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Śrī Praśānt Neti

Alcune note sull’Avasthātraya vicāra

L’indagine sui tre Stati di Veglia, di Sogno e di Sonno profondo

1) Per cominciare, l’avasthātraya vicāra è intrapreso dal vegliante dal punto di partenza della veglia.

2) Il vegliante, identificandosi (abhimānin) allo stato di veglia (fruitore dello stato di veglia) è vincolato dalle limitazioni dello stato di veglia.

3) La situazione presupposta del vegliante è che si considera del tutto naturalmente un kartā/bhoktā/jñātā. Vegliante è ciò che chiamiamo jīva e lo stato di veglia è ciò che chiamiamo jīvatva. Consideriamolo ora per mezzo dell’intuizione (anubhava). Il vegliante e lo stato di veglia, anche se nel linguaggio ordinario se ne parli come due, sono in realtà uno e lo stesso. Il vegliante non è mai stato separato dallo stato di veglia. Non c’è uno stato di veglia che esista indipendentemente dal vegliante. Quando dico ‘non c’è uno stato di veglia che esista indipendentemente da un vegliante’, la maggior parte delle persone si ribella, affermando immediatamente che è sbagliato. Quando se ne chiede il perché, la ragione che si dà è: “Quando dormi, non sei sveglio, ma il mondo continua per gli altri”. Invece questo è un modo fondamentalmente sbagliato di intendere il Vedānta. Nel Vedānta l’indagine deve corrispondere al punto di riferimento di colui che sta svolgendo l’indagine. In questo caso, è il vegliante individuale che sta compiendo l’indagine e il suo punto di vista di riferimento, che comprende il suo corpo/mente e tutto ciò che è esterno a questo corpo/mente, assieme anche a tutti coloro che considera ‘altri’, è lo stato di veglia. Quando diciamo ‘quando il vegliante ne esce’, ciò significa ‘quando esce dallo stato di veglia (che include anche tutti gli ‘altri’)’. Se si sostiene che gli ‘altri’ esistono indipendentemente dal vegliante, allora, quando non si è più vegliante, si deve dare a se stesso, mentre si sogna, la prova dell’esistenza degli ‘altri’, che appartengono allo stato di veglia. Ciò significa che quando si è fuori della veglia, si dovrebbe fornire una testimonianza a se stessi dell’esistenza di ‘quegli altri’ che stanno in stato di veglia. Si può farlo? È possibile? La risposta è no. Quindi, a rigor di termini, il vegliante e lo stato di veglia sono la stessa cosa, cioè jīva e jīvatva sono la stessa cosa in quanto vengono proiettati insieme e insieme svaniscono. Questo è perfettamente in linea con l’anubhava. Lo stato più naturale in cui il vegliante si trova fin dalla nascita è quello che Śaṃkara Bhagavatpāda chiama ignoranza (adhyāsa/avidyā).

4) Quando si dice che il vegliante è legato dalle limitazioni dello stato di veglia, significa che anche le limitazioni, come lo spazio e il tempo con cui il vegliante gode nello stato di veglia, sono parte integrante di esso. L’analisi che viene intrapresa sull’avasthātraya è anch’essa nello stato di veglia. Pertanto, anche il vicāra è compiuto nello stato di veglia.

5) Ciò significa che il vegliante ‘opera all’interno’ e ‘limitatamente’ all’aggregato spazio-temporale dello stato di veglia. Ci si potrebbe chiedere perché lo spazio-tempo non possa essere al di fuori dello stato di veglia. La risposta è che può esserlo. Ma al di fuori dello stato di veglia (per esempio nello stato di sogno) non è lo stesso aggregato spazio-temporale dello stato di veglia. Si tratta di un aggregato diverso. Si abbia l’accortezza di osservare nel proprio anubhava. Quando inizia il sogno, l’aggregato spazio-temporale all’interno del sogno non è lo stesso di quello che avevamo nella veglia. I cinque anni della mia vita in sogno sono in realtà due ore del tempo passato a letto dal punto di vista della veglia (una volta che mi sono risvegliato). Ma mentre il sogno durava due ore, per il sognatore erano cinque anni. Quindi, osservando per mezzo dell’anubhava, quando si prendono la veglia e il sogno dai loro rispettivi punti di vista, l’aggregato spazio-temporale della veglia è limitato alla veglia e spazio e tempo del sogno sono limitati al sogno.

6) Così la Māṇḍūkya Upaniṣad, pur dando inizio all’indagine dallo stato di veglia, per dimostrare la falsità(mithyātvam) sia della veglia sia del sogno, presenta veglia e sogno con due nomi separati. Questa è la chiave. Viśva non è taijasa e taijasa non è viśvaViśva è limitato alla veglia e taijasa è limitato al sogno.

