Conoscenza del Sé
Jagadguru Śaṃkarācārya Śrī Śrī Candraśekhara Bhāratī III Mahāsvāmīgal
Conoscenza del Sé
Chi, in qualsiasi modo, abbia ottenuto questa rara nascita umana e, inoltre, come uomo e con la corretta conoscenza della śruti non cerca la Liberazione, è uno stolto che uccide se stesso. Uccide il proprio Sé con l’attaccamento a ciò che non è reale.
Śrī Śaṃkara Bhagavatpāda con quello śloka ha insegnato che chi ha ottenuto questa rara nascita umana deve cercare con determinazione di raggiungere la Liberazione. La nascita umana è la più adatta per ottenere il mokṣa, come, d’altra parte, è la migliore per raggiungere i piaceri del cielo. Qui si possono celebrare riti sacrificali per compiacere Indra e le altre divinità e, così, ci si può assicurare il cielo. Le stesse azioni possono essere compiute senza alcun desiderio. Questo è il modo in cui si purifica la mente e, con questo tramite, si può ottenere la conoscenza e la Liberazione.
Gli Dei non godono di questo privilegio: se Indra e gli altri Dei superi volessero compiere un qualsiasi rito sacrificale, a chi potrebbero offrire le loro oblazioni? Ad Agni o ad altre deità, che sono a loro inferiori? A chi compie i riti può essere fruttuosa solamente l’azione compiuta con devozione a qualcuno che gli è superiore. Ciò non è possibile per gli Dei superni. Quando gli uomini compiono riti sacrificali, offrono l’oblazione ripetendo “Questo non è mio”, in questo modo rinunciando, assieme all’offerta, all’attaccamento, al senso del “mio” (mama). Dato che i deva sono superiori agli umani, questi ultimi possono aspettarsi da essi di ricevere grazie, ed è per questo che li si adora. Questo non succede agli Dei. Se dovessero fare un’oblazione, anch’essi dovrebbero pronunciare “Questo non è mio”. Anche se potessero farlo, a chi offrirebbero l’oblazione? Poiché i deva sono ovunque presenti in ragione delle loro rispettive funzioni nell’universo, essi non potrebbero versare l’oblazione in alcun luogo, essendo ogni luogo occupato da loro. Per questa ragione e per il fatto che non esiste nessuno superiore a essi a cui offrire il sacrificio, per gli Dei è impossibile impegnarsi in alcun rito sacrificale.
Prima di impegnarsi alla cerca della conoscenza, sono necessarie quattro qualifiche. La prima è viveka, la discriminazione tra ciò che è eterno e ciò che è transeunte. Si deve prima conoscere che il Sé è il solo e unico esistente e che tutto il resto è impermanente. Una volta ottenuta questa conoscenza si dovrà ottenere la seconda qualifica, il vairāgya, la rinuncia a tutto ciò che è fruibile qui o nei mondi celesti. Quando è stata compresa l’impermanenza di tutte le cose e della loro fruizione, fino anche al Brahmaloka, non si proverà più alcun desiderio per esse, ma disgusto, come per il cibo vomitato da un cane. Assicurata questa seconda qualifica, si procederà a esercitarsi nei ‘sei strumenti’ (samādhi ṣaṭka). Questi sono: śama, il controllo delle divagazioni della mente quando segue avvenimenti accaduti, in corso di accadimento o che stanno per accadere; dama, il controllo sull’attrazione dei sensi per gli oggetti esterni, come, per esempio, l’errare della vista sulle diverse forme; titikṣa, il distacco dalle sofferenze causate dalle coppie di opposti, come il caldo e il freddo, la fame e la sete, il piacere e il dolore; uparati, l’introspezione della mente ovvero la rinuncia a ciò che è esterno; śraddhā, la certa comprensione di ciò che è insegnato dai Veda e dal Guru; samādhāna,la pace e l’equilibrio per la cessazione di tutte le pulsioni mentali. Questi sei strumenti insieme sono la terza qualifica. La quarta è mumukṣutva, l’ardente desiderio di liberarsi dalla schiavitù. Solamente chi possiede tutte e quattro queste qualifiche è pienamente qualificato per intraprendere l’indagine sulla natura del Sé e per riuscire a far emergere realmente la conoscenza. La suprema conoscenza emerge quando si segue il vicāra, che consiste nella attenta riflessione su “Chi sono io?”, “Come sono giunto a questa nascita” e “In che modo si evita la rinascita?”.
Non si può affermare che il viveka sorge soltanto in chi ha un corpo efficiente. Dopo aver passato i primi sedici anni della propria vita nello studio, l’uomo si dedica ai piaceri dei sensi. Successivamente arriva il decadimento che indebolisce gli indriya. Così, in queste tre fasi, fanciullezza, maturità e vecchiaia, l’uomo sperpera la sua preziosa nascita umana senza cercare di acquisire la conoscenza del Supremo.
