Capitolo XIX dell’Upadeśa Sāhasrī
Śrī Śaṃkarācārya Bhagavatpāda
Prefazione
L’introduzione generale alla dottrina dell’Advaita Vedānta che abbiamo pubblicato con il titolo di Il Serpente e la Corda1 si è basata principalmente sul XVIII capitolo dell’Upadeśa Sāhasrī, l’unico testo incontestabilmente attribuito a Śaṃkara non consistente in un commento a un testo sacro. Quella pubblicazione è stata recepita con grande favore da un certo settore di nostri lettori, desiderosi della conoscenza metafisica caratteristica della Tradizione Eterna (sanātana dharma2). I risultati sono andati oltre qualsiasi aspettativa, tanto che alcuni di essi hanno raddrizzato il loro modo di vedere la Realtà, hanno sciolto i nodi del cuore che li tenevano ancora legati a una visione “metafisica parziale”. Hanno preso l’iniziativa di staccarsi dalle viscosità mediterranee e si sono recati in India per ricevere la dīkṣā, chi di Śrī Vidyā, chi di Vedānta, dopo una ricerca sincera di un’autentica paramparā vivente. Tra questi, alcuni sono diventati validi collaboratori di Veda Vyāsa Maṇḍala e delle edizioni Ekatos.
Con nostra sorpresa altri, che si ritenevano già comodamente sistemati tradizionalmente vicino a casa, e in possesso della “vera conoscenza” chiusa nella loro biblioteca privata, hanno manifestato una reazione ostile. Dopo aver inizialmente negato che gli occidentali potessero accedere all’iniziazione hindū, onnubilati dal pregiudizio tipico delle religioni sulla necessità dell’essoterismo, in seguito, abbandonando questa prima obiezione priva di fondamento, si sono avventurati nella contestazione della dottrina espressa nei nostri testi. L’unico risultato evidente è stata l’esibizione della loro ignoranza riguardo alla metafisica pura, arrivando perfino, pur di contraddirci, a citare frasi tratte a caso da Śaṃkara e Gauḍapāda, confondendo spesso l’adhyāropa con l’apavāda3. L’argomento principale di dissenso ha riguardato la realtà del mondo: realtà che, a loro parere, sarebbe comprovata in quanto appare ai sensi (jñānendriya), e della quale quest’ultimi riferiscono alla mente (antaḥkaraṇa). A sua volta la mente trae da questa informazione un concetto, ovvero un pensiero circa una pretesa conoscenza della “realtà” del mondo come oggetto. Tutta questa argomentazione, invero, è parte integrante dell’illusione prodotta dall’ignoranza-mente4. Per l’Advaitavāda il mondo non è affatto reale, ma è pura apparenza (adhyāsa) proiettata dalla mente ignorante sulla Realtà assoluta, il Brahmātman. La stessa mente è assenza di conoscenza (jñāna abhāva) e, come tale, non esistente. Chi si libera da questa ignoranza, chi realizza la non-mente, vede la Realtà pura Coscienza com’è, riconosce la propria natura reale ed è un mukta. Questo è sufficiente a dimostrare che il mondo, i sensi, la mente sono proiezioni della Māyā5, falsi come il serpente percepito invece della corda: false apparenze, non esistenti, non reali, l’unica Realtà essendo l’Assoluto6. Ciò esclude qualsiasi ipotesi di esistenza di una “realtà, minore, parziale, relativa”. Tale concezione è sbagliata perché il Brahmātman non è una Realtà maggiore, in quanto non è affatto paragonabile a una qualsiasi “realtà minore”; non è nemmeno formato di parti, quindi non può essere composto dalla “maggior parte” a esclusione della “realtà parziale”; e, soprattutto, essendo Assoluto, non può essere in alcuna relazione con una “realtà relativa”. Tutto ciò che è relativo è forzatamente in relazione con qualcos’altro: attribuire una qualsiasi relazione all’Uno senza secondo è impossibile. Questa concezione del relativo è espressa in sanscrito dal termine vedāntico vyavahāra dṛṣṭi, che è incompatibile con il paramārtha, la metafisica pura. Perciò la pretesa di attribuire al mondo un qualsiasi grado di realtà è un pensiero antimetafisico concepito dalla mente ignorante. Certamente, è sempre lecito assumere una posizione dottrinale differente e adatta alle proprie tendenze innate e alle proprie qualifiche intellettuali. Tuttavia, ciò che è intollerabile è equiparare certi insegnamenti creazionisti, anche se talvolta di elevata speculazione e devozione, all’unico metodo di realizzazione della libertà dall’ignoranza.