7) Un uomo comune può facilmente negare la realtà del sogno anche senza l’aiuto della Māṇḍūkya Upaniṣad, semplicemente svegliandosi e considerando il sogno dal punto di vista della veglia; egli potrà capire che “oh! tutto quello era solo un sogno”. Ciò che l’uomo ordinario non può fare da solo è negare la realtà del punto di vista della stessa veglia. Questo punto di vista pregiudiziale è quello che si chiama ignoranza o sovrapposizione (avidyā o adhyāsa) e gli si assegna istintivamente uno stato più reale di quello che si attribuisce al sogno. Si dà per scontato che lo stato di veglia è il nostro ambiente di riferimento più affidabile, una realtà più positiva in comparazione con il sogno. L’intero vyavahāra è, dunque, ciò che il Vedānta chiama adhyāsa/avidyā.

8) Sappiamo come le Kārikā di Gauḍapāda forniscano tutto il procedimento logico (yukti) necessario per paragonare la veglia al sogno. Mostrando che la veglia e il sogno si escludono a vicenda (con l’uso da parte della śruti delle denominazioni viśva e taijasa), pur indicando che sono effettivamente simili in quanto se ne ha cognizione (nel senso che vi si sperimenta un’esperienza), ciò che la Māṇḍūkya Upaniṣad e le sue Kārikā cercano di fare è negare la realtà individuale che si dà per scontata in ciascuno di questi due stati.

9) Per esempio, quando ci chiediamo perché consideriamo lo stato di veglia come se fosse d’un ordine superiore di realtà rispetto al sogno, la risposta più probabile è perché nella veglia “sentiamo o sperimentiamo” una continuità che nel sogno non c’è. Allora, a tali risposte, ribattiamo che mentre il sogno durava, cioè finché ci si trovava nel sogno, c’era continuità anche lì. Come possiamo, dunque, dire, sulla base dell’argomento della continuità, che la veglia appartiene a un ordine superiore di realtà rispetto al sogno? Anche nelle Kārikā al cercatore si presentano diversi altri procedimenti logici (tarka) risultanti dalla riflessione (manana) sui brani della śruti che riguardano gli stati di veglia e di sogno.

10) Perciò, le Kārikā, utilizzando le definizioni di viśva e di taijasa della śruti, e segnalando i loro limiti d’azione per mezzo della logica basata sulla scrittura (śruti aviruddha tarka), spiegano la falsità (mithyātva) di questi due stati.

11) Ora, quando si tratta di sonno profondo, sorge un problema. Negli stati di veglia e di sogno era possibile spostare l’attenzione della persona che indaga (cioè del vegliante, perché, dopo tutto, è quello che sta indagando) ai corrispondenti punti di vista della veglia e del sogno. Ciò significa che è facile chiedere al vegliante di mettersi nei panni di un sognatore e di descrivere il sogno. Durante la sua indagine, un vegliante può pensare come se fosse un sognatore in modo da dare un resoconto dello stato di sogno. Ciò significa che è possibile, per chi si è risvegliato, avere qualche ‘ricordo’ del sogno. È possibile fare lo stesso con il sonno profondo? Possiamo da svegli, durante il vicāra, assumere il punto di vista di un dormiente (prasupta) e dare un vero resoconto dello stato di sonno? La risposta è sì e no.

12) Consideriamo la prima risposta, cioè “Sì, possiamo prendere la posizione del punto di vista del dormiente dallo stato di veglia”. A questo direi, va bene, va’ avanti e spiega il sonno (da’ un resoconto del sonno) dal tuo stato di veglia, assumendo il punto di vista del dormiente. Tale spiegazione sarà così: “Il sonno è quello stato in cui non sognavo nulla, non desideravo nulla, non conoscevo nulla”. È così che normalmente si parla del sonno profondo.

13) A questo punto si osservi attentamente il modo in cui abbiamo spiegato il sonno: “Non stavo sognando”, “Non stavo desiderando”, “Non conoscevo nulla”. Si risponda onestamente alla seguente questione: questa è davvero una spiegazione dal punto di vista del dormiente? Durante il sonno si pensa davvero: “Oh, non sto sognando”, “Ah, non sto desiderando”, “Oh, non conosco nulla”? La risposta è chiaramente un ‘no’. Ciò significa che questo modo di parlare del sonno profondo non esprime il punto di vista del sonno profondo, ma è in fondo solo il punto di vista di chi si è risvegliato.

