28 Agosto, 2022

7. Avasthātraya Mīmāṃsā

Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

7. Avasthātraya Mīmāṃsā

Versione commentata del Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya

Māṇḍūkya Upaniṣad – Āgama Prakaraṇa

Mantra 8

Quell’Ātman in quanto tale, considerato in relazione alla sillaba che lo denomina, è Oṃ. In relazione alle mātrā, i suoi pāda sono le lettere AU e M.

Śaṃkara Bhāṣya, 8

Proprio quell’Ātman, che fu definito [nel primo mantra] uguale a Oṃ, ed è Oṃ dal punto di vista sillabico (adhyakṣaram) quando si dà maggiore importanza all’aspetto della denominazione (abhidhānam), nel (secondo) mantra è definito con la frase “Ātman in quanto tale ha quattro pāda”. Qual è dunque quella sillaba (akṣara)? È l’Oṃkāra. Quando è distinta in quattro pāda, dal punto di vista delle misure (mātrā) che la compongono, è quella stessa sillaba Oṃ in cui si dà maggiore importanza all’aspetto delle singole mātrā. Ciò significa che i pāda di Ātman sono le misure della sillaba Oṃ. Quali sono dunque quelle mātrā? Sono le lettere (kāra) A (akāra), U (ukāra) e M (makāra).

[Il primo mantra dell’Upaniṣad aveva subito introdotto l’argomento dell’identità tra Ātman Oṃ; o, meglio, Ātman è la stessa sillaba (akṣara)[Si ricordi che akṣara non soltanto significa sillaba, ma anche ‘imperituro’. Il sistema grafico sanscrito, il devanāgarī non è formato da lettere, bensì da sillabe, poiché ogni consonante si appoggia su una ă breve. Se si mutila ogni akṣara della sua ă breve, allora la lettera corrispondente è detta mātrā. Per esempio le akṣara ka, kha, ga, gha, private della ă breve, diventano le mātrā k, ka, g, gh. Le vocali sono tutte mātrā, eccezion fatta per i dittonghi ai au che sono considerati akṣara.] Oṃ quando si pone maggior attenzione all’aspetto della denominazione (abhidhānam) o nome, piuttosto che all’aspetto del denominato (abhidheyam). A questo proposito è necessario considerare che Ātman è un concetto, un pensiero della mente a cui la mente stessa attribuisce un nome per identificarlo con una parola e per poterlo esprimere rivolgendosi ad altri. Così la parola, il nome, l’abhidhānam, è la forma orale di un concetto della mente. Abhidheyam invece è un concetto, un pensiero con cui la mente concepisce un oggetto di sua percezione. Questo concetto si forma sulla base delle caratteristiche percepite dell’oggetto stesso. Per fare un esempio classico, un limone è percepito con caratteristiche che provengono dalle informazioni riportate dai cinque sensi; perciò la vista lo descrive come ovale e giallo, l’odorato come pungente, il gusto come acido, il tatto come liscio e fresco, e l’udito come caratterizzato da un suono ottuso e sordo allorché percosso. La mente unifica le sensazioni che riceve dall’esterno formando un concetto che corrisponde a quel frutto a cui, poi, dà il nome di limone per poter esprimere tale concetto ad altri1. Tuttavia il concetto è la sommatoria delle caratteristiche del limone, non è la realtà del limone in quanto tale. E anche il nome, l’abhidhānam, definisce il limone in quanto riconoscibile per le sue caratteristiche e non in se stesso. Da ciò si trae che la realtà del limone rimane sempre indifferenziata (nirviśeṣam). Queste osservazioni sono universalmente valide, vale a dire che tutti gli oggetti, senza eccezione, sono conosciuti sia per abhidheyam sia per abhidhānam e mai in quanto nirviśeṣam; in realtà nirviśeṣam è il sostrato di tutto e di ciascun oggetto.

Il dubbio che ora qui si pone è il seguente: può l’Ātman, ovvero l’Assoluto, essere conosciuto come abhidheyam e passibile di essere descritto tramite abhidhānam? A questo si risponde come segue: l’Assoluto non può mai diventare oggetto di conoscenza, perché è l’unico soggetto non duale. Tuttavia, per spiegare all’ignorante (ajñāni) che cosa mai sia, è insegnato come fosse un oggetto. Affinché il discepolo principiante possa arrivare a realizzarne la vera natura, la śruti e il guru spiegano l’Ātman a parole, in modo che possa formarsene un concetto mentale. Questa è la fase del metodo vedāntico nota come adhyāropa: insegnano l’abhidheyam tramite le sue caratteristiche espresse nella forma di abhidhānam; ma tale forma è limitata al pensiero. In questo modo si stimola il discepolo all’intuizione di che cos’è la sua reale natura di nirviśeṣam. Riconoscere che abhidheyam abhidhānam sono solo parvenze concettuali e vocali da falsificare, allo scopo di insegnare il nirviśeṣam,appartiene alla seconda fase metodica, all’apavāda. Perciò l’ottavo mantra afferma che Oṃ è il nome (l’abhidhānam) dell’Ātman (cioè l’abhidheyam). Lo afferma perché, per il momento, intende approfondire l’aspetto della denominazione piuttosto che quello dell’oggetto denominato. Come s’è detto, ogni singolo oggetto è abhidheyam e ha il suo abhidhānam corrispondente. Ora, nella esperienza di vita, ogni essere umano sperimenta tre stati di Coscienza (prajñāḥ) che, in quanto abhidheyam, sono la veglia, il sogno e il sonno profondo senza sogni; e con ciò si presta un’attenzione ancora più particolare agli stati nella loro differenziazione empirica. Come l’Ātman assoluto e non duale è chiamato con la sillaba Oṃ ed è lo stesso Oṃkāra, i suoi tre stati di Coscienza sono chiamati con le lettere (mātrā) che compongono il suo abhidhānam, A (akāra), U (ukāra) e M (makāra). Come dice il secondo mantra di questa Upaniṣad“Ātman in quanto tale ha quattro pāda” che sono chiamati Oṃ di per sé e, in forma distinta, A, U, M. Akāraukāra e makāra sono dunque gli abhidhānam identici ai loro abhidheyam, cioèrispettivamente allo stato di veglia, di sogno e di sonno profondo. Mātrā, che definisce ogni singola lettera, letteralmente significa misura: questo presuppone una prospettiva distintiva e di separazione, mentre Oṃ,in quanto nome dell’Ātman, è adhimātra, fuori misura2. Non si deve nemmeno dimenticare che il secondo mantra aveva affermato anche che “questo Ātman è Brahman”, perciò tutto quello che riguarda l’Ātman, il suo abhidhānam Oṃ, nonché le mātrā che lo compongono, vale ugualmente per il Brahman.]

Mantra 9

Vaiśvānara, che ha lo stato di veglia come sua sede, è la prima mātrā per la sua pervasività o perché è la prima. Chi conosce così, realmente otterrà tutte le cose che desidera e diventa il primo fra tutti.

