La Bhāvana Upaniṣad – III
IV. Le caratteristiche di Śrī Vidyā
La tradizione di Śrī Vidyā, in cui la meditazione sullo Śrī Cakra occupa la posizione centrale, annovera tra i suoi fondatori divinità, semidei (siddha1) e saggi. Si conosce, di norma, una lista di dodici maestri: Manu, Candra, Kubera, Lopāmudrā, Manmatha, Agastya, Nandīśa, Sūrya, Viṣṇu, Skanda, Śiva e Durvāsa. Si dice che ognuno di essi abbia fondato una propria scuola caratterizzata da una forma particolare di adorazione e di significato dello Śrī Cakra. Tuttavia solo due di esse si sono affermate: la dottrina istituita dal semidio Manmatha, chiamato anche Kāmarāja2, da cui il nome della scuola “Kāmarāja vidyā”3, poi trasmessa dal saggio Agastya. L’altra scuola, fondata dalla moglie di Agastya, Lopāmudrā, è chiamata “Hādi mata”. La terza scuola ancora esistente, meno importante e meno seguita, è nota come “Sādi mata”. Ci limiteremo, perciò, a considerare principalmente le catene iniziatiche delle kādi e hādi mata.
La scuola fondata da Manmatha, è chiamata “Kādi mata” (‘che comincia con ka’) perché il mantra di base, formato da quindici lettere che la caratterizza, inizia con la lettera ka. Non è soltanto più antica, ma anche più elevata (sāttvika) della “Hādi mata”. Tra i maestri divini di tale scuola si annoverano Paramaśiva, Durvāsa, Hayagrīva e Agastya. I testi fondamentali della sua dottrina sono il Vāmakeśvara Tantra, il Tantrarāja Tantra, lo Yoginī Hṛdaya, il Tripurārṇava, il Parānanda Tantra, lo Svacchānanda Tantra, la Lalitā Triśatī, il Tripurā Rahasya e il Śaktisaṃgama Tantra.
Delle quindici lettere del mantra del Kādi mata ancor oggi in uso, il primo gruppo di cinque lettere o vāgbhava kūṭa (ka u ī la hrīṃ) è “kādi vidyā”, in quanto inizia con la lettera ka, ed è efficace per ottenere sapienza; il secondo gruppo di sei lettere (ha sa ka ha la hrīṃ), detto “hādi-vidyā” perché inizia con la lettera ha, è considerato il culmine dell’efficacia del mantra insegnato da Kāmarāja (kāmarāja kūṭa) poiché trasmette sapienza e potenza. Il terzo gruppo di quattro lettere (sa ka la hrīṃ), in cui prevale la potenza o śakti kūṭa del mantra, è chiamato “sādi-vidyā” in quanto inizia per sa.
La scuola fondata da Bhagavatī conta tra i suoi divini fondatori Parameśvara, Paraśakti, Kālatāpānanda Nātha. È chiamata “Hādi mata” (‘che comincia con ha’) perché il mantra di base, formato da quindici lettere che la caratterizza, inizia con quella lettera. Questa scuola si richiama soprattutto all’autorità della Tripura Upaniṣad. Delle quindici lettere del mantra del Hādi mata, il primo gruppo di cinque lettere o vāgbhava kūṭa (ha sa ka la hrīṃ) è “hādi vidyā”, in quanto inizia con la lettera ha, è efficace per ottenere sapienza; il secondo gruppo di sei lettere (ha sa ka ha la hrīṃ), anch’esso detto “hādi-vidyā” perché inizia con la lettera ha, è considerato il culmine dell’efficacia del mantra insegnato da Lopamudrā, poiché trasmette sapienza e potenza. Il terzo gruppo di quattro lettere (sa ka la hrīṃ), in cui prevale la potenza o śakti kūṭa del mantra, è chiamato “sādi-vidyā” in quanto inizia per sa.
Le tre scuole dedicano le cinque sandhyā quotidiane4 a divinità differenti. Nella scuola Kādi (chiamata anche Kālī karma), all’alba è adorata Kāmakalā Kālī, Bhuvaneśvarī al mezzodì, Chāmuṇḍā al pomeriggio, Samaya Kubjikā al tramonto e Kādi Pañcadaśī a mezzanotte. Nella scuola Hādi (chiamata anche Sundarī Karma) le divinità, venerate negli stessi cinque tempi, sono rispettivamente Ādyā Kālī, Tārā, Chinnamastā, Bagalā e Hādi Pañchadaśī. Questa adorazione è sconsigliata ai gṛhastha (capifamiglia). Nella scuola Sādi (anche detta Tārā Karma) le divinità venerate sono Dakṣinā Kālī, Tārā, Bālā, Jñāna Sarasvatī e Sādi Pañchadaśī. La dottrina Kādi è indicata come sāttvika, la Hādi rājasa e la Sādi come tāmasa5.