14) Torniamo al punto 11, quando abbiamo detto che è possibile per il sognatore ‘ricordare’ il sogno (mettendosi nei panni del sognatore quando si analizza dal punto di vista del vegliante). Facendo così, il resoconto sul sogno è piuttosto fedele al contenuto e alla cognizione del sogno stesso. Possiamo ricordare buona parte dei sogni, anche se molti altri non possono essere ricordati correttamente. Questo va bene. Invece, quando cerchiamo di fornire un resoconto del sonno profondo dal punto di vista della veglia, la descrizione non corrisponde mai all’esperienza (anubhava) che abbiamo realmente avuto in sonno; anzi, più precisamente, nel sonno profondo non abbiamo avuto alcuna esperienza oggettivata come accade nel sogno e nella veglia. Quindi, in una certa misura, quel modo di descrivere il sonno profondo come “non conoscevo nulla” non è altro che la negazione di qualsiasi esperienza oggettivata in quello stato.

15) Il modo di descrivere il sonno come assenza di desiderio, assenza di conoscenza oggettivata ecc. non è in realtà una vera descrizione del sonno dal punto di vista del dormiente, ma è una descrizione del sonno dal punto di vista di chi è in stato di veglia, dove l’esistenza del desiderio e della conoscenza oggettivata sono dati per scontati. Ciò significa che questo modo di parlare del sonno non è altro che la descrizione dal punto di vista del vegliante, che è ciò che chiamiamo adhyāsa/avidyā! Ciò significa che considerare il sonno come uno stato, come si fa con la veglia e con il sogno che iniziano e finiscono nel tempo, è solo nel dominio dell’avidyā/adhyāsa.

16) Aggiungeremo che ci sono altre descrizioni del sonno profondo che si danno spontaneamente dal punto di vista della veglia. Si guarda il mondo intorno a noi nello stato di veglia e si dice: “Tutto questo non c’era nel sonno”, “Sono passato dal sonno alla veglia”, “Sono entrato nel sonno”. Si osservino tutti questi comuni modi di dire che si accettano con naturalezza. È questo ciò che s’intende con adhyāsa/avidyā. Questo modo di valutare, cioè di vedere, come se il mondo fosse un’entità esistente indipendentemente, in cui si va e si viene, e il modo di parlare del mondo come esistenza presente e di indagare sullo stato precedente alla sua presente esistenza, tutta questa impostazione in termini di causa-effetto, che si sviluppa nel tempo ed è limitata al tema della causalità, ha come fondamento l’identificazione “io sono corpo/mente”. In quest’ambito si può parlare di causalità prendendo per fondamentale questa identificazione solo con il corpo/mente. L’identificazione con il corpo/mente, il costrutto spazio-temporale, il tema della causalità, il corpo e il mondo intorno a esso, l’entrare e l’uscire dal mondo, l’esistenza e la non esistenza del mondo, tutte questa serie di idee messe insieme sono adhyāsa/avidyā.

17) A questo proposito, ci si può chiedere chi va e viene nel sonno? Abbiamo mai osservato bene? È il vegliante? No, perché il vegliante è limitato solo allo stato della veglia. È il sognatore? No, perché il sognatore è limitato solo allo stato di sogno. Allora chi “va in sonno”? La verità è che non c’è nessun andare e venire. È l’identificazione ignorante del sognatore con il corpo/mente che fa dire al sognatore questo. Si osservi tramite l’anubhava basandosi sui mantra della śruti che riguardano gli stati di veglia, di sogno e lo ‘stato’ di sonno profondo. Non c’è nessun andare e venire se non la propria immaginazione di andare e venire. Il vegliante non entra né esce dalla veglia. Il vegliante si trova come vegliante nello stato di veglia né ha idea del suo inizio e della sua fine. Allo stesso modo, il sognatore non entra nel né esce dal sogno. Il sognatore sta nel sogno e quando il sogno finisce, finisce il sognatore. Questo è l’anubhava. Questa è la logica basata sulla scrittura (śruti aviruddha tarka), in accordo con l’intuizione sempre basata sulla scrittura (śruti-yukti anubhava), usata per emettere la sentenza che considerare se stessi come vegliante o sognatore è una falsità (mithyātvam). Dopo tutto, è l’adhyāsa/avidyā all’interno della veglia stessa che crea tutto quel caos chiamato saṃsāra, che altro non sono se non le ‘fantasiose idee’ di nascita e morte (o creazione e distruzione) ecc., dovute all’assenza di corretta conoscenza.

