Sull’educazione nel Gurukula
Jagadguru Śaṃkarācārya Śrī Śrī Candraśekharendra Sarasvatī Mahā Svāmīgal
Sull’educazione nel Gurukula
a cura di Petrus Simonet de Maisonneuve
“Tre grandi e rare opportunità o benedizioni si ottengono solo per grazia di Īśvara: la prima è la nascita come essere umano; la seconda è il desiderio di conoscere la Verità; la terza è ottenere un grande uomo come proprio Guru.”
Così dicono i versi iniziali del Vivekacūḍāmaṇi. Per tutti, e in ogni momento, Īśvara è il Guru; Dakṣiṇāmūrti è il Guru. Come hanno fatto il nostro Guru e il Guru del nostro Guru e il suo Guru a raggiungere il jñāna completo? Se si va indietro in questo modo, da un Guru all’altro in successione, ci si renderà almeno conto che Īśvara stesso deve essersi fatto Guru per impartire il jñāna al primo Guru di questa paramparā. Ecco perché si dice che il Signore non deve mai essere dimenticato.
L’idea potrebbe essere espressa in un altro modo. Invece di considerare il Guru e Īśvara come due entità separate, quando sappiamo che Īśvara stesso è venuto a noi nella forma del Guru, non c’è bisogno di diventare devoti al Guru e a Īśvara separatamente. Guardando il Guru come Īśvara, possiamo cercare rifugio assoluto nel Guru, nel Guru che è Īśvara. Anche se il Guru non è uomo dal carattere ideale, saremo benedetti da Īśvara se lo adoriamo attraverso questo Guru, perché Īśvara è eternamente puro ed è il Supremo. È per questo motivo che il Guru è descritto come Parabrahman, l’origine di tutti e tre, Brahmā, Viṣṇu e Śiva.
“Gurur Brahmā, Gurur Viṣṇuḥ, Gurur Devo Maheśvaraḥ, Guruḥ sākṣāt Parambrahma tasmai Śrī Gurave namaḥ.”
In una descrizione di Vyāsa, che è il più importante tra i maestri di Brahma Vidyā, il significato dello śloka “Gurur Brahmā” è espresso in modo più interessante:
“Acaturvadano Brahma, dvibāhuraparo Hariḥ aphālalocanaḥ Śambhuḥ Bhagavān Bādarāyaṇaḥ.”
Bādarāyaṇa è un altro nome di Vyāsa. È acaturvadano Brahmā, Brahmā senza le quattro teste, cioè ha una sola testa; è dvibāhuraparo Hariḥ, cioè è Viṣṇu con due sole mani, non con quattro; è aphālalocana Śambhuḥ, cioè è Śiva senza occhio sulla fronte.
Non c’è nessuno superiore al Guru. Dobbiamo arrivare ad avere piena fiducia in lui. Se ci si rende conto davvero che Īśvara stesso è venuto a noi nella forma del Guru, non c’è alcun bisogno di adorare Īśvara oltre al Guru. È tale devozione al Guru, che ci porterà al di là dell’oceano del saṃsāra.
Anche per i Vaiṣṇava la devozione all’ācārya è molto importante.
Se offendiamo Īśvara, non è necessario pregarlo per ottenerne il perdono. Se l’ācārya ci perdona, Īśvara si placa. Ma se offendiamo il Guru in qualsiasi modo, non servirà a nulla rivolgersi a Īśvara. Dobbiamo rivolgerci al Guru stesso per ottenere il perdono. Īśvara stesso ci dirà di farlo. Se il Guru perdona il suo discepolo, l’ira del Signore svanirà ed egli benedirà il discepolo. Ma se il Guru stesso è arrabbiato con il suo discepolo, non c’è nessuno che potrà perdonarlo1.
Questo è il motivo per cui gli śāstra lodano e esaltano la devozione per il Guru. Anche se il vostro Guru non vi pare uomo di grandi qualità, consideratelo come colui che vi apre la via e, allo stesso tempo, siate devoti a Īśvara. Né il nostro Guru né Īśvara traggono guadagno dalla nostra devozione. Siamo solo noi a ricevere la ricompensa. Che tipo di ricompensa o beneficio? Ve lo dico subito.
Siamo pieni di impurità e la nostra mente è volubile. Non siamo in grado di tenere la mente concentrata su un punto nemmeno per un momento. Solo se meditiamo su chi è sempre puro, che abbonda di conoscenza e che è fermo e stabile come il tronco d’un albero, potremo raggiungere lo stesso stato di equilibrio e di quiete rappresentato da quella persona. Diventeremo noi stessi “lui”, raggiungeremo l’identità con lui. Non è che solo Īśvara debba essere considerato in questo modo. Sia che si tratti di un’entità che possiede le qualità menzionate sopra, sia che si tratti di un essere umano come noi con queste qualità, dobbiamo essere devoti a quell’entità o a quell’essere umano come nostro Guru e in questo modo diventeremo quell’entità o quell’essere umano. È solo quando la mente diventa immobile che l’Ātman risplende e il suo vero stato di beatitudine si rivela. È per fermare la mente che i nostri śāstra indicano la necessità della devozione per Īśvara, la devozione per il Guru.
La Chāndogya Upaniṣad dichiara che il jñāna sarà ottenuto solo attraverso la grazia del Guru. “Ācāryavān puruṣo veda”: solo colui che possiede un ācārya raggiungerà jñāna. Questa verità è spiegata con una breve storia. Immaginate che un uomo appartenente al Gāndhāra (la moderna Kandahar, in Afghanistan) venga bendato e portato in un luogo deserto. Come tornerà a casa? Non sarà impotente, disorientato? È così che Māyā ci ha bendato e relegato in questo mondo. Torniamo alla storia: un uomo, poi, si avvicina alla persona bendata, gli toglie la benda e gli dice come ritornare al Gāndhāra. Così è liberato dal dolore e dalla paura e può arrivare a destinazione come indicato da quell’uomo. La Chāndogya Upaniṣad dice che, come l’uomo bendato della storia, anche noi ritroveremo la via del ritorno a casa, con il consiglio dell’ācārya. Vale a dire che torneremo al Paramātman, il “luogo” da cui siamo partiti.
