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Gian Giuseppe Filippi

I due Soli

Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo,
due Soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento: ed è giunta la spada
Col pasturale, e l’un con l’altro inseme
Per viva forza mal conviene vada.1

Questo breve studio ha lo scopo di correggere una interpretazione, emersa da appena un secolo, circa l’attribuzione a Dante di una delle due teorie “Sole e Luna” che si potrebbe definire neoguelfa. Tale interpretazione è riemersa e diffusa immotivatamente proprio in certi ambienti che si dicono interessati a una visione realmente tradizionale del problema2. Naturalmente, è nell’ambito della dottrina cristiano-medievale e della sua applicazione storica che questo studio è obbligato a muoversi, dato che nessuno dei due poteri è attualmente vivente in Occidente. Tuttavia, come si potrà apprezzare nel prosieguo, la posizione dell’Alighieri coincide pienamente con la dottrina del sanātana dharma vivente, com’è ancora applicata in India nei rapporti riconosciuti tra la casta sacerdotale (brahma) e quella regia (kṣatra), nonostante la generale tristezza dei tempi.

Dante Alighieri nella Commedia e nella Monarchia sostenne la dottrina dei “due Soli”. Con essa intendeva dire che l’autorità spirituale e il potere temporale, rispettivamente rappresentati dal Pontefice romano e dall’Imperatore del Sacro Romano Impero, erano due funzioni tra loro indipendenti, provenendo entrambe direttamente da Dio. Con tale presa di posizione perfettamente tradizionale, volle fare chiarezza sulle relazioni tra i due poteri, in netto contrasto con le due contrapposte teorie del “Sole e Luna”, entrambe contrarie alla ragione, alla rivelazione cristiana e ai princìpi dottrinali metafisici e cosmologici da cui la diarchia procede: la conoscenza e l’azione. Le due teorie filosofico-politiche del “Sole e Luna” corrispondevano ai due partiti contrapposti dei guelfi e dei ghibellini. Secondo il punto di vista guelfo, il Papa era il Sole e l’Imperatore la Luna che splendeva di luce riflessa. Al contrario, i ghibellini sostenevano che il Sole era l’Imperatore e la Luna il Pontefice3. Si può dire che il punto di vista guelfo prese le prime mosse dai comportamenti di papa Gregorio IV (795-844), il quale, pur avendo giurato fedeltà di suddito al co-Imperatore Lotario, in seguito sostenne davanti ai vescovi la superiorità dell’autorità pontificia su quella imperiale4. Sebbene ancora ininfluente, la pretesa di egemonia pontificia fu ripresa dalla riforma cluniacense e, poi, per la prima volta messa in pratica dal malefico papa Gregorio VII, Ildebrando di Soana (1073-1085)5. L’alleanza che, a partire del X sec., fu stretta tra i pontefici e la serie dei duchi di nome Welfen della casa di Baviera, diede poi origine alla fazione guelfa, che da allora divenne la sostenitrice dell’egemonia del papato sull’Impero. Tale posizione politica fu infine teorizzata dalla scuola dei legisti dell’Università di Bologna durante la tarda scolastica6 e appoggiata militarmente, all’epoca di Dante, dalla casa di Valois a scopo antimperiale.

Ai Guelfi (Welfen) si contrappose la fazione dei sostenitori della dinastia imperiale Staufer o Hohenstaufen, il cui castello principale era quello di Waiblingen, da cui deriva il nome di ghibellini. All’inizio questa tendenza non aveva una ideologia stabilita, ma si limitava a perpetuare il cesaropapismo bizantino e l’impostazione imperiale di Carlo Magno e degli Ottoni di Sassonia. Per i ghibellini l’Imperatore era il Sole che proteggeva e concedeva autorevolezza “romana” al papa, il quale era la Luna che splendeva di luce riflessa. Alla fine del XIV secolo, tuttavia, tale posizione divenne l’ideologia della totale indipendenza dalle pretese egemoniche papali di qualsiasi potere temporale. In questo modo il ghibellinismo si svincolava da ogni relazione con il sacro, diventando una teoria di governo laico, nel cui ambito la religione occupava soltanto un settore. Marsilio da Padova7 fu colui che teorizzò questa ideologia laica e borghese nel suo Defensor pacis, su cui si basarono la monarchia francese e, paradossalmente, Ludovico il Bavaro8.

A questo punto ci si può chiedere quale fosse la posizione di Dante in quel contesto storico. Fu egli un convinto sostenitore del guelfismo bianco, come si apprende in tutti i manuali di studio? Dai suoi scritti non parrebbe affatto, come ugualmente non pare che fosse per nulla interessato alla scienza e arte del medico e speziale, alla cui arte e mestiere s’era affiliato. Per comprendere meglio le sue scelte personali precedenti l’esilio, è necessario conoscere alcuni avvenimenti. Nel 1282 i guelfi e i ghibellini di Firenze s’accordarono per una riforma borghese dello stato9. Il governo del comune sarebbe stato delegato a sei priori eletti dalle corporazioni di arti e mestieri. Dante, discendente dall’antichissima gens patricia d’origine romana degli Elisei, assieme a molti rappresentanti della nobiltà, dovette iscriversi all’Arte dei medici e degli speziali10 per non essere escluso dal governo della cosa pubblica. Le due parti, la guelfa e la ghibellina avevano, dunque, ormai assunto i comportamenti faziosi e compromissori delle piccole repubbliche mercantili, litigiose e corrotte. I ghibellini di Firenze, soprattutto durante la vacanza dell’Impero a seguito della caduta in disgrazia degli Hohenstaufen, si erano fatti partigiani degli interessi della ghibellina Arezzo. Con la battaglia di Campaldino (1289) e la sconfitta di Arezzo, i ghibellini furono espulsi da Firenze. Le due correnti del partito guelfo, i neri e i bianchi, cominciarono allora a contendersi il potere. I neri promovevano la bontà dell’ingerenza politica dei messi papali nel comune, mentre i bianchi sostenevano la necessità di una netta autonomia, seppure sotto benedizione paterna dal pontefice. È perciò del tutto comprensibile che gli aristocratici fiorentini, obbligati ad assumere un mestiere dalla costituzione imposta dal popolo grasso, confluissero nel partito dei bianchi11. Questo afflusso di cavalieri nel partito dei bianchi spiega la già attiva partecipazione di Dante, di Dino Compagni e di altri alla battaglia di Campaldino. Fu così che anche Dante venne eletto Priore nell’anno 1300, prima che il podestà12, con un colpo di mano dei neri, non lo costringesse all’esilio da Firenze. La ragione della condanna di Dante e della confisca dei suoi beni è probabilmente dovuta alla sua mozione presentata al Consiglio della città di esiliare sia i Donati, capi dei neri, sia i Cerchi, capi dei bianchi, per riportare la pace a Firenze. Così i neri si vendicarono dell’Alighieri, davanti alla complice indifferenza dei bianchi. Ciò dimostra il distacco di Dante dalle contrapposte fazioni, come anche la sua chiara e imparziale condanna di guelfi e di ghibellini; infatti mise queste dure parole in bocca all’Imperatore Giustiniano, preso a modello.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’altro segno; ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo13 novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello.14

Tralasciamo ora le vicende storiche per dedicarci a illustrare la dottrina dei due Soli come fu concepita dall’Alighieri e che divenne l’ideale imperiale dei suoi discepoli Fedeli d’Amore e dello stesso Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo15. La sacralità di Roma è provata dal fatto che il Cristo Redentore volle prendere le sembianze umane attendendo che si affermasse ciò che S. Paolo chiamava ‘la pienezza dei tempi’, per riparare alla perdita dell’Eden da parte della prima coppia. Dalla cacciata dal paradiso terrestre l’umanità non godette mai così profonda pace se non sotto la monarchia perfetta di Cesare Augusto16: questa l’interpretazione cristiana della pax augustea, l’età favorevole per la redenzione dal peccato originale. Anche Virgilio aveva descritto nella quarta egloga la restaurazione augustea del regno di pace e di giustizia secondo il punto di vista della religione romana:

Un grande numero di secoli sta rinascendo.
Già ritorna anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno.
Già una nuova generazione discende dall’alto cielo.
Tu, o casta Lucina, favorisci subito la nascita del fanciullo
Che concluderà la precedente età del ferro
E nell’intero mondo sorgerà l’umanità dell’oro:
Il tuo Apollo già regna.17

Questa profezia virgiliana sulla nascita di Gesù fu letta con venerazione durante tutto il medioevo, proprio perché dimostrava la continuità ininterrotta tra la tradizione romana e il cristianesimo, che è l’argomento di cui si sta trattando; tant’è che Dante così la parafrasa nella Commedia:

… quando dicesti: «Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende dal ciel nova.»18

Nella sua interpretazione, con Augusto si era instaurato l’Impero universale19 di Roma sull’intero mondo conosciuto e questo era il segno esteriore della ‘pienezza dei tempi’ in cui il Messia sarebbe sceso dal cielo per riscattare l’umanità dal peccato, permettendole di rientrare nel Paradiso Terrestre.