18) Soltanto a causa di questa ignoranza (adhyāsa/avidyā) consideriamo il sonno profondo come uno stato causale, in cui tutta la cosiddetta conoscenza oggettivata è stata descritta come una massa indifferenziata di cognizione (prajñāna-ghana). L’assenza di discriminazione della persona nello stato di veglia (cioè l’aviveka del vegliante in mancanza dell’Ātma-anātma viveka [insegnata] dalla śruti) è detta ‘viveka rāhityam’ del sonno (mancanza di discriminazione nel sonno) e nient’altro. Se questo vegliante viene rimosso, le fantasiose descrizioni come viveka rāhityam, avidyā bīja avasthā (stato di ignoranza seminale), ecc. attribuite al sonno come stato, saranno tutte eliminate. A livello individuale, il sonno (come prājña), questo seme causale (vāsanā latente), è in fondo solo un’immaginazione del vegliante. Al di fuori di questa immaginazione non c’è mai un anubhava che confermi l’esperienza da parte di prājña di una vāsanā seminale durante il sonno. Analogamente a questa condizione del vegliante indicata quale aka (in sofferenza) jīva, la śruti propone un equivalente adhyāropa del sonno a livello cosmico, in cui Īśvara appare come autore della causa (māyā, aka, avyakta, nāmarūpa). Tutto sommato, la conclusione è che “l’idea stessa che nel sonno profondo ci siano vāsanā latenti fa parte unicamente della adhyāsa/avidyā del vegliante”. È sbagliato pensare che le vāsanā siano al di fuori dell’adhyāsa/avidyā del vegliante; ed è totalmente sbagliato pensare che si trovino realmente in prājña e non nel viśva, cioè nel vegliante. In realtà sono solo nel viśva, ma appaiono ‘come se fossero’ in prājña. Lo stesso prājña è in fondo un’immaginazione del vegliante, quando costui cerca di descrivere il sonno dal punto di vista della veglia. Così quel seme non è veramente nel sonno profondo, ma solo nella veglia. Questa è la chiave [di lettura].

19) È per attirare volutamente la nostra attenzione su questo modo sbagliato di parlare del sonno (cioè il modo in cui il jīva parla del sonno) che la Māṇḍūkya, per prima cosa, inizia con ‘yatra’ supto. Si noti che qui abbiamo dovuto chiamarlo ‘modo sbagliato di parlare’ solo perché c’è un modo corretto di indicare la vera natura del sonno, che la Māṇḍūkya dà nel mantra successivo (come Turīya). Quindi, ciò che la Māṇḍūkya sta facendo qui, è spingerci preliminarmente e di proposito [adhyāropa] a quel modo di considerare il sonno che ci risulta più naturale, cioè alla deprecabile visione onnubilata dello stato di veglia, ossia all’ignoranza del vegliante. Si noti che la Māṇḍūkya non ha usato quello specifico prefisso ‘yatra’ (ovunque) per gli stati di veglia e di sogno, ma solo per suṣupti. Perché quell’uso del prefisso ‘yatra’ solo per suṣupti e non per gli altri due stati?

20) La risposta è che c’è un altro modo di considerare il sonno profondo, diverso da quello che lo vuole come uno stato, cioè il punto di vista del sonno stesso. Poiché la Māṇḍūkya, in ultima analisi, per negare che l’idea del sonno come ‘stato’ non è la Realtà ultima, deve prima indurci a questo modo sbagliato di guardare al sonno come stato, per poi negarne la realtà. Ma perché lo fa solo per il sonno e non per gli stati di veglia e di sogno? La risposta è che il sonno nella sua vera natura è solo il Brahman non duale. Poiché non è possibile rendere il Brahman a parole e poiché il ‘punto di vista’ di Brahman non può essere assunto allo stesso modo in cui il vegliante assume il punto di vista del sognatore, la śruti pone prima di tutto un adhyāropa a cui fa seguire l’apavāda. La definizione della śruti di prājña (nella prospettiva di vyaṣṭi o a livello particolare) e di Īśvara (nella prospettiva di samaṣṭi o a livello universale) è proprio l’adhyāropa, dove la causalità si sovrappone a prājña e a Īśvara. Ricordiamo quanto afferma Bhagavatpāda nel Gītā Bhāṣya: “Come dicono i conoscitori del sampradāya, ciò che, per sua natura non è sottoponibile ad alcuna relazione, è esposto (ai fini dell’insegnamento) per mezzo dell’adhyāropa-apavāda.”