Śaṃkara Bhagavatpāda, famoso in quanto “Jagadguru”, parla ripetutamente dell’importanza del Guru. Si chiedeva. “Che importa se un uomo è rispettato per molte ragioni? A che serve se la sua mente non è legata ai piedi di loto del suo Guru?” Śaṃkara ripete “Tataḥ kim?” (a che serve?) quattro volte: “Tataḥ kim? Tataḥ kim? Tataḥ kim? Tataḥ kim?”. Infatti, nell’inno al Guru (che è di otto strofe e s’intitola Gurvāṣṭakam) pone la stessa domanda quattro volte alla fine di ogni strofa, per un totale di trentadue volte. Alla fine, prima di scrollarsi di dosso le sue spoglie mortali, Śaṃkara offrì il suo upadeśa con questo śloka:
Scegli un saggio puro (sāttvika vidvān) quale tuo ācārya. Adora i suoi piedi ogni giorno. Fatti insegnare da lui il significato del Praṇava e dei Mahāvākya upaniṣadici.”
Per quanto riguarda la pratica di eseguire la pūjā ai gurupāda, anche ora, al Kañcī Maṭha, l’adorazione dei piedi di loto di Śaṃkara Bhagavatpāda viene eseguita ogni giorno senza fallo.
In questo caso si parla del Guru saṃnyāsin che inizia il suo discepolo al saṃnyāsa. È nel saṃnyāsāśrama che si cerca mokṣa meditando sul Praṇava e sui Mahāvākya. Questo è l’ultimo dei quattro āśrama. Prima, nel brahmacaryāśrama, si cerca un Guru gṛhastha e si imparano da lui i Veda e i doveri rituali stabiliti dagli śāstra e, attraverso gli stadi successivi, si giunge all’ultimo āśrama, al saṃnyāsa: questo è l’indicazione di Śaṃkara. Per prima cosa consideriamo il motivo per cui dovrebbe esistere il karma vedico. L’insegnamento del Praṇava e dei Mahāvākya impartito dal Guru deve condurre alla meta ultima dell’uomo, al mokṣa, e per questo la mente deve essere tenuta sotto controllo e purificata. È inutile ascoltare il Guru senza che la mente sia pienamente rivolta al suo interno. Il seme germoglia quando viene seminato in un campo ben dissodato. Ascoltiamo innumerevoli discorsi dhārmika e siddhāntita, leggiamo la Gītā e le altre scritture. Perché allora continuiamo a provare dolore? Perché, allora, non ci non diventiamo illuminati con la conoscenza? È perché ascoltiamo i discorsi dhārmika o leggiamo le scritture senza purificare il nostro citta che non otteniamo la meta eterno. L’Ācārya dice all’inizio del suo upadeśa: “Dedicatevi a Īśvara, eseguendo il karma vedico senza posa”. Senza curarti della ricompensa, fallo come un’adorazione di Bhagavān”. Lo dice per indicarci i mezzi per raggiungere la tranquillità mentale e la purezza della mente (citta śuddhi). La mente deve essere arata dal karma vedico. Questo è il requisito principale. Non è, dunque, che dopo aver arato il campo della mente, lo si debba annaffiare? Questo atto è la bhakti ossia la devozione. È la bhakti che annaffia il cuore. Bisogna essere devoti a Īśvara e al proprio ācārya. Se siamo devoti al nostro Guru, la nostra mente diventa serena. Se leggiamo o se ascoltiamo qualcosa alla presenza dei nostri anziani o di altri grandi uomini, si produce una impressione nella nostra mente. Accade così perché in loro presenza la nostra mente si calma. Questo non accade in un club o in una biblioteca: ciò che leggiamo o ascoltiamo lì non viene trattenuto. Se la mente è annaffiata dalla devozione per il Guru, il suo frutto è immediato. Ecco perché dobbiamo cercare il consiglio e l’ispirazione di grandi uomini e imparare da un Guru. Anche se leggiamo molto, tuttavia l’ajñāna, l’ignoranza, non viene eliminata dalla mente. Dobbiamo andare nel luogo in cui il nostro velo di ignoranza sarà rimosso, il luogo in cui dove si trova l’ācārya: solo allora sorgerà il jñāna.
Per purificare la mente, durante il brahmacaryāśrama dobbiamo imparare i Veda da un Guru. In seguito, durante l’āśrama di capofamiglia (gṛhastha), dobbiamo mettere in pratica i rituali vedici appresi precedentemente, per rimuovere tutte le impurità dalla nostra mente. Dopo aver fatto questo, dobbiamo imparare i Mahāvākya da un Guru che sia un saṃnyāsin. In questo modo, ciò che si è imparato germoglia e cresce. In altre parole, s’identifica il jīva al Brahman. Per trovare la via verso questa meta abbiamo bisogno di un Guru sia all’inizio della nostra ricerca sia alla sua conclusione. È per questo motivo che la devozione al Guru è universalmente esaltata. Ed è per le ragioni sopra riportate che, da ragazzi, si deve passare un periodo di coabitazione presso un Guru (gurukulavāsa).
