La Bhāvana Upaniṣad
Testo e Commento
22. Colui che impegna se stesso in questa meditazione per la durata di tre muhūrta, due muhūrta o anche un solo muhūrta, diventa liberato in questa vita; egli è chiamato uno Śiva yogin.
L’argomento di questa parte del testo è il risultato della meditazione sull’unità dell’iniziato con la divinità, sull’identificazione della pluralità fenomenica con un’unica pura Coscienza, e sul riconoscimento dell’Immutabile che soggiace a tutte le mutazioni temporali e spaziali. L’upāsaka contempla non solo il simbolismo dello Śrī Cakra e il suo significato universale, ma rallenta il proprio respiro al fine di unificare il flusso senza interruzione della coscienza coinvolta nel continuo cambiamento, unificazione che elimina il legame1 delle dualità soggetto-oggetto, causa-effetto, mezzo-fine, ecc. Questa non è semplice comprensione intellettuale né è un semplice esercizio fisico. È un totale coinvolgimento: la costituzione psicosomatica dell’iniziato è interamente armonizzata dall’identificazione della Devī con il proprio Sé e dell’intero fenomeno dell’infinita molteplicità con la propria unica Coscienza. È la meta in cui i fattori interiori ed esteriori della realtà sono stati dissolti, lasciando solamente risplendere la luce del proprio Sé.
Questa conoscenza è importante nell’iniziazione tantrica per il risveglio di Kuṇḍalinī, ed è chiamata pītāmbara vidyā2. Finché Kuṇḍalinī è addormentata, l’individuo è rivolto verso il mondo esterno. L’orientamento dell’individuo verso il proprio interno è possibile solo quando Kuṇḍalinī, svegliandosi, è destata dal suo stato di inerzia. Al suo risveglio, il respiro è subito spontaneamente frenato; e, grazie a questo, i pensieri vengono unificati e, alla fine, dissolti. Dopo di ciò, la persona non può più essere distratta, trovandosi in uno stato di tranquilla, profonda e ininterrotta meditazione.
Questo stato di totale assorbimento può essere di varia durata3. Il testo parla di uno, due o tre muhūrta. Un muhūrta è un breve periodo di tempo, che corrisponde a circa quarantotto minuti. Durante un tale periodo di assorbimento avviene una completa trasformazione dell’essere del meditante, non essendo più ostacolato da legami fenomenici.
Costui consegue la jīvan mukti, la Liberazione, proprio mentre vive in questo corpo (jīvan eva muktiḥ). La Liberazione è il contrario del coinvolgimento nei fenomeni. Ogni coinvolgimento presuppone ignoranza della realtà delle cose, da cui derivano le illusioni, gli attaccamenti e le costrizioni. La schiavitù, quindi, è il supporto su cui s’appoggiano i processi mentali, le modificazioni della coscienza, che proiettano il mondo esterno e condizionano le nostre reazioni nei suoi confronti. La Liberazione è la conoscenza delle cose come realmente sono e, dunque, è la libertà dai vincoli imposti dai coinvolgimenti fenomenici. Tale schiavitù, nella dottrina tantrica come nel Vedānta, è causata dall’ignoranza. Il processo mentale condiziona il Sé, lo coinvolge nelle relazioni fenomeniche con il mondo (che include anche il corpo), considerato distinto da se stesso e, perciò, opposto alla Realtà vera. I condizionamenti non permettono di realizzare che l’intero complesso dei processi mondani, nella forma in cui appaiono, è semplicemente un gioco della māyā; e quest’ultima è, invero, una modificazione della propria coscienza che è identica al soggetto. Quando sorge questa consapevolezza della non distinzione (abheda prathā), l’individuo supera i vincoli che lo legano al mondo fenomenico e riconosce la sua vera natura, l’Essere immutabile di Pura Coscienza, quello Śiva (Paramaśiva) che è viśvottīrṇa4.
La Liberazione, quindi, consiste in effetti nel comprendere e nulla di più, perché la schiavitù è causata solo dall’ignoranza. Parlando dal punto di vista assoluto, non c’è né schiavitù né Liberazione. Schiavitù è un modo per esprimere questi legami, come Liberazione è capire che se ne è liberi. La retta comprensione, quando sorge, libera istantaneamente, e non può essere ritardata fino alla totale estinzione dei karma, come qualcuno ha asserito in India, per cui la vera Liberazione sarebbe soltanto un evento post mortem (videha mukti). I Tantra non solo ammettono la possibilità della Liberazione nella presente vita (jīvan mukti), ma ne decantano l’assoluta preminenza.