Śaṃkara Bhāṣya, 9

Per quanto riguarda quest’ultime [le tre mātrā], dobbiamo stabilire le loro relazioni specifiche. Colui che è Vaiśvānara, che ha quale sede lo stato di veglia, è la prima lettera, la A (akāra) di Oṃ. Per quale ragione c’è tale identificazione? Per la sua pervasività: pervasività (āpti) è la capacità di penetrare tutto. Secondo la śruti ogni parola è pervasa dal suono A, quando afferma: “Il suono A è in verità ogni denominazione”3. Allo stesso modo Vaiśvānara pervade l’intero mondo, come dice la śruti: “In verità la testa di quello stesso Ātman è il cielo”4. Abbiamo già dimostrato che la denominazione e il denominato sono la stessa cosa (abhidhānam abhidheyam ekatva). Quello che ha la precedenza (ādi) è il primo (ādimat). Come l’akāra è la prima lettera, così anche Vaiśvānara è il primo; oppure, in ragione di tale affinità, Vaiśvānara è identificato con la A. Ora si descrive il risultato che ottiene il conoscitore di tale identità: “realmente otterrà tutte le cose che desidera e diventa il primo fra tutti”, ossia il primo fra i grandi, “chi conosce così”; vale a dire chi ha realizzato l’identità menzionata [dalla śruti].

[Prima di procedere con l’analisi del testo e del commento śaṃkariano è opportuno soffermarsi per fare alcune precisazioni, onde evitare qualsiasi malinteso. Anzitutto c’è da considerare che i suoni del devanāgarī, indipendentemente dalla forma grafica assunta negli scritti, sono primari rispetto alle parole che compongono; ancor più nei confronti della grammatica e della sintassi. Sillabe e mātrā, perciò, godono di una importanza che si rispecchia nella corretta pronunzia e nell’attento ascolto. Ciò spiega l’eccellenza attribuita all’Oṃkāra e alle invocazioniseminali (bīja mantra) rispetto a qualsiasi mantra rappresentato da un nome divino o, ancor più, da una formula tratta da un inno vedico. L’essenzialità dell’akṣara e delle mātrā coincide esattamente con la natura reale di ciò di cui sono l’abhidhānam, espressa foneticamente. Detto ciò, è necessario, tuttavia, avvertire il lettore di non cadere in un altro errore di interpretazione assai diffuso presso coloro che leggono la śruti attraverso le lenti delle tradizioni monoteistiche, poco avvezzi, come sono, alla metafisica pura. Tutte le considerazioni che precedono e seguono questo nono verso della Māṇḍūkya non vanno interpretate alla luce del jāpa, ossia dell’uso rituale della ripetizione meccanica di un mantra, a voce alta, bisbigliato o pensato. Nemmeno può essere considerato oggetto di una meditazione, ossia dello sforzo mentale finalizzato al raggiungimento d’un grado sottile corrispondente a ciò che si sta ripetendo. Tutte queste sono attività, perciò sono caratteristiche del karma kāṇḍa. Al contrario, la tradizione vedāntica, che è quella stessa delle Upaniṣad, esclude ogni attività di jāpa, mentre usa la riflessione (manana) per intuire la realtà contenuta nel testo udito (śruta) dalla bocca del guru.

In questo nono mantra si stabilisce qual è la correlazione tra il primo pāda e la mātrā A di Oṃ. Vaiśvānara è il soggetto (viṣayin) che risiede nellostatodi veglia(jāgarita sthāna), e che ha coscienza degli oggetti (viṣaya) che compongono il mondo della veglia. Gli oggetti e lo stesso mondo della veglia (jāgrat prapañca) gli appaiono esterni (bahirartha) in quanto li percepisce attraverso gli organi di senso5. E, poiché ogni facoltà di senso (jñānendriya) percepisce l’elemento grossolano che le corrisponde, il mondo esterno gli appare in quanto è composto dai cinque bhūta manifestati da Virāj6. Ciò significa che la coscienza nel suo ricettacolo umano (nara) è davvero capace di percepire l’intero universo esterno (viśva). In questo senso Vaiśvānara (o viśva)è onnipervadente e identico allo stesso Virāj: conoscendo tutto attraverso i cinque elementi, pervade tutto; così è onnipervadente e onnisciente. Śaṃkara, infatti, in questo contesto, cita la Chāndogya Upaniṣad: “In verità la testa di quello stesso Ātman è il cielo, il sole il suo occhio, l’aria il suo prāṇa, il fuoco (bahula) il suo stomaco, l’acqua la sua vescica, la terra i suoi due piedi”, vale a dire cielo, atmosfera e terra7.Questo è il concetto che la mente ha di Brahman-Ātman chiamato con la prima mātrā della sillaba Oṃ. La A, infatti, ha la capacità di pervadere tutto, poiché le consonanti, per poter essere pronunciate, devono appoggiarsi sulla ă breve. La A, dunque, pervade ogni altro suono, ogni parola rendendola pronunciabile, cioè conoscibile: “Il suono A è in verità ogni denominazione”3 perché è l’abhidhānam unicodi tutti gli abhidhānam che definiscono gli oggetti esterni. Essa è la prima mātrā dell’Oṃkāra ed è la prima del devanāgarī. È anche il primo suono che il fiato, salendo dai polmoni, fa vibrare dalla profondità della gola. In questo modo l’akāra è primo, perciò è correlato e identico allo stato di veglia. Anche jāgrat avasthā è il primo dei tre stati, perché la presa di coscienza del mondo esterno parte da qui; è il primo passo sulla via della conoscenza (jñāna mārga), del Vedānta vicāra, della Brahma vidyā. A è abhidhānam e la veglia è abhidheyam e il nome e il suo concetto sono un’unica cosa il cui sostrato è nirviśeṣam. Il commento di Śaṃkara si conclude descrivendo il risultato conseguito da chi ha raggiunto la conoscenza di questo primo stato come è stata spiegata nel presente mantra. Il vicārin avrà integrato nello stato come un tutt’uno tutto il mondo della veglia e gli oggetti che lo compongono, riconoscendosi così quale Testimone della jāgrat avasthā. Avrà, cioè, realmenteintegrato in sé tutte le cose della veglia, diventando lui stesso il primo pāda.]

Mantra 10

Taijasa, che ha lo stato di sogno come sua sede, è la lettera U, la seconda mātrā in quanto è superiore o anche perché è la lettera di mezzo. Chi conosce così, realmente aumenta il flusso della sua conoscenza e diventa identico a essa. Nella famiglia di costui non nasce nessuno che non conosca Brahman.

Śaṃkara Bhāṣya, 10

Colui che è Taijasa che ha quale sede lo stato di sogno, è la seconda lettera, la U (ukāra) di Oṃ. Qual è la ragione di tale identificazione? Per la sua superiorità; infatti la lettera U è uno sviluppo della A. Perciò Taijasa è anche superiore a Viśva. È così perché la U è in posizione mediana, in quanto [è pronunciata] tra la A e la M, come Taijasa si trova a metà tra Viśva e Prājña. Oppure perché [Taijasa] condivide [certe caratteristiche] con le altre due. Ora si descrive il risultato che ottiene il conoscitore di tale identità: “Chi conosce così, realmente aumenta il flusso della sua conoscenza”, diventando identico a essa. Perciò non è oggetto d’invidia da parte dei suoi nemici né egli invidierà i suoi amici. Nella famiglia di chi conosce così non nasce nessuno che non sia conoscitore di Brahman.