Lo stato, monarchico o no, è inteso ad assicurare il nostro benessere durante la nostra esistenza mondana. Il Rājā era incaricato a proteggere il virtuoso e l’innocente dal malintenzionato e difendere il debole dal prepotente. La funzione del Rājā non è solo quella di assicurare tale protezione, ma anche di garantire benessere ai suoi sudditi. In cambio, i sudditi lo servono e mantengono il regno con le loro imposte. Questo mondo non è eterno. Dobbiamo perciò assicurarci un posto nell’aldilà che sia eterno e immutabile. Sulla via, sei briganti cercano di impedirci di raggiungere tale mondo perenne. Essi sono la personificazione di sei mali: kāma, krodha, lobha, moha, mada, mātsarya, ovvero desiderio, ira, avarizia, illusione, lussuria, invidia. Otterremo l’immortalità soltanto se ci difenderemo da essi per mezzo della devozione, della meditazione e della conoscenza. Sebbene quel “luogo” sia, in realtà, dentro di noi, raggiungerlo è difficile. Come abbiamo bisogno del Rājā per vivere felicemente in questo mondo, per raggiungere il mondo interiore dell’Atman, abbiamo bisogno dell’ācārya. Non basta vivere in armonia in questo mondo; per la verità vivere bene qui non ha la minima importanza. Ciò che è invece importantissimo è che dopo essercene andati da questo mondo non ci si debba più tornare. Dobbiamo scoprire la via per raggiungere quello stato immortale. È per questo che dobbiamo prepararci a ciò fin dall’inizio della vita. L’iniziazione al brahmacaryāśrama fin dalla giovinezza aveva quello scopo e a quello scopo il ragazzo era mandato a vivere con il suo Guru2. Ciò non significa che un brahmacarya debba imparare fin dall’infanzia che il mondo è non reale e che solo Paramātman è reale e nemmeno che debba essere distolto da questo mondo. È vero che durante il gurukulavāsa egli era istruito alla scienza dell’Ātman, ma questo non significa che gli fosse richiesto di rinunciare subito al mondo. Molte scienze e arti (alcune delle quali sono le stesse dell’educazione moderna), matematica, poesia, dramma ecc., erano insegnate anche nel gurukula. I nostri progenitori erano ben consapevoli che nel grande spettacolo di questo mondo ci sono fasi, come quella che va dal germoglio al fiore, dal fiore al frutto fino alla sua maturazione. Si sono presentati alcuni rari casi di individualità speciali che fin dall’infanzia diventavano jñãni e si dedicavano alla meditazione, ma la massima parte dei ragazzi crescevano per gradi, seguendo l’ordine naturale delle fasi della vita.
In questo processo graduale si deve essere aiutati a salire e non si deve permettere che si scenda. Questa è la base del sistema degli āśrama: dopo il brahmacarya, il gṛhasthāśrama, durante il quale marito e moglie vivono insieme e procreano figli; poi il vānaprasthāśrama, in cui la coppia lascia la casa con un certo grado di distacco dalla vita familiare, ma senza abbandonare i riti vedici e, infine, il saṃnyāsāśrama, lo stadio dell’asceta che ha rinunciato alla sua vita. La progressione verso il saṃnyāsa è simile a quella del fiore che diventa naturalmente un frutto e matura. Non si può rinunciare alla vita mondana fin dall’inizio. Ma, allo stesso tempo, si deve tenere presente l’eterna esistenza dell’altro mondo. Non importa che un uomo non salga subito fino alla vetta, ma non deve nemmeno precipitare subito in basso. Per questo gli è stato indicato il sentiero dai Dharma Śāstra: qualunque sia lo stadio della sua vita, qualunque sia l’āśrama in cui si trova, deve riflettere sull’Ātman. Deve coltivare l’amore per Īśvara, imparare a comportarsi virtuosamente e ad essere utile agli altri. Fin dall’inizio deve essere gettato il seme per il fine ultimo della vita (antya puruṣārtha). Solo in questo modo un uomo, anche se conduce una vita mondana e non si dedica ancora alla meta finale, cercherà di salire per gradi, invece di scendere a un livello inferiore. È per questo motivo che durante il brahmacaryāśrama gli vengono insegnati i Veda e le Upaniṣad. Questo non significa però che debba mettere subito in pratica le lezioni, facendo manana sull’Ātman e cercando di diventare un jīvanmukta.
La conoscenza acquisita nel brahmacaryāśrama è come un conto bancario. È sufficiente che l’individuo riceva un interesse su di esso finché non raggiunge l’età in cui si equilibra e diventa una persona matura. A tempo debito potrà ritirare l’intera somma. L’importante è che apra il conto nei primi anni di vita, in modo da assicurarsi un lungo periodo di interessi. Altrimenti questo gruzzolo diventerà inutile a causa delle tentazioni della giovinezza, delle necessità della mezza età, degli alti e bassi della vita e degli acciacchi della vecchiaia.
Oggi i ragazzi e le ragazze ricevono nelle scuole un tipo di istruzione che li aiuta a guadagnarsi da vivere; un tempo si insegnava anche un mestiere o un’occupazione. Tuttavia, l’istruzione di allora non si limitava all’insegnamento di un mestiere; oltre a questo, agli studenti veniva insegnato l’Adhyātma Vidyā, l’insegnamento che riguarda l’Ātman. Oggi si mangia solo per riempire la pancia e non si insegna nulla per migliorare la propria condotta morale e per elevare il proprio Sé. In passato, invece, l’obiettivo dell’altro mondo, il dharma e la buona condotta erano ritenuti la solida base dell’istruzione e, allo stesso tempo, agli studenti veniva insegnato come guadagnarsi da vivere.
Il ragazzo non era improvvisamente destinato alla via dell’Ātman o a una vita di rinuncia fin dall’infanzia, senza tener conto della natura umana. Ma nemmeno, come oggi, era abbandonato a una vita sprovveduta e irresponsabile. Con simpatia e comprensione della natura umana, gli āśrama e il dharma di ciascuno sono stati disposti in modo tale da conformarsi alla natura umana. Allo stesso tempo, ci si è preoccupati di garantire che l’Ātman non venisse mai trascurato.