Analogamente, in India la ‘pienezza dei tempi’ dell’attuale ciclo umano corrisponde all’instaurazione del regno di Rāma, che cade nel secondo ciclo, nel Tretā Yuga, ma esattamente alla metà temporale dell’intero caturyuga20. Ciò sta a rappresentare un ritorno, nel corso della storia, delle beate condizioni del Kṛta Yuga, l’età dell’oro degli hindū, benché fosse già un periodo di parziale decadenza21. Così è descritto l’Impero ideale, il Rāma Rājya:

Sotto il tuo regno perfino gli esseri che non discendono da Manu parlano con voce umana, o eroe dall’anima divina! È trascorso solo più di un mese da quando hai impugnato lo scettro, o Rāma, e i mortali sono diventati immuni alle malattie; la morte non colpisce nemmeno gli uomini logorati dall’età, le donne non soffrono dei dolori del parto e gli esseri umani sono davvero belli e sani. Tutti gli abitanti della città godono d’una abbondanza di beatitudine, o Re! Dalle nuvole piove al momento giusto, i venti soffiano come carezze deliziose e sono piacevoli e salutari. Le persone che vivono in città o in campagna, arrivando alla capitale dichiarano: «Possa un tale sovrano essere a lungo il nostro Re!»22

E, nel Rāmāyaṇa di Tulasī Dāsa si aggiunge:

La terra era sempre spontaneamente ricoperta di coltivazioni; anche se era il Tretā Yuga, si riproducevano le condizioni del Kṛta Yuga.23

Come si può facilmente notare, l’Impero universale di Augusto richiama, nell’età del ferro, quello che fu il Sāmrājya (o Sārvabhauma) di Rāma in quanto Sovrano universale (Cakravartin), durante la seconda età, il Tretā Yuga24.

Ma perché proprio l’Impero dei romani doveva essere universale e Roma caput mundi? Dante spiega che l’elezione divina era dovuta al fatto che i romani furono il popolo più nobile tra quelli che ambirono alla sovranità universale25. La nobiltà consiste nelle virtù del singolo individuo perpetuate attraverso le virtuose generazioni degli antenati e delle loro spose26. La virtù è tale se si applica in favore del bene comune; in questo i romani eccelsero, poiché le loro virtù divennero la legge che essi seguirono con religioso fervore e che diffusero in tutto il mondo ai popoli assimilati al loro imperio27. Quella assimilazione non volle essere opera di conquista per desiderio di sopraffazione: fu desiderio di estendere legge e pace all’intero orbe terracqueo. Non di liti tra popoli, dunque, si trattava, ma di leali duelli28. A conferma della provvidenzialità dell’Impero romano, Dante elenca i tentativi falliti di sovranità universale di Nino, Ciro, Dario, Alessandro e Pirro, e i numerosi prodigi e miracoli che, invece costellano la gloriosa storia di Roma, segno della divina approvazione.

Dante, infine, si appella all’autorità evangelica per dimostrare il riconoscimento divino all’Impero di Roma: nel Vangelo di S. Luca (II.1), infatti si legge:

“Fu proclamato un editto da Cesare Augusto affinché fosse descritta tutta la terra.” Da ciò possiamo capire che allora tutto l’orbe terrestre era sotto l’universale dominio dei romani. Da quanto abbiamo finora detto è evidente che il popolo dei romani prevalse su tutti quelli che gareggiarono per conquistare l’Impero mondiale, e che lo ottenne per giudizio di Dio.29

Dante allude, poi, al dialogo intercorso tra Cristo e Pilato:

Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.30

E, sulla base di tale versetto evangelico, conclude:

Dunque, Tiberio Cesare, di cui Pilato era vicario, non avrebbe avuto giurisdizione sull’intero genere umano se l’Impero romano non l’avesse avuta per diritto.31

Con queste prove tratte dalle sacre scritture, Dante si scaglia contro quei cristiani che, fin dai primi tempi, vituperano l’Impero romano dipingendolo come fosse una diabolica Babilonia. Essi dimostrano di essere ancora zeloti e iscarioti (o sicari) ribelli all’Impero, alla ricerca di un regno di Giuda del tutto terreno e non già d’essere proseliti del Regno dei cieli predicato dal Redentore. Con questa invettiva Dante non vuole colpire soltanto gli apologeti cristiani dei primi secoli, che tanto livore dimostrarono nei confronti dell’Impero ingigantendo la leggenda delle persecuzioni; si rivolge soprattutto alla Chiesa cattolica di Gregorio VII, Innocenzo III, Clemente V, di quei papi che si servirono di ogni mezzo illecito (come l’uso politico della scomunica) per sostenere che essi erano il Sole e l’Imperatore la Luna.

Smettano, quindi, di ingiuriare l’Impero Romano coloro che fingono d’essere figli della Chiesa […] Quanto sarebbe felice quel popolo e quanto gloriosa l’Italia se colui che ha indebolito l’Impero non fosse mai nato, o che non avesse mai presa quella pia decisione!32

Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se Costantino non fosse mai nato o non avesse avuto la malaugurata idea di indebolire l’Impero donando al papato una parte del territorio romano33. Il Patrimonio di S. Pietro non si sarebbe gonfiato come un tumore da Roma a occupare tutto il centro Italia e l’Impero non sarebbe stato spinto verso settentrione, diventando sempre meno latino. Il popolo romano sarebbe rimasto felicemente dominante e l’Italia sarebbe rimasta una terra gloriosa, com’era anticamente:

“Tu regere imperio populos, Romane, memento:
hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem,
Parcere subiectis et debellare superbos”.34

Il terzo libro della Monarchia è interamente dedicato a dimostrare che le argomentazioni sulla superiorità del papato anche nell’ambito temporale sono frutto di ignoranza e malafede. La teoria, in base alla quale Sole e Luna rappresentano il papa e l’Imperatore vorrebbe basarsi sul fatto che nella Bibbia è scritto che Dio creò i due luminari, uno maggiore e l’altro minore, affinché il primo dominasse il dì e l’altro la notte. Dì e notte sarebbero, dunque, reciprocamente il dominio spirituale e temporale.

