Jagadguru Śaṃkarācārya Śrī Śrī Candraśekharendra Sarasvatī Mahā Svāmīgal
Cos’è l’Advaita?
a cura di Maria Chiara de’ Fenzi
Nota introduttiva
Questo breve articolo è tratto dagli insegnamenti che il sessantottesimo Jagadguru Śaṃkarācārya del Kāmakoṭi Pīṭham di Kāñci (nato nel 1895, Pīṭhādipati dal 1908 al 1994) dedicava alle folle di pellegrini che si recavano a Kāñcipūram per averne il darśana. Non si tratta, perciò, dell’insegnamento per lo śravaṇa riservato ai vicārin dell’Advaita Vedānta; si noterà, infatti la semplicità del linguaggio, le frasi corte e incisive atte a essere facilmente recepite anche dai non iniziati (adīkṣita). Nondimeno è evidente come tale insegnamento sia di altissimo contenuto metafisico, del tutto scevro da ogni tono devozionale e libero dalla prospettiva limitante Creatore-creatura, tipica delle vie iniziatiche della conoscenza non suprema (Aparabrahman vidyā), in special modo di quelle in forma religiosa. Il lettore avrà modo di riflettere sulla chiara dichiarazione di Svāmījī circa la non realtà del mondo, in cui non c’è alcuna concessione alla falsa apparenza di una presunta ‘realtà relativa’ o ‘minore realtà’, che gli ignoranti si ostinano ad attribuire a ciò che si percepisce con i sensi nell’esperienza illusoria. Su questo sito sono stati pubblicati, a cura dei nostri collaboratori, numerosi contributi di maestri di diverse paramparā d’Advaita Vedānta del XX e XXI secolo, tutti inequivocabilmente concordi su questo punto fondamentale della conoscenza pāramārthika1. Si tratta degli scritti dei Jagadguru Svāmī Candraśekhara Bhāratī dello Śṛṅgerī Pīṭham, di Svāmī Svarūpānanda Sarasvatī dei Pīṭham di Dvārakā e Jyotirmaṭha, di Svāmī Niścalānanda Sarasvatī del Pīṭham di Purī, oltre alla presente pubblicazione; a questi si aggiungono gli insegnamenti di Guru di non poco conto quali Svāmī Pūrṇānanda Tīrtha ‘Uḍiyā Bābājī’, Svāmī Karapātrījī, Svāmī Satchidānandendra Mahārāja, Svāmī Prabuddhānanda, Svāmī Jñānandendra e Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī, oltre a sādhaka e paṇḍita celebri in India, quali Paṇḍita Krishnaswami Iyer, Paṇḍita Kulakarnijī, Śrī Praśānt Netijī, tutti unanimemente fondati sulle Upaniṣad e con il supporto di numerosissime citazioni tratte dai commenti di Gauḍapāda, Śaṃkara e Sūreśvara. A questi si aggiungano gli studi dei nostri collaboratori, Śrīmatī Maitreyī, prof. Gian Giuseppe Filippi, dr. Carlo Rocchi. In particolare, di quest’ultimo segnaliamo il notevolissimo studio “Alātaśānti. L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti” (Milano, Ekatos, 2021), ponderoso volume totalmente basato sulla śruti e su Śaṃkarācārya, che demolisce la presuntuosa ignoranza di quegli esoteristi italiani che, invece di sproloquiare a vanvera di Vedānta, dovrebbero riprendere da zero i loro studi tradizionali con umiltà e attenzione.