La saggezza della divisione degli āśrama si evince dalle parole di Kālidāsa. Anzitutto, “Śaiśave abhyastavidyānām”. Il poeta dice che si deve iniziare a imparare la vidyā fin dall’infanzia. Bisogna studiare i Veda, le Upaniṣad e il resto durante i primi anni di vita. È questa l’età in cui è facile lasciare un’impronta nella mente. Ma questo non significa che, per imparare tutto, ci si debba immergere in una riflessione sul Sé e in una vita di meditazione, che si debba rifuggire dalla vita. Poi Kālidāsa aggiunge: “Yauvane viṣayaiṣīnām”. Durante la giovinezza si devono sperimentare le gioie (e anche i dolori) della vita familiare, della vita del padrone di casa. Non c’è alcun accenno che la felicità della vita familiare sia un’infelicità.
Una cosa va ricordata: la vita disciplinata di brahmacarya condotta da un discepolo nel gurukula, la conoscenza delle Veda e delle Upaniṣad e il resto, acquisiti allora, lo terrà sotto controllo, impedendogli di abbandonarsi completamente ai piaceri carnali. Il gṛhasthāśrama è il periodo in cui un uomo anche guadagna denaro e acquista beni in una certa misura. Ma il desiderio di ricchezza non si trasformerà in avidità. L’educazione ricevuta durante il brahmacarya farà sì che non si allontani dal sentiero del dharma. Anche l’esecuzione dei rituali vedici e degli yajña e lo studio dei Veda lo manterranno disciplinato e proteggeranno il suo citta dal cambiare in peggio.
Quanto detto sopra si applica soprattutto ai brāhmaṇa. Ma, qualunque sia la vostra casta, il vostro citta sarà purificato svolgendo la pratica che vi è stata assegnata, conducendo una vita libera da avidità e gelosia e dedicandovi a Īśvara. “Dharmāviruddho bhūteṣu kāmosmi”. così dice il Signore nella Gītā. Gli stessi śāstra accettano che certi impulsi naturali debbano essere soddisfatti in gioventù, senza violare il dharma e senza pregiudicare la condotta morale. A tempo debito e con la crescente forza ottenuta dall’osservanza del dharma, passioni come il desiderio e la rabbia inizieranno a scemare da sole.
Nella fase successiva, l’uomo è alle soglie della vecchiaia. “Vārdhakye munivṛttīnām”, dice Kālidāsa a questo proposito: quando la vecchiaia si avvicina, l’uomo deve ricevere consigli dai muni e dagli altri asceti, eliminare i propri desideri e impegnarsi nella meditazione sul Signore, praticare le austerità e riflettere sull’Ātman. Lo stato in cui tutti i desideri sono cessati è chiamato virāgam o vītarāgam. L’uomo quindi deve meditare a lungo su Bhagavān e praticare austerità e riflettere sul Sé. Durante il vānaprasthāśrama deve lasciare la casa e i figli per vivere nella foresta con sua moglie e nessun altro, per vivere una vita in linea con l’insegnamento dei Veda. La moglie gli è compagna in questa vita di disciplina vedica, non è destinata alla soddisfazione dei suoi piaceri carnali. Poi lo stadio finale “Yogenānte tanutyajām”, cioè dopo l’abbandono dei rituali, l’uomo diventa un saṃnyāsin. Si allontana dal corpo senza il minimo dolore, abbracciando la morte ed essendo inseparabilmente unito al Paramātman nello stato di suprema Beatitudine. Dove sono state poste le basi per quel mokṣa di Beatitudine suprema? La risposta è: “Śaiśave abhyastavidyānām”, sono state poste durante l’infanzia. Le fondamenta morali radicate durante l’infanzia sono in grado di sostenere l’uomo per tutta la vita. Lo aiuta a raggiungere la meta che gli è stata insegnata da bambino, la meta indicata dalle Upaniṣad: l’unione del jīva con il Brahman. La disciplina e la buona condotta devono essere applicate già durante l’infanzia. Qual è la prima caratteristica della buona condotta disciplinata? Paṇivu (un termine tamiḷ che significa umiltà, sscrt. vineya) e la modestia, che sono necessari a un uomo per progredire nella buona condotta. L’eliminazione dell’ego (ahaṃkāra) è essenziale per l’umiltà. E l’umiltà è la fonte della buona condotta.
Più importante della medicina è il pathya (letteralmente ciò che è salutare), ciò che fa bene all’organismo durante il trattamento. L’aspetto più importante della medicina chiamata educazione è il pathya dell’umiltà. In passato, l’umiltà era considerata la qualità principale del discepolo. Infatti il discepolo era chiamato vineyan (sottoposto a umiltà). È per acquisire questa qualità dell’umiltà che veniva mandato da un ācārya per vivere con lui nel gurukula. Dopo aver eseguito l’upanayana (in gergo comune la cerimonia del filo sacro), lo studente veniva inviato al gurukula prima di aver compiuto gli otto anni.
Che cos’è l’upanayana? Nayana è l’azione di condurre. Un cieco viene guidato da un altro. Da questo si può imparare che è l’occhio, il nayana, a guidare l’uomo. Ecco perché ha preso il nome di nayana. Upa significa vicino. Upanayana significa condurre vicino, condurre verso il Guru. L’upanayana è quindi un rituale preliminare che porta lo studente a essere iniziato nel gurukula.
Il bambino che fino allora aveva giocato liberamente, entra in un āśrama con senso di responsabilità e disciplina. Āśrama qui non significa una capanna fatta di frasche, ma una fase della vita. Questo primo stadio della vita è chiamato brahmacaryāśrama. In questa fase il Guru è fondamentale. Nell’āśrama finale del saṃnyāsa un altro Guru entrerà nella sua vita. Quest’altro Guru reciderà il filo sacro che ora indossa. Questo secondo Guru sarà un saṃnyāsin e aiuterà il suo discepolo a realizzare per esperienza reale, la meta upaniṣadica del Brahman3. La catena iniziatica dei Guru (guruparamparā), a cui ora rendiamo omaggio, è costituita da Maestri che erano tutti saṃnyāsin4. Il primo Guru, grazie al cui insegnamento siamo diventati qualificati a cercarne un secondo nell’ultimo āśrama, è stato quello che ci ha insegnato tutte le vidyā durante il brahmacaryāśrama. Raramente il primo Guru è un saṃnyāsin come il secondo. Di solito è un uomo sposato. Il secondo Guru è chiamato Brahmavid, conoscitore del Brahman, e il primo Guru Vedavid, conoscitore dei Veda5. Anche il Vedavid ha la conoscenza del Brahman, ma non l’ha realizzato. Per raggiungere il Brahman, anch’egli deve cercare un Guru Brahmavid, dopo aver rinunciato alla sua vita precedente.
