Dante: la Vita Nova – II
Poiché nessuno era stato in grado di spiegargli la sua situazione spirituale1, Dante, a questo punto, s’interrogò sul significato dei suoi stati d’animo così alternanti e contraddittori. Con una indagine introspettiva, lucidamente riuscì a descrivere la continua successione di attrazione e repulsione per Beatrice-Santa Sapienza. Amore in continuazione lo spingeva con un ardente desiderio a incontrare la sua Donna. Questo avveniva sia tramite una visione interiore, sia quando incontrava di persona Beatrice (il maestro attorniato dal satsāṅga). Non appena ne aveva la visione (sskrt. darśana), i soffi predisposti alla vista (sskrt. cakṣus) venivano potenziati ed era come se uscissero dai loro organi naturali (sskrt. netra golaka); gli altri soffi e potenze dell’anima, invece, soffrivano come se stessero per morire. E Amore, allora, gli imponeva di allontanarsi dalla visione per mantenersi in vita2. Dopo aver inviato queste riflessioni sotto forma di tre sonetti al maestro, Dante si rese conto che, come effetto di quel chiarimento, egli riusciva ormai a dominare queste sensazioni contrastanti. Aveva già superato quell’ostacolo e ora era in grado di concepire un dominio spirituale più alto.
Convocato a una Corte d’Amore, i Fedeli presenti gli chiesero di spiegare meglio il suo stato interiore, incoraggiandolo ad abbandonare reticenze e pudore. Il fiume di sapienza che lo riempiva di grazie lo ispirò ed egli volle scrivere sull’intima unione tra il suo intelletto e l’Intelletto Attivo, Beatrice. Così rivolse la canzone “Donne che avete intelletto d’Amore” non a qualsiasi Fedele d’Amore, “ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine3”; solamente ai più qualificati tra loro. L’amore tra il Poeta e la sua Donna era tanto dolce, che ormai parlandone sarebbe stato in grado di fare innamorare la gente. Tradotto dal linguaggio segreto, Dante affermava così di aver raggiunto il grado spirituale di maestro (sskrt. gurutva). Sebbene la sua conoscenza di lei fosse molto più profonda, d’ora innanzi avrebbe parlato di Beatrice in una forma facile, in modo da essere compreso dagli altri iniziati. Beatrice-Santa Sapienza, attraverso Dante era scesa dal cielo in terra per elargire il miracolo dell’influenza spirituale (sskrt. anugraha)4. I Fedeli d’Amore avrebbero dovuto profittare di questa grazia divina finché fosse stato possibile. Dante infatti accenna che in seguito Beatrice sarebbe stata richiamata in cielo per ben più alta missione. In questo modo preannuncia il futuro superamento della sua esperienza magistrale per svolgere una funzione più universale.
I trovatori della Corte d’Amore gli risposero con la canzone “Ben aggia l’amoroso e gentil core”; in essa non solamente era assolto da ogni sospetto e riconosciuto come maestro, ma appare tutto l’entusiastico riconoscimento per l’elevatezza delle esperienze interiori di Dante. Poi, con alcuni sonetti indirizzati ai Fedeli d’Amore il nuovo maestro li esortava a far sì che le loro donne (intelletti) seguissero l’esempio di Beatrice. Allo stesso tempo il Poeta indirizzò il sonetto “Amore e il cor gentile sono una cosa” al suo migliore amico, Guido de’ Cavalcanti, spiegandogli come ora Amore avesse preso totale possesso del suo cuore. È una dichiarazione umile ma ferma di aver superato in realizzazione il suo maestro. E Cavalcanti, da quel momento cominciò a eclissarsi, lasciando il comando della Fede Santa al suo migliore discepolo. Non fu un distacco consenziente: Guido rimase amareggiato e s’allontanò per sempre dalla sua famiglia spirituale. L’abbandono di chi era stato fino allora il loro maestro fu lamentato come la morte “del padre di Beatrice” per la tristezza che provocò agli iniziati fiorentini.
