2. Karma e karma yoga nell’insegnamento della Bhagavad Gītā
Śrī Śrī Svāmī Ātmānandendra Sarasvatī Mahārāja
2. Karma e karma yoga nell’insegnamento della Bhagavad Gītā
a cura di Maitreyī
Karma Yoga
2. Karma Yoga: l’azione in quanto preparazione alla conoscenza
Anche se la parola karma è stata usata fin qui nel senso più tecnico, riferita alle attività imposte dalle Scritture, questa connotazione deve essere considerata parziale e insufficiente. La Gītā definisce yoga qualsiasi pratica, qualsiasi azione scritturale o meno, purché quell’azione diventi un mezzo per entrare in contatto col Signore, al fine di unirsi a Lui, come il termine stesso yoga significa. Il compimento del karma, inteso così come yoga, è di per sé così difficile che il più delle volte il sādhaka non lo può raggiungere, accontentandosi di fruire delle tappe intermedie del lungo percorso. Perciò il significato di karma yoga richiede un esame rigoroso perché, come altri, anche questo termine è usato nella Gītā in modo molto ampio, dato che copre ogni tipo di attività, compresa quella mondana e quella ripetitiva1. Ci sono due punti essenziali da ricordare che riguardano il karma yoga. Poiché la Gītā si basa sulle scritture vediche, il karma a cui la Gītā si riferisce, riguarda principalmente i riti vedici. Tuttavia, essendo la Gītā un testo valido all’intero ordine universale (sāmānya dharma), anche le persone che non fanno parte della tradizione vedica possono compiere tutti i loro rituali non vedici con lo stesso identico atteggiamento ottenendone eguale efficacia. In secondo luogo, il karma, sia esso basato o no sulla śruti, si esaurisce soltanto con la sua esecuzione e non con il suo abbandono. Sebbene questo aspetto sia già stato discusso in precedenza, questo punto importante è evidenziato nella Gītā come segue:
“Rinunciare a tutti i karma con la mente” (BhG V.13)
“… bruciare con il fuoco della conoscenza ogni impegno, desiderio e volontà (di compiere un’azione)” (BhG IV.19).
Poiché la persona qui descritta è stabile nel Sé (Ātman), che è libero da ogni azione per natura, per costui l’idea stessa di dovere o di karma non ha alcun senso (BhG III.17). A questo proposito non potrebbe esserci esempio migliore di quello del Signore stesso per illustrare lo stato di un illuminato (jñãni) che, in verità, non compie alcun karma. Il Signore, il jñãni supremo, è completamente libero dall’idea di essere agente né è pensabile che possa ottenere qualcosa intraprendendo un’azione né che debba rinunciare a qualcosa astenendosi dal farla (BhG III.22.23).
L’aggregato di corpo, sensi, mente, ecc., che sembra associato al jñani, lo fa apparire in azione, proprio come accadeva prima dell’insorgere del jñāna. Tuttavia, le attività del corpo, ecc. non devono essere attribuite al jñāni, perché la sua reale natura è davvero la stessa del Signore, al quale è identico: dunque, la sua reale natura non dovrebbe essere confusa con le proprietà delle limitazioni apparenti (upādhi). (BhG VII.18; VII.24; IX.11).
A questo proposito la Gītā proclama:
“Nonostante io abbia creato le quattro caste della società in armonia con i guṇa di Prakṛti e le varie azioni rituali, sappi che Io sono l’immutabile non-agente (akartṛ)” (BhG IV.13).
Mentre l’ignorante attira su di sé tutte le attività dei guṇa, il Saggio conosce la differenza tra le funzioni dei guṇa e l’Uno al di là di essi e non si lascia coinvolgere nel karma, avendo la scienza certa che i guṇa che appaiono come sensi, interagiscono con i guṇa loro corrispondenti che appaiono come oggetti dei sensi (BhG III.27-28).
