3. Meister Eckhart e la conoscenza dell’Assoluto
Corrispondenze con l’advaitavāda
Discriminando tra Sé e non-Sé, colui che ricerca la Verità scopre sotto tutte le manifestazioni il Soggetto Assoluto, il Testimone. Ma operare una corretta discriminazione non vuol dire dividere ciò che è Sé da ciò che non lo è: non c’è niente oltre al Sé-Ātman. Significa invece rigettare, come non reali, tutte le molteplici forme da cui la Realtà Una senza-secondo viene coperta. Conoscere l’Assoluto, la Realtà, non comporta aggiungere un nuovo oggetto di sapere al proprio bagaglio, ma vuol dire smettere di identificarsi con ciò che è diverso da esso: così, come per Eckhart, significa “essere” l’Assoluto.Un’esperienza che trasforma, rimuovendo i veli che nascondono la Realtà e rivelando la completa identità con questa. I due maestri lo affermano concordi.
Poiché hai realizzato la Beatitudine assoluta e ne sei colmo, dimora felice nell’Identità con il reale Brahman, l’Uno-senza-secondo.1
Lo ripete più volte Eckhart:
Questa conoscenza è fuori dal tempo e dallo spazio, senza un qui e ora. In questa vita tutte le cose sono una cosa sola, tutte comuni, tutto in tutto e tutto unito.2
[…] Perciò io dico che in questo senso non vi è alcuna somiglianza o differenza, ma noi saremo invece il medesimo essere, senza alcuna differenza, la medesima sostanza o natura che egli è.3
“Simile a Lui” però rimanda a una estraneità e lontananza, mentre tra Dio e l’uomo non c’è estraneità o lontananza: perciò l’uomo non è “simile” a Dio, ma assolutamente uguale in quanto assolutamente “è”.4
Conoscere l’Assoluto significa quindi eliminare ogni distinzione tra “io” e “Lui”, in una dimensione ulteriore ed impersonale:
[…] Dio deve5 assolutamente diventare me, e io assolutamente Dio, così completamente uno che questo “lui” e questo “io” divengano e siano un “è” […].6
Questa dimensione, pur inaccessibile al pensiero oggettivante, è, ripete Eckhart, ancora un conoscere: un conoscere che, ribadiamo, è insieme un essere e che è lo stesso conoscere di Dio.
Dio ci fa conoscere sé stesso; conoscendo, ci fa conoscere sé stesso, e il suo essere è il suo conoscere. Che egli mi faccia conoscere e che io conosca, è la medesima cosa. Ecco perché la sua conoscenza è la mia, una e medesima […] E, dato che la sua conoscenza è la mia, ed essa costituisce la sua sostanza, la sua natura ed il suo essere, ne segue che il suo essere, la sua sostanza e natura sono mie.7
Non basta infatti essersi uniti a Dio, perché essere e conoscere non sono ancora Uno.
Io e te, se la luce eterna ci avvolge, siamo una cosa sola e questo due-uno è un ardente spirito, che sta sopra tutte le cose ma sotto Dio, nel circolo dell’eternità. È due, perché non vede Dio senza mediazione. Il suo conoscere e il suo essere, o il suo conoscere e la rappresentazione del conoscere non divengono mai una cosa sola.8
Eckhart descrive “il circolo dell’eternità” come uno stato impermanente, in cui l’uomo viene elevato alla presenza dell’Assoluto, al di là della propria comprensione, grazie ad un dono divino, in maniera simile a quella in cui Arjuna riceve l’occhio divino per contemplare Īśvara nella sua forma cosmica, altrimenti inconcepibile9. La consapevolezza di essere Uno con l’Assoluto non è ancora pienamente raggiunta e la Divinità è vista ancora attraverso il filtro della dualità, non nella sua “nudità”.
La strada per giungere a Dio è quella che porta più lontano dagli abituali confini dell’uomo. Una strada che non è più una distanza da percorrere, ma un dimorare nel seno dell’Assoluto, in perfetta ed indistinguibile unità con esso, in una consapevolezza silenziosa che si esprime in meraviglia e beatitudine:
[…] si chiama strada, ma è in realtà una dimora, ovvero il contemplare Dio senza mediazione, nel suo essere proprio. […] l’esser condotti su questa strada in Dio con la luce della sua Parola, avvolti dall’amore dello Spirito che da entrambi proviene, tutto questo sorpassa quel che si può esprimere a parole.