Coloro che hanno sollevato tanto inutile polverone finalmente hanno saggiamente scelto il silenzio. È dunque anche per favorire il ravvedimento almeno dei più intelligenti tra loro che pubblichiamo il capitolo conclusivo dell’Upadeśa Sāhasrī, da cui potranno trarre profondi motivi di riflessione. Per i nostri lettori abituali sarà l’ennesima gradita conferma di cos’è la pura metafisica advitīya. Il testo che segue è talmente chiaro che non necessita se non di qualche nota esplicativa, senza dilungarsi in un commento śloka per śloka.
Gian Giuseppe Filippi
Capitolo XIX dell’Upadeśa Sāhasrī
- Se si ricorre alla medicina della conoscenza e del distacco dalle passioni che placa la febbre della sete di esperienze mondane, ci si libera dalla successione dei corpi, nati dai disturbi derivanti dalla febbre del desiderio di ottenere piacere (kāma), che sono accompagnati da centinaia di sofferenze.
- O mente7 mia! Pensare “Io sono così e così”, “Questo è mio”, significa impegnarsi in un’attività inutile. Alcuni8 ritengono che le tue azioni siano in favore altrui9. Tu non conosci la meta e io non ho alcun desiderio di altri fini. Perciò, o mente, la tua retta via è la cessazione da ogni attività (śama).
- Poiché io non sono altro che il Supremo Sé eterno, sono eternamente soddisfatto e non sono alla ricerca di alcun fine da raggiungere. Sempre soddisfatto, non desidero alcun benessere individuale. Sforzati di raggiungere la pace, o mente. In essa risiede la tua beatitudine.
- Ciò che sta al di là delle sei onde del fluire cosmico10 è il nostro stesso Sé, che è anche l’Ātman dell’universo, dice il Veda: e io l’ho sperimentato attraverso il più autorevole mezzo di conoscenza11. Perciò, o mente, i tuoi sforzi sono inutili.
- Quando hai smesso di agire non c’è alcuna idea di molteplicità dovuta alla Māyā, per colpa della quale si subisce l’illusione che esista un mondo. Infatti, la percezione della molteplicità è la causa del sorgere dell’illusione. Quando il senso del molteplice è assente, come nel sonno senza sogni, nessuno sperimenta Māyā.
- Non cado nell’illusione delle tue attività. Infatti, sono cosciente della mia vera natura libera e immutabile. Nella mia vera natura non c’è alcuna differenziazione di com’ero in passato né di come sarò in futuro. Pertanto, o mente mia, i tuoi sforzi sono vani.
- E poiché sono eterno e immutabile, la mia natura non cambierà mai. C’è impermanenza solo dove c’è modificazione. Io, il non duale, sono sempre luminoso12. Con ciò si vuole affermare che tutto ciò che è immaginato è non reale.
- O mia mente, tu sei della natura della non esistenza. Infatti, quando si esamina la questione, non si può razionalmente dire che tu esista. Il reale, o mente mia, non può essere distrutto, e il non reale nemmeno può nascere. Tu sei sia nato sia distrutto, perciò sei una completa contraddizione logica e quindi non esisti.
- Il vedente, il vedere e il visto sono tutti un mero errore immaginato da te. Infatti non si può ammettere che il visto sia qualcosa di diverso dal vedente13. Chi dorme non cambia la sua natura quando si sveglia14.
- Inoltre, la stessa immaginazione mentale (vikalpanā) non è altro che la Realtà non duale, perché ha come oggetto una cosa inesistente (avastu), come i cerchi di fuoco prodotti facendo vorticare in aria un tizzone ardente15. Dalla śruti si evince che non esiste alcuna molteplicità di sé e che il Sé non è differenziato al suo interno dalle varie funzioni della mente16.
- Se questi sé apparentemente distinti fossero tra loro davvero differenziati, sarebbero limitati e quindi mortali. Si è visto infatti che tutto ciò che è distinto da altre cose invariabilmente perisce. Anche il mondo cesserebbe di esistere, poiché tutti i sé sarebbero stati liberati.
- Io non possiedo nulla, né sono posseduto da nulla. Infatti io sono non duale e ciò che è immaginato non esiste. Io non sono immaginato, perché sono evidente prima di ogni immaginazione17. Solo la dualità è immaginata.