Quando si riconosce che una persona deve raccogliere i risultati degli innumerevoli karma che ha compiuto, non si può pretendere che tutti possano essere sperimentati in una sola vita, né si può affermare che con austerità o con riti di purificazione tutti possano essere lavati via. Per sperimentare i risultati latenti di tali attività, dovrà rinascere in altri corpi atti a godere dei risultati di tali azioni. Il karma positivo, utile all’incremento di sattva, porterà a nascite superiori come quelle degli esseri divini; il karma misto porterà a una rinascita umana, in cui si mescoleranno gioia e dolore; infine, il karma negativo e le azioni proibite trascineranno l’individuo a rinascite inferiori, come animali, piante e persino oggetti inerti (BhG XIV.18). Così si sviluppa incessante il ciclo del saṃsāra: vale a dire, compiere il karma, cosa ineluttabile, e rinascere per sperimentarne il risultato, per poi compiere ulteriore karma. A un esame superficiale sembrerebbe che non si potrà mai sfuggire alle grinfie del saṃsāra. La straordinarietà della Gītā e, in particolare, il suo insegnamento sul karma yoga, sta nell’esposizione di come questa pratica possa fornire una soluzione completa a questa situazione apparentemente ineluttabile. Come indica l’espressione stessa, il karma yoga trasforma il karma in un’attività così sottile e nobile da cessare di essere causa della schiavitù da avviare all’unione con il Signore.
È il giusto atteggiamento verso ogni cosa che, da solo, crea l’intelligenza (buddhi) necessaria per avviarsi verso la Liberazione dal saṃsāra. Questo atteggiamento presuppone che ogni cosa sia vista nella sua prospettiva corretta. Si acquisisce questa capacità diventando sempre più sāttvika, poiché rajas porta a non discriminare tra dharma e adharma, tra il dovere prescritto e l’azione proibita (BhG XVIII.31), mentre tamas vela la nostra visione a tal punto che ci fa vedere tutto in una forma che è esattamente all’opposto della Realtà (BhG XVIII.32). Quando predominano queste due qualità, rajas e tamas, non ci si preoccupa delle ingiunzioni scritturali, ma si asseconda del tutto la propria natura egoistica mossa da attrazione e repulsione (BhG XVI.7; XVI.19-20; XVI.23). Quelle persone raggiungono nascite sempre più basse fino allo stato inanimato. Anche qualora compiano i karma prescritti, lo fanno con vanità e ostentazione, comportamento che li allontana dal Signore (BhG XVI.17).
La causa principale per ignorare l’autorità delle scritture è il desiderio insaziabile di godere degli oggetti dei sensi. Non si deve sottostare al dominio dei sensi, poiché attaccamento e avversione sono prodotti dalle percezioni trasmesse dagli organi di sensazione (BhG III.34). Inoltre, quando si eseguono azioni prescritte dai Veda senza controllare attrazione e repulsione, tali riti non saranno di aiuto a stabilizzare la mente finché vengono eseguite con desiderio del risultato (BhG II.42-44). Quando il desiderio accompagna il karma, il risultato è transitorio e ha una portata limitata (BhG VII.23). Nel migliore dei casi, tale attività condurrà la persona che segue le ingiunzioni delle Scritture, in mondi superiori per sperimentarne i risultati, per poi ricadere nel mondo mortale quando l’effetto di tali attività scritturali sarà esaurito. Questo movimento di salita e discesa si ripete ciclicamente; è come essere fissati a una noria usata per attingere acqua da una fonte (BhG IX.21). Quindi, queste azioni, anche se sancite dalle Scritture, non ci libereranno definitivamente dal saṃsāra. Ciò non significa che la visione filosofica del Sāṃkhya, secondo cui tutte le attività scritturali devono essere abbandonate completamente, trovi un sostegno nella Gītā2. La Gītā è inequivocabile nel sostenere il compimento dei karma obbligatori (nitya) e occasionali (naimittika) (BhG XVIII.5; III.9). Il punto è che quelle attività prescritte dalla śruti, come qualsiasi altra, devono essere compiute in uno spirito di totale assenza di attaccamento e di desiderio per il risultato. Per dirla in breve, la Gītā vuole questo:
- Tutte le attività devono essere sancite dalle scritture.
- I karma compiuti in attesa dei loro frutti, devono essere abbandonati come i karma proibiti, mentre i karma obbligatori non devono essere abbandonati finché persistono le circostanze per l’ingiunzione dei doveri rituali3.
- In qualsiasi fase del suo sviluppo, il karma deve essere intrapreso senza attaccamento, a partire da quando è una semplice volizione, all’esecuzione pratica del rito, fino al godimento del risultato dell’azione.