Ci sono tre principali procedure per la meditazione dello Śrī Cakra: 1) Hayagrīva saṃpradāya, in cui l’adorazione è nella linea del dakṣiṇācāra o tantrismo della ‘mano destra’; vi si utilizza l’invocazione dei mille nomi di Lalitā (Lalitā Sahasraranāma) e dei trecento nomi di Lalitā (Lalitā Triśatīnāma) con l’offerta di zafferano (kuṅkuma); 2) l’Ānanda Bhairava saṃpradāya in cui la meditazione segue il vāmācara, la ‘mano sinistra’; infine 3) il Dakṣiṇāmūrti saṃpradāya, in cui si medita in accordo con il samayācāra, la scuola dottrinale. La terza via è ritenuta la più intellettuale e più nobile.
In quest’ultima prospettiva, la meditazione dello Śrī Cakra segue una triplice modalità di concentrazione mentale. La prima modalità, quella della manifestazione (sṛṣṭi krama), richiede una concentrazione sui nove cakra compresi tra il punto centrale e il quadrato esterno; la seconda modalità di sviluppo o mantenimento (sthiti krama) dirige l’attenzione muovendo dal quadrato esterno al loto di otto petali, per poi estendersi dal punto centrale alla figura di quattordici angoli, in due alternati momenti di concentrazione ed espansione. Infine la modalità della dissoluzione (samhara-krama), concentrandosi partendo dal quadrato esterno verso il punto centrale.
La modalità della manifestazione è usata per la pūjā dell’alba, quella del mantenimento al mezzogiorno, e quello della dissoluzione durante la notte. In aggiunta ai nove cakra dello Śrī Yantra, la meditazione in questa pratica è condotta fino ai tre cerchi concentrici (trivṛtta) tra il quadrato esterno e il loto di sedici petali. Questa parte è presente nel disegno di Śrī Cakra usato dall’Ānanda Bhairava saṃpradāya, ma questa adorazione non è guidata. Nel disegno di Śrī Cakra usato dall’Hayagrīva saṃpradāya questo dettaglio è del tutto assente.
V. L’Atharva Veda
La Bhāvana Upaniṣad è un breve testo che tratta del simbolismo dello Śrī Cakra e mette in evidenza l’importanza della meditazione su tale simbolo. È descritto come un’Upaniṣad nel senso di “dottrina segreta” e della “più alta sapienza”. È incluso nella classica raccolta delle 108 opere upaniṣadiche canoniche elencate nella Muktikā Upaniṣad (I.5) e, in particolare, nel gruppo di libri conosciuti come Śākta Upaniṣad, le Upaniṣad che esaltano la prospettiva tantrica e cercano di conciliarla con la tradizione vedantica.
Tali Upaniṣad sono principalmente accorpate all’Atharva Veda. La Muktikā Upaniṣad, anch’essa una Upaniṣad minore, ne menziona più di 1.180, anche se ne enumera una lista di solo 108, divise in cinque gruppi: 10 di esse afferiscono al Ṛg Veda, 32 allo Yajur Veda Nero, 19 allo stessoYajur Veda Bianco, 16 al Sāma Veda, e 31 l’Atharva Veda. Tale classificazione, tuttavia, non è condivisa da tutti.
Le Upaniṣad classiche, che costituiscono il primo blocco delle scritture tradizionali fondamentali della triade testuale vedica, sono circa trenta. Il maestro Śaṃkara Bhagavatpāda ha scritto il commento (bhāṣya) a dieci Upaniṣad e ha definito altre tre come autorevoli. Sono tutte parti integranti o dei Brāhmaṇa o delle Saṃhitā, in cui si divide la summa vedica. Sono recitate negli śākhā 6 vedici e quindi sono di indubbia antichità. Inoltre esse sono di natura puramente intellettuale, fondamentali per il pensiero indiano.