Dante poi, nel corso di una malattia durata nove giorni, mentre era assistito da alcune Dame, ebbe una dolorosa visione della propria morte, cui seguiva immediatamente anche quella di Beatrice. La visione, poi, diventò sempre più dolce5: egli vide la sua Donna giacere morta e poi salire al cielo trasportata da una nuvola d’angeli, che cantavano “Gloria nel più alto dei cieli”6. E qui subentrò nel suo cuore la certezza che questa visione gli avrebbe assicurato la pace interiore. Dal citato brano della Vita Nova appare evidente che si era trattato d’una visione profetica: la morte indicava un prossimo salto di qualità nella sua esperienza iniziatica; e la morte di Beatrice era la sua stessa morte che permetteva l’innalzamento della sua anima7 al più alto dei cieli, sorgente di ogni pace. Dopo pochi giorni Dante ebbe una nuova visione: egli vide Amore che prendeva gioiosamente possesso del suo cuore. Il Dio gli indicava due nobili Dame che parevano avvicinarsi. Quella che procedeva davanti era Primavera, chiamata anche Giovanna8. Di seguito veniva Beatrice. Primavera era la Donna di Guido; questa visione significava che Dante aveva superato il maestro9. Egli così fu entusiasticamente riconosciuto dai Fedeli d’Amore come il nuovo capo.
Nonostante Dante avesse proposto una conduzione a tre della loro famiglia iniziatica10, Guido cortesemente rifiutò, adducendo il motivo di aver assunto il magistero di un’altra organizzazione esoterica11. Rimasto solo alla guida del gruppo fiorentino, Dante vi infuse una così grande potenza e sapienza spirituale che ben presto altre “Donne” (organizzazioni iniziatiche sorelle, probabilmente dell’ambito templare) si rivolsero a lui come Gran Maestro12. In questo periodo d’intenso insegnamento avvenne la “morte di Beatrice”. Dante preferì non trattare di questo argomento adducendo, tra le altre ragioni, che non desiderava farsi “laudatore di me medesimo”. È evidente, dunque, che la “morte di Beatrice” fu in realtà l’apoteosi della realizzazione interiore del Poeta; egli non ne volle parlare anche perché tale sua realizzazione trascendeva totalmente le possibilità di comprensione dei Fedeli d’Amore. Per meglio spiegare questo concetto, ci riferiremo nuovamente alla miniatura di Francesco da Barberino riprodotta e spiegata nel capitolo 43° di questa serie. Beatrice, l’anima del Poeta, aveva lasciato la terra su cui fino allora era vissuta assieme a Dante, nella forma dell’androgino “moglier-marito”, per salire in cielo sul bianco cavallo di Amore13.
Sebbene di difficile comprensione, tuttavia gli iniziati delle diverse organizzazioni riconobbero che il Poeta aveva raggiunto una inarrivabile elevatezza spirituale. Non c’è alcun dubbio che in quel momento Dante fu riconosciuto come Imperator, ossia come il capo spirituale delle vie iniziatiche della cristianità latina. Questa straordinaria esperienza di “morire in vita” avvenne nel 1291, in concomitanza con un avvenimento storico che mise in grave pericolo l’Ordine del Tempio. Egli decise dunque di informare con una lettera14 i Principi della Terra di questa sua nuova dignità e dei tempi difficili che correvano. Come sempre, Dante citava la prima lamentazione di Geremia15 per alludere al pericolo di distruzione del Tempio. In quello stesso anno, infatti, i musulmani conquistarono San Giovanni d’Acri, massacrando tutti i templari che difendevano la città. Con questa sconfitta la Palestina fu perduta per sempre alla cristianità e, allo stesso tempo, crollò il mito dell’invincibilità di quei monaci-cavalieri16. La nuova responsabilità di Dante coincise, dunque, con una contingenza storica particolarmente grave. Egli inviò agli iniziati la canzone “Gli occhi dolenti per pietà del core”; con essa il nuovo Gran Maestro invitava tutti a piangere, vale a dire a simulare, a nascondersi. E al medesimo tempo li esortava a sospirare, ad approfondire la loro conoscenza e a rafforzare la pratica delle virtù. Ad aiutarlo in tale compito si rese disponibile l’amico Cino da Pistoia, l’unico Fedele d’Amore che avesse da sempre riconosciuto Beatrice come la “Donna” più perfetta. Dante, per questa ragione, lo chiamava “fratello di Beatrice” e gli riconosceva una realtà interiore a lui molto prossima.