- Questo controllo dei sensi e della mente non può essere ottenuto solo con lo sforzo della volontà. L’unico modo per ottenere questo controllo è abbandonare tutte le nostre attività al Signore (BhG III.32; V.10), in modo da sviluppare la capacità di riconoscere l’assenza di azione anche mentre l’azione è in corso (BhG IV.18).
Quindi, l’apice del karma yoga è lo stadio in cui il karma non aderisce al suo esecutore. Per raggiungere questo stato, si dovranno esaminare i necessari passaggi intermedi da attraversare.
Il primo passo può essere compreso alla luce dei seguenti versetti della Gītā:
“Perfeziona il karma, stabilendoti nello yoga, rinunciando a ogni attaccamento” (BhG II.48).
“L’esecuzione del karma obbligatorio, con la consapevolezza che deve essere eseguito e con la rinunci a ogni attaccamento nei confronti dell’azione e del risultato, è considerata un abbandono sāttvika” (BhG XVIII.9).
Questo è necessario perché le tendenze sāttvika aiutano a far sorgere jñāna (BhG XIV.17). Quindi il primo passo nel karma yoga è l’adempimento dei doveri obbligatori senza attaccamento al frutto. Questo perché quando c’è attaccamento al risultato ci sarà sempre una certa ansia per sapere se si otterrà o meno il risultato desiderato. In altre parole, dal momento che c’è il desiderio del frutto, l’ansia, sotto forma di dubbio se tale karma è stato fatto esattamente in conformità con le regole, accompagnerà sempre colui che agisce (kartā). Quando, invece, questa azione è un dovere per il quale non c’è scelta, allora l’angoscia mentale per il suo completamento fruttuoso svanirà.
Il Signore dice:
“Esegui il karma, stabilendoti nello yoga, rinunciando a ogni attaccamento, con mente equanime, indifferente a vittoria o a sconfitta, perché l’equanimità è chiamata yoga” (BhG II.48).
Nel verso sopra riportato è possibile dare un significato più ampio alla parola sanscrita siddhi, che di solito è tradotta come vittoria. Come abbiamo visto in precedenza, e come argomenteremo tra breve, siddhi in quanto culmine della libertà dall’azione(naiṣkarmya) è l’apice del karma yoga. Poiché questa pratica inizia avendo in mente lo stato più elevato del karma yoga, è naturale capire che la parola siddhi in questo śloka è riferita non alla vittoria ma alla naiṣkarmya siddhi. Quando si inizia una pratica, del karma yoga in questo caso, è più comprensibile aspettarsi che raggiunga il suo obiettivo; in questo caso, lo stato il cui unico obiettivo è l’ottenimento della conoscenza, è naiṣkarmya siddhi. Quindi, anche se il sādhaka dubita che i suoi sforzi produrranno o meno il risultato, egli non deve abbandonare l’impegno, perché la sua mente deve rimanere indifferente sia che la siddhi venga raggiunta sia che non la si raggiunga. Una persona che mira a raggiungere lo yoga non deve mai disperare. Tuttavia, se non prendiamo il termine siddhi nel senso tecnico di naiṣkarmya siddhi, quale avvio verso la conoscenza, possiamo semplicemente anche intendere siddhi come il completamento soddisfacente del solo karma kāṇḍa, senza che ciò contraddica la pratica del karma yoga4.
