. Questa Regina ha il titolo di mahīṣī, la bufala, e rappresenta l’estensione del regno. Un Re non sposato è equiparato a un Re privo del territorio, o un Re esiliato. Il bufalo, cavalcatura di Yama, ripropone qui il tema della morte iniziatica e del titolo di Dharmarājā. La seconda è la Regina più giovane e bella, la terza Regina è quella che è stata scalzata dal secondo posto, la quarta Regina appartiene alla famiglia meno illustre.[↩]
- G. G. Filippi, “Conservazione delle ceneri umane nell’India tradizionale. La dottrina del resto”, in Francesco Remotti (a cura di), Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Milano, Paravia Bruno Mondatori ed., 2006.[↩]
- G. G. Filippi, “Rājapūt influences in the Chaukhandi Graveyards”, in Asiatica Venetiana, n° 4, Venezia, 1999.[↩]
- L’ideale per un brahmano è diventare ativarṇāśrami, ossia chi ha superato le caste e le età dell’uomo, santo superiore agli stessi Déi.[↩]
- Anche fosse, mancherebbero sempre all’Impero i mondi superi e inferi, impossibili da conquistare con le armi. Sono comunque interessanti le leggende che raccontano i tentativi di questi due grandi Imperatori del passato di conquistare gli inferi, descritti come un mondo sotterraneo.[↩]
- Dines Chandra Sircar, Cosmography and geography in early Indian literature, Calcutta, Indian Studies: Past & Present, 1967, p. 19.[↩]
- Vale a dire la Cambogia, Java, Champa e altri territori hindū d’oltremare. P. V. Kane, cit., I vol., part. I, p. 227.[↩]
- D. Ch. Sircar, cit., p. 163.[↩]
- J. W. Spellmann, Political Theory of Ancient India. A Study of Kingship from the earliest Times to circa a. D. 300, Oxford, Claredon Press, 1964, pp. 99-100. Per la verità questo ultimo sovrano, Pṛthy Vainya, compare esclusivamente nell’elencazione del Mahābhārata ed è del tutto ignorato dalla letteratura mitica. Forse si doveva aggiungere un diciassettesimo Cakravartin per obbedire ai canoni del vājapeya.[↩]
- Alcune tradizioni, tuttavia, sostengono che ogni Cakravartin è un avatāra parziale di Viṣṇu. Vāyu Purāṇa, LVII.72.[↩]
- H. B. Sarkar, Cultural Relations between India and Southern Asian Countries, Delhi, ICCR- Motilal Manarsidass, 1985, ch. XI.[↩]
- A. Daniélou, cit, ch. V.[↩]
- È paradossale che gli indologi si siano occupati soprattutto dei Cakravarti buddhisti e jaina, piuttosto che di quelli hindū, a dimostrazione della generale ostilità che gli studiosi occidentali dimostrano nei confronti del Sanātana Dharma, troppo aristocratico per la mentalità moderna.[↩]
- Probabilmente questi prìncipi ebbero il pudore di non attribuire il titolo maggiore di Cakravartin o di Samrāj, avendo piena consapevolezza che l’Imperatore musulmano non poteva compiere il sacrificio del cavallo.[↩]
- M. Edwardes, A History of India, London, Thames and Hudson, 1961, VI, IV, 2[↩]
- O. H. de A. Wijesekara, The Symbolism of the Wheel in the Cakravartin concept, cit., pp. 262-267.[↩]
- John Irwin, “The stupa and the Cosmic Axis: the archaeological evidence”, in Maurizio Taddei (ed. By) South Asian Archaeology, Naples, 1979.[↩]
- Per l’alterazione politica del significato dei termini dal sanscrito all’hindī, operato negli ultimi due secoli, v. G. G. Filippi, “Precisazioni storiche sull’origine della poetica romantica hindī”, in Annali di Ca’ Foscari, XLVI, 3 (SO 38), Venezia, 2007.[↩]
- Lo stesso governo indiano, che ha sempre protestato a buon diritto per l’invasione pakistana di una parte importante del Kashmir, tende a mettere la sordina sull’occupazione cinese di parte di quella regione. Eredità mai contestata, nemmeno dai governi di “destra”, della politica filocomunista del “Pandit” Nerhu.[↩]