Tutto ciò non significa che il primo Guru sia inferiore in tutti i sensi. Vive secondo ciò che è proprio del suo āśrama. Se lo studente deve diventare umile, questo Guru deve essere tale da indurre all’umiltà il discepolo e ottenerne spontaneamente il rispetto. Non deve deviare dalle osservanze vediche ed essere strettamente aderente al dharma. Pur essendo pronto a correggere la condotta del suo discepolo, deve anche provare affetto per il fanciullo che ha lasciato casa e genitori per venire da lui. Oltre a vineyan, il discepolo ha anche l’altro nome di antevāsī, che significa “colui che vive con”. Come upanayana significa “condurre vicino al Guru”, così antevāsī deve essere inteso nel senso di “colui che vive con il Guru”. A rigore di termini ante non significa “con o accanto”. Significa “dentro” come nelle parole antaraṅga (essenza interiore), antarātman (il Sé interno), antaryāmin (controllore interno). Anta, in questo caso, significa interno alla mente. L’ācārya, in armonia con questo significato, deve, per così dire, ospitare il discepolo nella sua mente, il che suggerisce che deve provare un profondo affetto per lui.
L’ācārya ha una grande responsabilità nei confronti del suo discepolo. Se non lo adempie, subirà lui stesso un grave danno. Gli insegnanti di oggi dicono: “Cosa importa se lo studente sta impara o no? Noi prendiamo il nostro stipendio comunque, e questo è ciò che conta davvero”. Coloro che guidavano il gurukula ai vecchi tempi non potevano avere lo stesso atteggiamento perché la relazione Guru-śiṣya non era governata da qualcosa di simile a un contratto d’affari. In effetti, oggi l’istruzione è persino peggiore di quanto implica la formula “contratto d’affari”. Negli affari, se paghi un prezzo, devi ricevere qualcosa in cambio. Oggi l’insegnante è poco preoccupato dal fallimento scolastico del suo studente che ha pagato le sue tasse, cioè il prezzo. Al contrario, l’ācārya d’una volta che dirigeva il gurukula, si assumeva una grande responsabilità. In cosa consisteva? “Śiṣyapāpam Gurum vrajet”. Questo è proclamato perfino dai libri di legge (Nīti Śāstra). Significa che la manchevolezza commessa dal discepolo intacca il Maestro. Il Guru non impartisce al discepolo solo l’apprendimento, ma si assume anche la responsabilità di assicurare la sua comprensione e la sua buona condotta. Se non assolve a questa responsabilità, vi è uno scotto da pagare per questo. Se non può purificare il suo discepolo e questi commette un qualche torto, la colpa ricade sul Guru per aver fallito di correggerlo. Se la moglie è colpevole di errori, il demerito di lei passa al marito che non è riuscito a guidarla sulla via della condotta virtuosa. Allo stesso modo, se un cittadino commette un torto negli affari della nazione, la sua colpa si riversa sul Re per non averlo corretto e punito. Se lo stesso Re commette un atto improprio o un delitto, il suo purohita dovrà subirne le conseguenze perché non è riuscito a consigliarlo correttamente. I Nīti Śāstra caricano quindi sulle spalle del marito, del Re e dell’ācārya una tremenda responsabilità.
Rājanam rāṣṭrakṛtam pāpam rājapāpam purohitam bhartāram strīkṛtam pāpam śiṣya pāpam gurum vrajet
Il marito non deve correggere sua moglie spaventandola, né il Re deve governare sui suoi sudditi con la paura. Lo stesso deve essere nella relazione Guru-śiṣya, in cui non c’è posto per il timore. Il marito, il Re e l’ācārya devono prendersi cura di chi dipende da loro e hanno il dovere di assicurare la loro buona condotta. Se vengono meno a questo dovere, incorreranno nei demeriti per le colpe commesse dai loro subordinati, cioè le colpe commesse rispettivamente dalla moglie, dai sudditi e dai discepoli.
“Śiṣyapāpam Gurum vrajet”. Come si comportava in passato il Guru che aveva compreso questa norma? Controllava stabilmente sé stesso per poter correggere il comportamento del discepolo sotto il suo controllo. Ciò significa che il Guru era l’esempio che indicava il giusto sentiero al discepolo facendogli seguire le sue orme. Nella Taittirīya Upaniṣad il Guru dice al discepolo “Asmākam sucaritāni”, segui il mio esempio di buona condotta. Il śiṣya doveva essere affidato fin dall’infanzia alle cure di un Maestro così nobile. A quei tempi ogni padre di famiglia era istruito nei Veda e negli śāstra. Ciò nonostante, egli affidava i suoi figli alle cure di un altro Guru invece di istruirli personalmente. Perché? Il rapporto padre-figlio è tale che c’è il rischio che al figlio venga data troppa libertà. Il padre rischia di viziare il figlio per eccesso d’affetto. Il figlio, a causa della libertà di stare nella sua casa, vivrà senza essere disciplinato e senza il senso dell’umiltà. A cosa serve l’educazione a qualsiasi scienza senza la qualità fondamentale dell’umiltà? Leggendo le Upaniṣad ve ne renderete conto. Bhāradvāja era un grande uomo, ma suo figlio Sukeśa va, con in mano una samidh, alla ricerca di un Guru e alla fine lo trova in Pippalāda. La Praśna Upaniṣad inizia proprio con questa storia. Samidh è la fascina di legnetti per il fuoco sacro. I Guru di quei tempi erano facilmente soddisfatti del dono della samidh, perché era un oggetto importante per i sacrifici. Ci sono molti altri esempi simili a quello di Sukeśa. La Chāndogya Upaniṣad parla del brahmacārin Śvetaketu. Dopo aver ricevuto l’insegnamento dal padre, si reca alla corte di un Re. Il brāhmaṇa Pravāhaṇa gli pone domande su vari argomenti. Śvetaketu non è in grado di rispondere a nessuna di esse. Questa storia sembra suggerire indirettamente che essere istruiti dal proprio padre non è sufficiente.