Ma, anche senza l’intervento di circostanze esterne che portano al compimento del frutto delle nostre azioni, possono sorgere nella mente emozioni di benessere e di disagio, di gioia e di dolore, che possono turbare la mente, anche quando il nostro impegno per il buon compimento dell’azione non ci causa alcuna ansia. Quando la mente percepisce il benessere, sorge naturalmente l’attaccamento a questo. Quando percepisce un disagio, la mente istintivamente diventa fonte di repulsione. Quindi, finché attribuiamo importanza alle coppie di opposti, come l’agio e il disagio, il minimo allontanamento dalle nostre aspettative può creare agitazione. Quindi, il secondo passo del karma yoga consiste nell’eliminare le coppie di opposti che insorgono anticipatamente al godimento del frutto dell’azione. Si dice che coloro che adottano l’atteggiamento sbagliato di desiderare sempre il frutto quando compiono il karma, perdono la loro stessa natura di esseri umani, perché compiere azione allo scopo di ottenere risultati è, in effetti, considerato miserabile (kārpaṇya) (BhG II.7; II.49). Il termine sanscrito kārpaṇya viene normalmente inteso come dolore, ma in esso è presente un elemento di avarizia e di avidità (come indica la stessa derivazione del termine sanscrito). Ciò significa che l’aspettativa di ottenere qualcosa è sempre maggiore rispetto allo sforzo compiuto, il che implica avidità. È questa avidità che si dice sia la causa della perdita della natura umana. Il risultato di questo atteggiamento è che la mente non può mai abituarsi a essere unificata (BhG II.44). Questo, a sua volta, ci induce a seguire solo la parte delle Scritture che concernono i karma orientati al desiderio e che, quindi, si occupa solo dei tre guṇa. Poiché lo scopo ultimo dell’intero esercizio è quello di trascendere i tre guṇa costituenti la Prakṛti, questi karma spinti dal desiderio non dovrebbero esercitare alcuna attrazione su di noi. Anche i karma obbligatori devono essere intrapresi con il medesimo atteggiamento, com’è descritto dalla Gītā nello śloka II.45:
“Superare tutte le coppie di opposti, stabilirsi sempre in sattva, non desiderare l’acquisizione di cose o salvaguardare ciò che è stato acquisito, e soprattutto essere estremamente vigili”.
Ma che si voglia fruire del risultato o meno, gli effetti del karma dovranno essere affrontati. Anche se la nostra rinuncia a essi ci garantisce dal perdere la nostra natura come risultato del karma, può permanere un minimo di aspettativa per il risultato in compenso dei nostri doveri. L’idea è questa: “farò questo piccolo sforzo e mi aspetto un ritorno ancora maggiore in paragone a quello sforzo”5. In questo caso, la necessità di dover sperimentare il risultato del nostro karma ci seguirà come un’ombra. È quindi vitale per la nostra sādhanā che i desideri per i frutti del karma non siano per noi una compagnia inseparabile.
Il Signore dice:
“Quel karma che non è aiutato dall’intelletto (buddhi) è di gran lunga inferiore a quello eseguito con l’intelletto… lo yoga è destrezza nell’attività, quando, discriminando durante il compimento dell’azione, ci si scrolla di dosso tutte le azioni, buone e cattive” (BhG II.49-50).
E ancora nella Gītā, śloka II.39 il Signore dice:
“Permeato da questo intelletto dello yoga, puoi allontanare le catene del karma”.
Con l’uso della parola intelletto (buddhi) si intende che si deve ricorrere alla discriminazione e che il Signore concede questo tipo di intelligenza a chi è costantemente immerso in Lui (BhG X.10). Questo è lo yoga buddhi mediante il quale è possibile liberarsi dalla schiavitù del karma. Il terzo passo del karma yoga, quindi, è l’applicazione dell’intelletto non solo per accertare quale karma deve essere compiuto e cosa deve essere evitato, ma anche per praticarlo in un modo che non ci vincoli e causi rinascita, ma diventi un aiuto nel trascendere sia la nascita sia la morte.
Anche quando si cerca di praticare il karma yoga, nonostante la persona sia libera dalla trappola del desiderio del risultato e delle coppie di opposti, permane un senso di dovere: “Devo fare questo”. In questo caso, l’ego è ancora molto evidente in quanto la persona è consapevole di essere l’agente esecutore di una particolare azione. Dovrebbe essere chiaro che lo stato in cui il risultato del karma non matura affatto è diverso dallo stato in cui si esegue il karma senza attenderne il risultato. Mentre il secondo può solo aiutare a superare rajas e a dirigersi verso sattva, il primo è essenziale per rimuovere completamente l’ego, l’agente.