La descrizione di chi è liberato così in vita, com’è data nel Tantrarāja Tantra, evidenzia questo approccio tantrico:
Quando la forza vitale, che è stata avvolta e assopita, si sveglia e raddrizza se stessa e, grazie alla propria volontà, sale attraverso il canale centrale, va fuori attraverso tutte le aperture dei sensi e pervade l’intero universo illuminandolo. Allora l’iniziato diventa del tutto consapevole dell’identità di se stesso con l’universo e con la Dea. Egli è, quindi, riconosciuto essere un liberato mentre è ancora nel suo corpo. Merito e demerito non lo toccano, supera sofferenza e felicità, è libero da attrazioni e repulsioni. Abbandona ogni aspettativa dei frutti delle azioni, è appagato non essendo attaccato a nulla; ed è così naturalmente. La sua mente è sotto controllo né è spinto da altri a fare qualcosa: vive solamente, permettendo al suo corpo di completare il proprio corso. Egli è perfettamente equanime, e similmente non si cura né dell’elogio né del biasimo. Guarda l’amico e il nemico nello stesso modo. Egli è dotato di qualità benefiche come la virtù e la compassione. Così è colui che è conosciuto come jīvanmukta in questo mondo.5
L’idea tantrica di jīvan mukti differisce da quella vedāntica solo perché i Tantra, diversamente dal Vedānta, parlano della visione della divinità come strumento caratteristico con cui si è liberati dalle catene dell’ignoranza. Inoltre, nella visione tantrica, un jīvanmukta è descritto come un iniziato che è insieme devoto (bhakta) e sapiente (jñāni). La conoscenza che libera è il culmine della comprensione dell’identità tra il Sé del devoto, l’universo e la Devī. L’eliminazione dell’ignoranza (avidyā nivṛtti) che si conclude nella realizzazione della vera propria natura (sva svarūpa prapti) è davvero la liberazione (mukti), ma la limitazione dell’ignoranza è stata in precedenza resa possibile solo dalla devozione (bhakti) per la Dea.
È in tale contesto che la seguente affermazione, che si trova nel testo dell’Upaniṣad Brahmayogin, diviene significativa:
Per lui, per il jīvan mukta, vi è la realizzazione dell’identità tra la divinità e il proprio Sé.
La descrizione del jīvanmukta come uno Śiva yogin è peculiare di questo testo upaniṣadico. Bhāskararāya cita Jaigīṣavya come esempio di quei saggi definiti Śiva yogin. Jaigīṣavya fu un antico saggio menzionato tra i maestri di Sāṃkhya nel Mahābhārata (XII.319.5; II.9.12): cioè Kapila, Āsuri, Pañchaśikha, Jaigīṣavya, Asita, Devala, Parāśara, Vārṣagaṇya, ecc; un riferimento a tale personaggio si trova anche nel Harivaṃśa (952) e nel Bhāgavata Pūraṇa (IX.21.26). Di lui non si sa nulla di più. Ma Śiva yogin è uno dei cinque termini menzionati nel Tantrarāja Tantra (36-37) per definire un’anima liberata; gli altri termini sono yogin o asceta, jña o conoscitore, Brahma vijñāni o conoscitore dell’Assoluto, e Ātmavit ovvero conoscitore del Se. Il commento a questo passaggio afferma che questi nomi sono comunemente attribuiti nei Veda e nei Tantra a quei saggi che conoscono la Realtà assoluta.
Lo stesso testo spiega quale yoga riguardi un tale illuminato. La mente (dhīḥ) è espressione della Śakti, mentre Coscienza (cit) lo è di Śiva. La mente è un riflesso della Coscienza che è il vero Sé, senza che sia prodotta da alcuna causa esterna. La Coscienza è detta così perché la potenza della sua volontà giace nascosta come il fuoco nel pezzo di legno che non brucia; è chiamata mente quando è in azione la volontà, come accade al pezzo di legno allorché ha preso fuoco e sta bruciando. L’unione di mente e Coscienza è ciò che qui è menzionato come yoga, nel senso di conoscenza (vimarśa). Śiva è Coscienza e quando si è capito che Śakti, la potenza di volizione, è a lui identica, si ottiene il culmine della conoscenza e della devozione. Mente e Coscienza si uniscono quando la mente perde la sua forma indipendente e la Coscienza è unitaria e pervasiva. Questo è quanto s’intende con l’espressione Śiva yoga.