Guarda che meraviglia! Com’è meraviglioso: stare all’esterno come all’interno, abbracciare ed essere abbracciati, contemplare ed essere la cosa stessa contemplata, tenere ed essere tenuti: questo il fine in cui lo spirito dimora in pace, unito alla cara eternità.10
Appare qui evidente la difficoltà di comprensione di questo stato per chi non “diventa uguale a questa verità” e, conseguentemente, come tanti fraintendimenti abbiano sempre accompagnato il pensiero del predicatore domenicano. Essere Uno con l’Assoluto non ha niente a che fare con la mancanza di umiltà di un uomo che si paragona a Dio: ambedue, Dio e Uomo, non sono più recepiti allo stesso modo in cui li scorge uno sguardo prigioniero della dualità. L’uomo, libero dall’identificazione di se stesso con l’insieme corpo-mente e dalla sua componente egoico-soggettiva, da cui consegue la distinzione da ogni altro ente, non è più ciò che comunemente viene inteso con la parola “uomo”; come direbbe Eckhart: “nell’unità non c’è né Corrado né Enrico”11. Dio, d’altro canto, non è più un qualcosa che risiede nei cieli, più o meno misericordioso. Ciò che rimane di entrambi è il fondo silenzioso ed insondabile della Divinità, che accomuna uomo e Dio, in cui nessuna creatura può gettare lo sguardo se non perdendosi anch’essa in questo stesso fondo.
Per tale motivo l’Uno si può solo esperire, e trascende ogni possibile spiegazione e congettura. Il messaggio dei maestri in esame appare chiaro: la distinzione e l’opposizione, ogni distinzione e ogni opposizione, appartengono all’imperfezione e vanno perciò superate, in un’ulteriore unità.
[…] tale numero (senza numero) c’è nel tempo dell’imperfezione. […] Questo spirito deve oltrepassare ogni numero e attraversare ogni molteplicità […].12
Solo allora, nell’Uno, è possibile intendere la Sapienza che deriva dal suo ascolto:
Chi deve intendere l’eterna Sapienza del Padre, deve essere nell’interiorità, presso di sé, deve essere uno; […] Tre cose ci impediscono di ascoltare la parola eterna. La prima è la corporalità, la seconda la molteplicità, la terza la temporalità. Se l’uomo avesse superato queste tre cose, abiterebbe nell’eternità, abiterebbe nello Spirito, abiterebbe nell’unità […].13
Raggiungere l’Uno è descritto come un irrompere nella libertà, al di sopra di ogni volere, oltre il consueto conoscere: un ritrovare ciò che, pur senza averlo mai colto, siamo sempre stati.
Ma nel mio irrompere, in cui sono libero della mia volontà, della volontà di Dio, di tutte le sue opere e di Dio stesso, là sono al di sopra di tutte le creature e non sono né Dio né creatura, ma sono invece quello che ero e quello che sono e che sarò in eterno. […] nell’irrompere ottengo di essere una cosa sola con Dio. Allora sono quello che ero […].14
Le Upaniṣad si esprimono in modo analogo: una volta che l’Uno viene attinto, niente ha più lo stesso significato, niente è più lo stesso.