L’ego sottile e sāttvika, che è stato plasmato attraverso l’esecuzione del karma adatto alla propria posizione nella vita e nella società sotto forma di adorazione del Signore, da cui tutti gli esseri traggono ispirazione e da cui tutti gli esseri sono pervasi, deve essere superato (BhG XVIII.46). A questo punto, infatti, il cercatore si rende conto che senza la dipendenza dalla Coscienza del Signore non è possibile superare l’ego, perché ogni attività scaturisce in funzione di Lui e quindi è dovuta alla Sua Grazia (BhG XVIII.56). Il culmine del karma yoga si riferisce a uno stato in cui non permangono né il senso di dovere né l’idea di azione per l’azione. Poiché si sono trascese le coppie di opposti, non si ha il desiderio di evitare certe attività considerate indesiderabili né ci si impegna in alcuna attività ritenuta desiderabile. A questo punto l’identificazione con l’ego rimane solo illusoria. Quando, in seguito a impressioni passate, ci si trova davanti a un’azione, la si porta a termine, senza nemmeno volerlo e senza identificarsi con quell’azione in nessuna sua fase. Questo è diverso dal comportamento dell’uomo ordinario che, in base all’ego, presume di avere la possibilità di scegliere se fare o evitare qualcosa. Pertanto, mentre nel caso degli altri, attrazione e repulsione si insinuano inevitabilmente nell’azione (karma), per colui che ha raggiunto l’apice del karma yoga, simpatie e antipatie sono assolutamente assenti. Dal momento che il karma è una parte inalienabile della nostra natura, che deriva dalle attività passate, il karma yogin ha un atteggiamento di perfetto distacco nei confronti di quel karma ed è per questo che quelle attività non lo macchiano (BhG XVIII.47). Da tutto ciò risulta chiaro che un cercatore che ha raggiunto lo stadio del karma yoga non si impegnerà in nessuna attività se non in quelle inevitabili. È questo lo stadio in cui tutte le azioni diventano di fatto non-azione, lo stato che la Gītā chiama saṃnyāsa (rinuncia) o naiṣkarmya (assenza di azione). E solo dopo che si è raggiunto il naiṣkarmya diventa possibile la sua perfezione (naiṣkarmya siddhi).
Questa siddhi, la perfezione del naiṣkarmya, è l’apice del karma yoga, che comprende cinque elementi: azione (karma), meditazione (upāsanā), devozione (bhakti), discriminazione (viveka) e conoscenza (jñāna).
- Dal punto di vista del karma, poiché l’azione cessa di essere causa di schiavitù e diventa un aiuto per collegarsi a Dio, il karma diventa karma yoga.
- Dal punto di vista della mente del cercatore, che in tutte le fasi è immersa in Dio, è una meditazione che è diventata upāsanā yoga, perché la meditazione è ormai totalmente collegata a Lui.
- Poiché in questa fase la dipendenza dal Signore non è mai così evidente come ora, la sua devozione è diventata bhakti yoga perché è esclusivamente unita a Dio.
- Poiché la mente non è più distratta dal non-Sé (anātma) e le sue funzioni sono completamente orientate verso Dio, questo è anche contemplazione (dhyāna yoga) (BhG VI.1-2).
- Poiché è il principale trampolino di lancio per il raggiungimento della conoscenza (jñāna), è chiamato anche jñāna yoga, in quanto questa conoscenza è legata a Dio (BhG XVIII.50).
Poiché in questo modo l’intera gamma delle pratiche descritte nella Gītā per raggiungere la Beatitudine Finale è racchiusa nel karma yoga, si può comprendere appieno perché il Signore abbia esaltato l’esecuzione del karma e come, quando la sua esecuzione viene eseguita in un certo modo, ci conduca alla rinuncia totale (saṃnyāsa). È la perfezione di questo stato che eleva una persona ad aspirare solo al jñāna. Poiché la mente si è svuotata di tutti i desideri ed è diventata un unico punto quando raggiunge l’apice del karma yoga, il cercatore è perfettamente atto a salire la scala del jñāna, noto come jñāna niṣṭhā yogyatā (la capacità a mantenere come meta la sola conoscenza). Questo tipo di devoto (bhakta), che è il candidato (adhikārin) ideale per la conoscenza (jñāna), viene indicato (BhG VII.17) dalla parola sanscrita arthārthi, che significa colui che ha come unico scopo il Supremo.