[Nel decimo mantra si stabilisce qual è la correlazione tra il secondo pāda e la mātrā U di Oṃ. Taijasa è il soggetto (viṣayin) che risiede nellostatodi sogno(svapna sthāna) e che ha coscienza degli oggetti (viṣaya) che compongono il mondo del sogno. Gli oggetti del sogno e lo stesso mondo del sogno (svapna prapañca) gli appaiono interni (antarastha) al corpo in quanto li percepisce attraverso gli organi di senso del sogno. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che le avasthā sono sempre descritte dal punto di vista del vegliante. Infatti è il vegliante che, osservando una persona che dorme e che si agita seguendo un evento a cui sta assistendo, tra sé e sé deduce che l’altro stia sognando8. In base a questa osservazione, il vegliante è portato a pensare che gli avvenimenti del sogno, a cui il dormiente sta partecipando, avvengano all’interno del corpo addormentato che è rimasto nel mondo della veglia. Questo è dovuto al pregiudizio della veglia (jāgaraka sācīkṛta), che comporta anche l’errore di indagare le esperienze altrui e non le proprie. Si tratta di un grave errore che non tiene in considerazione che il fine supremo, il mokṣa, è la propria reale ed eternamente libera natura che soggiace sotto l’apparenza del mondo esterno. Invece, il profano e perfino l’iniziato alle vie karmiche considerano che il fine supremo sia una meta altra da sé da raggiungere alla fine di un percorso a tappe. Il corpo di chi sta sognando, infatti, appartiene al mondo del vegliante, allorché il sognatore sperimenta lo stato di sogno. Il sognatore sperimenta il sogno come fosse la sua veglia presente e tutti gli avvenimenti, i personaggi e gli oggetti che vive gli appaiono come la sua veglia. Il sognatore s’accorge che il sogno è stato un sogno soltanto dopo essersi svegliato; ma allora non è più un sognatore: è un vegliante. Dal punto di vista della veglia, chi sta sognando vede un mondo illuminato dalla propria luce interiore. Ed è per questa ragione che la coscienza nello stato di sogno è chiamata Taijasa, il luminoso. Infatti per il vegliante, che osserva il corpo dormiente di un altro che sogna, la luce che quest’ultimo vede nel sogno non è prodotta da alcun sole, luna o fuoco, ma dalla luce mentale del sognatore. Invece, il sognatore sperimenta un mondo in cui ci sono un sole, una luna9 e un fuoco di sogno che producono la luce necessaria agli eventi del sogno. Fatte questa considerazioni preliminari, necessarie per cogliere il senso vero dell’Upaniṣad, ritorniamo altesto. Il testimone cosciente dello stato di sogno è Taijasa, la cui denominazione è l’ukāra. La mātrā U è superiore alla A, in quanto è uno sviluppo del suono primitivo. La U si forma quando il fiato che esce dai polmoni conduce la vocale A nel cavo della bocca. Quella camera di risonanza trasforma il suono piano A nel tono cupo della U. Ukāra, perciò, è superiore alla akāra, perché è maggiormente qualificato ed elaborato dagli organi fonici. Ugualmente, Taijasa è superiore a Viśva, in quanto, come ukāra è un suono intermedio tra la A e la M, così la coscienza di sogno è intermedia tra la veglia e il sonno profondo. Bisogna spiegare più approfonditamente perché Taijasa sia in posizione mediana. Lo stato di sogno partecipa per alcune caratteristiche alla veglia e per altre al sonno senza sogni. Sogno e veglia hanno in comune il fatto che in questi due stati si sperimenta una propria esistenza individuale; ognuna di queste avasthā appare un mondo formato da una pluralità di oggetti. A questo si aggiungano le considerazioni fatte da Gauḍapāda nella Kārikā I.11, che accomuna lo stato di veglia e quello di sogno per il fatto che entrambi sono condizionati sia dalla causa sia dall’effetto.

Ciò che hanno in comune il sogno e il sonno senza sogni è che si sperimentano entrambi dopo essersi addormentati10. Per questa condivisione di alcune caratteristiche, Taijasa è considerato intermedio tra gli altri due stati. C’è però un altro aspetto per cui Taijasa è considerato superiore a Viśva. Il sogno, invero, presenta maggiori libertà e una serie molto più ampia e meno rigida di condizioni di vita. In esso si ha un rapporto meno coercitivo con il tempo e con lo spazio; sono possibili attività e funzioni che la veglia non consente. Per esempio è possibile volare senza avere ali, attraversare corpi densi, stazionare nel fuoco senza bruciarsi ecc.11 Chi realizza la conoscenza dell’intero stato di veglia è in grado di paragonarlo alla sua esperienza dello stato di sogno. Soprattutto sarà in grado di comprendere che l’incompatibilità tra le prime due avasthā è strumento per la loro reciproca falsificazione. La sua conoscenza spazierà non soltanto a un intero stato preso come un tutto in quanto presente, ma anche alla simultanea assenza dell’intero altro stato preso come un tutto. Questa doppia consapevolezza gli farà essere equanime sia verso chi gli è sfavorevole sia verso chi gli è favorevole. Egli rimarrà distaccato da nemici e da amici che possono provare invidia nei suoi riguardi, come ugualmente non proverà invidia per nessuno di loro, ben consapevole della loro illusoria esistenza. Nell’organizzazione iniziatica di tale saggio non ci sarà alcuno che non ambisca alla conoscenza del Supremo; vale a dire che tutti coloro che hanno raggiunto tale grado di consapevolezza desidereranno ardentemente ottenere la conoscenza della Realtà che si nasconde dietro il mistero della terza avasthā.]

Mantra 11

Prājña, che ha lo stato di sonno profondo come sua sede, è la lettera M, la terza mātrā, in quanto misura di tutto o anche perché riassorbe tutto. Chi conosce così, è realmente la misura di tutto ciò e diventa luogo di riassorbimento.

Śaṃkara Bhāṣya, 11

Colui che è Prājña, che ha quale sede lo stato di sonno profondo, è la terza lettera, la M (makāra) di Oṃ. Qual è la ragione di tale identificazione? La stessa Upaniṣad lo spiega: “in quanto è la misura di tutto”. Come il contenitore chiamato moggio (prastha) misura l’orzo, così egli misura Viśva e Taijasa quando questi [stati] gli entrano e gli escono al momento del pralaya e della creazione. Similmente, alla fine della pronuncia della sillaba Oṃ e alla successiva ripetizione, le lettere A e U sembrano rientrare e uscire nuovamente dalla M. Così anche Viśva e Taijasa si riassorbono in Prājña al tempo del sonno profondo. Per questo c’è identità tra Prājña e la lettera M. Ora si descrive il risultato che ottiene il conoscitore di tale identità: “Chi conosce così, è realmente la misura di tutto ciò”, cioè conosce tale realtà “e diventa luogo di riassorbimento” dell’universo in quanto sua causa. Questo secondo risultato qui menzionato ha lo scopo di elogiare il significato principale. A questo proposito c’è la Kārikā seguente.