MCdF
Cosa significa Advaita? Significa senza secondo. Che non ci sia un secondo non sembra realistico, dato che qui ci sono migliaia di cose. Se non c’è un secondo, che vantaggio se ne trae? Non è chiaro? Solo perché non c’è un secondo si realizzerà ciò per cui lottiamo. Per cosa lottiamo? Lottiamo per eliminare tutte le sofferenze che ci affliggono. L’eliminazione delle sofferenze avverrà attraverso la realizzazione di ciò che è senza secondo, cioè la non-dualità. Lottiamo per eliminare la povertà, la fame, il disonore, la malattia, l’utilità delle cose relazionate (vyavahāra), il disagio mentale, ecc. Esiste un luogo dove queste sofferenze siano assenti? No. Eppure, si continua a lottare per eliminare le sofferenze. Attraverso le nostre azioni, c’è solo una pacificazione temporanea. Se grazie a un trattamento medico si guarisce una malattia, ne arriva un’altra. Il mezzo per la rimozione assoluta di tutte le sofferenze è l’Advaita. Grazie ad essa, la fame, la malattia, la morte, il disonore, l’utilità delle cose relazionate, la rabbia, la povertà ecc. non si ripresenteranno.
Perché si soffre? Sarebbe bene che la fame, ecc. non ci affliggesse. Ma perché ci affliggono? Vediamo attraverso quale percorso arrivano. Arriveranno finché durerà il corpo. Ma se questo corpo se ne va, un altro ne prende il posto. Anche per quel corpo arriveranno la fame, la sete, la malattia, ecc. Quindi, se potessimo fare a meno del corpo, queste malattie scomparirebbero. Abbiamo molte nascite. Qual è la causa di queste nascite? Per quale motivo prendiamo un corpo? Perché dobbiamo subire le conseguenze delle azioni buone e cattive compiute nelle nascite precedenti. Il Sé non può subirle. Il fuoco non può bruciare il Sé, né l’applicazione di pasta di sandalo può raffreddarlo. Perciò è necessario un corpo. Come risultato delle azioni buone e cattive da noi compiute, il Signore ci dota di un corpo e ci punisce facendoci immaginare che “io” sia il corpo. Se un ragazzo commette un errore, viene picchiato per questo. Se nelle vicinanze c’è un medico e il ragazzo sviene non riuscendo a sopportare il dolore, viene rianimato e nuovamente picchiato. Gli viene dato del cibo e viene nuovamente picchiato. Per le colpe che abbiamo commesso, il Signore ci dà un corpo e così ci punisce. Se questo non basta, ci dà un altro corpo e ci punisce. Così, il peccato che commettiamo è la causa del corpo. Se non commettiamo più azioni negative, in futuro non avremo un corpo. Dobbiamo ricordare costantemente che non dobbiamo commettere tali azioni.
Qual è la causa del merito e del demerito? C’è il desiderio di eliminarli astenendosi dalle azioni che li generano; ma non siamo in grado di evitarli. Se si vuole impedire a un albero di crescere, non basta tagliare i rami: bisogna eliminare il tronco. Allo stesso modo, dobbiamo discernere la causa dei demeriti e distruggerla. Perché compiamo azioni malvagie? Perché desideriamo possedere un oggetto e, pur di ottenerlo, cerchiamo delle scorciatoie. Questo è peccato. La causa che ci spinge a compiere azioni peccaminose è il desiderio. Se un oggetto è bello, nasce il desiderio di possederlo. La consapevolezza che una cosa è buona produce desiderio. Per soddisfare questo desiderio, compiamo delle azioni. Sapere attraverso i sensi che una cosa è bella è la causa del desiderio. Attraverso l’azione, possiamo produrre il risultato del desiderio o cambiarlo. La conoscenza non può essere prodotta, né cambiata.
La punizione per le colpe che commettiamo è il corpo. Pertanto, se eliminiamo il desiderio che è la causa dei demeriti, ci sarà la distruzione della sofferenza. Come eliminare il desiderio? La via per eliminare l’infelicità non è insegnata in altri testi sacri, ma il Vedānta non omette questo insegnamento. Il Vedānta, che è la vetta dei Veda, insegna la via per eliminare l’infelicità.