21) Ora, quell’altro modo di considerare il sonno (che non è il punto di vista del vegliante) altro non è che smettere di guardare il sonno dal punto di vista della veglia, cioè annullare il punto di vista del vegliante comprendendo che il punto di vista del vegliante è mithyātvam. Il punto di vista di Brahman non è altro che la cancellazione del punto di vista del jīva. Prima, nella nostra comparazione tra veglia e sogno, abbiamo preso in considerazione lo śruti aviruddha tarka per dimostrare come veglia e sogno si escludano a vicenda e come ognuno di essi neghi la realtà dell’altro, pur avendo entrambi un sostrato comune. Prendendo questo śruti aviruddha tarka, che è anche in armonia con l’anubhava, si capisce che è il desiderio di causalità dello stato di veglia a sovrapporsi al sonno. È questo desiderio di causalità che, unicamente dallo stato di veglia, attribuisce al sonno profondo lo ‘stato causale’. Ciò significa che l’identificazione con il corpo/mente dello stato di veglia, che esiste insieme al desiderio di conoscere la causa del corpo/mente, è soltanto il jīvatvam. Sulla base dello śruti pramāṇa per cui Ātman è asaṅgaḥ (Ātman non è né il vegliante né il sognatore né il cosiddetto dormiente), si capisce che tale identificazione (io sono chi veglia, chi sogna e quindi, per analogia, io sono anche chi dorme) è del tutto erronea. Il Sé non è né il vegliante né il sognatore e nemmeno chi gode del sonno (cioè non è quel fruitore del sonno che il vegliante immagina di essere come uno che non conosce niente mentre si trova in una massa di coscienza indifferenziata)

22) Ci si chiederà: se non si è quel cosiddetto dormiente (come il vegliante l’ha immaginato e descritto) allora cos’è quel sonno profondo di cui non si può negare l’esistenza? Il vegliante non può descriverlo correttamente a parole, ma non ne può negare l’esistenza. Quell’esistenza è l’Ātman non duale. Ora, sorprendentemente, tutta quella descrizione per viam negationis che la Māṇḍūkya dà di Turīya nel mantra successivo è valida anche per suṣupti (acintyamagrāhyam etc.). In tal modo la vera suṣupti, che non è “yatra supto na kancana…” com’è la descrizione di suṣupti fatta dal vegliante, e che viene intuita come innegabile Pura Esistenza, e quell’intuizione che avviene attraverso la cancellazione dell’idea di essere un vegliante (e, quindi, anche un dormiente), è davvero il vero Sé in tutta la sua gloria, cioè l’asaṅga Ātman. Per essere precisi, la descrizione che il vegliante fa di suṣupti non corrisponde a nulla di esistente. È solo un’immaginazione. Ciò che esiste è solo la suṣupti reale cioè l’asaṅga Ātman, l’Ātman non duale. Il vegliante non è asaṅgaḥ e nemmeno il sognatore. Il prājña com’è immaginato (fantasticato come sperimentatore del sonno dal punto di vista dell’identificazione con il corpo/mente) non è asaṅgaḥ. Corpo e mente devono essere eliminati. Allora si intuisce Ātman come asaṅgaḥ che è la vera natura di suṣupti. Quello stesso è Turīya. Tu sei Quello. Se non si sovrappone la causalità a suṣupti per poi confutarla al fine di dimostrare che è l’asaṅga Ātman non duale, nella nostra esperienza universale (sārvatrika anubhava) non ci può essere evidenza dell’Ātman come asaṅgaḥ. Se ci si ferma alla fase dell’adhyāropa, incui la causalità è sovrapposta, allora avidyā apparirà comune a tutti e tre gli stati, proprio come, a detta della śruti, Brahman è il substrato dei tre stati. Questo equivarrebbe a dire che Brahman e avidyā sono due realtà esistenti in parallelo o, in altre parole, che nel nostro sārvatrika anubhava non ci sarebbe alcuna prova dell’asaṅga Ātman. L’intero Vedānta non sarebbe altro che una farsa. Ora, qui vorrei menzionare la breve, precisa e inequivocabile affermazione di Bhagavān Bhāṣyakāra (Māṇḍūkya Kārikā Bhāṣya, I.2) che conferma quasi tutto quello che ho scritto finora riguardo all’interpretazione del sonno dal punto di vista del vegliante e alla sua eliminazione (assumendo, cioè, il ‘punto di vista’ pāramārthika): Tāmabījāvasthāṃ tasyiva prājñaśabdvācyasya turīyatvena dehādisambandhajāgradādirihatām pāramārthikīṃ pṛthagvakṣyati, bījāvasthāpi ‘na kiñcidavediṣam’ ityutthitasya pratyayadarśanāddehe anubhūyata eveti tridhā dehe vyavasthita iatyucyate. Ciò che è definito prājña (quando è visto come causa del mondo fenomenico) sarà descritto altrove come Turīya quando non è visto come causa, ma libero da ogni relazione fenomenica (come quella del corpo, ecc.), cioè nel suo aspetto assolutamente Reale. In verità, anche lo ‘stato causale’ è sperimentato in questo corpo da chi si sveglia dal sonno profondo, per colpa del pensiero che “(in sonno profondo) non conoscevo nulla”. Perciò si dice che (un) Ātman è percepito in (un) corpo come fosse triplice (viśvataijasaprājña). Si deve capire perché il Bhāṣyakāra abbia detto solo a proposito di prājña che prājña sarà descritto in seguito come Turīya, quando è visto fuori dal contesto causale. Lo avrebbe potuto dire anche per viśva e per taijasa, ma non lo ha fatto. Perché? A causa delle ragioni che ho menzionato sopra: c’è un modo sbagliato di considerare il sonno sotto l’aspetto causale e un modo corretto che dà un’intuizione immediata dell’Ātman non duale come nostra vera natura, cioè la natura di suṣupti.