[L’Ātman cosciente (Prājña) è detto risiedere nello stato di sonno profondo (suṣupti avasthā). Come si potrà notare, il mantra non specifica di che cosa sia cosciente. Il mantra 3 aveva descritto Ātman nel primo stato come cosciente degli oggetti esterni (bahiṣprājñaḥ); il mantra 4 aveva descritto Ātman nel secondo stato come cosciente degli oggetti interni (antaḥprājñaḥ); il mantra 5 aveva descritto Ātman in sonno profondo come massa di sola coscienza indifferenziata (ekībhūtaḥ prajñānaghana), negando così che in suṣupti possa esserci qualcosa d’altro di cui essere coscienti. Questa è la prospettiva corretta. Tuttavia il mantra undicesimo, che stiamo ora commentando, afferma che Prājña ha la sua sede in suṣupti, esattamente come ha la sua sede nella veglia e nel sogno. Nella veglia è cosciente degli oggetti esterni manifestati da Virāj; nel sogno è cosciente degli oggetti interni manifestati da Hiraṇyagarbha. Nel caso del sonno profondo non si specifica di che cosa Ātman-Prājña sia cosciente e, tuttavia, il mantra afferma che il sonno profondo è la sua sede. Ciò suggerisce che c’è una sottile differenziazione tra Prājña e lo stato (o luogo) in cui risiede. Tale affermazione riproduce semplicemente, a scopo di adhyāropa, il punto di vista più diffuso, quello dell’ignorante, che descrive suṣupta12 come fosse uno stato in cui si entra e da cui si esce. Anche in questo caso, la descrizione del sonno profondo dipende dal pregiudizio della veglia. È il vegliante che pensa che Prājña vada in un ‘luogo’ in cui “non c’è nulla, solo silenzio e tenebra; non c’è il mondo né ci sono gli oggetti”. Questo è ciò che pensa la mente dell’ignorante in veglia nei riguardi d’uno stato che è al di fuori della sua portata d’indagine empirica basata sui pramāṇa. Ben diversa è invece l’esperienza intuitiva, l’unico strumento conoscitivo adeguato al Vedānta vicāra, la quale ha assoluta certezza di aver sperimentato quello stato. Perciò Prājña non risiede nello stato di sonno profondo (suṣupti anasthā), perché il sonno profondo (suṣupta) è la sua stessa reale natura. Dopo questa importante osservazione, si passa alla spiegazione di perché Prājña sia identico all’abhidhānam makāraPrājña misura le altre due avasthā in quanto le contiene in sé quale loro causa. Poiché il mondo manifestato di veglia e di sogno è tutto questo (idam) e non c’è altra manifestazione al di fuori della veglia e del sogno differenziati da nome e forma (nāmarūpam), Prājña è la loro misura allo stesso modo in cui il moggio (prastha), il contenitore delle granaglie, misura l’orzo. In suṣupti, quotidianamente, si rientra riassorbiti in Brahman, per poi uscire nuovamente al risveglio. Anche l’intero universo, periodicamente, alla fine di un kalpa, rientra nel Brahman con il pralaya e, in seguito, si rimanifesta in un ciclo cosmico successivo. Prājña, perciò, si riempie in continuazione del manifestato e, in seguito, riversa fuori ciò che ha contenuto, esattamente come fa il misuratore delle granaglie. Anche il makāra si comporta in questo modo. Il suono convogliato dal fiato verso l’esterno della bocca è interrotto dalla chiusura delle labbra producendo il suono M. La mātrā M chiude il contenitore orale strozzando la voce e, alla riapertura delle labbra, emette le vibrazioni sonore di tutte le lettere all’esterno. Makāra, dunque, è la misura della parola, è davvero quel Prājña dove tutto diventa silenzio non manifestato e da cui tutto, poi risorge come suono vibrante. Chi conosce così realizza d’essere il Testimone dei tre stati, i quali da lui escono in quanto Īśvara creatore e in cui rientrano in quanto Īśvara dissolutore.]

Gauḍapāda, Kārikā I.19.

Quando s’è capito che Viśva è della natura della A, l’identità con le caratteristiche del primo appare evidente: una volta compresa l’identità tra Viśva e la lettera che lo denomina, sarà evidente anche la loro identica onnipervadenza.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.19

“Quando s’è capito che Viśva è della natura della A”, vale a dire quando si comprende che è identico alla mātrā A (akāra), allora, sulla base dell’argomentazione presentata sopra, l’identità con il primo (stato) risulta del tutto evidente. La śruti lo spiega chiaramente affermando che: “Quando s’è capito che Viśva è della natura onnipervadente della A (atvavivakṣāyām)” significa che quando è capita l’identità di Viśva con la sola A (mātrāsaṃpratipattau), allora sarà anche evidente che sono identici in quanto onnipervasivi; la parola ‘evidente’ (utkaṭam) è sottintesa dalla congiunzione ‘e’ (ca).

Gauḍapāda, Kārikā I.20

Quando s’è capito che Taijasa è della natura della U,l’identità della loro natura superiore appare evidente:una volta compresa l’identità tra Taijasa e la lettera che lo denomina, sarà evidente anche la loro identica capacità di occupare lo stato mediano.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.20

“Quando s’è capito che Taijasa è della natura della U”, vale a dire quando si comprende che è identico alla mātrā U (ukāra), allora risulta del tutto evidente la loro identica capacità d’occupare lo stato mediano. Tutto [il resto della Kārikā] è come quello della precedente.

Gauḍapāda, Kārikā I.21

Quando s’è capito che Prājña è della natura della M, l’identità di essere una misura appare evidente, come anche la loro identica capacità di dissoluzione.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.21

“Quando s’è capito che Prājñaè della natura della M”, vale a dire quando si comprende che è identico alla mātrā M (makāra), allora risulta del tutto evidente la loro identica capacità di misurazione e di riassorbimento in sé. Questo è il senso.

[Con le Kārikā I.19-I.21 Gauḍapādācārya conferma il significato che si deve attribuire ai mantra 9-11 dell’Upaniṣad: ogni singola mātrā non è solamente il nome con cui si denomina ciascuno dei tre stati, ma nome e nominato sono dichiarati essere una sola e unica cosa. Il concetto mentale e il nome con cui lo si esprime, ovvero abhidheyam abhidhānam sono del tutto inseparabili. Li si insegna con queste apparenze corrispondenti alla loro forma e al loro nome per comunicare quello che è il loro nirviśeṣam.]

Gauḍapāda, Kārikā I.22

Chi ha conoscenza certa di tale identità nei tre stati è un grande muni a cui tutti gli esseri devono adorazione e rispetto.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.22

“Chi ha conoscenza certa”, cioè colui che ha realizzato l’identità del Testimone cosciente (con le tre mātrā) in tutti i tre stati, diventa in questo mondo un conoscitore di Brahman, riconosciuto degno di adorazione e di rispetto da parte di tutti.

[Chi ha realizzato il significato incomunicabile dell’abhidheyam e dell’abhidhānam dei tre stati rimane come Sākṣin, come un grande Brahma jñāni, che tutti devono adorare e rispettare. Costui potrà spiegare a parole l’Assoluto ad altri, ma, poiché l’Assoluto in Sé non può essere oggettivato in quanto è nirviśeṣam, pur insegnando rimarrà un silenzioso (muni)]

Gauḍapāda, Kārikā I.23

La mātrā A conduce a Viśva, come pure la mātrā U conduce a Taijasa e la mātrā M a Prājña. Invece, non si può affatto raggiungere il Senza-mātrā.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.23

“Chi, dopo aver riflettuto su Oṃ, ha compreso l’identità dei pāda dell’Ātman con le mātrā, in base alle loro comuni caratteristiche sopra esposte, riflettendo sul fatto che akāra conduce a Viśva, di certo lo realizza. Ciò significa che chi riflette sulla sillaba Oṃ con il supporto della lettera A, realizza Vaiśvānara. Allo stesso modo anche la lettera U conduce a realizzare Taijasa e la lettera M, a Prājña. La congiunzione ‘e’ (ca) sta per ‘conduce a realizzare’. Ma quando la lettera M scompare, lo stesso stato causale è falsificato, per cui non c’è nulla in relazione con la sillaba Oṃ amātrā (indipendente dalle lettere che la compongono); perciò non c’è nessun luogo da raggiungere.