- Al Sé non nato non si può applicare l’alternativa per cui “potrebbe essere reale o no”; e nemmeno potrebbe essere considerato non esistente18. Ciò da cui procede la tua immaginazione non è affatto immaginato, perché è già evidente prima di qualsiasi immaginazione.
- Qualsiasi cosa vedi, o mia mente, è dualità ed è non reale; perciò non esiste la regola secondo cui “ciò che non è visto come oggetto, non esiste”. Ciò che è il sostrato delle sovrapposizioni antinomiche “sat-asat” è la realtà non duale; una sovrapposizione presuppone una realtà soggiacente, come una conclusione presuppone una concatenazione di argomentazioni.
- Tu stessa hai ammesso che deve esistere qualcosa di reale, poiché questo è un presupposto per ogni argomentazione; se non ci fosse alcuna realtà, allora non si potrebbe decidere nulla per mancanza di una base argomentativa. Se sei d’accordo con ciò, devi certamente ammettere l’esistenza di una Realtà.
- Tu puoi rispondere: “Il reale vale quanto il non reale. Infatti non serve a nulla ed è quindi come un corno che cresce sulla testa d’un uomo19. Ma “non servire a nulla” non è una prova di irrealtà, né “servire a qualcosa” è prova di realtà.
- La tua idea è infatti del tutto infondata, poiché il reale è la condizione necessaria per praticare la riflessione ed è anche la fonte da cui la dualità procede come un’illusione. Questa spiegazione può essere confermata dalla śruti, dalla smṛti e dalla logica, mentre nessun’altra spiegazione è ragionevolmente sostenibile.
- Inoltre, oltre a essere sperimentata prima di ogni immaginazione in quanto sostrato, la Realtà non duale è nota dalla śruti per essere di natura diversa dall’immaginazione e dalle nozioni false (vikalpanā). Inoltre il Sé non è negato dalla formula “neti neti”20 che, anzi, ha lo scopo di dimostrare che il Sé permane dopo ogni rimozione.
- Coloro che immaginano realtà e irrealtà in ciò che non è immaginato, non nato e non duale, trasmigrano vita dopo vita nell’esistenza empirica sulla base delle illusioni della propria mente, continuando a sperimentare vecchiaia e morte.
- La dualità non può essere concepita né come se venisse a essere né come se non venisse a essere, in quanto non può esistere affatto. Infatti il suo apparire non può essere concepito né come proveniente da qualcosa di reale né da qualcosa di non reale. Se provenisse da qualcosa di reale implicherebbe che il reale ha subito una modificazione e che quindi è diventato non reale. Né alcunché di reale può provenire da qualcosa di non reale. Tanto meno potrebbe esserci un’azione o una causa d’azione. Il Sé, quindi, non subisce alcuna nascita.
- Se sostieni che il Sé privo di azione possa causare azione per produrre la dualità, allora ogni cosa potrebbe produrre qualsiasi cosa. E non si potrebbe stabilire né la realtà né la non realtà come causa della nascita del reale dalla sua realtà (per produrre l’apparenza della dualità), poiché non ci sarebbe nulla per distinguere la causa dall’effetto, come avviene nel caso del movimento dei piatti di una bilancia21.
- Come può nascere qualcosa di nuovo se l’essere e il non essere sono stabili nelle loro rispettive nature e non possono mutarsi l’uno nell’altro? Questi due concetti sono del tutto opposti per natura. Perciò, o mente mia, non può esserci nascita di alcunché.
- Pertanto, o mia mente, anche se accettassi che le cose nascano come sei inclinata a pensare, le tue attività non hanno alcun significato per me. Acquisizione e perdita, infatti, non hanno alcun significato. Invero, il non reale non può nascere né per conto proprio né da altro. Né mi riguarderebbero anche se esistessero.
- Infatti, l’immutabile e il transitorio non possono entrare in relazione, né si influenzano reciprocamente. Pertanto, nessuna cosa può volere alcunché d’altro. La stessa Realtà è al di là di ogni spiegazione a parole.
- Perciò l’illuminato ricorre alla śruti e alla ragione e, riconoscendo quella Realtà omogenea, eternamente luminosa, libera da ogni dualità immaginata, sia essa concepita come reale o non reale, ottiene l’estinzione (nirvāṇa), spegnendosi come un lumino22.