Questo stato di libertà da ogni azione, anche quando si è impegnati nell’azione, non poteva essere descritto in modo più bello di quello che troviamo nei versi IV.19-22 della Gītā:
“I veggenti chiamano jñāni colui le cui azioni sono prive di desiderio e volizione, i cui semi sono stati bruciati dal jñāna. Rinunciando a ogni attaccamento per il risultato del karma, sempre soddisfatto, indipendente, non agisce anche quando è impegnato in un’attività. Senza desideri, con i sensi e la mente completamente sotto controllo, rinunciando a tutte le acquisizioni, pur mantenendo il corpo non è macchiato da nessuna azione. Felice di qualsiasi cosa gli capiti, senza chiedere, superando tutte le coppie di opposti, libero dalla gelosia, mantenendo equanimità nella vittoria o nella sconfitta o in qualsiasi altra circostanza, non è vincolato nemmeno mentre agisce”.
Considerando tutti questi elementi sopra elencati, il cercatore completa l’azione che gli si presenta, senza volizione, senza aspettarsi alcun frutto e rimanendo del tutto distaccato. Non è né ansioso di portare a termine l’azione né è preoccupato della possibilità che questa non venga completata. La sua libertà dalle aspettative è tale che non mira nemmeno a raggiungere la meta, senza però perderla mai di vista.
In questo contesto può essere discusso anche il versetto BhG IV.24. Mentre l’uomo saggio, il jñāni, stabilito nel Brahman non compie alcuna azione poiché tutto è diventato solo Brahman per lui, il jñāna niṣṭhā, esegue l’azione senza alcuna identificazione con il suo compimento, vedendo il Signore in tutti gli aspetti dell’azione. Pertanto, qualunque cosa sia coinvolta nel compiere una particolare attività, il jñāna niṣṭhā le vede tutte come Brahman.
“Il mezzo dell’offerta sacrificale è Brahman, Brahman è l’oblazione posta nel fuoco di Brahman e da Brahman è compiuto il sacrificio. Colui che sacrifica, che si concentra nell’atto che è Brahman, raggiunge solo il Brahman” (BhG IV. 24).
Oṃ Śāntiḥ Śāntiḥ Śāntiḥ
- Oltre ai riti obbligatori di casta e di āśrama e i sacrifici occasionali ingiunti dai Veda, il karma praticato nel karma yoga, comprende anche le attività e i comportamenti mondani, e ai i riti ripetuti costantemente per tutta la vita e la condotta ingiunta dagli insegnamenti del Guru.[↩]
- L’inerzia (jāḍya, apravṛtti) è infatti qualità di tamas, mentre la non azione (akriyā, nivṛtti) è caratteristica di sattva.[↩]
- Si tratta di ciò che è anche chiamato varṇāśrama dharma: i doveri rituali, perciò, rimangono obbligatori per il karma yogin, in armonia con la casta di appartenenza e la fase della vita in cui si trova, essendo solo i saṃnyāsin esonerati da qualunque rituale.[↩]
- Il karma kāṇḍa esteriore ha come scopo ultimo il raggiungimento postumo dei mondi superiori (loka); il karma kāṇḍa sotto la guida di un Guru ha lo scopo di avviare il sādhaka al devayāna al fine di raggiungere il Brahmaloka. Queste mete rappresentano le loro rispettive siddhi. Invece, per coloro che compiono il medesimo percorso con distacco per i frutti dell’azione, offrendo a Īśvara i risultati a cui hanno rinunciato, ottengono il totale distacco dall’azione (naiṣkarmya siddhi). Ciò consente loro di essere accettati quali discepoli di un jñāna Guru. Siddhi, nell’ottica più esteriore, è chiamato anche l’ottenimento di poteri (vibhūti) paranormali, che tuttavia corrisponde al semplice perfezionamento delle facoltà di sensazione e azione (indriya) nel corso delle prime tappe della via iniziatica, corrispondenti al controllo sui cinque elementi grossi.[↩]
- La rinuncia ai risultati dell’azione consiste nel distacco della mente da essi. Perciò non si tratta di un voto penitenziale di astensione; quest’ultimo è pur sempre karma, perché inibisce la fruizione dei risultati, ma non annulla l’inclinazione mentale, il desiderio e la volontà di agire per ottenerli. Perciò è un grave errore pensare che la rinuncia alla fruizione dei karma phala avvenga in cambio di qualcosa, come l’accesso al jṅāna mārga, vale a dire un piccolo sforzo in cambio d’un ritorno maggiore. La naiṣkarmya siddhi, invece, annulla l’azione a partire dalle inclinazioni (vāsanā) innate.[↩]