[Nel Vedānta vicāra,la riflessione su Oṃ-Ātman,in quanto ‘composto’ dalle sue tre mātrā-avasthā, avviene per mezzo della comparazione, per somiglianza e per contrasto (anvayavyatireka), tra i tre stati. Ciò comporta automaticamente il processo di viveka (neti neti) che le annulla reciprocamente constatando che, in definitiva, sono soltanto apparenze contraddittorie e illusorie. La realizzazione consiste nel riconoscere la Realtà soggiacente alle apparenze, la corda soggiacente al falso serpente. La riflessione sulla lettera A e sulla lettera U conduce a realizzare la vera natura di Ātman che appare falsamente come stato di veglia e stato di sogno. Quando,alla fine, è annullato anche il makāra, vale a dire il sonno profondo, anche l’idea (pratyaya) che suṣupti sia lo stato causale è riconosciuta falsa. Prendere il sonno senza sogni per lo stato causale (kāraṇa avasthā) o per il Creatore (Sraṣṭṛ) degli altri due stati (māyāprakṛtiśakti, Īśvara, Māyin, gli atomi o altro, a seconda della teoria in cui si è riposta la propria fede) è l’errore che segna il limite metafisico delle vie del non-Supremo. Quando la lettera M scompare, lo stesso stato causale è falsificato e l’Oṃkāra rimane evidentemente amātrā, senza alcuna misura che lo componga. Perciò la reale natura di Assoluto (pāramārthika svarūpa), il nirviśeṣam, non è una meta da raggiungere: è eternamente il mio ‘Io’ stesso.]

Mantra 12

Il senza-mātrā è il Quarto, a di là di qualsiasi relazione, limite ultimo, benefico e non duale, in cui si dissolve il mondo fenomenico13. Così Oṃ è davvero l’Ātman. Chi conosce così riconosce il proprio Ātman come Ātman.

Śaṃkara Bhāṣya, 12

Il Senza-mātrā, cioè la sillaba Oṃ al di là delle sue misure, è il Quarto, è Turīya, è lo stesso Ātman unico (kevala). È privo di relazioni (avyāvahārika) per l’annullamento sia della denominazione sia del denominato, che altro non sono che una parola e un concetto. È perciò Quello, benefico e non duale, in cui l’universo si dissolve (prapañca upaśama). Quell’Oṃ, che possiede tre mātrā e fa da supporto alla riflessione di chi ha conoscenza differenziata, è invero l’Ātman stesso dotato di tre pāda. Colui che così conosce penetra l’Ātman supremo per mezzo del suo Ātman particolare. Il conoscitore di Brahman che ha realizzato la suprema Realtà, penetra nel Sé dopo aver bruciato il seme della terza avasthā. Infatti, quando quel serpente, che era proiettato sulla corda, rientra nella corda, a seguito della discriminazione del serpente dalla corda, non riappare più ai vivekin come appariva prima, essendo stata la sua impressione mentale bruciata via dall’intelletto. Invece, per quei rinuncianti di medio e poco acuto intelletto, che sono ancora principianti, ma che seguono la via retta e che hanno capito le caratteristiche identiche tra le mātrā e i pāda, per essi riflettere sulla sillaba Oṃ nella giusta prospettiva diventa il supporto per la realizzazione di Brahman. Per questo, una prossima Kārikā dirà: “Ci sono tre inferiori fasi della vita (āśrama)…” (MUGK III.16).