Da cui arguiscono che poiché la Luna, il luminare minore, non ha luce se non perché la riceve dal Sole, così il regno temporale non ha autorità se non in quanto la riceve dal dominio spirituale.35

Questa allegoria è tuttavia una forzatura nella lettura del testo sacro:

Infatti, quei due luminari furono creati nel quarto giorno e l’uomo nel sesto, com’è evidente dalla scrittura. Inoltre, dato che questi due poteri raddrizzano l’uomo verso certi fini, come illustreremo più avanti, se l’uomo fosse rimasto nello stato d’innocenza come fu creato da Dio, non avrebbe avuto bisogno di tale correzione. In realtà quei poteri servono come rimedio contro l’infermità del peccato.36

A chi volesse insistere con l’allegoria del Sole e della Luna equiparati abusivamente a Papa e Imperatore, nonostante la precedente incontestabile confutazione, Dante risponde in questo modo:

“Perciò affermo che, benché la Luna riceva abbondante luce dal Sole, non ne consegue che la Luna dipenda dal Sole […] Per quel che riguarda la sua esistenza, essa non dipende per nulla dal Sole. […] Per analogia affermo che il [potere] temporale non riceve la sua esistenza da quello spirituale […] Se la Luna è il potere temporale e riceve la luce dal Sole, che è quello spirituale, lo riceve opportunamente affinché operi ancor più virtuosamente alla luce della grazia infusa da Dio in cielo e in terra tramite benedizione del sommo Pontefice.37

Per sostenere la tesi della supremazia temporale del sacerdozio sulla sovranità, alcuni sostengono che, nella Bibbia, Levi, da cui discesero i sacerdoti ebrei, era fratello maggiore di Giuda, progenitore dei Re di Israele:

[Anche se] il simbolo di questi due poteri, cioè Levi e Giuda, uscirono entrambi dai lombi di Giacobbe […] sostengono che […] Levi nacque prima di Giuda, come dice la Bibbia: dunque la Chiesa è superiore per autorità all’Impero.38

Ma ciò dimostra soltanto che, anche se c’è un primato spirituale sul temporale, entrambi i poteri sono stati generati separatamente da Dio.

Altri, ancora, ricordano che, come il profeta Samuele depose il re Saul, così il pontefice avrebbe il potere di deporre gli Imperatori. Ma anche questo è errato, perché Samuele fu inviato direttamente da Dio per compiere quella specifica missione. Nessuno, invece, ha investito i papi di un simile potere permanente.

Certuni sostengono che i Re Magi offrirono a Cristo incenso e oro, riconoscendo così ch’egli era Signore sia delle cose spirituali sia di quelle temporali. Il papa, essendo il vicario di Cristo, avrebbe dunque la medesima signoria su entrambi i domini. In realtà il papa non è Cristo, ma solo il suo vicario. Dio è come un principe che può delegare i suoi poteri a un suo vicario, tuttavia anche:

Se così è, è chiaro che nessun principe può delegare un vicario del tutto equivalente a sé.39

E, ancora, i partigiani della superiorità papale interpretano erroneamente quanto detto da Gesù a Pietro:

Ciò che legherai in terra sarà legato in cielo; e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto in cielo. […] Da cui deducono che il pontefice stesso abbia il potere di sciogliere e legare l’autorità e le leggi dell’Impero.40

Ma, in realtà, la frase evangelica citata era la conclusione di un discorso in cui Cristo, rivolgendosi a Pietro, precisava:

«Ti darò le chiavi del regno dei cieli»che significa ti farò portinaio del regno dei cieli.”41

Dunque, non del regno terrestre: Dante anche qui ha buon gioco a raddrizzare il significato del passo evangelico: con le parole di Cristo si voleva invero narrare l’istituzione del sacramento della penitenza, e non la licenza conferita al papa per sovvertire l’ordine imperiale.

Infine, Dante corregge l’interpretazione d’un ultimo passaggio evangelico, sulla cui autorità i partigiani del papa gli attribuiscono entrambi i poteri per delega divina:

Prendono anche quel detto di Luca, quando Pietro disse a Cristo: «Ecco, qui abbiamo due spade». E dicono che con quelle due spade s’intendono i due suddetti domini. Pietro disse che le aveva lì volendo dire che erano in suo potere; da cui deducono che quei due domini appartenevano per autorità al successore di Pietro.42

Ma nel testo evangelico è chiaro che Gesù intendeva avvertire gli apostoli di essere forti perché stava per arrivare il tempo in cui egli sarebbe stato arrestato e messo a morte ed essi perseguitati. Pietro, che spesso non brillava per acume, capì erroneamente che avrebbero dovuto opporre resistenza: per questo disse al suo Maestro che erano preparati e che già erano armati di due spade.

Che Pietro, com’era sua abitudine, parlasse con superficialità è dimostrato dalla sua affrettata e sconsiderata comprensione. Non era solo perché era spinto da fede sincera ma anche per la sua natura sempliciotta e dabbene.43

Queste osservazioni danno il destro a Dante, iniziato e maestro dei Fedeli d’Amore, per dimostrare quanto Pietro fosse il più superficiale tra gli apostoli, spesso equivocando le stesse parole di Cristo: proprio per questa ragione egli doveva diventare i capo della Chiesa esteriore. E in questo modo, riservando a Pietro e a tutta la serie dei papi suoi successori il marchio di una autorità spirituale esclusivamente essoterica, Dante conclude l’esame delle pretese rivendicazioni del papato basate sulle fonti scritturali. Di seguito critica aspramente l’Imperatore Costantino per la donazione a papa Silvestro di parte del territorio e degli stessi poteri imperiali, in quanto questo abuso avrebbe frantumato l’universalità dell’Impero romano. Costantino aveva ricevuto la monarchia dell’impero universale, potere trasmesso da molti secoli. Avrebbe potuto rinunciare al trono, ma mai avrebbe avuto la possibilità di rendere particolare ciò che per sua natura è universale. Come oggi sappiamo, la Donazione di Costantino fu un falso redatto in epoca carolingia da legisti papali. Nella realtà storica, Costantino non rinunciò a nessun potere, continuando a conservare per sé persino l’ufficio pontificio44 che era attributo connaturato all’Imperium45.

La Donazione di Costantino fu soltanto l’ultima e più spudorata falsificazione di documenti fabbricati per sostenere le pretese papali. Già dal VI secolo, con l’oscuramento dell’Impero Romano d’occidente, le istituzioni dell’Europa occidentale furono oggetto di un riadattamento per impulso delle invasioni barbariche. Della vacanza imperiale ne profittò il vescovo di Roma.

In questo rimodellamento delle istituzioni europee, così necessario per gli interessi della cristianità e della civiltà, una delle operazioni più efficaci fu la raccolta di canoni nota come False Decretali. In questo periodo cominciò a circolare di mano in mano una raccolta di epistole papali, sulle quali i nomi dei primi vescovi di Roma trattavano dell’autorità della Chiesa primitiva e incorrotta, trasmessa dalla pura e indiscussa tradizione apostolica. Il nome assunto dal compilatore era Isidoro Mercatore, o Peccatore, e poiché si diceva che la copia dell’originale fosse stata portata dalla Spagna, costui fu facilmente confuso con Sant’Isidoro di Siviglia, l’eminente canonista che, due secoli prima, aveva goduto di un’ampia e meritata reputazione per la sua vasta cultura e la sua indiscussa ortodossia. Dionigi il Minore, che nella prima metà del VI secolo fece una autorevole raccolta di canoni e decretali, la attribuì a Papa Siricio, il cui pontificato durò dal 384 al 398. Non esistono epistole papali precedenti di natura decretale. Perciò, quando le decisioni e i decreti di più di trenta padri apostolici, di venerabile antichità, furono presentati con la garanzia di ecclesiastici di alto rango e potere, e quando questi decreti si rivelarono adatti in modo mirabile alle esigenze e alle aspirazioni della Chiesa, non c’è da stupirsi che venissero accettati con poco scrupolo da coloro a cui servivano e che non erano abituati alle sottigliezze di una rigorosa critica antiquaria. Non ci si poteva aspettare che un prelato di quell’epoca barbara analizzasse le regole guida ed eliminasse i falsi abilmente mischiati agli autentici quando facevano comodo ai suoi interessi o alla sua ambizione. Alcuni, più accorti di altri, percependo che, se il loro potere era accresciuto, allo stesso tempo i loro vincoli di sottomissione al loro capo erano più stretti, mormorarono deboli e cauti dubbi; ma la stragrande maggioranza accolse le nuove decretali con fede indiscussa. E, sebbene cause politiche ne ritardassero l’immediata accettazione, poco dopo la metà del secolo le troviamo accolte con scarse voci dissenzienti. A Ricolfo, che occupò la sede arcivescovile di Magonza dal 784 all’814, viene attribuita la paternità di questa, la più audace, stupefacente e riuscita falsificazione che il mondo abbia mai visto.”46