23) Quell’asaṅga Ātman della natura del sonno profondo non è limitato al sonno profondo. Quel prājña immaginato (dal viśva per ignoranza) è quello che è limitato all’idea di ‘stato’ di sonno. Quando si capisce (intuisce) così, la vera suṣupti non è uno stato nel tempo. Suṣupti, allora, è il sostrato su cui appaiono e si fondono la veglia, il sogno e la “presunta descrizione del sonno che il vegliante chiama stato causale”. Così, la cessazione del punto di vista del vegliante quando si capisce suṣupti con la torcia dell’insegnamento della (śruti vākya), è chiamata ‘osservare’ suṣupti proprio dal punto di vista di suṣupti. Qui l’espressione figurativa “torcia chiamata śruti” non è una torcia che ha rivelato il suṣupti Ātman, ma è quella la cui luce rimuove il jīva. Poiché il suṣupti Ātman intuito è autoevidente e sempre esistente, non ha bisogno di alcun altro pramāṇa per rivelarsi. Ecco perché la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad dice che in suṣupti “Veda è aveda” (Veda non è più Veda). Il compito del Veda [la conoscenza] è quello di eliminare il jīvatvam e con l’eliminazione del jīvatvam il Veda cessa di essere Veda. Perciò la soluzione è comprendere correttamente il sonno profondo.

24) A questo punto, la gente generalmente chiede: “Chi intuisce? Di chi è l’intuizione?” ecc. Su questo c’è da dire che chi inizia pensando di intuire fallirà perché “conoscitore di Ātman” è solo un’espressione figurativa. Ātman/Brahman è ciò su cui cade la triade conoscitore-conoscenza-conosciuto perché il culmine dell’intuizione è il vākya Tattvamasi, “tu sei Quello”, in cui non c’è alcuna divisione chiamata conoscitore-conoscenza-conosciuto. Ecco perché espressioni come ‘la Liberazione di jīva’, ecc. sono solo figure retoriche. Non c’è cessazione, nessuna nascita, nessuno in schiavitù, nessuno che aspira alla Liberazione, nessuna Liberazione, nessuno liberato: questa è la verità ultima. O in altre parole conoscere il Brahman è quel tipo di ‘conoscenza’ dove tutto il sapere viene a cadere insieme al desiderio e al bisogno di conoscere. Tu sei Quello.

25) Alcuni obiettano dicendo che se suṣupti è Brahman, perché in suṣupti non ho capito che io sono Brahman? La risposta è che non lo sapevi perché, essendo il Brahman non duale, non c’è una seconda cosa da conoscere. Alcune persone obiettano dicendo: “Ciò significa forse che una persona non illuminata va in suṣupti e torna liberata?” La risposta è già stata data nei paragrafi precedenti, dove si dice quanto sia sbagliato parlare di andare e venire. Non c’è nessun andare e venire per l’Ātman reale. L’idea di andare e venire nel e dal sonno è ignoranza ed errore. Un semplice vicāra alla luce dello śruti vākya può aiutare a cancellare questo errore. Lo si può sperimentare.

26) Alcune persone ribattono: “Caitra [Tizio], dopo essere andato in sonno profondo, si è svegliato come Caitra solo perché non si è liberato nel sonno?” La risposta è che Caitra non è mai andato in sonno profondo. Inoltre, Ātman non è mai diventato veramente Caitra. Questa domanda viene posta dal cosiddetto Caitra che non sa che l’identificazione ‘come Caitra’ è solo un errore. Così Caitra, quando pone questa domanda, cioè quando è in stato di veglia, ha bisogno della śruti per essere aiutato a superare questa domanda (rimuovere l’idea di non essere liberato e di aver bisogno della Liberazione)! Questo è il motivo per cui la śruti è data solo a Caitra, perché Caitra ha bisogno della śruti. Dove c’è un errore (avidyā/adhyāsa) è necessaria la correzione, e lo strumento di correzione è la śruti. Dove non c’è ignoranza/errore (in suṣupti) non c’è bisogno di correzione e lì non è accettato alcuno strumento di correzione. Si ricordi ciò che dice la Bṛhadāraṇyaka, cioè che il Veda in suṣupti è aveda. Dal punto di vista di suṣupti, non c’è alcuna condizione di schiavitù da cui procedere verso la Liberazione insieme ai mezzi per raggiungerla. L’idea di Liberazione è valida solo dal punto di vista della schiavitù. Se ancora ci si considera limitati, si ha bisogno della śruti per aiutarsi a trascendere l’idea di essere in schiavitù.