In contrapposizione a queste, vi sono numerose Upaniṣad minori che sono in uso tra aspiranti e discepoli. La maggior parte di esse hanno poco in comune per stile o contenuto con le Upaniṣad maggiori e, quindi, appaiono plausibilmente di più recente composizione. Il pensiero che vi è trasmesso non è puro né fondamentale né originale né universale. Spesso prendono in prestito parole e frasi delle Upaniṣad più antiche, senza alcuno sforzo di cambiare qualche parola per dissimularne l’origine. Molti di questi testi, per approccio dottrinale e per essere rivolti a una particolare divinità, sono espressione di un singolo saṃpradāya, quindi è possibile classificarli come Śaiva, Vaiṣṇava, Śākta, Yoga Upaniṣad e così via. Sebbene vogliano essere delle Upaniṣad, giacché uniformemente rifiutano il comune ritualismo del karma kāṇḍa enfatizzando gli aspetti esoterici del rituale, presentano uno stile aforistico più simile a quello dei sūtra. Non è raro che le loro asserzioni siano troppo concise per essere chiare, troppo enigmatiche per essere prese alla lettera. Tuttavia, se si considera lo stile in cui è stata tramandata la Māṇḍūkya Upaniṣad, che fa parte delle Upaniṣad più importanti, questa tendenza era presente già da allora.
La categoria di Upaniṣad di cui fa parte la Bhāvana è di fatto composta da testi tra loro autonomi, accorpati principalmente all’Atharva Veda. Quest’ultimo è senza dubbio la più recente aggiunta al corpus vedico il quale, anticamente, era rappresentato soltanto dalla triade dei Ṛk, Yajus e Sāman. Che queste Upaniṣad si siano state inserite nell’Atharva Veda è comprensibile, perché non sono soltanto perfettamente armonizzate alle varie parti della sua struttura, ma sono anche coerenti con il fine e lo spirito ātharvaṇa; sarebbe stato, perciò, impossibile includere questi testi in qualsiasi altra raccolta del triplice Veda. Le Upaniṣad accorpate all’Atharva Veda sono più di cento. La maggior parte di esse è raggruppata nel Caraṇa Vyūha, sezione dell’Atharva Pariśiṣṭa, che ne è un’appendice.
L’inclusione di queste Upaniṣad all’Atharva Veda si spiega anche per un altro motivo. Sāyaṇa7, il più autorevole commentatore vedico, nel saggio introduttivo al suo commento dell’Atharva Veda disquisisce a lungo sui problemi della validità e dell’autenticità di questo Veda. Forse è da queste sue argomentazioni che è emerso il dubbio sulla genuina appartenenza dell’Atharva al corpus vedico. I ṛṣi degli inni ātharvaṇa non figurano nei tradizionali indici (anukramaṇī) dei compilatori del Veda. L’insieme delle tre raccolte, Ṛk, Yajus e Sāman, non solo è chiamato triplice (trayī) in tutte le antiche opere sulla conoscenza vedica, Tantra compresi, ma è completo e coerente in tutte le sue parti.
Ciò nonostante Sāyaṇa sostiene che l’Atharva Veda è autentico quanto gli altri tre Veda, e che a esso è stato giustamente riconosciuto, come agli altri tre, l’alto appellativo di Brahma Vidyā8. Vi erano tre categorie di sacerdoti che officiavano il sacrificio vedico, ognuno dei quali era specializzato in una delle raccolte di testi vedici: hotṛ era l’officiante nella tradizione rituale del Ṛg Veda, l’adhvaryu dello Yajur Veda e l’udgatṛ del Sāma Veda. Il rituale necessitava di un altro sacerdote che coordinasse l’attività dei tre sopra menzionati come esperto ritualista principale del sacrificio. Era chiamato brahmā e doveva essere esperto, oltre che dell’Atharva Veda, testo di cui era specialista, anche degli altri tre Veda. Sua responsabilità era guidare il rituale nella sua unità, controllare lo svolgimento corretto del sacrificio prevenendo sbagli e imprecisioni. Era suo compito, inoltre, ottemperare con riti correttivi le indesiderabili conseguenze degli errori nella recitazione dei mantra o nella esecuzione degli atti rituali.
L’importanza del brahmā era anche dovuta alla sua conoscenza perfetta del senso (artha) degli inni usati durante il sacrificio, mentre agli altri celebranti era sufficiente sapere come articolare i mantra in modo appropriato e come compiere in sequenza i numerosi atti rituali. Secondo Sāyaṇa, le parti essenziali del sacrificio, praticate grazie al preciso uso delle formule e del loro significato, erano descritte nei tre Veda; ma l’intenzione generale era trasmessa soltanto dal quarto, l’Atharva Veda9. Per questa ragione l’Atharva Veda assunse primaria importanza nell’esegesi vedica. Sebbene esso costituisse, anticamente, poco più che un motivo di discussione dottrinale, il contenuto di questo Veda divenne poi popolare e influente. Infatti la tradizione seguita delle masse era guidata più dalle prescrizioni di quest’ultimo Veda piuttosto che da quelle dei primi tre.