Qual è dunque il motivo per il quale il papato giunge perfino a falsificare i documenti pur di stravolgere le leggi rappresentate dal diritto romano, usurpando il potere temporale dell’Impero? Dante lo fa spiegare a Marco Lombardo47 con la seguente terzina, oscura solamente in apparenza:

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l pastor che procede
Regumar può, ma non ha l’ugne fesse.48

Le leggi del diritto romano ci sono, ma nessuno le rispetta in quanto seguono il cattivo esempio del papa: questi ha sì diritto a ruminare ma non ha lo zoccolo diviso in due. L’ultimo verso della terzina si richiama a Levitico (XI.3-8) che stabilisce per legge essere lecito per i giudei cibarsi delle carni dei ruminanti che hanno anche lo zoccolo fesso; vale a dire bovini, ovini e caprini. Tuttavia Dante, a queste ingiunzioni alimentari semplicemente dogmatiche49, sovrappone una interpretazione simbolica. Ruminare, infatti, è la ripetuta masticazione del cibo per meglio digerirlo. Si tratta dunque di un modo traslato per indicare la riflessione reiterata su ciò che si è appreso, fino alla sua completa assimilazione, ciò che in sanscrito è definito manana. Il papa, quindi, avrebbe il compito di dedicarsi alla conoscenza, e non all’azione, dato che non ha lo zoccolo fesso, appannaggio esclusivo dell’Imperatore. Seguendo S. Tommaso, Dante interpreta l’unghia bifida come la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è illecito secondo la legge; far rispettare la giustizia terrena è la principale missione del sovrano50.

L’un l’altro ha spento: ed è giunta la spada
Col pasturale, e l’un con l’altro inseme
Per viva forza mal conviene vada.1

L’uno, il pontefice, ha indebolito l’altro, l’Imperatore. Ha fuso il pastorale con la spada e i due poteri, forzatamente unificati nella sua persona, tra loro male si accordano, ostacolandosi reciprocamente. Alla semplicioneria di S. Pietro si è sovrapposta la bramosia di potere terreno dei papi, e questo ha determinato la progressiva perdita della conoscenza51. O, all’inverso, nei papi è accresciuta la bramosia di potere terreno, quasi a compensare la progressiva perdita di conoscenza.

Dante conclude il De Monarchia confermando la chiara distinzione principiale di giurisdizione tra i due Soli, nonostante la situazione di indebolimento dell’Impero e la seria degenerazione spirituale del Papato di quel tempo:

Or dunque, la Provvidenza infallibile propose all’uomo due mete: la prima è la beatitudine in questa vita che consiste [nella fruizione] delle azioni compiute secondo la propria virtù e che è rappresentata dal paradiso terrestre; l’altra la beatitudine della vita eterna che consiste nella fruizione della visione di Dio, che si chiama paradiso celeste, a cui non si accede per la sola virtù se non è aiutata dalla luce [della grazia] divina. A queste due beatitudini in quanto mete diverse, si deve arrivare per vie diverse.52

Così alla fine s’è chiarita la verità sulla disputa se la funzione del monarca sia necessaria al bene del mondo, se l’Impero sia stato attribuito per diritto al popolo romano e, infine, se l’autorità del monarca venga direttamente da Dio senza alcun intermediario. Ma la verità sull’ultimo argomento non deve essere intesa in senso stretto, ossia che il Principe romano non sia in alcun modo inferiore al Pontefice di Roma: infatti la felicità nella vita mortale è subordinata alla felicità della vita immortale. Cesare, quindi, porti rispetto a Pietro come il primogenito fa nei confronti del padre affinché, benedetto dalla luce della grazia paterna possa diffondere la propria luce sull’intero mondo, di cui è stato messo a capo unicamente da Colui che regna su tutte le cose spirituali e temporali.53

Alle dimostrazioni dantesche sulla reciproca indipendenza dell’origine dei due poteri, possiamo aggiungere che l’Impero medievale traeva diretta trasmissione dall’Impero romano precristiano54 e il papato dall’istituzione del sacerdozio come trasmissione dei vicari di Cristo55. Questa argomentazione storicistica, tuttavia, ha il difetto di non provare la diretta origine di ciascuna autorità da Dio.


Le ultime righe con cui il Divino Poeta conclude il De Monarchia sono di fondamentale importanza per comprendere appieno il suo pensiero. Egli riesce a trascendere le contingenze storiche, dalle quali fu perfino coinvolto, per stilare una dottrina sui due poteri che riguarda una prospettiva davvero universale. Dopo aver ben chiarito al di fuori di ogni dubbio tutte le ragioni che dimostrano la totale autonomia e indipendenza dei due Soli, le cui autorità derivano direttamente da Dio senza intermediazione, Dante riconosce la primazia papale. Infatti il dominio in cui si esercita il potere imperiale è quello della vita terrena, limitato, dunque, al campo d’azione della nascita in un corpo grossolano. Salute, benessere, successo mondano personale e della propria famiglia, pace, armonia, felicità: questi sono i fini che l’Impero romano garantisce a tutto il genere umano. Felicità, dunque, di cui fruiscono anche i popoli che vivono al di fuori dei confini presidiati dai milites dell’Impero, la cui pax romana riverbera civiltà e ordine fino agli angoli più remoti dell’universo mondo. L’universale carisma dell’Impero romano è il risultato di azioni giuste e virtuose volte a realizzare il giardino dell’Eden sulla terra. L’assonanza con il concetto di sovranità universale del sanātana dharma è davvero stupefacente. La sovranità su tutto l’universo (sarva-bhūmi) di pace e giustizia (śānta sudharma) è il prodotto di azioni rette (dharmya karma) compiute seguendo le leggi universali che Dio creò assieme al mondo per mantenerne l’ordine56. Azioni che producono risultati visibili (dṛṣṭa phala) propiziati dalle virtù dell’Imperatore (samrāt).

Il dominio, invece, su cui esercitava la sua autorità il vicario di Cristo era di natura diversa:

Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero combattuto affinché non fossi consegnato ai Giudei; or dunque, il mio regno non è di quaggiù.57

Anche in questo caso è riscontrabile una somiglianza con la funzione del sacerdozio (brāhma) del sanātana dharma. La salvezza nei cieli (paraloka sthāna)dopo l’abbandono del corpo (dehānta) e, in particolare, nel cielo più alto (Satyaloka Brahmaloka) che Gesù chiama ‘regno dei cieli’ e Dante ‘paradiso celeste’: queste sono le mete di cui la Chiesa di Roma dovrebbe dischiudere l’accesso. Per ottenerlo, si devono compiere azioni rette (dharmya karma) che producono risultati invisibili (adṛṣṭa phala) propiziati dal potere rituale del papa di legare e sciogliere di cui si è detto prima58. Tuttavia, essendo invisibili quei risultati che conducono ai mondi dell’aldilà, ovvero non essendo sperimentabili in vita, alle virtù richieste per compiere i riti devono essere aggiunte fede (viśvāsa) e speranza (āśā).