L’odio e il desiderio nascono solo nei confronti di oggetti diversi da noi. Non sorgono né desiderio né odio nei confronti di noi stessi. Poiché il desiderio nasce nei confronti di oggetti diversi da noi, non sorgerà se questi oggetti saranno resi identici a noi. Se tutti diventano identici a noi e se non c’è nulla di diverso da noi, il desiderio non sorgerà. Se non c’è desiderio, non ci sarà azione. Se è così, non ci sarà colpa. Quando non ci sarà colpa, non ci sarà il corpo. Quando questo non c’è, non ci sarà sofferenza. È per distruggere l’infelicità che si compiono le diverse azioni.
Se c’è qualcosa di secondo oltre a noi, e se questa cosa è più potente di noi, nasce la paura. Se c’è qualcosa di bello, sorge il desiderio; e la mente è disturbata. Se non c’è un secondo, non c’è desiderio, né odio, né paura. Gli scorpioni e i cobra ci fanno paura. Se noi stessi identifichiamo a scorpioni e cobra, come potrebbe esserci paura? Avremmo paura di noi stessi? Finché ci sarà qualcosa di diverso in quanto secondo, ci sarà paura. Pertanto, ciò che l’Advaita realizza è l’assenza della dualità. Le Upaniṣad dichiarano che non c’è paura quando non c’è un secondo.
Non ci sono forse molte persone al mondo? Come possono diventare tutti uno? Come realizzare l’assenza della dualità? Il Vedānta insegna che ciò che vediamo in questo mondo come molteplice è illusorio e afferma che tutti sono della natura di Īśvara. Noi non vediamo così. Se è vero che Īśvara è tutto, allora ciò che vediamo deve essere illusorio. Se ciò che vediamo è vero, allora la dichiarazione che Īśvara è tutto deve essere falsa. Se ciò che ci appare è vero, allora non ci dovrebbe essere sofferenza per noi. Ma l’infelicità c’è. Pertanto, ciò che il Vedānta insegna deve essere vero. Se è così, il fatto che tutti siano della natura di Īśvara deve essere considerato fermamente come verità e ciò che ci appare, illusorio. Il reale non è questo. I nostri occhi vedono ciò che è illusorio. L’Advaita insegna che esiste una Realtà che è il sostrato del mondo intero. Ciò che ci appare come esistente è tutto illusorio; la vera Esistenza, che è una sola, è l’unica Realtà.
Se tutto è Īśvara, solo noi siamo diversi? Dovremmo dissolverci anche noi, come dovrebbe dissolversi quell’Īśvara. Allora non ci sarà una seconda entità. Ora vediamo le cose in modo diverso. Ma la vera visione è vedere tutto come Īśvara. Se anche noi ci dissolviamo senza lasciare un secondo, il risultato sarà buono. Anche nel mondo empirico, se due menti diventano una non può esserci conflitto. Allo stesso modo, se tutti diventano uno come Īśvara, noi diventeremo tutti; allora non ci sarà alcun desiderio nei confronti di noi stessi. In assenza di desiderio, non ci sarà peccato; e se non c’è peccato, non ci sarà corpo; e se non c’è corpo, non ci sarà alcuna sofferenza. Per distruggere l’infelicità, l’Advaita è la medicina. L’Advaita è ciò che realizza l’assenza della dualità. Vedere tutto come Īśvara è Advaita. Vedere la Realtà è Advaita. È questo che viene insegnato nei libri sacri.
Molte obiezioni sono state sollevate contro questa posizione. Alcune sono di tipo logico, altre non sono basate sulla ragione. I testi sacri rispondono a queste obiezioni. Essi descrivono le discipline che portano all’Advaita. I manuali scritti dall’Ācārya [Śaṃkara] impartiscono lo stesso insegnamento.
