La Bhāvana Upaniṣad – I
A cura di Durgā Devī

Prefazione
Oṃ Śrī Gurubhyo Namaḥ
Śrī Vidyā è la via iniziatica tantrica dedicata al culto della Devī che rappresenta il culmine dell’intellettualità śākta. Assieme all’Advaita Vedānta, tale scuola è definita Brahma vidyā, conoscenza di Brahman. Per la sua vicinanza alla dottrina śaṃkariana, Śrī Vidyā è insegnata presso tutti gli Śaṃkara Pīṭha e Śaṃkara Maṭha regolari dell’India a beneficio dei brahmacārin e saṃnyāsin che vi afferiscono. Non è infrequente che anche gṛhastha qualificati siano accettati come discepoli. In molti templi, villaggi e città dell’India, in particolare nel meridione, sono anche presenti dei gurukula a guida di maestri gṛhastha, vānaprastha e saṃnyāsin, in rappresentanza dei jagadguru o completamente autonomi, spesso di altissimo livello conoscitivo e di grande potenza. La leggenda vuole che lo stesso Śaṃkarācārya tracciasse per la prima volta nella storia uno Śrī Cakra sul suolo in cui fondò lo Śāradā Pīṭham di Śṛṅgerī, trasmettendo ai suoi discepoli il metodo di Śrī Vidyā basato sulla meditazione di quel simbolo.Allo stesso maestro di Advaita sono attribuite diverse opere di Śrī Vidyā quali la Saundaryalaharī, il Lalitātriśātī Bhāṣya, il Devīpañcaratna e vari inni alla Dea.
Nelle note introduttive al testo della Bhāvana Upaniṣad daremo una panoramica generale per illustrare questa via iniziatica della Devī (śākta mārga) ancora sconosciuta in occidente, nonostante la sua diffusione e importanza storica. A differenza del Trika, impropriamente definito “Shivaismo del Kashmir”, a cui è pur simile per molti versi, Śrī Vidyā non è mai entrata in conflitto con l’Advaita śaṃkariano; anzi trae la sua forza e vitalità dall’annoverare nella sua paramparā proprio il grande ācārya. È curioso, perciò, che nell’ambiente indologico occidentale si sia diffusa ampiamente la conoscenza dell’estinta tradizione Trika1, mentre Śrī Vidyā rimane quasi totalmente ignorata. Il che, a nostro parere, non è del tutto un male, poiché così si preserva questa via iniziatica dalla profanazione che ha subito lo “Shivaismo del Kashmir”.
Si conoscono in Śrī Vidyā tre livelli di conoscenza. Il primo è definito pūjā prakriyā, la pratica dell’adorazione che consiste nell’uso metodico di rituali da compiere assieme ad altri sādhaka o in solitario. Si tratta di riti d’offerta (havya), della pronunzia di inni di lode (prastava), di sacrifici e oblazioni (yājña)2, di nyāsa3 dell’esecuzione del tracciato dello Śrī Yantra. Lo scopo della pūjā è quello di approntare un supporto sottile alle pratiche del secondo livello. Il livello successivo, più propriamente realizzativo, è il mantra prakriyā, ossia la ripetizione (jāpa) del mantra personale che ognuno deve compiere in silenzio e in isolamento. Talvolta lo si può compiere a due con il proprio guru, al fine di potenziare nel discepolo la capacità d’invocazione. La ripetizione dei vari mantra può avvalersi della meditazione sullo Yantra. Il terzo livello è il Vedānta, che consiste nella messa in pratica dell’advaita vicāra. Arrivati a questo grado ci sono due opzioni. L’upāsaka può continuare a meditare seguendo l’impostazione terminologica e dottrinale tantrica, oppure passare direttamente all’advitīya sādhana. In quest’ultimo caso sono avvantaggiati i discepoli di un guru che sia anche ācārya di Vedānta. Per giungere alla via della conoscenza è comunque necessario aver preliminarmente raggiunto la purificazione della mente attraverso i due primi livelli.