Bhagavān (il Signore) creò l’universo e, volendo che la sua esistenza continuasse, fin dall’inizio creò i Prajāpati, tra cui Marīci59, a cui assegnò la via dell’azione (pravṛtti dharma). Creò anche altri, tra cui Sanaka e Sanandana60, a cui assegnò la via della rinuncia (nivṛtti dharma), segnata dalla conoscenza e dal distacco dagli oggetti del mondo. Il dharma vedico è, dunque, duplice, caratterizzato da pravṛtti (azione) e nivṛtti (rinuncia), al fine di mantenere l’ordine nel mondo; questo duplice dharma, che conduce direttamente a godere della felicità terrena o a ottenere la Liberazione, è stato seguito da sempre da tutti gli esseri umani d’ogni casta e fase della vita. […] Il dharma vedico dell’azione, che promuove la felicità nel mondo e che è prescritto alle caste e alle fasi della vita, conduce alla purificazione della mente quando è praticato con senso di devozione verso Īśvara e senza aspettarsi ricompense; generalmente, però, quando è seguito con desiderio di ottenere frutti, conduce i suoi praticanti ai mondi superiori degli esseri celesti e così via. Però, poiché questa attività purifica la mente, indirettamente avvia al raggiungimento della Liberazione: la mente purificata diventa adatta a praticare la via della conoscenza che, a sua volta, conduce a quella conoscenza che libera. Tenendo presente questa idea, il Signore dichiara in BhG (V.10-11): «Gli yogin agiscono senza attaccamento per purificare la mente». La scienza della Gītā, che insegna nei particolari il duplice dharma vedico, è finalizzata alla Liberazione.61

Dal brano di Śaṃkara citato si deduce con chiarezza la corrispondenza della dottrina dei due Soli di Dante con la dottrina dei due dharmapravṛtti nivṛtti della tradizione eterna e la definitiva sconfessione della teoria Sole-Luna62. Dopo aver dimostrato la correttezza della dottrina di Dante, è necessario, arrivati a questo punto, sottolineare le differenze. Infatti i due dharma dell’induismo corrispondono con esattezza alla via dell’azione (karma mārga) e alla via della conoscenza (jñāna mārga). La prima conduce tutti alla felicità terrena e, dopo la morte, a evitare l’inferno (naraka) per raggiungerei cieli e buone rinascite; oppure permette agli iniziati (dīkṣita), di imboccare il pitṛyāṇa o il devayāna. Al contrario, la conoscenza e solo la conoscenza (Brahma Vidyā) porta alla Liberazione (mokṣa). Nel caso della tradizione cristiano-medievale, invece, l’esteriorizzazione della Chiesa latina e la perdita dell’iniziazione monastica hanno cambiato notevolmente la situazione: rimaneva dunque al papato il potere di legare e di sciogliere per condurre come massimo al destino postumo della salvezza ed evitare la dannazione. C’è, comunque, da precisare ancora che la conoscenza che l’iniziazione, conservata nei monasteri nell’alto medioevo, trasmetteva, non corrispondeva affatto alla conoscenza del Supremo, ma alla sola aparavidyā63. La scomparsa della conoscenza nell’ambito religioso e la crescita della cupidigia di potere nei papi furono viste con grande preoccupazione da Dante e dai Fedeli d’Amore. L’Impero e l’iniziazione cavalleresca che sopravvivevano, erano diventati l’oggetto di persecuzione da parte della religione esteriore. Non per nulla, lo stesso Alighieri aveva assistito alla grave soppressione dell’Ordine del Tempio. La debolezza dell’Impero consisteva nella posizione tradizionale che aveva sempre mantenuto, anche durante le diatribe più aspre con il papato. L’Imperatore s’era sempre comportato con il massimo rispetto nei confronti del pontefice, riconoscendo che l’autorità di quest’ultimo s’estendeva al cielo. C’era, perciò, la piena consapevolezza che la stessa prosecuzione dell’iniziazione cavalleresca era in pericolo di estinzione, come, infatti accadde di lì a poco. Quello di Arrigo VII e di Dante fu certamente l’ultimo tentativo di salvare l’Occidente.