23. Le meditazioni che si riferiscono ai cakra interiori sono state esposte qui secondo la tradizione ‘kādi’.
L’argomento di questo verso upaniṣadico spiega il simbolismo inerente allo Śrī Cakra come una rappresentazione grafica del ciclo del tempo (kālacakra) e dei cakra presenti nel composto umano. All’iniziato è richiesto di identificare tutti i particolari che compongono l’universo, compreso il suo aggregato psicosomatico, con la Devī, la quale è identificata con il proprio Sé. L’universo è semplicemente una proiezione sulla Coscienza che non ha alcuna esistenza se non sul piano soggettivo. Lo Śrī Cakra, quindi, non è oggettivamente fuori dell’iniziato, ma dentro di lui (antar eva śrī cakraṁ, na bahih).
Tale verità gli si svelerà come risultato delle meditazioni (bhāvanā) che collegano l’anima e la mente alle azioni passate e che per questa ragione sono chiamata vāsanā6. Bisogna ricordare che le affermazioni del testo upaniṣadico sono prese dalla sezione del Tantrarāja Tantra (35) conosciuta come Vāsanā-paṭala. Le meditazioni non sono solamente processi mentali focalizzati su uno specifico tema, ma una tecnica grazie alla quale la divinità è fermamente installata (adhivāsayati, sthāpayati devatā anena) nella mente del devoto. Le meditazioni sono di tre tipi: 1- Brahma bhāvanā, in cui il meditante identifica il proprio Sé con l’assoluta Realtà; 2- karma bhāvanā, in cui chi medita usa certe azioni rituali per rafforzare il fervore con cui ci si impegna a meditare; 3- ubhaya bhāvanā, in cui chi medita cerca di capire il significato simbolico delle azioni rituali così da confermare la sua comprensione della non differenza tra la divinità e il proprio Sé. Questa terza consiste, invero, nell’antaścakra bhāvanā’, con cui si compie la meditazione sui cakra interiori.
Il testo precisa che le sue spiegazioni si basano sul metodo della tradizione kādi: si tratta di un punto di vista di Śrī Vidyā diverso da quello delle altre due tradizioni hādi e sādi. Il terzo metodo sādi, tuttavia, è meno conosciuto perché è stato fissato in modo non chiaro. Le espressioni kādi, hādi e sādi si riferiscono al modo in cui è pronunciato il mantra di quindici lettere di Śrī Vidyā: il primo comincia con la lettera ka, il secondo con ha e il terzo con sa. Bhāskararāya fa risalire il mantra a un inno nella Śāṃkhāyana Śruti appartenente al corpo vedico. Il segreto del mantra è stato trasmesso da dodici precursori della paramparā. Tra costoro, Kāmarāja, detto anche Manmatha, fu colui che trasmise la pronuncia kādi del mantra7 alla catena di maestri che proseguì con Paramaśiva, Durvāsa, Hayagrīva e Agastya. La ka che dà il nome al mantra, sta per Kāma o Kāmarāja. In seguito, Lopāmudrā, moglie di Agastya, fu la prima a usare e trasmettere la forma hādi del mantra8. La ha con cui inizia lo hādi mantra sta per Hara (il distruttore), cioè Śiva o la Coscienza come etere-spazio (abhra) o come spazio celeste (viyat). Le lettere effettive, che sono ripetute senza essere contate, nella prima forma sono sei (ka, ī, la, hrīm, ha e sa), mentre le lettere effettive nella seconda sono solo cinque (ha, sa, ka, la e hrīṃ).
Il metodo kādi è, dunque, il più antico dei due ed è ben integrato alla tradizione vedica. Per questa ragione è molto popolare in tutta l’India. Le principali opere che espongono questa tradizione sono il Vāmakeśvara Tantra, il Yoginīhṛdaya, che è anche una parte del precedente, il Tantrarāja Tantra, con il suo commento intitolato Manoramā, il Pūrānanda Tantra, il Śaktisaṅgama Tantra, il Svacchandra Tantra, il Tripurārṇava, il Tripurārahasya e il Kāmakalā Vilāsa. Anche le opere di Bhāskararāya, come, per esempio, il Varivasyārahasya, seguono la stessa linea di pensiero. Pure la celebre opera Lalitā Triśatī è stata composta per esporre il punto di vista kādi.