- L’illuminato, che non vede più gli attributi del mondo in quanto ha riconosciuto quell’Uno senza attributi, che non è conoscibile come un oggetto da chi lo conosce come il proprio Sé, non cade nell’illusione (vimoha), essendo libero dall’errore di prendere le sue percezioni per reali23.
- Non esiste alcun altro modo per porre fine alle false percezioni diverso dalla visione del Sé sopra indicata. Ed è solo la falsa percezione che è causa di idee sbagliate quali l’“io” e “il mio”, “è il mio corpo” e “questa è casa mia”. La falsa percezione stessa non ha causa24 e può essere portata all’estinzione finale come un fuoco privo di combustibile.
- Mi prosterno al grande Guru25 che in passato ha frullato l’Oceano del Veda per estrarre l’amṛta della conoscenza che conferisce immortalità e contemplazione della Realtà Suprema, proprio come gli Dei hanno zangolato l’Oceano di Latte per far emergere l’ambrosia che li ha elevati oltre la morte.
Oṃ Śānti Śānti Śāntiḥ
- G.G. Filippi, Il Serpente e la Corda, 2 voll., Milano, Ekatos, 2019-2020.[↩]
- Sanātana dharma è spesso tradotto come la “Tradizione Primordiale”. Tale denominazione è corretta se intesa nel senso che è presente fin dai primordi dell’attuale manvantara, essendo l’unica tradizione a non essere apparsa in un periodo storico contingente e a opera di un fondatore umano. È tuttavia un termine riduttivo se inteso nel senso che si tratti d’una tradizione “perenne” o “perpetua”, che trasmigrerebbe di ciclo in ciclo. Infatti, se nel mito il sanātana dharma è conservato nel testo vedico sul fondo dell’oceano durante i diversi pralaya, per poi essere fatto riemergere di volta in volta, è anche vero che il suo significato supremo è udito dai ṛṣi direttamente dalla fonte stessa della conoscenza sotto forma di Parola divina, Vāc. Perciò, indipendentemente dalla sua trasmissione temporale, la sua essenza è eterna, non nata e immortale.[↩]
- Il nostro collaboratore dott. Carlo Rocchi, ha avuto la pazienza di confutare, testi di Vedānta alla mano, una per una le errate posizioni teoriche di tali saccenti nel ponderoso volume Alātaśānti. L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti, II ed., Milano, Ekatos, 2021.[↩]
- E proprio a causa di tale ignoranza che qualcuno s’è spinto a scrivere: “Il mondo, invece, è illusorio perché è stato prodotto nel “grado dell’illusione” (martaba-yi wahm), cioè in una precisa modalità d’esistenza che gode di una realtà relativa, ma non per questo meno stabile e consistente. Questa relativa stabilità corrisponde dunque a una condizione di realtà (nafs-i amr), perché essendo opera di Dio non può essere del tutto irreale”. È evidente che l’autore di queste affermazioni non avesse dimestichezza con la metafisica né con la logica né con l’intuizione, confidando in un atto di fede su asserzioni ritenute autorevoli.[↩]
- Per l’Advaita Vedānta gli oggetti percepiti in veglia e in sogno sono semplici proiezioni della mente. La mente quando vede gli oggetti appare come la vista, quando ode gli oggetti appare come l’udito, ecc. La mente stessa, dunque, è ignoranza che proietta ciò che crede altro da sé tramite la Māyā. Invece, le concezioni che elabora al suo interno, quali le idee di ego, di mondo creato e di Creatore, sono falsa conoscenza (mithyā jñāna). Al di là di queste suddivisioni usate per l’insegnamento, Māyā, adhyāsa, mithyā jñana, jñāna abhāva, śaṃkā (conoscenza incerta, dubbio), sono semplicemente ignoranza (avidyā).[↩]
- I nostri contestatori, sulla base di una scarsa conoscenza del buddhismo, hanno anche tentato di attribuire, a questa nostra affermazione di non realtà del mondo, una contiguità con la corrente vijñānavāda. Errore grave, dato che i buddhisti idealisti negano ogni realtà anche al Brahman-Atman, che certamente non è la posizione di Gauḍapāda e di Śaṃkara né la nostra.[↩]