Dobbiamo aggiungere un particolare importante che si potrà comprendere per mezzo di una lettura attenta del testo in questione: la meditazione sullo Śrī Yantra occupa un punto centrale nei primi due livelli di Śrī Vidyā perché, trattandosi di una scienza del non-Supremo (Apara vidyā), la dottrina è in tal caso espressa per mezzo della spiegazione dettagliata del metodo yantra-mantra.
Per questo lavoro ci siamo avvalsi degli insegnamenti ricevuti dai venerati guru, Śrī Satyānanda Nātha Mahārāja e Śrī Gopīnātha Kavirāja Mahārāja, delle opere del Jagadguru Candraśekarendra Sarasvatī Mahāsvāmījī, di Śrī Śrī Svāmī Karapātrī Mahārāja e dell’eruditissimo upāsaka prof. S. K. Ramachandra Rao.
Durgā Devī
Note introduttive
I. Il significato del cakra
La comprensione della dottrina di Śrī Vidyā passa attraverso la conoscenza dettagliata della dottrina raffigurata sotto la forma schematica dello Śrī Cakra Il primo significato del termine sanscrito cakra è quello di ruota. L’etimo del termine vorrebbe suggerire “ciò grazie al quale qualcosa è fatto” (kriyate anena). La ruota del carro, la ruota del vasaio, la ruota tagliente scagliata come arma contro il nemico sono chiamate cakra. Nel suo significato più esteso, cakra vuol dire anche regno, perché il mondo intero è concepito girare attorno al suo perno fisso, il Re. Il Re universale è chiamato “cakravartin”, colui che fa girare la ruota del mondo e del tempo. La parola significa pure uno schieramento circolare dell’esercito (cakravyūha), volto a rafforzare la propria posizione e ad assicurarsi la vittoria4. I poeti sanscriti usavano alcune disposizioni in forma circolare (cakrabaṅdha) delle lettere dell’“alfabeto” devanāgrī5, per comunicare il significato delle parole con più forza, anche se in modo più tortuoso.
Ogni volta che il termine cakra è usato significa invariabilmente “un potere esercitato all’interno del circolo”, un insieme di parti coordinate tra loro per un fine prefissato. La forma circolare del cakra stimola nel pensiero un senso di semplicità e completezza. Esso è comprensivo di tutte le parti in modo armonico, i cui elementi e dettagli inscritti tendono a essere compattati attorno al centro, cosicché l’intera forma compresa nella circonferenza, il cerchio, appare unita ed efficace.
Tuttavia la forma non sempre deve essere forzatamente piana. Anche se disegnato su una superficie piatta, si deve immaginare la possibilità di uno sviluppo tridimensionale del cakra, come quando si tratta del ṛtucakra, il giro delle stagioni, del rāśi cakra, la fascia dello zodiaco, nakṣatracakra,l’insieme della sfera celeste stellata, e nāḍīcakra, il reticolo delle arterie in cui avviene il circolo sanguigno.
La costituzione psicosomatica dell’energia all’interno del corpo umano nelle sue condizioni normali, comprende sei cakra6: il mūladhāra cakra, il centro sottile “che sta sotto alla radice” dell’intera fisiologia sottile dell’individuo, è situato sotto al coccige, vale a dire al di sotto del punto più basso di un corpo seduto a terra a gambe incrociate, in una qualsiasi posizione: il svādhiṣṭhāna cakra, il centro “che è il proprio sostegno”, sta all’altezza dei genitali; il maṇipūra cakra, il cakra detto “gemma risplendente”, posto sopra l’ombelico e sotto al plesso solare; l’anāhata è il centro posto a livello cardiaco e significa “sbloccato”; il viśuddha, il cakra “purificato” alla gola; infine l’ājñā cakra, il centro del “comando” collocato tra le sopracciglia. Questa sequenza richiede qualche spiegazione. Per il momento basterà osservare che ognuno di questi cakra corrisponde a una precisa tipologia di energie, rappresentata dalle funzioni caratteristiche dell’area anatomica a cui sono associate. I cakra non si identificano affatto a quelle parti corporee e neppure corrispondono a funzioni fisiologiche. Sono concetti che descrivono funzioni differenziate dell’energia vitale, distribuita in una vera e propria costruzione mentale simbolica, che solo apparentemente sono contenute nella forma corporea umana. Così sono anche il manascakra7, il somacakra8, posti sopra la fronte, all’attaccatura dei capelli, e anche il sahasrāra kamala9, immaginato sopra alla calotta della testa. I cakra, dunque, possono essere definiti come i punti in cui le energie vitali individuali si accentrano, vorticano e dove si relazionano tra loro ordinatamente.