Un dì il Poeta stava disegnando, tutto concentrato, l’immagine di Beatrice assunta in cielo. La forma che gli era riuscita spontaneamente era quella d’un angelo. S’accorse che qualcuno lo stava osservando. Erano degli uomini, non “gentili”, né “donne”, che però egli doveva onorare. Si trattava chiaramente di un controllo da parte dell’Inquisizione; ma poiché l’immagine tracciata corrispondeva ai canoni dell’iconografia religiosa degli angeli, quegli uomini non poterono eccepire nulla. Fu così che egli decise di assumere una nuova apparenza esteriore: accettò l’amore di una nobile donna, giovane e molto bella. Nel Convivio17 la descrisse come la bellissima e onestissima figlia dell’Imperatore dell’Universo18, che Pitagora aveva chiamato Filosofia19. Egli aveva già percorsa interamente la via iniziatica della sapienza (gr. σοφία, leggi sofìa) pitagorica. Assumeva ora la Filosofia esteriore quale strumento per argomentare, tralasciando in parte l’uso del trobar clus20. Ecco, dunque, perché Dante appare ancor oggi perfettamente in linea con la teologia di San Tommaso e con la filosofia di Aristotele, pur avendo trasceso spiritualmente entrambe quelle prospettive essoteriche. Amore, dunque chiese a Dante di abbassare il livello delle sue esposizioni dottrinali per non farsi notare dalle spie del Re di Francia e dell’inquisizione. E il Poeta s’adeguò controvoglia. L’arte della retorica filosofica gli dava soddisfazione, ma allo stesso tempo se ne rammaricava per l’uso di uno strumento così esteriore. Prima di essere del tutto preso dalla tentazione filosofica, Dante richiamò alla mente la visione di Beatrice. In questo modo bruscamente respinse gli allettamenti del filosofare: i suoi pensieri recuperarono il vero senso sapienziale che, tramite i sospiri21, emetteva dal cuore.
La Vita Nova prosegue con un sonetto enigmatico soltanto in apparenza. Dante si rivolge a dei pellegrini “pensosi” che attraversano Firenze dirigendosi a Roma. Egli sottolinea che si recano colà per vedere la Veronica, senza accennare affatto al desiderio di ottenere la visione (sskrt. darśana) del papa in una udienza collettiva. Quest’ultimo era generalmente lo scopo dei romei, come si definivano coloro che si recavano in pellegrinaggio a Roma. Invece i pellegrini (non romei!), a cui si rivolge il Poeta, vogliono vedere la Veronica (dal latino vera icona), il vero volto di Cristo22. Si riconoscono in quei “pellegrini pensosi” i cavalieri templari sconfitti di ritorno dalla Palestina, desiderosi di ritrovare la vera immagine di Cristo, dopo aver perduto il suo Santo Sepolcro. Dante si rivolse loro per chiedere di sostare a Firenze. Da lì, infatti, Beatrice, la sapienza del Poeta, era salita al più alto dei cieli. Se avessero voluto condividere il suo pianto, quei pellegrini avrebbero potuto riconoscere nel cuore di Dante il vero volto del Salvatore. I pellegrini gli mandarono due rappresentanti a chiedergli d’illustrasse la sua vera realtà interiore, in modo da decidere se proseguire per Roma o fermarsi presso di lui.