L’umiltà non si acquisisce facilmente. Infatti, da un’altra storia che ha per protagonista Śvetaketu apprendiamo che più si è istruiti e più si gonfia l’ahaṃkāra. “Ah, quante cose conosco!”; si è spinti a vantarsi in questo modo. Questa storia compare anche nella Chāndogya Upaniṣad. Śvetaketu studia ai piedi di vari Guru per dodici anni e torna da suo padre borioso della conoscenza acquisita. Il padre frenare subito la sua superbia, interrogandolo sulla Realtà di Brahman (Brahma tattva). Il figlio si rende conto di non sapere nulla sull’argomento e, resosi umile, chiede al padre di concedergli quell’insegnamento.
Uno degli scopi del gurukula è quello di instillare umiltà nell’allievo. Per questo motivo i bambini venivano mandati al gurukula per vivere e studiare lontano dalle loro case. Oggi gli studenti vengono mandati in un pensionato, ma cosa vediamo? Il loro comportamento in ostello è persino peggiore di quello che avrebbero a casa loro. Questo non accadeva in passato, perché erano educati, in primo luogo, dalla vita esemplare condotta dal Maestro; in secondo luogo, per le regole che il brahmacārin doveva osservare. Tra queste ultime, va menzionato in particolare il bhikṣācarya, che consiste nel chiedere l’elemosina per il proprio cibo. Subito dopo l’upanayana del ragazzo, il padre lo esorta con la frase “Bhikṣācaryam cara”, che di fatto significa: “Da’ l’elemosina che hai raccolto al tuo Guru e impara a osservare la regola di vivere con la parte che ti accorderà”. Anche se un uomo era proprietario di molti acri di terra, doveva mandare suo figlio al gurukulavāsa con la regola di compiere il bhikṣācarya. Quando il padre dice al figlio: “Bhikṣācaryam cara”, quest’ultimo, dopo essere stato iniziato, dovrà dire: “Bāḍham”, che significa “Lo farò”. Per quanto ricco fosse il padre, durante il gurukulavāsa il discepolo indossava solo un perizoma (kaupīna) e andava a chiedere l’elemosina, dicendo sulla soglia di ogni casa che visitava: “Bhavatī bhikṣām dehi, Signora, mi dia l’elemosina”. Qual era lo scopo di questa disciplina? Controllare l’ahaṃkāra dell’allievo e impedirgli di nutrire l’orgoglio d’essere un dotto. Lo scopo del bhikṣācarya era quindi quello di aiutare il discepolo a raccogliere i veri frutti dell’istruzione instillando in lui l’umiltà. Il discepolo consegnava al Guru l’elemosina raccolta. Il Guru, a sua volta, la consegnava alla moglie perché la cucinasse. Il Guru aveva il dovere di nutrire i suoi śiṣya; invece lo studente che va a scuola o all’università mangia a casa, e tende considerare poco l’autorità del suo insegnante. Ma se fosse nutrito dal professore, gli sarebbe obbediente. L’elemosina portata dai discepoli doveva essere sufficiente per alimentare il Guru e la sua famiglia. Ma, secondo il codice del gurukulavāsa una volta prevalente, non doveva sembrare che lo studente mantenesse il Guru; anzi, tutto il contrario. Il brahmacārin poteva saziarsi, ma non doveva mangiare solo per soddisfare il suo palato o mangiare il tipo di cibo che poteva influire negativamente sul miglioramento del suo ego. Oggi, nell’ostello, lo studente è libero di mangiare ciò che vuole e il suo sviluppo mentale ne risente. Nel gurukulavāsa il Maestro non dava da mangiare ai suoi discepoli cibo che potesse nuocere al loro sviluppo mentale e spirituale.
Normalmente, ci vogliono dodici anni per studiare un Veda, i suoi aṅga e altre materie. Ciò significa che un bambino che inizia a otto anni dovrebbe vivere nel gurukula fino a vent’anni. A quattordici o quindici anni la mente di un ragazzo si risveglia a nuovi sentimenti o pulsioni. In tamiḷ questa età è chiamata kāḷaiparvam, cioè il momento in cui il ragazzo vuole divincolarsi come un toro e vagare a suo piacimento. Quando lo studente fa il bhikṣācarya durante il periodo di servizio (sevā) al Guru, un Guru sereno per natura, pieno di affetto e di condotta esemplare, i suoi sensi saranno sotto controllo ed egli acquisirà il lustro brahmanico (Brahma tejas). Ma imporre la disciplina del gurukulavāsa e del bhikṣācarya allo studente nel momento in cui i suoi turbamenti si manifestano sarebbe un invito a conseguenze spiacevoli. Quando si cerca di alzare gli argini di un fiume nel momento di una piena, gli argini e gli uomini che cercano di alzarli vengono spazzati via. Ecco perché i nostri śāstra raccomandano ai genitori di mandare i figli al gurukulavāsa quando sono ancora bambini di otto anni. Prima che kāma disturbi la mente, essa è già impregnata della Gāyatrī, cominciando a essere purificata e illuminata dal mantra. Le altre regole del brahmacaryāśrama insegneranno ulteriormente al discepolo umiltà e disciplina. Egli diviene un vero brahmacārin, non solo di nome.