In India il concetto di cakra, come un modello di forze coese in regolarità e unità funzionale, è molto antico. La sua rappresentazione visiva è stata rinvenuta anche nelle vestigia archeologiche della civiltà della valle dell’Indo-Sarasvati risalenti a cinquemila anni fa, e la sua espressione come parola si trova pure negli inni nel Ṛgveda. Sin da quei tempi, cakra è un simbolo ricorrente usato in diversi contesti. Per esempio saṃsāracakra, il ciclo trasmigratorio del mondo e degli esseri; kālacakra, il ciclo dell’involuzione temporale; dharmacakra, la ruota della legge; yoginīcakra, la rappresentazione di cerchie di divinità femminili; mantracakra un ciclo completo di un certo numero d’invocazioni usato metodicamente e via dicendo. È interessante notare che nelle pratiche estreme del tantrismo di carattere trasgressivo della mano sinistra (vāmācāra)10, le riunioni per compiere rituali sessuali, sono chiamate cakra, cioè circolo di iniziati uniti dalla disciplina di un culto comune. L’intenzione in tali sessioni è chiamata cakrapūjā, adorazione circolare, termine che presso i profani ha assunto una dubbia reputazione. Ma, nell’ambiente dell’esoterismo tantrico vāmācārin, quel termine è d’importanza fondamentale in quanto trasmette l’idea di una effettiva adunata di divinità invisibili, rappresentate concretamente da esseri umani iniziati, riuniti per una sessione di grande potenza. Nella letteratura esoterica è ben noto cosa sia il bhairavī11cakra. In questo modo si chiama la riunione con giovani donne, durante la quale l’assunzione di bevande inebrianti e la copula sono sublimati dal loro risultato spirituale. Si ritrova la medesima idea nel rāsamaṇḍala (danza in circolo) di certe vie iniziatiche kṛṣṇaite. In queste adunanze, gli iniziati maschi e femmine riproducono ritualmente le danze circolari delle gopī12 attorno a Kṛṣṇa, identificandosi con quei personaggi, con atteggiamenti e gestualità esplicitamente erotiche.
A volte la parola maṇḍala è sinonimo di cakra. Anche questo vocabolo significa ruota, circolo, insieme unitario di dettagli, regno ed esercito. Ci sono termini come dhāraṇī maṇḍala o bhū maṇḍala (l’orbe terrestre), nara maṇḍala (il reticolo delle arterie), nābhi maṇḍala (l’insieme delle energie del centro dell’ombelico) e tārā maṇḍala (sfera stellare). In particolare tale parola è entrata in uso presso i tantrici del Buddhismo mahāyāna e la corrente dei nātha-siddha13. “Offrire il maṇḍala” e “visualizzare il maṇḍala” sono parti importanti dei metodi iniziatici del Tibet, della Mongolia e del Giappone. Vi sono anche opere che trattano della meditazione del maṇḍala e del suo simbolismo, scritte da maestri nātha-siddha, da tāntrika e yogi del Buddhismo tibetano.
In questi ambienti, maṇḍala è definito “ciò che riunisce i dettagli essenziali” (mandam lāti). Un testo tantrico molto seguito, il Tantrarāja Tantra, descrive la natura e i suoi usi rituali e meditativi. Come il cakra, il maṇḍala denota un atto di concentrazione sintetica su tutti i significati dettagliati del mondo, di una dottrina, di una costruzione della propria mente (bhāvanarūpa o manasarga). È anche il supporto grafico che facilita tale concentrazione. Ivi si raccolgono le energie interne e, come punto su cui prestare la propria concentrazione, fa convergere altre energie esterne. È uno strumento che è stato raffinato e confermato dall’uso e reso canonico.