Allora il padre non è più padre, la madre non è più madre, i mondi non più mondi, gli dei non sono più dei, i Veda non sono più Veda. Allora il ladro non è più ladro, chi fa abortire non è più infanticida, il servo non è più servo, l’intoccabile non è più intoccabile, il monaco non è più monaco, l’asceta non è più asceta.15
Solo laddove vi è identificazione con un corpo è possibile parlare di agente, di azione e dei frutti di questa. Ripetiamo l’importante citazione upaniṣadica in armonia anche con il presente contesto:
Perché quando c’è, per così dire, dualità, allora uno vede qualcos’altro, uno fiuta qualcos’altro, uno gusta qualcos’altro, uno dice qualcos’altro, uno ascolta qualcos’altro, uno pensa qualcos’altro, uno tocca qualcos’altro, uno conosce qualcos’altro. Ma per chi tutto è diventato il Sé, cosa e con che cosa potrà vedere, cosa e con che cosa potrà fiutare, cosa e con che cosa potrà gustare, cosa e con che cosa potrà parlare, cosa e con che cosa potrà ascoltare, cosa e con che cosa potrà pensare, cosa e con che cosa potrà toccare, cosa e con che cosa potrà conoscere?16
Ancora, ad indicare la fine del conoscere che separa soggetto ed oggetto, ma non della vera Conoscenza:
Che non conosca in quello stato è perché, pur possedendo la conoscenza, non conosce. Non c’è infatti interruzione della capacità di conoscere, per la sua indistruttibilità, in chi possiede la conoscenza; soltanto manca un secondo altro da Sé, un qualcosa di separato da Sé, che possa conoscere.17
Tutti i mezzi di conoscenza e la stessa via che conduce all’Uno vengono bruciati nella comprensione liberatrice: “i Veda non sono più i Veda” dice il passo citato sopra della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad; le Scritture e le prescrizioni rituali e comportamentali sono destinate solamente a coloro che non hanno ancora raggiunto la Conoscenza, allo scopo di avvicinarli alla corretta comprensione della Realtà. I sapienti, riconoscendosi come non diversi dall’Uno, sanno che limitazione (bandha) e liberazione (mokṣa) non appartengono al Sé, ma sono sempre il frutto di una errata comprensione, di una sovrapposizione; non necessitano più, quindi, di nessun percorso e di nessuna guida, avendone colto il carattere illusorio. Per questo
[…] la Śruti non ha più alcuna ragione d’essere allorché si è realizzata la Conoscenza […].18
Anche in questo caso, con eloquente metafora, Eckhart esprime il medesimo concetto:
Se desidero attraversare il mare e desidero un battello solo per navigare, quando ho fatto la traversata, non ho più bisogno del battello.19
Non è concepibile dagli advaitin un percorso per arrivare al Brahman supremo, all’Uno-senza-secondo. Esso non è assimilabile ad un luogo: è, invece, onnipervadente ed è il Sé di tutto, anche di coloro che apparentemente procedono per una via. È davvero impossibile raggiungere ciò che è sempre presente! Perciò il Brahman nirguṇa non è la meta raggiunta completando un cammino di realizzazione, ma una presa di conoscenza liberatrice, che avviene in un eterno qui e ora, della propria reale natura: “tu sei Quello”.
Solo rispetto al Brahman saguṇa è infatti “logicamente”20 possibile parlare di un percorso graduale. Laddove la tradizione parla di corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, tra piano divino e piano umano, tra essere universale ed essere individuale, si riferisce sempre al Brahman saguṇa, che è definito come Uno-con-secondo appunto per via della sua relazione con l’universo. Ma l’unità con l’Essere qualificato, compendio e sintesi indefinita delle intere possibilità del finito, pur essendo il punto più alto cui si può pervenire al livello della molteplicità, rimane tuttavia sempre sul piano della qualificazione: è ancora gioco di māyā. L’Uno-senza-secondo trascende invece ogni possibile qualificazione, compresa l’unità universale21, ed è perciò libero da qualsiasi relazione con qualsivoglia altra cosa. Esso è la Realtà non-duale, realizzabile solo nel conseguimento di quel Conoscere-Essere in cui è superata la distinzione tra conoscitore, conosciuto e conoscenza, nella Coscienza priva di secondo. Appare evidente l’affinità con la distinzione indicata da Eckhart tra ciò che egli chiama “essere unito a Dio” o, invece, essere l’Uno nel fondo immutabile che trascende ogni cosa.
Da questo punto di vista non ha più nessun senso chiedersi se il liberato sia unito a Dio o sia Uno con lui: solo l’Uno esiste realmente.
In verità sono Brahman, l’Uno senza secondo Quello a cui nulla può essere paragonato, la Realtà sempre esistente. Quello che oltrepassa tutte le immaginazioni di “io” e “Tu”, “questo” e “Quello”. Sono l’eterna Beatitudine, sono la Verità ultima.22
In ragione di questo, ogni visione che separa uomo e Dio, per quanto possa sembrare devota, è sempre frutto dell’ignoranza:
Quindi chi venera come distinta [da sé] una divinità pensando: “Essa è una cosa e io sono un’altra”, costui non ha vera conoscenza, ed è per gli dei come una bestia.23
A dimostrazione di quanto su questo punto Eckhart sia in sintonia con l’Advaita, ritroviamo nei suoi sermoni analoghe espressioni, nelle quali, in modo forse più compassionevole, ma non per questo meno deciso, chiama “persone semplici” (ma anche “asini”) coloro che continuano a pensare a Dio come ad altro da sé:
Molte persone semplici si immaginano che devono considerare Dio come lassù, e loro quaggiù. Non è così: io e Dio siamo uno.24
La rimozione del velo dell’individualità fa scoprire all’uomo l’assoluta pienezza che egli è. E questo non in un’estatica visione di un Dio altro, che lo accoglie ed al quale si riunisce: l’Uno che l’uomo scopre di essere non rappresenta un’unità bensì, piuttosto, un’unicità, trascendente ogni forma di molteplice o di sua sintesi.