Si può capire come la dissoluzione della causalità sia fondamentale e importante per intuire che l’Ātman non duale è la vera natura di suṣupti. Tu sei quell’asaṅga Ātman che, anche in questo momento, è il sostrato di questo stato di veglia, ma ti capita di identificarti come un vegliante. Questa è solo un’identificazione sbagliata dovuta alla mancanza di retta conoscenza. Il sonno profondo come stato causale è dato nella Māṇḍūkya non per riconoscere avidyā in tutti e tre gli stati di veglia, sogno e sonno profondo, ma per negare e annullare l’aspetto di causalità sovrapposto al Sé. Quando si consultano altre Upaniṣad, esse dichiarano subito suṣupti come l’Ātman non duale. Questo è il punto: la Māṇḍūkya è speciale e con le sue Kārikā è propriamente mirata a togliere quell’attaccamento per la causalità, perché nessuna causalità di sorta è possibile nell’Ātman non duale.

Questo inserimento nella Māṇḍūkya Upaniṣad della sovrapposizione della causalità sul sonno profondo non è una esortazione ad assumere altre sādhanā nel corso della via. Al contrario vuole dire che la Verità è al di là di ogni causalità. Vuole anche dimostrare come la causalità possa essere trascesa concentrandosi solo sul ragionamento basato sul śruti-yukti anubhava; non c’è, perciò, da meravigliarsi se nel quarto capitolo finale delle Kārikā, il compito di Gauḍapādācārya sia quello di dimostrare la falsità (mithyātvam) del tema della causalità. Con la precisa spada della śruti aviruddha yukti egli ha reciso la causalità solo con l’uso della ragione basata sulla śruti e ha dichiarato il non-nato Brahman non duale (ajā advaya Brahma) come l’unica Realtà, identica alla Pura Esistenza non duale (l’Ātman non duale) in suṣupti. La causalità sovrapposta al sonno fa parte del metodo (prakriyā). Non la si deve esibire come fosse un’ulteriore causa e usarla per prescrivere altre pratiche (sādhanā), meditazioni (upāsanā) (come per ottenere la purificazione mentale, la citta śuddhi) ecc., guardando alla ‘causa māyā’ come fosse un potere divino di Īśvara. Soprattutto, māyā non è causa. Questo è il punto.

Quindi, non si faccia della māyā un grande potere a causa di un’errata lettura di queste affermazioni della śruti. Si comprenda, invece, che māyā fa parte dell’avidyā/adhyāsa. Non si cerchi di prendere māyā come causa e sottomettersi a essa in attesa di raggiungere la citta śuddhiCitta śuddhi è senza alcun dubbio necessaria in questo percorso, ma la māyā non è affatto una ‘potenza’ che impedisce con puntiglio e di proposito l’insorgere della conoscenza. Invece è piuttosto la propria ignoranza che è la sola causa. Stando nell’ignoranza/sovrapposizione (in cui ci si trova nel modo più naturale) e non riconoscendo che questa è ignoranza, si dà per scontato di essere in schiavitù e, allora, si comincia ad accettare che māyā sia la causa di questa schiavitù. La causa della schiavitù non è māyā. L’unica causa di schiavitù è solo non conoscere la verità. Infatti la schiavitù è solo un errore, non è una limitazione (bandhana) reale prodotta da un potere misterioso chiamato māyā, come si è abituati a immaginare. L’ignoranza/sovrapposizione (avidyā/adhyāsa) è la sola causa della schiavitù (saṃsāra).

Infine, quello che si deve capire quando il Bhāṣyakāra afferma: “Prājñastu bīja bhāvena eva baddhaḥ” è quanto segue: “Guarda quella eva śābda prayoga nella citazione [al punto 22], che significa ‘solo’ o ‘da solo’. Il significato è che prājña è limitato ‘solo’ dal bīja bhāva”. Ora ci si deve chiedere: “Chi ha immaginato questo prājña?” È viśva che immagina il prājña e che sovrappone quell’aspetto causale (bīja bhāva) al prājña. Non c’è una vera causa se non il tuo desiderio di una causa che, a sua volta, è dovuta alla mancanza di conoscenza. Guarda anche il successivo vākya del Bhāṣya: “Tattvāprati bodhamātrameva hi bījaṃ prājñatve nimittam” (La non conoscenza della Realtà è la sola causa che fa di prājña uno stato). Questo è tutto. È viśva che per ignoranza sembra proiettare lo stato di prājña (stato causale) sul sonno. In altre parole, Īśvara (Īśvaratvam) è una immaginazione del jīva (jīvatvam). Il jīvatvam immagina Īśvaratvam ed essendo fortemente attaccato all’idea che “io sono un jīva”, sottopone il jīva al dominio di Īśvara.