È anche chiamato yantra, disegno che descrive in forma visibile l’atto di concentrazione dei pensieri dell’iniziato e punto di convergenza di forze provenienti dal mondo esterno. Lo si trova spesso in forma di un oggetto tridimensionale, un monile o un congegno meccanico. Le tre parole cakra, maṇḍala e yantra sono, di fatto, sinonimi. Ma nell’immaginazione popolare ognuno di essi possiede una particolare caratteristica che lo distingue dagli altri. Per questa ragione, cakra suggerisce l’immagine d’una forma circolare, mentre il maṇḍala, nonostante il suo senso primario di ‘qualcosa di rotondo’, è inteso per lo più di forma squadrata. Mentre il cakra e il maṇḍala in generale sono rappresentazioni piane, lo yantra è spesso un modello tridimensionale. Si deve notare che c’è anche un modello tridimensionale dello Śrī Cakra (chiamato Meru), e che vi sono maṇḍala dipinti su vari materiali in Tibet e in Giappone, specialmente usati per offerte. Non è raro che lo Śrī Cakra sia anche chiamato Śrī Yantra.
Comunque sia chiamato, si tratta d’una sfera di influenza, un recinto consacrato, un campo da gioco di pensieri, sentimenti e forze, sia esterni sia interni all’iniziato. È uno strumento impiegato per attivare energie, stimolare pensieri, armonizzare sentimenti, e coordinare e unificare forze interne ed esterne. È descritto correttamente come una psicocosmografia.
In quanto strumento che funge da tramite tra energia interiore ed energia esterna, è funzionalmente strutturato in tre livelli di “spazio”, inteso come ambiente di movimento: il livello del mondo grossolano delle cose e degli esseri (mahākāśa, grande spazio), il livello che rappresenta pensieri e sentimenti (cittākāśa, spazio mentale), e quello della pura, indifferenziata coscienza (chidākāśa, spazio o etere di Coscienza). Il primo simboleggia il mondo oggettivo, il secondo la valutazione soggettiva di esso, e il terzo l’eliminazione di tale dualismo. Lo spazio14, per definizione, è luminoso. I tre livelli indicano tre gradi di luminosità: il primo in cui lo spazio naturale luminoso è quasi interamente offuscato e ostacolato dalla tenebrosa inerziadi tamas; al secondo livello la luminosità è parzialmente diffusa dall’influenza attiva ed emotiva di rajas; infine la luminosità è massima al terzo livello, grazie a sattva, pura consapevolezza, qui predominante.
La meditazione sul cakra permette la trasformazione del primo livello nel secondo, e del secondo nel terzo. In parole semplici, possiamo descriverlo come trasmutazione15 della modalità grossolana in energia sottile, e quest’ultima in Coscienza. Quando si conclude il processo di trasmutazione è raggiunta la grande armonia che rimuove la distinzione tra il mondo oggettivo, il soggetto e la Coscienza. Quest’ultima deve essere concepita al tempo stesso sia oggettiva e soggettiva sia né oggettiva né soggettiva.
La completa armonia dell’esistenza è simbolizzata dal punto (bindu) che nel cakra occupa la posizione centrale. Infatti il cakra è descritto come lo sviluppo o manifestazione (sṛṣṭi) del bindu e, inversamente, il bindu è considerato essere la sintesi (samṛti) del cakra nella sua intera estensione. Nei testi tantrici si trova spesso l’immagine dello spazio onnicomprensivo che fuoriesce dal grembo del punto senza dimensione e quindi impercettibile. Nell’uomo, il corpo corrisponde allo spazio, la Pura Coscienza al bindu. Nelle pratiche connesse alcakra si attivano due movimenti vibratori: il primo di espansione dal bindu privo di dimensioni fino alla forma del cakra. Il secondo avviene in direzione inversa, vale a dire di concentrazione, a partire dalla rappresentazione concreta del cakra per arrivare al centro, al bindu senza forma. Il cakra è il mezzo che permette tali movimenti.