A questa richiesta di chiarimento, Dante rispose con l’ultimo sonetto dell’opera; in esso affermava che la conoscenza (il sospiro) dimorante nel suo cuore era andata al di là del cielo più alto. Una nuova consapevolezza lo aveva spinto oltre quel limite. Lì ebbe la visione di una “Donna” auto-luminosa, che era incapace di descrivere con le facoltà della mente (sskrt. antaḥkaraṇa). Tuttavia, la mente, nelle sue limitate capacità, manteneva la sensazione che quella luce gentile gli ricordasse Beatrice; questo fu quanto riuscì a recepire. Questa la risposta ai due pellegrini. Ma, appena terminata la confessione sull’incapacità della mente umana di “ricordare” ciò che aveva conosciuto direttamente, Dante dichiarava d’avere la “mirabile visione” del mistero divino. Con “mirabile visione” Dante non intendeva una nuova esperienza spirituale, ma il progetto di narrare le sue conoscenze nella Divina Commedia. Cosicché egli concluse la Vita Nova assumendo l’impegno di impiegare il resto della sua vita terrena a spiegare ciò che non fu mai detto prima. Vale a dire che la sua anima, nella gloria di Beatrice, aveva l’eterna visione diretta di Colui che è sempre benedetto. Questo epilogo, dunque, prelude la Divina Commedia.
Maria Chiara de’ Fenzi
- Gli altri Fedeli d’Amore e lo stesso maestro dimostrarono poca comprensione, deridendo il Poeta per i suoi improvvisi samādhi.[↩]
- Questa esperienza è ben nota nella via della Bhakti come la sofferenza dell’”unione e della separazione” (sskrt. saṃyoga-viyoga).[↩]
- Infatti quelle “Donne” erano tutti, in realtà, dei cavalieri.[↩]
- L’intelletto attivo e quello possibile (Mahan Ātman universale e la buddhi individuale) si erano così uniti in matrimonio spirituale, come è affermato nel Convivio (II.2.2). Beatrice e Dante ormai s’erano integrati nell’androgino primordiale “moglier-marito” di Francesco da Barberino, nello stato d’identificazione che è l’unico Amore dimorante nel cuore.[↩]
- Dolcissima morte, la definisce il Poeta, in netta antitesi con Morte Villana procurata dalle condanne dell’Inquisizione.[↩]
- Alla morte seguì dunque una rinascita interiore. Gli angeli avevano cantato “Osannah nel più alto dei cieli” quando nacque il Cristo. Questo è il primo segnale che Dante si sarebbe identificato con Gesù Messia, o che avrebbe raggiunto il medesimo stato realizzativo. A tale allusione seguiranno a breve altre conferme.[↩]
- L’imminente pacificazione dell’anima (śānta Ātman) era ormai possibile in quanto Dante aveva trasceso l’alterità della sua buddhi individuale e Mahan Ātman-Beatrice.[↩]
- Amore spiega che Primavera significava “che era venuta prima”; si chiamava Giovanna perché come Giovanni Battista, aveva annunciato l’avvento del Salvatore. Beatrice che veniva di seguito, invece è dichiarata identica ad Amore. Il Dio, dunque, tramite Beatrice, dichiarava così l’avvenuta identificazione con Dante. È un’altra conferma che Dante rappresentava un secondo Cristo. In questo modo immaginifico il Poeta confermava d’aver universalizzato il suo grado di maestro.[↩]
- Nel successivo capitolo XXV, Dante afferma che Amore, in realtà, è un accidente che nasconde una sostanza reale. Tale sostanza è stata tramandata nei secoli da una catena ininterrotta di maestri che ha origini troiane. Tra essi cita Virgilio, Lucano, Orazio, Ovidio, fino ad arrivare ai rimatori in lingua d’oc, a Cavalcanti e, infine a lui stesso. Così egli si proclama come il nuovo maestro.[↩]
- Proposta espressa nel sonetto “Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io”.[↩]
- Molto si è dibattuto in merito. Di fatto questa organizzazione iniziatica chiamata Mandetta o “la donna di Tolosa”, doveva avere delle caratteristiche identiche a quelle della Corte d’Amore fiorentina, cosa che esclude l’ipotesi ricorrente che si trattasse di una setta catara. Rossetti interpreta il nome di Mandetta come se Guido avesse avuto il “mandato” di salvare quella famiglia iniziatica tolosana da pericoli interni ed esterni.[↩]