Ho detto prima che, come c’è un Re che si occupa della vita in questo mondo, c’è un Guru che si occupa della condotta per ottenere l’altro mondo. Ho anche detto che nel saṃnyāsāśrama il Guru mostra al discepolo il sentiero per l’altro mondo. Il Guru che impartisce l’insegnamento delle scienze vediche (vidyābhyāsa), che ha posto le basi per l’educazione del discepolo fin dall’inizio, è importante quanto il secondo Guru. Non serviamo forse il Re? Non paghiamo le tasse? Allo stesso modo dobbiamo servire sia il primo sia il secondo ācārya. Dobbiamo pagare loro un compenso (dakṣinā). Non possiamo ricevere un beneficio da nessuno senza dargli qualcosa in cambio. Qualunque sia il bene ricevuto, dobbiamo pagare il suo prezzo se vogliamo che rimanga con noi, se vogliamo che sia duraturo. Il saṃnyāsa Guru non deve essere pagato con una grande dakṣinā: servirlo è più importante. Anche il Guru che vi insegna all’inizio deve essere servito e pagato con una dakṣinā. Ha una famiglia di cui occuparsi. Il cibo portato dal bhikṣācarya non sarebbe una dakṣinā sufficiente. Il vidyābhyāsa Guru compie sacrifici e altri rituali. Perciò il materiale necessario al rito deve essere dato sotto forma di dakṣinā.
Al giorno d’oggi il discepolo paga la sua retta per l’istruzione che riceve a scuola, con il risultato che prova una certa alterigia per il fatto che il suo insegnante riceve lo stipendio grazie al pagamento che effettua. Ciò comporta una diminuzione della devozione e del rispetto vero il docente. Gli śāstra stabiliscono che il discepolo deve pagare la dakṣinā richiesta dal Guru solo al termine dei suoi studi nel gurukula. Anche se non è possibile compensare del tutto il Guru per l’istruzione ricevuta, il discepolo oltre a offrirgli la dakṣinā, può servirlo al meglio delle sue capacità. Finché l’allievo era tranquillo di natura e umile, progrediva nella sua vidyā. Per disturbare la sua mente e risvegliare i suoi sentimenti e le sue pulsioni, oggi è apparso il cinema, oltre ai romanzi e ad altri svaghi. Lo studente non può superare la fase del brahmacarya senza che la sua mente venga eccitata da kāma e da altre passioni.
Ha un altro nemico da affrontare ed è l’ira, che crea instabilità nella mente. I partiti politici di oggi accendono i suoi rancori fin dall’età scolare. Tranquillità e umiltà sono assenti dalla vita dello studente. E a causa del suo ego e del suo senso di orgoglio non può svilupparsi una vera vidyā.
Quando il ragazzo viene istruito a casa da un precettore privato, è come se fosse lui a pagarlo (yajamāna), cioè l’insegnante è come fosse un servo dello studente. Questo sentimento di orgoglio per cui lo studente si sente yajamāna è alla base delle agitazioni e scioperi studenteschi nella scuola o nell’università. Peggio ancora, arriva perfino ad alzare le mani contro il direttore e i professori.
Nei gurukulavāsa la dakṣinā veniva data a conclusione del corso di studi. L’intuizione psicologica dei nostri antenati in queste materie era davvero notevole. Dopo aver trascorso molti anni con il Guru in un rapporto di rispetto e affetto, lo studente si chiedeva con sentimenti di gratitudine: “Cos’altro posso dare al Guru? C’è qualcosa che non dovrei dargli?”.
Alcuni Guru hanno chiesto agli śiṣya di portare loro come dakṣinā gli orecchini della dea Indrāṇī oppure un gioiello custodito da un cobra, ma tali Guru erano pochi e distanti tra loro. Coloro che richiedevano questo tipo di dakṣinā, evidentemente impossibile, conoscevano le capacità dei loro studenti e, in effetti, facevano questa richiesta allo scopo di onorarli. Di solito nessun Guru chiedeva una dakṣinā per avidità. La maggior parte dei Guru si accontentava facilmente di quel poco che riceveva.