[…] qui è la pienezza dell’intera Divinità; qui è unità. Finché l’anima conosce qualche distinzione, non è come deve essere; finché qualcosa guarda all’interno o all’esterno non vi è ancora unità.25
L’infinito si ha dove non si discerne nessun’altra cosa, nessun’altra si ode, nessun’altra si conosce. Dove si scorge qualcos’altro, si ode qualcos’altro, si conosce qualcos’altro, allora si ha il finito.26
Sia nella visione advaita sia in quella di Eckhart il raggiungimento di questo stato è lo scopo ultimo dell’essere umano: l’unica condizione che può liberarlo dalla sofferenza, sempre legata al finito, al determinato, e di renderlo, nel ritrovamento della propria reale natura, finalmente completo. Seppure questa dimensione sia avvolta da un impenetrabile silenzio, essa non è estranea al conoscere, anzi solo questa è vera Conoscenza, anche se non quella distintiva cui siamo abituati. La comunicazione di questa Sapienza è la trasparenza del Silenzio.
Sottolineare le differenze nel modo in cui il maestro domenicano e quello indiano comunicano quest’ultimo passo, questo ritrovarsi nel fondo deserto e silenzioso della Divinità o nell’identità con il Brahman senza attributi, diventa un tradire il messaggio proposto: qui non vi è spazio per interpretazione alcuna, si può solo essere questa Verità. Solo essendo la Realtà si può veramente comunicarla, lasciarla esprimere. La dimensione dell’usuale sapere e distinguere non riguarda questo stato, a niente vale il domandare e il frammentare: chi conosce l’Assoluto diviene l’Assoluto stesso e non può che lasciarlo emergere. Sta ad ogni uomo, poi, nel silenzio, riconoscere ciò che veramente è.
Uno con l’Uno, uno dall’Uno, uno nell’Uno e, nell’Uno, eternamente Uno.27
Pieno28 è Quello (Tad), pieno è questo (idam). Dal pieno nasce il pieno. Se pur si prende il pieno dal pieno rimane intatto il pieno.29
- VCM 523.[↩]
- SE, 76, p. 519.[↩]
- Ibid., p.520.[↩]
- SE, 77, p. 527. SE, 77, p. 527.[↩]
- Altro tema molto caro a Eckhart. Nel momento in cui l’uomo si spoglia di sé stesso, nel distacco, Dio “è costretto” a riempire quello spazio, in una reciproca indiscernibile coappartenenza che annulla qualsiasi dualità. Cfr., ad esempio, SE, 6, p. 133, SE, 73, p. 506, ma, come detto, moltissime sono le prediche che trattano il tema del “costringere Dio” o del “Dio deve”.[↩]
- SE, 83, p. 554.[↩]
- SE, 76, pp. 520-521.[↩]
- SE, 86, p. 564.[↩]
- Bhagavad Gītā (BhG),XI.8.[↩]
- SE, 86, p. 566.[↩]
- SE, 64, p. 453.[↩]
- SE, 12, p. 168.[↩]
- Ibid., p. 169.[↩]
- SE, 52, p. 395.[↩]
- BU IV.3.22.[↩]
- BU IV.5.15.[↩]
- BU IV.3.30.[↩]
- BUŚBh 4.1.3. Concetto analogo è espresso da Śaṃkara anche nel suo commento alla Bhagavad Gītā, XIII.2.[↩]
- SE, 57, p. 422.[↩]
- BSŚBh 4.3.7.[↩]
- BhG VIII, 20-21.[↩]
- VCM, 493.[↩]
- BU I.4.10.[↩]
- SE, 6, p. 135.[↩]
- SE, 29, p. 271.[↩]
- ChU VII.14.1.[↩]
- Dell’uomo nobile, in Opere tedesche, a cura di M.Vannini, Firenze, La nuova Italia, 1982, p. 55.[↩]
- In sskrt. pūrṇa, che ha il senso di compiuto, totale, completo, perfetto. La pienezza è espressa dal termine Ānanda.[↩]
- BU V.1.1.[↩]