- Ciò è dichiarato apertamente nei due splendidi sonetti “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta” e “Vede perfettamente onne salute chi la mia donna tra le donne vede”.[↩]
- Il racconto di questa esperienza sarà esposto nel Paradiso, la terza cantica della Divina Commedia.[↩]
- La lettera che iniziava con “Quomodo sedet sola civitas”, la prima geremiade della Bibbia, è andata perduta. Non deve stupire se il rappresentante di una antichissima famiglia patrizia romana potesse comunicare alla pari con i potenti della terra; e Dante ripeterà una simile esortazione e ammonimento all’Imperatore, ai Re e ai Cardinali con due lettere nel 1314 in occasione della soppressione del Tempio. Tuttavia, questa prima lettera doveva essere rivolta ai Principi che fossero anche cavalieri iniziati; altrimenti, per quale motivo Dante avrebbe dovuto avvertirli della sua nuova eccelsa realizzazione e di aver raggiunto così il vertice della gerarchia iniziatica imperiale?[↩]
- Alcuni studiosi sostengono che queste citazioni dell’Antico Testamento provassero una influenza ebraico-qabbalistica esercitatasi su Dante, dimenticando che per i cristiani l’intera Bibbia è testo sacro. Questa pretesa è in linea con l’idea recentissima che la civiltà occidentale abbia sedicenti origini giudaico-cristiane. La verità è che prima di Marx, Freud ed Einstein le comunità ebraiche erano arroccate nei loro ghetti, con nulli o pochi scambi culturali con l’ambiente esterno, da loro considerato “impuro”. La loro influenza cominciò a esercitarsi nascostamente, come vedremo, soltanto a partire dal Rinascimento, per poi dilagare nel XIX secolo. Dante, in linea con le posizioni cristiane tradizionali che riconoscevano le responsabilità dei giudei per la condanna capitale di Gesù, di essi scriveva esortando così i cristiani: “Uomini siate, e non pecore matte, sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida” (Paradiso,V.80). E, non a caso, denomina Giudecca (ghetto) il più profondo degli inferni. Chi sostiene una lettura giudaizzante dell’opera di Dante è Sandra Debenedetti Stow, Dante e la mistica ebraica, Firenze, La Giuntina, 2004, seguita a ruota da Gian Maria Molli, La Rinascita di Dante, Roma, Arkeios, 2010. Quest’ultimo autore s’appoggia anche sull’“autorità” di occultisti quali Max Heindel, Rudolf Steiner, Dion Fortune ecc., a dimostrazione della poca sua capacità di discriminazione. Di tutt’altro peso sono invece gli studi di Giorgio Battistoni (per. es.: Immanuello Romano, L’Inferno e il Paradiso, G. Battistoni (a cura di), Firenze, La Giuntina, 2000). Si tratta di lavori interessanti, scritti con grande serietà e rigore. Tuttavia questo dantista non si è reso conto di documentare che fu Immanuello Romano a essersi ispirato all’opera di Dante e non viceversa, contraddicendo così la tesi delle influenze ebraiche sulla Divina Commedia che si era prefissato di dimostrare.[↩]
- Si riprenderà l’esposizione storica di quel momento critico nel prossimo capitolo dedicato all’Ordine del Tempio.[↩]
- Convivio, II.15.[↩]
- Si tratta di Amore. Si noti il titolo d’Imperatore, che allude alla funzione iniziatica di Dante, ormai identificato ad Amore.[↩]
- Filosofia significa semplicemente “desiderio di sapienza”. Perciò appare un’inutile distrazione per colui che si è già identificato a sofìa.[↩]
- D’altra parte Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Orbacciani, che in giovinezza erano stati Fedeli d’Amore, avevano rivelato pubblicamente l’esistenza del linguaggio segreto dei trovatori. Perciò le frasi incomprensibili per chi non conoscesse il gergo erano diventate motivo di sospetto da parte di curiosi e avversari. L’abbandono definitivo del trobar clus avverrà nella Divina Commedia.[↩]
- Ricordiamo al lettore che nel linguaggio segreto i sospiri rappresentano le virtù e le conoscenze dimoranti nel cuore.[↩]
- Veronica è un velo su cui si era impresso miracolosamente il volto di Gesù Cristo, ancora attualmente conservata nella Basilica di San Pietro a Roma.[↩]