[Le tre avasthā sono state vanificate dalla discriminazione, lasciando emergere la Realtà dell’Assoluto amātrā, il Quarto solo (kevala) senza altro da Sé e perciò del tutto privo di relazioni. Il vyavahāra, infatti, è non reale proprio perché è relativo a qualcos’altro; ed è sufficiente questa constatazione per confutare la sciocca illazione sull’esistenza di una ‘realtà relativa’, com’è sostenuta da diversi sistemi dualisti. Quando l’abhidheyam e l’abhidhānam di tutte e tre le avasthā-mātrā sono annullati nel nirviśeṣam, si constata che erano soltanto produzioni della mente della veglia, erano solo un concetto formato per poter pensare all’Assoluto e la sua espressione parlata, utile all’insegnamento. Quando l’intuizione porta alla conoscenza, come s’è già detto, śruti, guru e dottrina perdono ogni utilità e sono riconosciuti falsi come l’intero vyavahāra. Perciò, allo stesso modo, le tre avasthā sono ora capite quali false apparenze dell’unico Ātman non duale. C’è, tuttavia, ancora una precisazione da apportare a questa visione del vyavahāra: il concetto mentale della veglia e del sogno è falso, come è falsa l’esperienza che si ha di entrambi nel corso della vita. Ciò che si sperimenta durante la veglia, con il suo mondo, la molteplicità dagli oggetti esterni, gli eventi che vi si producono e le condizioni di tempo, causa ecc., appare coincidere abbastanza fedelmente con il concetto di veglia elaborato dalla mente. E la stessa considerazione vale per l’esperienza del sogno e per il concetto di sogno. Al contrario, ciò che si sperimenta in sonno profondo durante la vita è descritto in modo totalmente opposto al concetto che la mente cerca di attribuirgli. L’esperienza di suṣupta consiste nella coscienza certa (Cit) di essere stato realmente lì presente (Sat) in piena solitudine (kaivalya), e di aver goduto di pace e di beatitudine (Ānanda)14; si tratta dell’esperienza diretta di essere Saccidānanda. Per questa ragione è detto che in suṣupta si è realmente reintegrati nel Supremo Brahman. Al contrario la mente della veglia, che non ha avuto accesso a suṣupta, se ne forma un concetto tāmasa: “Lì non c’era nulla, solo tenebra, assenza del mondo, di oggetti e di altri esseri coscienti, che permangono lì in una mescolanza caotica come le cose in una notte oscura sono coperte da una coltre di impercettibilità”. La mente, che non è in grado di riconoscere la vera natura di suṣupta, per spiegarsi ciò che non può capire, crea il concetto della suṣupti avasthā come se fosse il dominio dell’ignoranza, del caos prakṛtico, dell’insondabile luogo dei possibili, della potenzialità tāmasa15. Vale a dire che la mente proietta la sua stessa ignoranza attribuendola all’Assoluto e coprendone la Realtà metafisica. L’ignorante, l’avivekin, infatti, non è capace di distinguere tra l’esperienza diretta dell’Ātman e la sua errata ricostruzione concettuale in stato di veglia. In realtà, tutte e tre le avasthā sono false e non reali, sono pensieri della mente, percezioni con capite e malamente interpretate. Il loro sostrato è “Quello, benefico e non duale, in cui l’universo si dissolve”, come l’elefante non appena l’illusionista conclude il gioco di magia che lo aveva fatto apparireL’Oṃ, quando è consideratodotato di tre mātrā, vale a dire l’Ātman con i tre stati di coscienza, serve da supporto per la riflessione vedāntica (manana). Unificando le intuizioni sulla non realtà delle tre avasthā, quando il cercatore ha conosciuto l’unica Realtà non duale, realizza che l’Ātman non può essere oggetto della sua cerca e che, in quanto cercatore, egli non è affatto il soggetto conoscente. Chi conosce così è l’Assoluto stesso in quanto il suo jīvātman non è mai stato altro che l’Ātman stesso. Questa Liberazione emerge non appena il seme (bīja) dell’ignoranza sullo stato di sonno profondo è bruciato. I semi, quando sono tostati, non possono più germogliare, crescere e tanto meno dare frutti. Finché permane un qualche seme d’ignoranza sulla natura vera di suṣupta è fatale ricadere nell’illusione dei tre stati. Chiunque non sia liberato (mukta) dai semi dell’ignoranza si risveglia16 dal sonno profondo, come fa l’uomo ordinario ogni giorno, come fa ogni saṃsārin a conclusione del pralaya. Invece il mukta è sempre identico alla Pura Coscienza (Śuddha Caitanya), anche se gli ignoranti, proprio a causa della loro ignoranza, lo vedono sveglio, sognante o dormiente. Non può più essere coinvolto nell’illusione, proprio come colui che è riuscito a riconoscere la corda non potrà mai più prenderla per un serpente. Le sue creazioni mentali (avidyā kalpita) sono semi combusti per sempre e la sua mente è diventata la non-mente. E qui è necessario fare una breve digressione. Come ben si sa, anche il karma è una creazione mentale dovuta all’ignoranza. Ciò significa che la conoscenza elimina tutto il karma senza eccezione. Il concetto per cui il prārabdha karma, essendo già in fieri, non possa essere bruciato dalla conoscenza è quindi privo di base: non per nulla Śaṃkara non ha mai usato tale concetto in alcuna delle opere sicuramente attribuitegli17. Si tratta, dunque, di una delle numerose innovazioni dei post-śaṃkariani che hanno abbassato il livello dell’advaita, mischiandolo alla pratica dello yoga di Patañjali. Secondo costoro la conoscenza vedāntica libererebbe soltanto dal saṃcita karma, mentre sarebbe impotente ad eliminare il prārabdha che consiste nel karma che sta sviluppando l’attuale vita individuale. La conoscenza vedāntica condurrebbe alla Liberazione in vita (jīvan mukti), la quale però sarebbe limitata da un residuo di ignoranza (avidyā leśa) dovuto al prārabdha che garantisce la prosecuzione della vita corporea del jīvan mukta. Se la Liberazione dal karma fosse totale, secondo costoro, il liberato dovrebbe morire nell’attimo stesso in cui ‘raggiunge’ il mokṣa. Ironicamente, Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī s’è chiesto se i sostenitori di tale teoria considerino il mokṣa una malattia mortale! Tale fantasia ha introdotto l’idea della videha mukti, che garantirebbe la liberazione finale (in senso temporale!), quella ‘vera’, secondo loro, al momento della morte (videha mukti). Tutto ciò non ha alcun senso: anzitutto, se il cercatore della Liberazione mantenesse un residuo di ignoranza, costui non sarebbe affatto un liberato; in secondo luogo, la morte non aggiunge al defunto nulla né in santità né in saggezza né, tanto meno, in conoscenza18, trattandosi solo d’una trasformazione sottoposta al tempo, al desiderio (kāma) e al karma. La morte è perciò del tutto incapace di correggere l’‘ignoranza residua’. Infine, come potrebbe un qualsiasi tipo di karma ostacolare l’emergere della conoscenza? Il karma è più potente della conoscenza? Eppure alcuni celebri vedāntin hanno sostenuto che non appena la conoscenza ha ‘prodotto’ la Liberazione in vita, si dovrà riprendere a ripetere il jāpa, a visualizzare lo yantra e a meditare, cioè a fare karma, per raggiungere la conoscenza finale. In questo modo i post-śaṃkariani subordinano la conoscenza all’azione, come fanno tutti i dualisti. Al fine di mettere definitivamente ordine in tanta confusione, si comprenda che la teoria del prārabdha karma ha solo la funzione di spiegare a coloro che mantengono una visione realistica dell’universo manifestato, come mai il jīvan mukta erroneamente appaia ancora ai loro occhi come un individuo nel mondo. Si tratta, dunque di una prospettiva adhyāropa che deve essere poi corretta. Quanto alla videha mukti (Liberazione dal corpo), si tratta di un sinonimo della jīvan mukti che mette in luce il fatto che il jñāni si è liberato dalla sua identificazione (abhimāna) con il corpo, base indispensabile per la Liberazione. Com’è che alcuni vedāntin hanno così grossolanamente equivocato su questi concetti? Dopo aver studiato le scritture, convinti di conoscere già tutto, si sono chiesti come mai non avessero ancora raggiunto la Liberazione. Invece di riconoscere sinceramente che la loro era una conoscenza libresca e, perciò, che erano ancora degli ajñāni, si sono dunque promossi a jīvan mukta, nell’attesa di esaurire naturalmente il loro prārabdha e raggiungere finalmente la ‘videha mukti’ interpretata quale ‘Liberazione al momento della morte’!

Per concludere il commento a questa Kārikā I.23, aggiungeremo che gli iniziati con qualifiche eccezionali possono arrivare a riflettere direttamente sull’Oṃ amātrā. Quelli dall’intelletto di media capacità, che però sono già nel jñāna mārga e che hanno compreso l’identità abhidheyam-abhidhānam, sono qualificati per la riflessione sull’Oṃ dotato delle tre avasthā per poi comprendere l’Assoluto. Questa differenza di qualifiche è segnata nel dharma esteriore dalle quattro fasi della vita (āśrama).]

Qui finiscono i mantra della Māṇḍūkya Upaniṣad

Gauḍapāda, Kārikā I.24

Si deve conoscere Oṃ pāda per pāda: non c’è infatti alcun dubbio che i pāda del Sé siano le mātrā (di Oṃ). Dopo aver conosciuto Oṃ pāda per pāda, non ci sarà più nessun altro pensiero.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.24

In ragione dell’identità descritta sopra, i pāda sono le mātrā e le mātrā sono i pāda, il che significa che si deve conoscere l’Oṃkāra pāda per pāda. Quando si è conosciuta così la sillaba Oṃ, non sorgerà alcun pensiero puntato a uno scopo visibile o invisibile, perché ogni desiderio è già stato appagato.