Ci si addormenta e poi dal sonno ci si sveglia. A volte si dorme bene e talvolta sogniamo. Lo stato di veglia è jāgrat avasthā, l’esperienza del sogno è svapna avasthā e il sonno profondo è suṣupti avasthā. Ci sono quindi tre stati di esperienza. La veglia serve per lavorare e il sonno profondo per liberarsi dalla stanchezza che deriva dal lavoro (karma). Questi due potrebbero, dunque, bastare! Perché deve esserci anche l’esperienza del sogno? Ho riflettuto su questo: Īśvara è ovunque, essendo il Brahman non duale ed è tutto della natura di Ātman. Perciò, per dimostrare questa verità, ha proiettato il mondo dei sogni come un indizio. Non c’è altro scopo. L’apparente pluralità del mondo empirico è simile a quella dei sogni. Nel sogno si verificano molteplici ostacoli e piaceri. Ma alla fine del sogno non rimane nulla. Svanisce persino il corpo che è apparso mentre si sperimentava il sogno. Rimane soltanto colui che era cosciente di quel sogno. Tutto il resto che sembrava esistere nel sogno, scompare. Quando ci si sveglia da quel mondo empirico che è il sogno, rimane solo la Coscienza. Questa è la vera Realtà. È ciò che viene chiamato Advaita. Siamo tutti advaitin; siamo dvaita nell’esperienza. Ma coloro che hanno la certezza dell’Advaita vedono nello stato empirico un sogno dvaita. In questo sogno, si subiscono malattie e sofferenze, ma noi siamo quelli che sanno che non c’è alcuno stato in cui ci sono malattie. Da che cosa si percepisce la dualità? Dell’esperienza immediata per mezzo del senso della vista, ecc. L’Advaita è conosciuto solo dal Vedānta, è ciò che è conosciuto dalla śruti, mentre la dualità è ciò che è sperimentato dal senso della vista, ecc. La scienza ci dice che il sole è molto grande, ma i nostri occhi ci dicono che il diametro del sole è solo d’un pollice. Con il palmo della mano si può coprire l’intero sole. Il sole, dunque, appare piccolo, ma qual è la realtà? Se solo ciò che vediamo fosse vero, non ci sarebbe bisogno dei testi. È solo ciò che non conosciamo che deve essere insegnato dai testi sacri.
Nelle Upaniṣad, in alcuni punti si parla di Dvaita, in altri di Advaita. In quale contesto si parla di Advaita? È menzionato nel contesto in cui viene insegnata la natura del Brahman supremo. Nella Māṇḍūkya Upaniṣad, per esempio, quando viene insegnato il significato del Praṇava, si dichiara che tutto è della natura di Advaita, che Oṃ è tutto; qui ricorre l’espressione ‘Advaita’. Il termine ‘Dvaita’ ricorre in una Upaniṣad. Il contesto è il seguente: “Rimanendo come diversi, come si può percepire un oggetto che è diverso?”. In questo contesto compaiono le parole: “Dove, in effetti, c’è, per così dire, il Dvaita (dualità)”. Il significato di quel “per così dire” è: nello stato in cui ‘sembra’ esserci la dualità, ci sarebbe quell’esperienza (differenziata):
Perché quando c’è, per così dire, la dualità, allora si vede qualcos’altro […] Quando, tuttavia, per il conoscitore di Brahman tutto è diventato Ātman, che cosa potrebbe vedere e tramite che cosa? (BU II.4.14)
Perciò, dove tutto è diventato Ātman, si dichiara che lì, “c’è, per così dire, la dualità”. Nel contesto dell’espressione “per così dire” (iva), riguarda la dualità; invece, nel contesto dell’affermazione “Quando, tuttavia,[…] tutto è diventato Ātman”, si insegna la non dualità. Anche la parola “tu” (tuttavia) è menzionata nel contesto in cui si dichiara l’Advaita e, se dopo un’affermazione, compare la parola “tu” (tuttavia) o la parola “atha” (quando), significa che ciò che segue è la conclusione reale. Dopo le parole “yatra tu” (quando, tuttavia), si dichiara che “tutto è diventato l’Ātman”. Quindi, dall’espressione “tu” (tuttavia) dobbiamo dedurre la verità conclusiva che tutto è della natura dell’Ātman. L’espressione “iva” (per così dire) indica, invece, che si tratta di apparenza e non della realtà. L’espressione ‘come lui’ significa che non è lui in persona. Quindi, quando si dice “per così dire, la dualità”, significa che quella dualità non esiste, che si tratta di una mera apparenza. Ciò che s’impara con l’aiuto dei testi sacri è l’Advaita. Questa sola è la dottrina (siddhānta): solo il fatto che tutto sia Ātman è la verità.