Oṃ Tat Sat

  1. Purgatorio, XVI.106-111.[][]
  2. C’è persino chi ha scritto un libro su Dante per trattare proprio di questi argomenti, senza aver evidentemente mai letto direttamente alcunché del divino poeta. Costui, invece di vantarsi di non averci mai messo piede, avrebbe fatto meglio consultare i testi in una qualche biblioteca.[]
  3. Questa teoria s’appoggiava a una legge emanata da Giustiniano per l’elezione del papa e messa in pratica a partire da Agapito I nel 535, che rendeva obbligatoria l’approvazione imperiale. (Henry C. Lea, Studies in Church History. The Rise of Temporal Power. Benefit of Clergy. Excommunication, London, Sampson Low, Son & Marston, 1869, p. 21). Tale privilegio si trasmise per tutta la durata del Sacro Romano Impero (800-1806) e fu esercitato anche dall’Impero d’Austria, suo continuatore, fino al 1904. In quell’anno, Pio X pretese di abolire la legge: tuttavia, nessuno può abolire una legge alla quale si è soggetti.[]
  4. Lotario, da parte sua, ebbe la dabbenaggine di appoggiare le pretese di Gregorio, che considerava un potente alleato nella sua diatriba contro il padre, l’Imperatore Ludovico il Pio, e contro i suoi fratelli Pipino e Ludovico il Germanico circa la successione imperiale. Non a caso, dunque, lo spudorato falso della Donazione di Costantino, su cui si basa la pretesa al potere temporale dei papi, tuttora reclamata per lo stato della Città del Vaticano, è stata stilata proprio sotto Gregorio IV. Si noti quanto nel mondo occidentale gli avvenimenti storici, veri o falsi, determinino il pensiero e i comportamenti, molto di più di qualsiasi principio sacro scritturale o di qualsiasi evidenza naturale.[]
  5. Ab ordine Chaos, 38 “I deleteri risultati della secolarizzazione della Chiesa”. La contessa di Toscana, Matilde, che fu complice di Gregorio VII e protagonista dell’umiliazione dell’Imperatore Enrico IV a Canossa, era moglie di Guelfo V (Welf V), duca di Baviera.[]
  6. Othmar Hagenneder, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, Milano, Vita e Pensiero ed., 2000.[]
  7. Anche in questo caso la svolta laica del ghibellinismo avvenne per influenza della tarda scolastica e dell’averroismo che prevalevano all’università di Padova; tale degenerazione, alla fine, si ritorse anch’essa contro l’ideale imperiale.[]
  8. Dalla metà del XIV secolo numerose monarchie nazionali e principati sovrani adottarono questa teoria politica che, ovviamente non può più essere considerata propriamente ghibellina, essendo ormai del tutto estraniata dal contesto della lotta tra i due poteri universali, il Papato e l’Impero. Fece eccezione il Santo Impero che, una volta liberatosi dalle pretese imperiali bavare alla morte di Roberto di Wittelsbach (1410), continuò a mantenere, almeno formalmente, una costituzione sacramentale e apostolica. Al contrario, la centralità dello stato laico rispetto alla religione, diventata fenomeno episodico e privato, assumerà più tardi le parvenze dell’ideologia profana sulla separazione netta tra Stato e Chiesa, tipica delle monarchie costituzionali e delle repubbliche massoniche; sta di fatto che i resti ottocenteschi del potere clericale definirono, benché abusivamente, ‘ghibellini’ i regimi sorti a seguito dalla rivoluzione francese.[]
  9. Ciò sta a dimostrazione di quanto il partito ghibellino fosse ben lontano da quell’idealizzazione ‘tradizionale’ fantasticata da Julius Evola ne Il Mistero del Graal.[]
  10. In alcuni testi scolastici della repubblica democratica fondata sul lavoro si legge la ‘disinformazia’ che narra di un Dante nato da una famiglia borghese; ciò allo scopo di cancellare dalla memoria storica delle giovani vittime della scuola dell’obbligo ogni segno di un passato aristocratico.[]
  11. I ghibellini che non fuggirono dalla città si riciclarono come guelfi. Tra questi l’aristocratico Giano della Bella che poi, nel 1293, si vendicò del popolo grasso facendo approvare i demagogici Ordinamenti di Giustizia in favore del popolaccio o ‘popolo magro’ (Paradiso, XVI.127.132). Come si potrà notare, la condotta immorale e priva di scrupoli dei partiti e dei politici tardomedievali non è molto diversa da quella degli attuali governi popolari o democratici.[]
  12. Il podestà era il controllore della gestione priorale. Per statuto, non doveva essere fiorentino: di fatto il podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio era della fazione nera e fedelissimo di Bonifacio VIII.[]
  13. Carlo II d’Anjou, cugino di Filippo il Bello e degli altri Valois.[]
  14. Paradiso, VI.100-108.[]
  15. Come appare evidente, Dante per la dottrina dei due Soli si richiamava all’ideale dell’Impero romano, la cui gloria continuò a risplendere a Bisanzio con Giustiniano e a Roma con Carlo Magno e gli Ottoni. Riconosceva però la corruzione del Papato e l’oscuramento dell’Impero dei suoi tempi, causati dalla bramosia di potere temporale dei pontefici che oltre al pastorale volevano anche brandire la spada, indebolendo la funzione imperiale (cit. Purgatorio, XVCI.109-110). Da questo nacque la grande speranza di restauratio Imperii da parte dell’Imperator Arrigo VII, anch’egli iniziato alla Fede Santa.[]
  16. Un accadimento memorabile conferma tutte ragioni riportate sopra; quella è stata la situazione dei mortali che il Figlio di Dio attese per assumere la forma umana per la salvezza dell’uomo: o, meglio, scelse quando egli stesso lo volle. Infatti, se riflettiamo sulle condizioni dell’umanità e a partire dai tempi dalla colpa dei progenitori che diede origine a tutti le nostre deviazioni, non troviamo mai che il mondo fosse tanto in pace come sotto Cesare Augusto, che fu monarca della Monarchia perfetta. Che allora il genere umano fosse felice nella quiete della pace universale è testimoniato da tutti gli storici e da illustri poeti. Questo si è degnato di testimoniare anche colui che scrisse della mansuetudine di Cristo; inoltre, Paolo chiamò quella situazione felicissima «pienezza dei tempi».”; “Rationibus omnibus supra positis experientia memorabilis attestatur, status videlicet illius mortalium quem Dei Filius, in salutem hominis hominem assumpturus, vel expectavit vel cum voluit ipse disposuit. Nam si a lapsu primorum parentum, qui diverticulum fuit totius nostræ deviationis, dispositiones hominum et tempora recolamus, non inveniemus nisi sub divo Augusto monarcha, existente Monarchia perfecta, mundum undique fuisse quietum. Et quod tunc humanum genus fuerit felix in pacis universalis tranquillitate, hoc historiographi omnes, hoc poetæ illustres, hoc etiam scriba mansuetudinis Christi testari dignatus est; et denique Paulus «plenitudinem temporis» statum illum felicissimum appellavit” (Monarchia, I.16.1-2).[]
  17. Magnus ab integro sæculorum nascitur ordo. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna, Iam nova progenies cœlo demittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet, ac toto surget gens aurea mundo” (Bucoliche, IV.5-10).[]
  18. Purgatorio, XXII.70-72. I versi di Virgilio sono ricordati anche nelle Epistole: VII.6 e XI.15.[]
  19. Universale significa letteralmente ‘dell’intero universo’. Così, nella concezione dantesca, il Sovrano universale, essendo il possessore dell’intero universo, non poteva avere desideri e ambizioni, in quanto già tutto gli apparteneva per diritto divino. La sacralità della sua funzione era perciò garantita dal suo trascendere ogni pulsione egoistica. Similmente il pontefice era universale per quanto atteneva al dominio religioso: per questa ragione i due Soli erano universali nei loro rispettivi domini. L’inadeguatezza dei papi, spesso di natura plebea, li spinse, per invidia, alla bramosia di usurpare il potere temporale. Agendo in tal modo, dimostrarono di non essere degni dell’universalità, mentre, allo stesso tempo, minavano il concetto di universalità imperiale. Richiamiamo l’attenzione del lettore a considerare che ‘universale’ non è affatto sinonimo di ‘assoluto’, errore questo diffusissimo in ambienti che si ritengono tradizionali.[]
  20. È interessante notare che Dante pone la metà del ciclo cristiano nell’anno 1300. Con ciò faceva coincidere la pienezza dei tempi con la missione sua e di Enrico VII di restaurazione del Santo Impero.[]
  21. Secondo la tradizione dei latini, già in passato l’Italia era stata teatro di una restaurazione temporanea dell’età dell’oro durante l’attuale età del ferro, allorché Saturno, Re dei tempi aurei, vi si era rifugiato quando fu esiliato dal figlio Giove. “Salve magna parens frugum, saturnia tellus, magna virum”, così Virgilio cantava l’Italia: “Salve terra di Saturno, grande genitrice di frutti e di eroi” (Georgiche, II.173). Si trattava, in quel caso, non di una restaurazione universale e duratura, ma locale e transitoria, dovuta alla presenza nel Lazio di quel Dio. Analoga concezione è vivissima ancor oggi in India, dove si afferma che in certe recondite valli himalayane e inestricabili giungle, ancora si perpetuano le beate condizioni della prima età. Ugualmente si dice che chi frequenta il satsaṅga, l’adunanza dei jñāni, si trova proiettato del Kṛta Yuga.[]