Sappi [che si ottiene l’insegnamento] prosternandosi, l’indagando e compiendo il servizio [al Guru]. I saggi che hanno realizzato la Verità ti impartiranno la conoscenza. (BhG IV.34)
Così dice il Signore nella Gītā. Se volete comprendere la verità del Paramātman, dovete cercare i Guru che ne sono a conoscenza. Serviteli con umile riverenza. Imparate da loro interrogandoli continuamente. Se vi comportate in questo modo, riceverete sicuramente l’insegnamento della conoscenza (jñāna upadeśa). Poiché si tratta di coloro che vedono la Realtà Ultima, in questo caso non si parla di dakṣinā e viene menzionato solo il servizio al Guru. Nella Taittirīya Upaniṣad si dice chiaramente che, dopo aver completato l’istruzione, si deve dare al Guru la dakṣinā che gli è gradita (ācāryam priyam dhanam āhṛtya). Questo non significa che il Guru sia avido e che pretenda una grande somma. Se il discepolo era giudicato in base a qualche criterio, lo era anche il Guru. La Taittirīya Upaniṣad contiene un upadeśa dato dal Guru allo śiṣya quando stava per tornare a casa dopo aver completato la sua istruzione. Queste frasi rappresentano discorso di congedo a conclusione del periodo dell’istruzione upaniṣadica. Il Guru gli dice: “Dì la verità”. Comportati secondo il dharma. Non abbandonare lo studio dei Veda, senza abbandonare l’occupazione che si basa sul suo svadharma. Poiché questo dharma vedico deve rimanere perenne in tutti i tempi, diventa un gṛhastha. Procrea figli e dona loro il tesoro dei Veda, (oppure rinuncia alla tua attività stabilita dai Veda per il benessere sociale”. Non abbandonare mai ciò che deve essere fatto in onore degli Dèi e degli antenati. Che tua madre sia la tua divinità. Che tuo padre sia la tua divinità. Che il tuo ospite sia la tua divinità. Compi azioni che non siano contrarie a ciò che è conforme al modo virtuoso in cui ci comportiamo. Non deviare da questo sentiero”. Da questo si evince che il Guru deve essere un uomo dal carattere esemplare. Poiché indicare agli altri la propria condotta come esempio da seguire sarebbe interpretato come vanità, il Guru, subito dopo aver dato il consiglio di cui sopra, dice al suo discepolo come comportarsi di fronte ai brāhmaṇa a lui superiori, cioè ai Guru superiori a lui per sapienza. Questo per sottolineare il fatto che l’ācārya deve possedere la stessa umiltà che egli propone ai suoi allievi come ideale da perseguire. Dobbiamo ritenere che un Guru che dà questo consiglio è uomo di altissime qualità. Se nella mente del discepolo sorgono dubbi su ciò che deve fare o su come deve comportarsi in qualsiasi situazione, il Guru lo esorta a seguire l’esempio di altri. Chi sono questi altri? Coloro che hanno la capacità di indagare a fondo sugli argomenti e di formarsi un’opinione chiara, coloro che seguono ciò che è stabilito negli śāstra, coloro che non sono soggetti ai dettami di altri e sono miti per natura, coloro che non sono dipendenti dai piaceri carnali e sono aderenti al dharma. “Vivete come loro, vivete come quegli uomini che conoscono bene i Veda e che sono dediti alla vita interiore.” Da ciò si deve dedurre che quegli stessi ācārya possedevano le virtù di cui parlavano. Il discepolo ha vissuto tutti questi anni con il suo Guru nel gurukula e conosce bene il modo in cui quest’ultimo aveva vissuto. Ora lo sta lasciando per tornare a casa. Deve impegnarsi a conformarsi alla stessa disciplina e allo stesso stile di vita virtuoso anche dopo aver lasciato il gurukula. Questo è ciò che l’ācārya upaniṣadico raccomanda al śiṣya. Il soffio vitale del gurukulavāsa era la devozione che il discepolo nutriva per il Guru, esempio di tutte le nobili qualità qui menzionate. La bhakti per il Guru è fonte d’umiltà per il discepolo. È attraverso la devozione al Guru che egli vince i propri sensi. La ricompensa che ottiene procedendo passo dopo passo nella sua devozione per il Signore e nella cerca dell’Ātman, a cui si dedicherà nell’ultimo āśrama, tutto questo ha inizio proprio con la Guru bhakti nella fase di vita del brahmacarya.
Oṃ Śāntiḥ Śāntiḥ Śāntiḥ
- Questo è menzionato nel seguente śloka: “Guruḥ pitā, Gurur mātā, Gurur Daivam, Gurur gatiḥ Sive ruṣṭe Gurustrātā Gurau ruṣṭe na kaścana”; “il Guru è il padre, il Guru è la Madre, il Guru è Dio, il Guru è il rifugio. Se Śiva diventa irato, il Guru verrà in vostro soccorso. Ma se il Guru è irato nessuno potrà aiutarvi”.[↩]
- L’autore parla al passato in quanto l’istruzione profana obbligatoria, pubblica o privata imposta dall’attuale regime democratico rappresenta un ostacolo pratico all’istituto del brahmacaryāśrama. Attualmente i brahmacārin che rimangono fedeli a quanto prescritto dai Dharma Śāstra, sono costretti a degli orari massacranti, dedicando la mattina alla scuola obbligatoria e il resto del giorno ad apprendere ai piedi del Guru. È sintomatico che, in questa imposizione per legge della profanità, la massima parte dell’educazione privata sia delegata dallo Stato a collegi di missionari cristiani, cattolici o protestanti che siano [N.d.C.].[↩]
- Il primo Maestro è il dīkṣā Guru, che conferisce l’iniziazione e che insegna tutto il siddhānta vedico, però con particolare attenzione al karma kāṇḍa. Gli insegnamenti saranno oggetto di pratica durante i primi tre stadi della vita. Il secondo Maestro, il jñāna Guru, accetta come discepoli coloro che siano già stati regolarmente iniziati (dīkṣita) dal primo Guru, li affranca da ogni karma e conferisce loro la conoscenza tramite śravaṇa. L’unico rituale che questo Guru saṃnyāsin compie è l’iniziazione al saṃnyāsa di chiunque voglia accedere alla quarta fase della vita. Fanno eccezione i Jagadguru, i quali possono elargire l’iniziazione a tutti e due i livelli. Evidentemente le tradizioni che si limitano alla fase rituale della via iniziatica non conoscono che un’unica funzione, quella del dīkṣā Guru [N.d.C.].[↩]
- Unicamente attraverso questa catena di saṃnyāsin si trasmette fin dall’origine dei tempi il nivṛtti dharma, che consiste nella totale rinuncia all’azione (sarva karma saṃnyāsa) e l’adozione del puro metodo conoscitivo (kevala jñāna prakriyā). Cfr. Maitreyī, “La dottrina Advaita dell’Avatāraṇa”, https://vedavyasamandala.com/la-dottrina-advaita-dellavatara-1/; in Le Gesta di Śaṃkarācārya, Milano, Ekatos, 2021, pp. 176-181 [N.d.C.].[↩]
- Il primo maestro, il dīkṣā Guru, può anche appartenere a una paramparā tantrica: tuttavia, diversamente da come pensano gli occidentali, la funzione di un Tantravid non sarà affatto diversa da quella di un Vedavid, essendo quest’ultimo il modello a cui si rifà ogni percorso iniziatico del sanātana dharma. Questa è la ragione per la quale il Jagaduru Maharaja tratta solo del modello vedico d’insegnamento [N.d.C.].[↩]