Finché si richiede una causa, s’ottiene una causa e, una volta accettata la causa, si è legati alla causa. Non c’è dubbio. Ciò che per sua natura è Brahman non nato e non duale viene preso come Īśvara sulla base del ‘prendere se stessi come jīva’. Abbandona il tuo jīvatvam e rimane solo il Brahman non nato e non duale (senza alcun Īśvaratvam). Tu sei Quello. Per il momento lasciamo perdere. Questo è l’Advaita Vedānta (e l’avasthātraya vicāra) che abbiamo compreso essere quello che viene insegnato da Bhagavān Bhāṣyakāra nel Prasthānatraya Bhāṣya. Onestamente, in tutta umiltà, ammettiamo di non aver nemmeno trattato tutti gli aspetti dell’avasthātraya vicāra. Ci saranno molte altre obiezioni e dubbi che possono insorgere e alcuni dei punti menzionati nei paragrafi precedenti devono essere ulteriormente ampliati (come, p. es. manana). Comunque, a ogni obiezione è possibile rispondere in modo ordinato solo basandosi sul Bhāṣya correlato all’anubhava, attenendosi allo śruti aviruddha tarka e, inoltre, rendere la risposta comprensibile ad ogni sincero cercatore senza nemmeno porsi l’idea della mūlāvidyā.

È facile dimostrare che la mancanza della purificazione mentale (citta śuddhi) è la ragione per non capire e per promuovere l’idea della mūlāvidyā come soluzione di questo problema. Ma oltre a una sufficiente citta śuddhi, anche il metodo (prakriyā) è altrettanto importante. Una vasta citta śuddhi, ma con una prakriyā sbagliata, farà solo girare a vuoto il cercatore. Si deve fare il vicāra correttamente usando la giusta prakriyā e allora si intuirà il proprio svarūpa. Non c’è da stupirsi che sia detto “Māṇḍūkyam ekam eva alaṃ” (La Māṇḍūkya da sola è sufficiente). Alcuni potrebbero chiedere: “Per un cercatore che non è in grado di afferrare correttamente quanto gli viene insegnato come sopra, c’è una qualche ripetizione (āvṛtti) che gli sia permessa dal Bhāṣya Prakriyā?” I discepoli o sono ‘sinceri e seri’ o fingono di esserlo. Per quelli che fanno finta di esserlo non c’è insegnamento. Questo è quanto. Solo il cercatore sincero e serio (śraddhāvān vicārin) deve essere istruito perché “sraddhāvān labhate jñānam” dice il Signore Beato nella Gītā (IV.39). A coloro che non sono tali, non si dovrebbe insegnare, dice Bhagavān in Gītā (XVIII.67), dove indica a che tipo di persone non si deve insegnare. Se il cercatore sraddhāvān non è in grado di comprendere quanto gli viene insegnato nel modo sopra menzionato, dovrà capire i pratibandhaka (impedimenti) che non gli permettono di afferrare il modo giusto per rimuovere il jīvatvam.

Identificati questi pratibandhaka, se sono della natura di dubbi, comprensioni errate, ecc., li si chiarisca e si provi ancora e ancora, finché il sincero cercatore non abbia compreso correttamente. A volte, quando il guru valuta che c’è una insufficienza di citta śuddhi, può decidere per lui una sādhanā da intraprendere (karma yogajapadhyāna ecc.). Soprattutto i dubbi e le idee sbagliate devono essere identificati e rimossi alla luce dello śruti vākya. Uddālaka fece lo stesso con Śvetaketu, dandogli l’insegnamento del Tat tvam asi e ripetendoglielo a più riprese, rimosse le ostruzioni che parevano impedire l’emergere della giusta conoscenza. Questa è l’unica āvritti che risulti sostenuta dal Bhāṣya. Anche la sezione “Il metodo di illuminazione del discepolo” nell’Upadeśa Sāhasrī può essere consultata per capire lo stesso argomento in dettaglio. Si tratta di śravaṇa-manana-nididhyāsana come sono consigliati nel Bhāṣya (compresa, come necessaria, l’āvritti da parte del maestro). Una volta ‘afferrato’ (cioè una volta che si ha l’annullamento del jīvatvam e l’identità con l’Ātman non duale attraverso lo śravaṇa dello śruti vākya “Tattvamasi” è ‘ottenuto’) non c’è più nulla da fare. Non esiste alcuna ripetizione della conoscenza al di là di questa.