- Il testo usa per mente il termine sanscrito manas. Il Sāṃkhya e lo Yoga darśana fanno della mente (manas) una realtà (tattva) distinguibile per la sua funzione di coordinatrice dei sensi (indriya), che registra le sensazioni di attrazione e repulsione nei confronti delle informazioni ricevute dall’esterno. Questi due darśana, inoltre, distinguono manas da altri tattva mentali, quali la buddhi, l’intelletto razionale o capacità di scelta, citta, la memoria e ahaṃkāra, il senso dell’ego. Al contrario, il Vedānta considera la mente una sovrapposizione sulla Coscienza (Caitanya), un errore di conoscenza e non una realtà dotata di sostanza. Per esprimere il concetto di mente usa il termine di antaḥkaraṇa, strumento interno, che si fa indriya quando pensa di percepire il mondo esterno, manas quando registra le emozioni, citta in quanto coscienza individuale e memoria, buddhi, quando ragiona, valuta e prende decisioni e ahaṃkāra quando pensa d’essere un “io” e di avere un “mio”. In ragione della opinione che ha di queste apparenti funzioni del pensiero, il Vedānta usa indifferentemente ciascuno di questi termini per esprimere la falsa idea chiamata mente. Precisiamo che in nessun testo né commentario tradizionale la buddhi è considerata “sovraindividuale” o “informale”, vera aberrazione d’interpretazione occidentale, essendo semplicemente ciò che è espresso dal termine intelligenza.[↩]
- Non gli advaitin, ma i seguaci del Sāṃkhya e del Pātañjala Yoga.[↩]
- In favore del Puruṣa. Cfr. Īśvarakṛṣṇa, Sāṃkhya Kārikā: “Questi [i dieci indriya, assieme al manas e al senso dell’ego (ahaṃkāra)] che sono diversi l’uno dall’altro, che sono diverse modificazioni dei guṇa, e |che assomigliano a una lampada che illumina tutti (i loro rispettivi oggetti) li presenta alla buddhi in favore di Puruṣa. Perché è la buddhi che sperimenta gli oggetti del Puruṣa. È sempre essa che discrimina la sottile differenza tra Pradhāna e Puruṣa.” (Īśvarakṛṣṇa, Sāṃkhya Kārikā [SK], 36-37); “Spinto dal desiderio di favorire Puruṣa, questo corpo sottile appare in diversi ruoli, come un attore drammatico, mediante l’associazione con le cause strumentali e i loro effetti, attraverso il potere onnicomprensivo di Prakṛti.” (SK 42); “Quindi, poi, questo rivolgersi di Mahat verso i singoli oggetti è determinato dalle modificazioni di Prakṛti in favore altrui, che appare come fosse nel proprio interesse, per la liberazione di ogni singolo Puruṣa. Proprio come il fluire del latte, che non è cosciente, è in favore del nutrimento del vitello, così è l’azione del Pradhāna in favore della liberazione di Puruṣa. Come le persone si impegnano in azioni per alleviare i desideri altrui, così anche la non manifesta (avyakta, la Prakṛti) si impegna in attività per la liberazione del Puruṣa.” (SK 56-58); “La benevola Prakṛti, dotata dei guņa, con molteplici mezzi e in modo disinteressato, agisce per il bene di Puruṣa, il quale è privo di attributi e che non le restituisce alcun beneficio in cambio.” (SK 60).[↩]
- Fame, sete, dolore, illusione, invecchiamento, morte. I primi due sono percepiti dal prāṇa, i due mediani dalla mente (citta), e gli ultimi due dal corpo (deha).[↩]
- Lo śābda pramāṇa, ovvero la śruti ascoltata dalla bocca del Guru (śravaṇa).[↩]
- ChU VIII.4.2.[↩]
- La tripuṭi composta da conoscitore, dal conosciuto e dalla loro illusoria reciproca relazione, la conoscenza, è non reale. Invero, il solo reale è il Testimone, il Sākṣin, ossia il vedente, il Dṛṣṭin, l’unico soggetto, il Viṣayin.[↩]
- L’Ātman è sempre reale, anche quando su di lui appare la veglia o il sogno: ma “Nel sonno senza sogni, mio caro, egli si unisce al puro Essere, al proprio Sé” (ChU VI.8.1).[↩]
- Le forme che appaiono dal movimento rapido di una fiaccola, circolari, ovali, zigzaganti, sono del tutto apparenti, insostanziali e illusorie, in quanto l’unica loro realtà è il fuoco del tizzone acceso all’estremità della torcia. Così l’apparente movimento (spanda) impresso alla Coscienza dalle facoltà immaginative della mente (manovikalpa), dà l’impressione di una moltiplicazione di forme (rūpa) diverse tra loro, a cui perfino si attribuiscono dei nomi (nāma), ma che sono realmente inesistenti. Cfr. MUGK IV.47.[↩]