- Ci sono due risposte possibili a questo quesito. La simpatia degli occidentali può essere stata motivata dal metodo d’esposizione della dottrina tantrica del Trika che, soprattutto nelle opere Abhinavagupta, il massimo esponente di questa scuola, somiglia molto alle argomentazioni della filosofia occidentale e della logica usata dalle scuole deviate dell’anātmakavāda buddhista. La seconda spiegazione sarebbe che, trattandosi d’una tradizione interrotta, se ne può esporre il pensiero nel modo che meglio aggrada, senza tema di smentita da parte dei rappresentanti autorizzati.[↩]
- Riti d’offerta al fuoco che ricalcano i sacrifici vedici, a cui s’aggiunge l’efficacia iniziatica tantrica.[↩]
- Toccamenti di parti del corpo per collocarvi i mantra delle differenti divinità.[↩]
- Questa formazione corrisponde agli scopi del “quadrato” dell’arte militare occidentale: la differenza di forma deriva dalla necessità di concentrazione di fucileria nell’era delle armi da fuoco.[↩]
- Il devanāgrī, propriamente parlando, non è un alfabeto, ma un sistema grafico sillabico, in cui in ogni sillaba la consonante è sempre seguita da una ‘a’ breve.[↩]
- Questi cakra vanno progressivamente attivati per mezzo del controllo del respiro (prāṇāyāma) e della ripetizione di mantra specifici. Questa attivazione è immaginata come lo sbocciare di un bocciolo di loto. Per questa ragione i cakra sono anche detti fiori di loto (padma o kamala).[↩]
- Il centro mentale, responsabile dell’esperienza del sogno, allucinazioni, ecc.[↩]
- Il centro lunare, deputato a esercitare compassione, imparzialità, generosità, pazienza, ecc.[↩]
- Il loto dai mille petali, che in realtà è situato al di fuori del corpo grossolano, e per questo è definito extracorporeo (nirālamba-purī).[↩]
- Le vie tantriche sono divise in due correnti, vāmācāra, della mano sinistra, e dakṣinācāra, della mano destra. I vāmācārin sādhaka praticano ritualmente le ‘cinque ma’ (pañcamakāra). Si tratta della pratica di cinque riti trasgressivi di grande potenza, designati da parole che iniziano con le lettere ma: madya, assunzione di bevande inebrianti, maṃsa, di carne, matsya, di pesce, mudrā, di grano tostato (proibito nei rituali vedici) e maithuna, l’unione sessuale con ritenzione del seme. Al contrario i dakṣinācārin interpretano le ‘cinque ma’ come simboli che devono essere ritualmente compiuti interiormente nei diversi centri sottili, cakra o padma. Per l’importanza che attribuisce alla purezza, Śrī Vidyā evita ogni contaminazione vāmācāra. Solamente in casi eccezionali e per imposizione personale da parte del guru è lecito derogare a tale proibizione.[↩]
- Bhairavī è la forma femminile di Śiva-Bhairava, il terribile, il distruttore dell’universo. Questo termine nel tantrismo è interpretato in senso positivo, per indicare Śiva come distruttore dell’illusione mondana e quindi come colui che porta alla Liberazione. Nel vāmācāra, con bhairavī si indicano le iniziate che hanno raggiunto un grado di realizzazione capace di dissolvere l’illusione negli altri; per cui il maithuna con esse produce quel risultato. Nella corrente dakṣinācāra tale rito è visualizzato nei cakra, sotto forma di unione con divinità femminili (śakti, yoginī).[↩]
- Fanciulle mandriane amanti dell’avatāra, com’è narrato nell’epopea purāṇica del Dio, soprattutto nel Bhāgavata Purāṇa.[↩]
- Correnti tantriche della mano sinistra che si rifanno come fondatori a Matsyendra Nātha e a Gorakha Nātha.[↩]
- Ākāśa, etere, spazio, proviene dalla radice verbale kāś, risplendere.[↩]
- Usiamo volutamente questo termine, considerando che l’alchimia indiana (rasa vidyā) è uno dei linguaggi in cui si possono esprimere le dottrine e praticare i metodi tantrici.[↩]