Qui è usato il termine Ātman. Ci si può chiedere: non dovrebbe essere Paramātman (il Sé supremo)? Se c’è il Paramātman, allora ci dovrebbe essere anche l’alpātman (il piccolo sé) come diverso da esso. Invece non c’è nemmeno Paramātman: è solo nello stato di dualità che c’è la distinzione tra Paramātman e jīvātman. Quando si realizza l’Advaita, esiste solo l’Ātman.
La Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad afferma: “dvitīyadvai bhayam bhavati”, dalla dualità sorge la paura, la sofferenza, la lotta, ecc. Desiderio, paura, sofferenza e lotta possono sorgere solamente se ci sono due differenti entità. Se qualcuno che ci è caro muore, sorge l’infelicità. Se muore sotto i nostri occhi, ci sentiamo angosciati. Pensiamo di non provare angoscia quando si morirà. Ovvero, quando moriremo non saremo noi in angoscia. Pertanto, se noi stessi siamo tutto, non ci sarà alcuna infelicità. Quando c’è il pensiero della differenza, allora c’è infelicità. Cos’è che provoca il desiderio? È solo quando c’è la consapevolezza della dualità che sorgono il desiderio e l’infelicità. Se l’altro diventa noi, allora non c’è alcuna infelicità. Come realizzare questa identità? Se tutti diventassero il Paramātman, ci sarebbe solo l’unico Sé.
Perciò il Vedānta dichiara: la dualità non è necessaria; solo la non-dualità è la Realtà. Questa verità l’ha esposta il nostro Ācārya come una lampada splendente e ci ha chiesto di non dimenticarla. I suoi commentari sono chiamati commenti illuminanti (bhāṣya dīpa). Solo perché la parola Dvaita ricorre nel Vedānta, la gente ripete “Dvaita”, “Dvaita”. Non si chiedono dove, per quale motivo e prima di quale conclusione ricorra quel termine. È come la conclusione secondo cui negli ambienti vedici era diffusa l’abitudine di bere alcolici, a cui alcuni studiosi giungono sulla base dell’ingiunzione vedica “non bere alcolici”.
Ora siamo nello stato di sogno (nidrā). Se ci svegliamo da questo stato, quello è Advaita. Se questa dottrina (siddhānta) s’imprime nella memoria, almeno una persona su centomila cercherà di raggiungerlo. È a questo scopo che i grandi Maestri hanno scritto le loro opere. Non basta sapere che a Kāṣī c’è la Gaṅgā; bisogna comprare il dovuto biglietto, viaggiare con il treno giusto, attraversare i nodi ferroviari durante il tragitto e, senza dormire troppo, arrivare a Kāṣī e bagnarsi davvero nella Gaṅgā.
I Veda dichiarano che l’esperienza Advaita è quella da cui l’azione, la parola e la mente ritornano indietro perché non sono in grado di raggiungerla:
Non si è soggetti alla paura in nessun momento se si conosce la Beatitudine che è Brahman, da cui le parole, insieme alla mente, tornano indietro, essendo incapaci di raggiungerla. (TU II.4.1)
Se non può essere pensata dalla mente, come conoscerla? Qual è il significato di questa dichiarazione vedica? Qual è il significato dell’affermazione che il Sé non può essere pensato dalla mente? Se il Sé supremo potesse essere conosciuto, diventerebbe oggetto di conoscenza. Il conoscitore sarebbe allora diverso. Nella Kena Upaniṣad si dice:
È conosciuto da colui per il quale non è conoscibile ed è sconosciuto a chi Lo reputa conoscibile. È sconosciuto a chi Lo conosce ed è conosciuto da chi non Lo conosce. (KU II.3)
Qual è il significato dell’affermazione che il Sé non è conoscibile? Significa che non può essere oggetto di conoscenza. Non ha senso portare un’altra lampada per vedere una lampada. Una lampada è necessaria solo per illuminare ciò che non è luminoso. Per vedere una lampada non serve nient’altro. La Coscienza è auto-luminosa. Īśvara è la natura di quella stessa Coscienza. In molti passi degli inni tamiḷ, come il Tevāram, il Tiruvācakam e i canti di Tāyumānavar, si dichiara che Īśvara è “l’unica Coscienza”, che ha “la forma della Coscienza”.