Questa tradizione è talvolta associata a un metodo di meditazione detto kālī krama. Kālī, in questo caso, significa l’energia che dà forma all’intero universo (kālayali jagat sarvam iti), cioè è la Śakti intesa quale volizione creatrice (vimarśā) di Śiva. Questa energia è identica alla fonte della potenza a livello individuale, la kuṇḍalinī. La lettera iniziale ‘ka’ è anche considerata il suono seminale per la coppia Brahmā, in quanto creatore del mondo, e Sarasvatī che lo fa apparire. Dal punto di vista assoluto, l’unità del mondo e della propria coscienza è la dottrina fondamentale di questa scuola.
24. Chi così capisce conosce la ‘testa dell’Atharva’. Così si conclude l’insegnamento segreto.
Come s’è detto, questa Bhāvana Upaniṣad fa parte dell’Atharva Veda e, dal momento che tratta di un insegnamento esoterico, è descritta come la ‘testa dell’Atharva’, vale a dire che rappresenta il culmine dell’esposizione in forma simbolica. Mentre gli altri tre Veda trattano soprattutto della sfera delle relazioni (vyavahāra) e delle azioni ritualistiche (karma kāṇḍa), questo Veda si occupa di rituali interiori, di concentrazione mentale rivolta alla meditazione, al simbolismo e alle pratiche per destare kuṇḍalinī. L’Atharva Veda è associato abitualmente alla meditazione sulla Devī, per cui si dice che stia all’origine di tutti i culti che hanno attinenza con questa adorazione.
Il significato della parola Upaniṣad, quando è usata per designare questi testi tantrici, è che l’argomento trattato costituisce un insegnamento segreto (rahasya). L’aspetto segreto dell’insegnamento evidenzia l’unità del mantra come formula verbale della Devī, di kuṇḍalinī, in quanto potere individualizzato e immanente della Dea, e della mahākuṇḍalinī, o Śrī Dakṣiṇā, l’essenza trascendente della Dea Madre, la cui volontà si esprime sotto la forma dell’intero universo. La formula verbale acquista potenza quando è compresa con esattezza ed è usata nelle pratiche interiori sotto la guida di un guru. Questa è l’effettiva potenza del mantra (mantra vīrya), questo è in verità il segreto del mantra (mantra rahasya). Questi due significati sono sinonimi della parola Upaniṣad.
L’importanza dell’insegnamento segreto è che fa raggiungere la realizzazione della Beatitudine, la vera natura della Coscienza, liberando l’iniziato in questa stessa vita.
Oṃ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ
- Il legame o nodo dell’ignoranza (avidyā bandha) il cui scioglimento conduce alla Liberazione (mukti).[↩]
- Lett. ‘conoscenza di colui che è vestito di giallo’, vale a dire Viṣṇu. Questa conoscenza è personificata dalla Dea Pītāmbarā, altro nome dell’ottava tra le Mahāvidyā, Vagalāmukhī, armata di mazza, ‘colei che distrugge gli inganni dell’ignoranza’.[↩]
- Qui ci si riferisce al tempo dedicato quotidianamente alla pratica. In linea di principio, per una persona eccezionalmente qualificata, potrebbe essere sufficiente un muhūrta soltanto per ottenere l’illuminazione.[↩]
- La Realtà suprema non solamente è onnipervadente e immanente (viśvātmā) rispetto alla manifestazione che è proiettata su di essa come una immagine su uno schermo, ma soprattutto deve essere considerata trascendente (viśvottīrṇa), ossia al di là da qualsivoglia apparenza relativa.[↩]
- TT 30.67-73.[↩]
- Le impressioni mentali di idee concepite o di azioni compiute in passato.[↩]
- Le mātrā che compongono il kadi mantra sono: ka e ī la; hrīṃ; ha sa ka ha la; hrīṃ; sa ka la; hrīṃ.[↩]
- Le mātrā che compongono lo hadi mantra sono: ha sa ka la; hrīṃ; ha sa ka ha la; hrīṃ; sa ka la; hrīṃ.[↩]