[Questa Kārikā insegna che si deve superare o trascendere il punto di vista delle avasthāAvasthātraya è l’interpretazione che la mente del vegliante dà delle esperienze testimoniate dal Sākṣin. Invece i pāda sono le esperienze che lo stesso Ātman-Testimone osserva in ognuno dei suoi stati. La mente della veglia sperimenta la veglia come l’unica realtà positiva, ‘ricorda’ l’esperienza del sogno come falsa, illusoria e, comunque, posta nel passato, e interpreta come ‘vuoto, assenza, nulla, tenebra’, seppur piacevole, il sonno profondo. E pone nel passato anche quest’ultima esperienza: queste sono le avasthā. Al contrario, la Coscienza-Sākṣin, sperimenta il pāda della veglia come limitato, irreale e falso e, alla stessa stregua, sperimenta il pāda del sogno. Il Sākṣin, invece, sperimenta il sonno profondo, il suṣupta pāda, come l’Assoluto. A questo livello il Sākṣin si identifica al sonno profondo e lo riconosce come Turīya, il Quarto pāda. Inoltre, poiché non c’è null’altro che Turīya e non essendoci nulla da testimoniare, il Sākṣin non è più Sākṣin. Da ciò deriva che il concetto di Sākṣin è stato soltanto uno strumento per la conoscenza, Īśvara, ossia l’ultima sovrapposizione sul Brahman-Ātman. Quando si è conosciuto quest’ultimo Oṃ amātrā, l’ignoranza (adhyāsa) è del tutto annullata e non può più spingere il pensiero individuale al desiderio (kāma) di qualcos’altro e all’azione (karma) per ottenerne il risultato (karma phala) sia in questa vita corporea sia nei cieli. L’Ātman è la pienezza del tutto (Ānanda) perciò chi l’ha realizzato non può provare alcun desiderio d’altro.]

Gauḍapāda, Kārikā I.25

Si unisca la coscienza al Praṇava, il Praṇava che è Brahman al di là del timore (nirbhayam). Chi così s’unisce eternamente al Praṇava non conoscerà più alcun timore in alcuno stato.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.25

Si unisca la coscienza (cetas) all’Oṃ insegnato come essenzialmente identico alla Realtà assoluta. Il Praṇava19 è lo stesso Brahman al di là del timore: infatti colui che gli è eternamente identico non può aver timore in alcuno stato, secondo l’affermazione della śruti: “Colui che conosce (il vidvān), dopo aver realizzato la Beatitudine di Brahman, non prova più timore di nulla20” (TU II.9.1).

[Quando si realizza la Coscienza di essere il Brahman non duale, non esiste più timore (bhaya) perché si ha timore di altro ma non di Sé]

Gauḍapāda, Kārikā I.26

Certamente il Praṇava è il Brahman non Supremo ed è anche concepito come Brahman Supremo. Il Praṇava è privo di causa, privo di esterno e di interno, privo di effetto ed è immutabile.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.26

Il Praṇava è sia il Brahman non Supremo sia il Supremo. Quando, nell’ottica del Supremo, mātrā e pāda svaniscono, Oṃ è invero il Brahma-Ātman supremo. Perciò è privo di qualsiasi causa che lo preceda. Non ha interno perché non esiste alcun altro da Sé al suo interno né ha esterno perché non esiste alcun altro da Sé che gli sia esterno. Non ha nulla che proceda da lui, perciò non produce alcun effetto. Secondo la śruti, “è omogeneo con tutto ciò che appare interno o esterno perché, in realtà, è non-nato” (MuU II.1.2) ed è “omogeneo come un cristallo di sale […] una unità assoluta di Coscienza Pura” (BU IV.5.13).

[Oṃ dotato di mātrā è il Brahman non Supremo, detto anche Kāryabrahman21; quando si sono trascesi mātrā pāda, lo si riconosce in realtà come il Brahmātman Supremo, che non può essere effetto di alcunché perché non ha causa. Essendo nirviśeṣam, non ha nulla al suo interno né è fatto di parti; similmente, essendo non duale, non ha nemmeno altro da Sé a lui esterno. Perciò, come non è effetto, non può nemmeno essere causa. Con ciò è negata ogni teoria di creazione, di emanazione e di manifestazione22, anticipando la dottrina advitīya del vivartavāda o non realtà del mondo. Privo di distinzioni, è omogeneo come l’acqua in cui si è sciolto il sale; è eterno perciò non è nato; non può nemmeno essere pensato in termini di tempo, “unità assoluta di Coscienza Pura”.]

Gauḍapāda, Kārikā I.27

Il Praṇava è davvero il principio, la metà e la fine di tutto l’universo. Chi ha conosciuto il Praṇava in questo modo, in quell’attimo ottiene veramente l’identificazione (con l’Ātman).

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.27

Proprio come l’illusionista ecc., Oṃ è il principio (ādi), la metà (madhya) e la fine (anta), ossia la creazione, lo sviluppo e la dissoluzione di tutto questo universo (sarvasya) composto da spazio e da altre condizioni che appaiono come un elefante illusionistico, come un serpente sovrapposto a una corda, come un miraggio o un sogno ecc. Ciò significa che chi ha conosciuto il Praṇava in questo modo, cioè come l’Ātman paragonabile all’illusionista ecc., in quell’attimo ottiene veramente l’identificazione con l’Ātman.

[L’illusionista, all’inizio del suo gioco magico per evocare un elefante che appare, ma che non esiste, sta seduto sul suolo. Rimane sempre seduto durante lo sviluppo della suggestione che ha indotto negli spettatori e anche quando decide di interrompere la sua esibizione. Nel caso dell’individuo che assiste allo spettacolo di magia del mondo in divenire, il jīvātman è allo stesso tempo chi proietta l’illusione e chi ne rimane affascinato: mago e spettatore al tempo stesso. L’ignoranza gli impedisce di riconoscere che non è due persone, ma una sola. Chi conosce il Praṇava secondo l’insegnamento di questo Vedānta della Māṇḍūkya ha coscienza che jīvātman Ātman sono una sola cosa e che non c’è mai stata alterità né spettacolo. Questa Coscienza è il mokṣa eterno che emerge definitivamente in un attimo come un’intuizione improvvisa. In questo modo si deve interpretare la descrizione della Liberazione come ‘immediata’ (priva di qualsiasi mezzo altro dall’Ātman per ottenerla) e come ‘brusca’, ossia fuori del tempo23.]

Gauḍapāda, Kārikā I.28

Si deve conoscere il Praṇava come Īśvara dimorante nel cuore di tutti. Chi ha conosciuto il Praṇava come onnipervadente, quel saggio dall’intelletto elevato non soffre più.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.28

Si deve conoscere il Praṇava come Īśvara dimorante nel cuore di tutti, nella memoria e nella coscienza di tutti gli esseri senzienti. Avendo realizzato che l’Oṃkāra è onnipervadente come lo spazio (ākāśa), vale a dire che è l’Ātman libero dal mondo fenomenico, il saggio dall’intelletto elevato non soffre più, perché non è più sottoposto ad alcunché che produca sofferenza, come da alcuni passi della śruti, quale il seguente: “Il conoscitore dell’Ātman va al di là della sofferenza” (ChU VII.1.3).

[Chi ha raggiunto questa conoscenza vede tutte le cose nell’Assoluto e l’Assoluto in tutte le cose. Ciò non significa affatto che il liberato veda l’Assoluto dimorare dentro alle cose limitate e illusorie, ma, al contrario, che egli vede sempre e soltanto l’Ātman come reale. Il cuore, la memoria, la coscienza degli esseri non sono luoghi in cui l’Ātman si ripartisce, dato che è onnipervadente come lo spazio (ākāśa). Lo spazio contenuto in vasi diversi appare all’ignorante come se fosse separato dallo spazio infinito circostante; ma il saggio sa che lo spazio dentro ai vasi è sempre il medesimo spazio infinito; perfino l’argilla che compone quei vasi e che sembra separarne lo spazio in essi contenuto, fa anch’essa parte dello spazio infinito. Colui che sa questo è lo stesso Ātman ed essendo privo di qualsiasi limite, è libero dalla sofferenza.]