  22. Śrīmad Vālmīki Rāmāyaṇa, VII.41.18-21.[]
  23. Tulasī Dāsa, Rāmacatitamānasa, VII. 203.3.[]
  24. G.G. Filippi, “Cakravartin: mythic and historical symbols”, Annali di Ca’ Foscari, XXX, 3 (SO 22), Venezia, 1991, pp. 125-136.[]
  25. Dico igitur ad questionem quod Romanus populus de jure, non usurpando, Monarchæ officium, quod Imperium dicitur, sibi super mortales adscivit. Quod quidem primo sic probatur: nobilissimo populo convenit omnibus aliis preferri; Romanus populus fuit nobilissimus: ergo convenit ei aliis preferri.” (II.3.1-2). “A questa domanda rispondo che il popolo romano non usurpò la funzione monarchica che si chiama Impero, ma per diritto prese il potere sui mortali. In primo luogo lo si può provare così: è naturale che il popolo più nobile sia posto sopra tutti gli altri. Il popolo romano fu il più nobile, perciò è naturale che fosse posto sopra agli altri”.[]
  26. Assumpta ratione probatur: nam, cum honor sit premium virtutis et omnis prelatio sit honor, omnis prelatio virtutis est premium. Sed constat quod merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriæ vel maiorum.” (II.3.3). “Con l’argomentazione descritta si prova che infatti l’onore è premio della virtù ed essendo ogni superiorità un onore, ne consegue che ogni superiorità è un premio per la virtù. Ma si sa che gli uomini sono nobilitati a motivo della virtù sia propria sia di quella degli antenati.” “Qui quidem invictissimus atque piissimus pater [Æneas] quantæ nobilitatis vir fuerit, non solum sua considerata virtute sed progenitorum suorum atque uxorum, quorum utrorumque nobilitas hereditario iure in ipsum confluxit, explicare nequirem.” (II.3.7) “Quanto nobiluomo fosse quel padre [Enea] sempre invitto e pio, non solo per sua provata virtù, ma anche dei suoi progenitori e delle loro spose, le cui nobiltà confluirono in lui per diritto ereditario”.[]
  27. Quod autem Romanus populus bonum prefatum intenderit subiciendo sibi orbem terrarum, gesta sua declarant, in quibus, omni cupiditate submota que rei publicæ semper adversa est, et universali pace cum libertate dilecta, populus ille sanctus, pius et gloriosus propria commoda neglexisse videtur, ut publica pro salute humani generis procuraret. Unda recte illud scriptum est: «Romanum imperium de Fonte nascitur pietatis» [“salva me, fons pietatis”, citazione dal Dies Iræ di Tommaso da Celano]” (II.5.5). “Perciò, le sue stesse gesta dimostrano che il popolo romano ha perseguito il summenzionato bene comune, sottomettendo a sé il mondo intero; così agendo, rimossa ogni cupidigia che è sempre nemica della cosa pubblica, amando la pace universale e la libertà, quel popolo santo, pio e glorioso ha evidentemente trascurato i propri comodi, in modo da promuovere la salvezza del genere umano. Ragion per cui è stato giustamente scritto: «L’Impero romano nasce dalla fonte della religione.»”.[]
  28. Hoc autem fit cum delibero adsensu partium, non odio, non amore, sed solo zelo iustitiæ, per virium tam animi quam corporis mutuam collisionem divinum iudicium postulatur: quam quidem collisionem, quia primitus unius ad unum fuit ipsa inventa, duellum appellamus.” (M II.9.2). “Questo accade quando per libero accordo tra le parti, non per odio né per amore, ma solo per desiderio di giustizia, confrontando le forze dell’animo e del corpo, ci si rivolge al giudizio di Dio: e questo confronto inventato anticamente tra uomo e uomo, è chiamato duello.”; “Iam satis manifestum est quod per duellum acquiritur de jure acquiri.” (II.9.12); “Ed è del tutto evidente che ciò che si acquisisce con un duello lo si conquista di diritto.” “Sed Romanus populus per duellum requisivit Imperium.” (II.10.1); “E il popolo romano conquistò l’Impero per duello”.[]
  29. «Exivit edictum a Cæsare Augusto, ut describeretur universus orbis» (S. Luca, II.1-2); in quibus verbis universalem mundi jurisdictionem tunc Romanorum fuisse aperte intelligere possumus. Ex quibus omnibus manifestum est quod Romanus populus cunctis athletizantibus pro imperio mundi prevaluit: ergo de divino judicio prevaluit et per consequens de divino judicio obtinuit.” (M II.8.14-15).[]
  30. Dixit ergo ei Pilatus: «Mihi non loqueris nescis quia potestatem habeo crucifigere te et potestatem habeo dimittere te?» Respondit Jesus: «Non haberes potestatem adversum me ullam nisi tibi esset datum de super».” (S. Giovanni, XIX. 10-11).[]
  31. Et supra totum humanum genus Tiberius Cæsar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisditionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de jure fuisset.” (II.XIII.5).[]
  32. Desinant igitur Imperium exprobare Romanum qui se filios Ecclesiæ fingunt […] O felicem populum, o Ausoniam te gloriosam, si vel numquam infirmator ille mperii tui natus fuisset, vel numquam sua pia intentio ipsum fefellisset!” (II.13.7-8).[]
  33. Dante afferma così in quanto, a quell’epoca, non si sapeva ancora che la Donazione di Costantino era un falso. Tuttavia, poiché allora era considerata veridica, i guelfi vi vedevano la prova della supremazia anche temporale dello stato della Chiesa sull’Impero. Tale ‘diritto’ papale, basato sulla menzogna, fu usato nei secoli per negare l’universalità dell’Impero e per ridimensionarlo come fosse uno dei tanti stati della cristianità occidentale; mal esempio che fu subito imitato da Re e principi degli stati nazionali. Invero, la dimostrazione filologica della falsità della Donazione da parte dell’umanista Lorenzo Valla non fu occasione per il riconoscimento delle prerogative sacrali e universali dell’Impero, ma si ritorse come una critica laica contro la stessa Chiesa.[]
  34. Tu, o Romano, ricorda di regnare sui popoli con l’Impero. Queste saranno le tue arti: imporre la civiltà con la pace, rispettare i vinti e umiliare i superbi.” Virgilio, Eneide, VI.853.[]
  35. Deinde arguunt quod, quemadmodum luna, quæ est luminare minus, non habet lucem nisi prout recipit a sole, sic nec regimen temporale auctoritatem habet nisi prout recipit a spirituali regimine.” (III.4.3).[]
  36. Nan illa duo luminaria producta sunt die quarto et homo die sexto, ut patet in littera. Preterea, cum ista regimina sint hominum directiva in quosdam fines, ut infra patebit, si homo stetisset in statu innocentiæ in quo a Deo factus est, talibus directivis non indiguisset: sunt ergo huiusmodi regimina rewmedia contra infirmitatem peccati.” (III.4.13-14).[]
  37. Dico ergo quod licet luna non habeat lucem abubdanter, nisi ut a sole recipit, non propter hoc sequitur quod ipsa luna sit a sole […] Quantum est ad esse, nullo modo luna dependet a sole […] Sic ergo dico quod regnum temporale non recipit esse a spirituali […] sed bene ab eo recipit ut virtuosius operetur per lucem gratiæ, quam in cœlo Deus et in terra benedictio summi Pontificis infundit illi.” (III.4.17-20).[]
  38. “… quod de femore Jacobi fluxit figura horum duorum regimium, quia Levis et Judas […] sic arguunt ex hiis […] Levis precessit Judam in nativitate, ut patet in littera; ergo Ecclesia precedit Imperium in auctoritate […].” (III.V.1).[]
  39. Quod si ita est, manifestum est quod nullus princeps potest sibi substituere vicarium in omnibus equivalentem.” (III.7.8).[]
  40. Et quodcunque ligaveris super terram, erit ligatum et in cœlis. Et quodcunque solveris super terram, eroit solutum et in cœlis. (S. Matteo, XVI.19; XVIII.18; S. Giovanni, XX.23). […] Unde inferunt autorictatem et decreta Imperii solvere et ligare ipsum [ponteficem] posse.” (III.8.1; III.8.3).[]
  41. «Tibi dabo claves regni cœlorum» (S. Matteo, XVI.19; XVIII.18; S. Giovanni, XX.23), hoc est faciam te hostiarium regni cœlorum.” (III.8.9). Il passaggio evangelico richiama l’episodio dell’Antico Testamento in cui si allude alla maledizione di Sebna, l’indegno portinaio della casa di Davide, e alla sua sostituzione con un inserviente più fedele (Isaia 22.15-25). Nell’esegesi il portinaio indegno corrisponde al sacerdozio giudeo sostituito da quello cristiano. La casa di Davide qui sta per il regno dei cieli; tuttavia, i ghibellini l’interpretavano come fosse l’allegoria della corte imperiale, rovesciando così a loro vantaggio l’interpretazione della diarchia Sole-Luna, re David-portinaio, Imperatore-Papa.[]
  42. Accipiunt etiam illud Lucœ, quod Petrus dicit Christo cum ait «ecce duo gladii hic».» (S. Luca, XXII.35). Et dicunt quod per illos duos gladios duo predicta regimina intelliguntur, quæ quidem Petrus dixit esse ibi ubi erat, hoc est apud se: unde arguunt illa duo regimina secundum autoritatem apud successorem Petri consistere.” (III.9.1).[]
  43. Et quod Petrus de more ad superficiem loqueretur, probat eius festina et impremeditata presumptio, ad quam non solum fidei sinceritatis impellebat, sed, ut credo, puritas et simplicitas naturalis.” (M III.9.9).[]