Per la mente il Sé non è oggetto di pensiero, ma la mente si ostina a pensarlo. Tutto ciò che la mente pensa è falso, ciò che la fa pensare è vero.
Ciò che l’uomo non comprende con la mente, ciò in cui, si dice, la mente è contenuta, sappiate che Quello è Brahman e non ciò su cui la gente medita come oggetto. (KeU I.6)
Tutto ciò che si vede in sogno è falso. Solo la Coscienza che vede è reale. È questo Sé che appare nel sogno come tutti gli oggetti visti. Quando il sogno finirà, ci si renderà conto che l’uno (la Coscienza) è l’unico a restare. Se non c’è differenza, non ci sarà né parola né conoscenza. È questa non-dualità che viene proclamata nelle Upaniṣad e negli altri testi sacri.
Sull’albero che è il Veda, ci sono i fiori, le Upaniṣad. I Brahma Sūtra sono il filo che aiuta a farne una ghirlanda da portare al collo. Se colui che ha fatto il filo è stato Vyāsa, chi ha composto la ghirlanda è stato l’Ācārya. E noi siamo coloro che portano al collo la ghirlanda.
Ciò che abbiamo compreso in modo definitivo è questo: la Verità è una sola ed è della natura di Īśvara. A causa delle impressioni passate, le cose appaiono diverse. Ma tutto deve diventare uno. Anche ciò che definiamo ‘noi’ deve essere dissolto. Per questo, è necessario studiare i testi sacri appropriati. I mezzi per farlo sono i Veda, le smṛti, i Purāṇa, la vista dei templi, la pūjā ecc. Sacrifichiamo qualsiasi cosa per ottenere la beatitudine eterna. Il saggio Re Janaka disse: “Ho rinunciato all’intero regno di Videha e ho rinunciato anche a me stesso”.
Per raggiungere questo stato, la via più semplice è la contemplazione di Śrī Candramaulīśvara [Śiva]. Così ha detto Appaya Dīkṣita. Seguendo questa via, tutti potrebbero ottenere la realizzazione della non dualità.
Soltanto con la benedizione di Īśvara si può realizzare la non dualità!
- Paramārtha, Realtà assoluta, è spesso reso (anche sul nostro Sito VVM) con il termine ‘metafisica’, in uso fin dai primi esordi della filosofica greca. Tale traduzione è del tutto accettabile, a patto che il suo significato sia chiaramente distinto da quello speculativo che fatalmente comporta. Anche recentemente, chi ha voluto usare e abusare di tale termine applicandolo all’Advaita Vedānta, non è stato scevro da questa nuance culturale occidentale, soprattutto di matrice aristotelica, arrivando perfino a parlare di una ‘metafisica parziale’. Deve essere qui chiarito definitivamente che, se si vuole usare ‘metafisica’ per paramārtha, si deve rispettare il suo senso di Assoluto che, per essere tale, non può mai essere concepito come ‘parziale’ o qualificato in modi differenti. Assoluto, per noi, significa sciolto o libero da ogni legame prodotto dall’ignoranza; perciò è incompatibile con qualsiasi idea che esista un residuo d’ignoranza (avidyā leśa) che lo renda ‘parziale’ o ‘relativo’, concezione errata sostenuta dagli esponenti della corrente vedāntica deviata della mūlāvidyā [N.d.C.].[↩]