- “Il Sé è entrato in questi corpi fino alla punta delle unghie come un rasoio è racchiuso nella sua guaina o come il fuoco che sostiene il mondo può essere racchiuso nel legno che lo produce [per sfregamento]. La gente non lo vede perché, visto nelle sue apparenze, è differenziato. Quando svolge la funzione di vivere è chiamato prāņa, quando parla è chiamato parola, quando vede, è chiamato vista, quando sente, è chiamato udito, e quando pensa, è chiamato mente. Questi sono solo i suoi nomi in base alle diverse funzioni Colui che medita su ciascuno di questi aspetti non lo capisce, perché è differente da questa molteplicità per il fatto di avere una natura unica. Il Sé deve essere considerato come un tutt’uno, perché tutti quegli aspetti sono uniti in esso. Questo Sé soltanto dovrebbe essere conosciuto tra tutti questi aspetti, perché in esso si conoscono tutti, come dall’orma si conosce l’animale” (BU I.4.7). L’ultima frase insegna che l’apparenza è solo l’indizio per intuire la realtà soggiacente.[↩]
- L’evidenza di esistere e di essere cosciente è una certezza che precede qualsiasi pensiero immaginato dalla mente come “Io sono così e così” e “Questo è mio”.[↩]
- Sat e asat, reale e non reale, come parimenti bhāva e abhāva, esistente e non esistente, upalabdhi e anupalabdhi, percepito e non percepito, sono condizioni alternative di presenza e assenza degli oggetti altri da Sé e, quindi, illusori. Per esempio, durante la veglia il sogno è asat, abhāva e anupalabdhi, mentre la stessa jāgrat avasthā è sat, bhāva e upalabdhi, e viceversa. Sat e asat possono anche essere tradotti come essere e non essere; tuttavia nel sanātana dharma questi due termini non significano mai l’Essere e un ipotetico Non-essere “al di là dell’Essere”. Qualche occidentale considera tale ipotetico Non-essere come l’origine dell’Essere, cosa formalmente negata dalla śruti: “O mio caro, con quale logica potrebbe mai Sat uscire da asat? Certamente, o caro, in principio tutto ciò era Sat, Unico e Non-duale” (ChU V.2.2). Si è perfino affermato che Essere e Non-essere comporrebbero il “Principio” supremo (il Parabrahman), che così sarebbe descritto come composto di parti e principio di una sequenza![↩]
- Dal punto di vista buddhista, anche la Realtà dell’Advaita è non reale, in quanto eterno e immutabile; perciò non esercita alcuna causalità efficiente, non induce ad alcun cambiamento e perciò non è utile. Se è inutile, è irreale come un corno per un uomo. Tuttavia il concetto di utilità-inutilità non è affatto un criterio per provare la realtà-irrealtà di alcunché.[↩]
- BU II.3.6.[↩]
- Il movimento di un piatto verso il basso non è causa dell’innalzamento dell’altro piatto: si tratta, infatti di un unico movimento, non di una dualità. Così non esiste dualità tra reale e non reale, nessuno dei due potendo essere causa della nascita dell’altro.[↩]
- Ciò che si spegne, in verità, è la mente-ignoranza, da cui dipende l’immaginazione di essere un individuo, che esista un mondo e che ci sia un Creatore del mondo. Al nirvāṇa segue l’affiorare della non mente, la pura Coscienza.[↩]
- Questa affermazione di Śaṃkara sia definitivamente oggetto di profonda riflessione da parte di tutti coloro che, per ignoranza, pensano che il mondo sia realmente esistente perché è percepito dai sensi. La smettano di ostinarsi a vedere il serpente anche dopo essere stati informati, da chi ne sa di più, che si tratta di una corda.[↩]
- L’ignoranza, infatti, non è una causa, ma semplicemente non esiste se non come falsa conoscenza. È perciò possibile correggerla come la conoscenza errata del serpente percepito falsamente al posto della corda.[↩]
- Qui Śaṃkara allude a Gauḍapāda Bhagavatpāda, il suo maestro autore delle Kārikā annesse alla Māṇḍūkya Upaniṣad, testo di sublime metafisica vedāntica, a cui s’è ispirato per redigere questo capitolo conclusivo dell’Upadeśa Sāhasrī.[↩]