  44. Fu l’Imperatore Graziano che nel 375 rifiutò il titolo di Pontefice Massimo. Questo titolo fu immediatamente usurpato dal papa S. Damaso, senza che avvenisse alcuna trasmissione regolare da parte imperiale. Damaso, che la Chiesa definisce ‘santo’, fu in realtà un individuo bramoso di potere, capace di scatenare qualunque violenza pur di affermare la sua autorità messa in discussione da molti vescovi e dalle loro Chiese (AAVV, Ab Ordine Chaos, vol. I, Milano, Ekatos, 2019, pp. 303-304). Il titolo che spetta de jure al Vescovo di Roma, dunque, è quello di pater patrum, vale a dire Pa-pa.[]
  45. Il sovrano, nella Roma precristiana, portava anche l’antichissimo titolo di Rex Sacrorum, a rappresentare propriamente il potere temporale. In quanto Pontefice Massimo svolgeva funzioni sacerdotali e, in quanto Imperatore, esercitava il magistero iniziatico dei guerrieri (magister militum præsentalis). I tre titoli della Roma imperiale furono sostituiti nel medioevo cristiano dalla triplice corona di Re di Germania, di Re d’Italia e di Imperatore. Anche in questo caso il titolo di Imperator rivestiva una valenza iniziatica. In diversi casi la persona dell’Imperator non coincise con la figura del Sacro Romano Imperatore, essendo la funzione magistrale riconosciuta al cavaliere più degno e dottrinalmente ferrato (AAVV, Ab Ordine Chaos, cit., vol. II, p. 144 n.192; pp. 184-185). Certamente, come attestato dall’Alighieri, Arrigo VII di Lussemburgo fu Imperatore e Imperator al tempo stesso. Il titolo di Imperator fu trasmesso in via riservata presso le organizzazioni iniziatiche cavalleresche nel corso di tutto il medioevo fino alla loro scomparsa (AAVV, Ab Ordine Chaos, cit., vol. I, p. 337). Il titolo di Imperator fu poi riesumato e usurpato da correnti pseudo esoteriche e occultistiche a partire dal Rinascimento fino alla nostra epoca (AAVV, Ab Ordine Chaos, cit., vol. III, p. 153 n. 202; p. 336 n.442).[]
  46. H.C. Lea, Studies in Church History, cit., pp. 42-43.[]
  47. Cavaliere trevigiano frequentatore delle corti filo imperiali di Treviso, Verona e Pisa, noto per la sua sapienza, il coraggio e la fierezza con cui affrontò il suo stato di indigenza nell’esilio, come appare anche nel Novellino, in Boccaccio e nel Villani. Probabilmente si tratta di un Fedele d’Amore discepolo della scuola bolognese di Guinizzelli. Certamente è da scartare l’ipotesi che alcuni hanno avanzato, che fosse un cataro, proprio per il favorevole ritratto che Dante ne fece, come se fosse stato un suo alter ego. La terzina precede i versi posti in esergo all’inizio del presente articolo.[]
  48. Purgatorio, XVI.97-99.[]
  49. Tali prescrizioni restrittive di comportamento, prive di spiegazione, sono richieste ai credenti dal Dio unico dei semiti per mettere alla prova la loro obbedienza. In nessun testo, infatti, è dato il motivo per il quale sia lecito mangiare carne di vacca e non quella di maiale; si tratta di un espediente per obbligare all’adesione alla legge religiosa per fede e non per ragione. Sta di fatto che oggi i moderni credenti in quelle religioni sono inclini ad accettare la giustificazione scientifica e profana che si tratti di una preoccupazione ‘igienica’.[]
  50. Diligite justitiam qui judicatis terram”, “prediligete la giustizia o voi che giudicate la terra” (Paradiso, XVIII.91-93): Dante legge nel cielo di Giove questa scritta formata dalle anime dei giusti principi del passato.[]
  51. La deleteria secolarizzazione del monachesimo latino, a seguito della riforma cluniacense, affievolì la trasmissione della conoscenza e interruppe la corrispondente iniziazione nella Chiesa di Roma. S. Bernardo fu il padre della Chiesa che riconobbe l’avvenuta estinzione e che cercò di salvare la sopravvivenza della tradizione iniziatica cavalleresca (AAVV, Ab Ordine Chaos, cit., vol. II, pp. 59-79). Alcune personalità isolate, particolarmente qualificate intellettualmente per nascita, quali i Vittorini, Alberto Magno e Meister Eckhart, non sono riuscite a restaurare e a far proseguire la tradizione della conoscenza. Sia comunque chiaro che, anche nella sua pur elevatissima accezione apofatica, si trattava sempre soltanto di ciò che in sanscrito è definito Aparabrahma vidyā.[]
  52. Duos igitur fines Providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vitæ, quæ in operatione propriæ virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudine, vitæ eternæ, quæ consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, quæ per paradisum cœlestem intelligi datur. Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet.” (III.16.7-8).[]
  53. Enucleata namque veritas est quæstionis illius qua quærebatur utrum ad bene esse mundi necessarium esset Monarchæ officium, ac illius qua quærebatur an Romanus populus de jure Imperium sibi adsciverit, nec non illius ultime qua querebatur an Monarchæ auctoritas a Deo vel ab alio dependeret inmediate. Quæ quidem veritas ultimæ questionis non sic stricte recipienda est, ut Romanus Princeps in aliquo Romano Pontifici non subjaceat, cum mortalis ista felicitas quodam modo ad immortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Cæsar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paternæ gratiæ illustratus virtuosius sua luce orbem terræ irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium Gubernator” (III.16.16-18).[]
  54. Odoacre, dopo aver deposto Flavio Romolo Augusto (461-512 ?), consegnò le insegne imperiali (diadema, scettro, toga con laticlavio aureo, spada e paludamentum color porpora) a Zenone, Imperatore d’Oriente. (Aurelio Bernardi, “La fine dell’impero d’occidente. Con l’accordo di Aquisgrana del 812, l’Imperatore d’Oriente riconosceva Carlo Magno quale Imperator Augustus. Le insegne ritornarono, dunque, in Occidente ed è probabile che la corona ottagonale in stile bizantino conservata all’Hofburg di Vienna ne sia l’ultimo resto. AAVV, La Storia, vol. IV, Dall’impero romano a Carlo Magno, Aurelio Bernardi (a cura di), Torino, UTET, 2004).[]
  55. Il sacerdozio cristiano fu definito ‘secondo l’ordine di Melchisedec’. In questo modo era abrogato il ‘sacerdozio secondo l’ordine di Aronne’ della religione giudaica (S. Paolo, Ebrei VII.1-3; VII.11); è sintomatico che di lì a poco, con la dispersione degli ebrei dalla Terrasanta, il sacerdozio giudaico di fatto scomparve.[]
  56. Il diritto romano fu la fissazione in legge delle regole universali della natura e questo rendeva la tradizione romana del tutto affine al sanātana dharma. L’universalismo imperiale, dunque, non dipendeva da una particolare rivelazione adattata a un’epoca, a un’area geografica e a un popolo caratterizzato da una mentalità esclusiva.[]
  57. Regnum meum non est de mundo hoc; si ex hoc mundo esset regnum meum, ministri mei decertarent, ut non traderer Judaeis; nunc autem meum regnum non est hinc.” (S. Giovanni, XVIII.36).[]
  58. In questo caso, però, si riscontrano alcune diversità con il dharma hindū: infatti la religione cristiana (come, d’altronde, tutte le altre religioni storicamente fondate, si caratterizza per rituali, dogmi e comportamenti non universali, bensì particolari dell’epoca, del luogo e del popolo a cui sono stati rivelati dal suo fondatore, il Cristo. Che la religione sostenga la superiorità della legge rivelata su quella naturale è dovuto a una visione metafisica incompleta, per cui misconosce che entrambe hanno origine direttamente dal Creatore.[]
  59. Oltre a Marīci, il Viṣṇu Purāṇa (VII.1) menziona altri otto Prajāpati: Bhṛgu, Pulastya, Pulaha, Kratu, Aṅgiras, Dakṣa, Atri e Vasiṣṭha.[]
  60. In Bhāgavata Purāṇa (VII) sono quattro: Sanaka, Sanandana, Sanātana, Sanatkumāra. Sono chiamati Kumārao Sanakādi. Sia i Kumāra sia i Prajāpati furono creati dalla mente di Brahmā e per questo tutti sono menzionati come Mānasaputra Mānoja. Per primi furono creati i Kumāra. Quando Brahmā chiese loro di generare dei figli per garantire la prosecuzione del mondo, essi si rifiutarono in quanto erano nati con il voto al celibato dei rinuncianti (vairāgin o saṃnyāsin). Perciò Brahmā dovette creare dalla mente i Prajāpati. È interessante notare che quest’ultimo termine sanscrito significa ‘Signore dei sudditi’. Si ripropongono anche in questi particolari le caratteristiche del celibato ecclesiastico del papa e della sovranità universale dell’Imperatore. I primi discendenti dei Prajāpati sono conosciuti come rājaṛṣi, da cui la casta degli kṣatriya rājanya; i discepoli dei Sanakādi furono i brahmaṛṣi, da cui derivò la casta sacerdotale. Fa eccezione Agastya, che fu un ṛṣi anārya, onde lasciare la possibilità anche alle basse caste di accedere ai due Dharma. Non a caso Agastya è presente in tutte le paramparā tantriche.[]
  61. Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya, Upodghāta.[]
  62. L’origine separata dei due poteri com’è descritta da Śaṃkara sconfessa anche chi ha tentato di sostenere che anche in India il potere temporale derivi per delega dalla casta brāhmaṇica.[]
  63. La conoscenza corrispondente alla teologia apofatica dei monoteismi, per quanto elevata, è semplicemente paragonabile all’aliṅga upāsanā del karma kāṇḍa dell’Induismo. Invece, nel Sanātana Dharma tra karma jñāna non c’è alcuna relazione, essendo il primo del tutto illusorio e il secondo essendo la stessa Realtà. Perciò vi si trova molto più netta la distinzione tra le due autorità che li rappresentano.[]