Gauḍapāda, Kārikā I.29

Il Senza-mātrā, l’infinito che misura (tutto ciò che è finito) è il benefico in cui si dissolve la dualità. Solo chi ha realizzato così l’Oṃkāra è il vero muni e nessun altro.

Gauḍapāda Kārikā, Śaṃkara Bhāṣya, I.29

L’Oṃkāra al di là delle mātrā (amātrā) è TurīyaMātrā indica ciò che misura tutte le cose che hanno limiti (paricchitti). Quello che è senza limiti (ananta) è di dimensioni infinite (anantamātraḥ), nel senso che la sua grandezza non può essere determinata. Quello è benefico (śivaḥ), sacro, perché in lui si annulla ogni dualità. Solo colui che ha realizzato l’Oṃkāra com’è insegnato è il vero muni in virtù della sua coscienza della Realtà suprema, e nessun altro uomo per quanto possa essere conoscitore della śruti. Questo è il significato.

[L’amātrā Oṃkāra è in realtà il Supremo Brahman, il nirviśeṣamMātrā significa ciò che è misura di tutto ciò che ha limiti: amātrā, perciò significa ‘cheè privo di limiti’ e che non misura le cose limitate perché sono non reali. Essendo privo di limiti è privo di ignoranza e della conseguente sofferenza, perciò è puro bene, totalmente sacro in quanto privo di impurità, la Realtà non duale che dissolve ogni apparenza di molteplicità. È un vero muni solo chi ha realizzato il vero significato nirviśeṣam di ciò che è insegnato come Oṃkāra: solo costuiè identificato alla Coscienza del Supremo e non chi non trascende la śruti com’è insegnata.]

Qui finisce l’Āgama Prakaraṇa, il capitolo basato sui testi vedici.


  1. Questo è definito come padārtha, oggetto esprimibile a parole.[]
  2. Si vedrà più avanti che Turīya non duale, in quanto nirviśeṣam, è detto amātrā, libero da misura.[]
  3. Aitareya Āraṇyaka, II.3.7.13.[][]
  4. ChU V.18.2.[]
  5. Anche gli esseri coscienti del mondo esterno appaiono direttamente ai sensi soltanto come corpi densi. In seguito è la mente che riconosce per inferenza, e quindi indirettamente, che alcuni corpi sono anche dotati di vita.[]
  6. Si ricordi che Virāj (o Virāṭ) è il principio che manifesta e regola la manifestazione grossa, proiezione di Hiraṇyagarbha nel jāgrat prapañca.[]
  7. Quello che è definito tribhuvana lokatraya appartiene, dunque, in toto al jāgrat prapañca, poiché l’universo mondo è sempre interno allo stato (avasthā). Similmente, anche nello svapna prapañca si ritrova il trimundio del sogno. Si deve fare molta attenzione a non cadere nelle false interpretazioni di alcuni esoteristi occidentali che, nei loro scritti, hanno voluto confondere il tribhuvana con l’avasthātraya al solo scopo di dare una interpretazione ‘metafisica’ alle loro ristrette concezioni cosmologiche.[]
  8. Se invece rimane in uno stato catatonico, a eccezione dei movimenti delle funzioni vegetative, il vegliante inferirà che il dormiente si trova in sonno senza sogni.[]
  9. Per la verità, nel sogno, a causa della maggiore libertà ivi vigente, ci può essere anche una pluralità di soli e di lune o altro, come si vedrà tutto di seguito.[]
  10. Non si dimentichi che tutto questo è affermato nell’ottica del vegliante. Dal punto di vista del Sākṣin tutte e tre le avasthā sono, invece, percepite a causa della nidrā.[]
  11. Tutto ciò si esercita spontaneamente; nel mondo della veglia, quei pochi che raggiungono simili poteri (vibhūti o siddhi) devono sottomettersi a lunghi esercizi e sforzi per poterli mettere in pratica.[]
  12. Si deve tenere a mente che suṣupta è il sonno profondo com’è direttamente sperimentato, mentre suṣupti avasthā indica il concetto di stato elaborato dalla mente della veglia per poterselo immaginare.[]
  13. Nelle traduzioni di testi vedāntici si usa spesso il termine di origine greco-classica ‘fenomeno’ in senso etimologico, ossia nel senso di ‘apparente’.[]
  14. Al risveglio queste esperienze sono oscuramente dichiarate dall’affermazione: “Lì, che bene ho dormito! Mi sono pacificato e riposato”.[]
  15. La presunta indistinzione primordiale è stata erroneamente descritta da occidentali come ‘manifestazione informale’. Non c’è un solo supporto testuale a conferma di tale bizzarria. Informale (arūpin) è sinonimo di Brahman Supremo e il non-Supremo stesso è considerato una forma (rūpa) del Supremo. Manifestazione e informale sono invero termini antitetici.[]
  16. Nella visione corretta, non si tratta affatto di un risveglio, ma, al contrario, è una ricaduta nel torpore (nidrā) dell’ignoranza, nell’illusorietà della manifestazione molteplice.[]
  17. Questa teoria si trova solo in alcune opere attribuite a Śrī Śaṃkara, che rendono dubbia tale attribuzione. In certi casi possono essere considerate interpolazioni nel testo originale. Certamente alcuni testi minori che vanno sotto il nome del Bhagavatpāda furono, in realtà, opera di Śaṃkarānanda, un Guru di Vidyāraṇya; e ciò spiega molte cose.[]
  18. Ciò non toglie che parenti, amici e seguaci non si profondino in sperticati e spesso immeritati elogi del defunto; qualsiasi ipocrita diventa allora un santo, il saccente un saggio, l’ignorante un jñāni. Ignorano del tutto che la la caduta del corpo (dehānta) semplicemente stabilizza la situazione karmica dell’individuo morente, senza minimamente migliorarla né peggiorarla.[]
  19. L’Oṃkāra è anche tradizionalmente chiamato Praṇava, il suono supremo.[]
  20. C’è timore (bhaya) quando c’è un secondo oltre al Sé” (BU I. 4. 2.). Per questo motivo la non dualità è definita anche ‘solitudine’ (kaivalya).[]
  21. Brahma Sūtra, IV.3.10.[]
  22. Tutte queste concezioni filosofiche o religiose rientrano nel caso del pariṇāmavāda (teoria della trasformazione)che considera il mondo realmente esistente e in continuo divenire. Poiché la Realtà è una e non duale, sostenere una pur ‘relativa’ realtà all’universo è in contraddizione con la metafisica pura, con grande dispiacere di coloro che vorrebbero far rientrare il jñāna dell’Advaita Vedānta nei limiti delle loro concezioni.[]
  23. Tutte le altre vie iniziatiche, compresi i Vedānta dualistici, seguono un percorso a tappe su cui si procede nel corso del tempo, usando un metodo basato sull’azione tramite strumenti corporei, parlati o meditati.[]