L’Atharva Veda si distingue in modo caratteristico dalla triade più arcaica per linguaggio, stile, struttura e contenuto. Ignora completamente il contesto sacrificale e fini ultramondani, mentre focalizza l’attenzione su riti apotropaici e terapeutici, su procedure e pratiche per ottenere benefici specifici di questo mondo come salute, longevità, benessere, piaceri, potere politico, eliminazione degli ostacoli, distruzione dei nemici e così via. Vi è anche una tendenza verso aspirazioni più spirituali (brahmaṇyāyi), considerate fondamentali per una vita pregna di significato.
Il saggio Atharvan, da cui l’opera ha preso il nome, è totalmente sconosciuto nel Ṛg Veda. Centosettantacinque inni nell’Atharva Veda sono attribuiti ad Atharvan, identificato al ṛṣi Bhṛgu che, si dice sia emerso dal sudore che fluiva copioso dal corpo di Brahmā mentre era immerso in severa ascesi10. La fama di Atharvan è rimasta legata alla sua capacità di alleviare le sofferenze (ye’thravaṇas tad bheṣajam) e, a tal fine, offriva all’umanità grandi benefici in salute, longevità e nutrimento (bhaishajyāṇi e pauṣṭikāni). Al contrario, Angiras, autore di quindici inni della stessa raccolta, era esperto in maledizioni e anatemi (ābhicāri kāṇi). Per questa ragione l’Atharva Veda, nella sua forma presente, è propriamente chiamato Atharvāngiras in quanto comprende entrambi questi aspetti di vita pratica.
Il ruolo significativo che i sacerdoti dell’Atharva Veda svolsero nella società antica è ben evidenziato nei seguenti versi dell’Atharva Pariśiṣṭa (IV.6):
Il regno in cui risiede un sacerdote Atharvan esperto nei riti di pacificazione è destinato a prosperare, libero da ogni calamità. Quindi il Re dovrebbe offrire speciali onori all’Atharvan che ha padronanza dei propri sensi e della mente.
Poiché l’Atharvan era richiesto dai principi e dal popolo per procurare benessere e vantaggi materiali, doveva essere riconosciuto per le sue qualità di santità e di divinità. Nell’austerità (tapas) risiedeva il suo potere. Egli doveva essere costantemente impegnato in severi rituali onde rafforzare il suo potere. Questo è l’aspetto predominante nei testi upaniṣadici dell’Atharva Veda. Tra questi scritti, alcuni si definiscono ‘testa dell’Atharva’ (Atharva śiras) ossia vetta della dottrina ātharvaṇa.
- Generalmente, in ambito tantrico, con siddha s’intendono gli yogin che hanno il dominio sugli otto poteri straordinari: aṇimā, il potere di assumere dimensioni minuscole; mahimā, il potere di assumere dimensioni gigantesche; garimā, il potere di diventare pesantissimo; laghimā, la facoltà di diventare leggeri e di volare; prāpti, la capacità di soddisfare ogni desiderio; prākāmya, la facoltà di esercitare la propria invincibile volontà su esseri e cose; īśitṛtva, il totale controllo dei sensi e del corpo e la qualità di evocare cose inesistenti e di distruggere cose esistenti; vaśitva, il pieno dominio sul movimento dei corpi grossolani. I più potenti siddha hanno la capacità di viaggiare avanti e indietro nel tempo, apparendo agli uomini come semidei.[↩]
- Si tratta di una ipostasi di Kāmadeva, il Dio del piacere.[↩]
- Questa scuola è nota ovunque in India anche con i nomi “Madhumatī mata” e, soprattutto, “Kādi mata”.[↩]
- I punti nodali della giornata considerati favorevoli per compiere rituali: alba, mezzodì, metà pomeriggio, tramonto, mezzanotte.[↩]
- La tradizione Sādi, a differenza delle altre due, non passa dalla recitazione della pañcadaśī al mantra di sedici lettere (ṣodaśī), ma a uno di diciassette lettere (saptadaśī).[↩]
- Scuole sacerdotali che si trasmettono l’interpretazione di determinati testi.[↩]
- Il più celebre commentatore dei Veda (?-1387) e primo ministro dell’Impero di Vijayanagara, fratello di Vidyāraṇya, Jagadguru del pīṭha di Śṛṅgeri.[↩]
- Conoscenza del Brahman, che è attributo sia del Vedānta sia di Śrī Vidyā.[↩]
- Gopatha Brāhmaṇa, III.2; Aitareya Brāhmaṇa, V.33.[↩]
- Gopatha Brāhmaṇa, III.4[↩]