Gli sforzi sinceri garantiscono il successo. Si immaginino due ragazzi che studiano nella stessa classe. Uno studia con grande interesse e attenzione, mentre l’altro si dedica al gioco e non segue le lezioni. Hanno le stesse agevolazioni di alloggio e di studio e anche l’insegnamento dei loro professori è identico. Tuttavia, uno passa l’esame e l’altro lo fallisce; la ragione evidente è la presenza di impegno nell’uno e la sua assenza nell’altro. Allo stesso modo, la ragione per cui alcune persone diventano degli illuminati e trascendono il mondo di sofferenza, mentre altre rimangono ignoranti e si dibattono nel pantano della schiavitù, può essere trovata nell’impegno delle prime e nell’assenza dello stesso nelle seconde.
Se assaggiare cibo delizioso costituisse la felicità eterna, dovremmo rimanere sempre a mangiare squisitezze e a bere bevande saporite né potremmo interrompere di mangiare nemmeno per un momento. Ciò non si può fare; pur desiderando la felicità eterna, consumiamo cibo e bevande solo per placare la fame e per dissetarci. Prendiamo medicine solamente finché persiste il malessere e interrompiamo di assumerle quando la malattia è stata curata.
Come si è già detto, il mezzo più appropriato per raggiungere la Liberazione è l’attuale nascita umana. Diversamente da noi, gli Dei celesti non sono capaci di realizzare il Supremo, in quanto sperimentano solo lo stato di veglia e non il sogno né il sonno profondo1. Al contrario, noi sperimentiamo tutti e tre gli stati e, paragonandoli, comprendiamo con facilità i piaceri e le sofferenze che li caratterizzano. Questo ci spinge ad acquisire la conoscenza del Supremo avendo come meta il mokṣa.
Nelle Upaniṣad è affermato molto chiaramente che solo il Brahmaloka e questo bhūloka sono mondi in cui si può raggiungere la conoscenza (jñāna loka). I primo di questi due mondi2, il Brahmaloka è raggiungibile solo da coloro che hanno accumulato meriti speciali senza limite, seguendo le prescrizioni degli Śāstra che li hanno qualificati per entrarvi. Soltanto chi è così particolarmente qualificato può andarci dove, sedendo ai piedi di Brahmā, può imparare e indagare la verità e ottenere la conoscenza del Sé. Com’è possibile che coloro che hanno solo meriti mediocri possano aspirare a essere ammessi nel Brahmaloka?
Inoltre, per acquisire le qualifiche necessarie per esservi ammessi, tutte le azioni virtuose prescritte negli Śāstra devono essere state compiute soltanto qui, in questo nostro mondo. È davvero facile compierle? E quanto a lungo le si devono compiere? Quante difficoltà si presentano a chi compie tali azioni? Invece, piuttosto che impegnarsi a quelle azioni, ci si può dedicare tutto il tempo alla ricerca sincera della conoscenza e cercare di realizzare la Verità. Inoltre, il non-attaccamento, requisito necessario per il raggiungimento della conoscenza, è possibile solo in questo mondo pieno di miseria, e il non-attaccamento, una volta ottenuto sarà permanente. Nei devaloka e in altre regioni non c’è questa possibilità di acquisire il senso del distacco.
È possibile raggiungere la conoscenza del Supremo nei devaloka? Non è affatto facile3. I mondi degli Dei e di altri esseri più elevati sono loka di fruizione (bhogaloka). Nei devaloka c’è abbondanza di piaceri dei sensi e la mente vi è assorbita. È ben noto che coloro che dimorano nel gandharvaloka sono di natura molto sensuale4. Come potrebbe la mente, coinvolta nei piaceri dei sensi, rivolgersi alla cerca della conoscenza? Perciò è raccomandabile dedicarsi alla conoscenza in questo stesso mondo. Proprio indicando tutto ciò, Śrī Śaṃkara Bhagavatpāda ha affermato che la nascita umana è davvero molto rara. Dopo aver preso nascita su questa terra come essere umano, se si spreca il raro privilegio di cui godiamo ora, quando si potrà raggiungere la Liberazione?
Quando si perde la misera somma di due rupie, ci vogliono tre giorni per superare il turbamento causato da quella perdita. Eppure si è disposti a sprecare tutta questa vita preziosissima senza cercare la conoscenza. Che cosa può mai compensare o rimediare a questa perdita colossale? Ecco perché la Kaṭha Upaniṣad dice che chi non raggiunge la conoscenza in questa vita umana è davvero un fallito. Poiché i corpi dei deva sono privi di difetti e durano a lungo senza alcun cambiamento, essi pensano di poter comodamente rimandare il tentativo di raggiungere la Liberazione, proprio come noi continuiamo a rimandare molte cose pur in questa nostra vita assai limitata. In altre parole, l’attaccamento ai piaceri sensuali che gli Dei hanno a disposizione, farà scemare il loro desiderio di raggiungere la conoscenza. Quindi, in qualsiasi modo si consideri la questione, è evidente che il nostro mondo terreno è di gran lunga preferibile alle regioni celesti per quanto riguarda le possibilità di raggiungere la conoscenza. Pertanto, chi è stato benedetto da una nascita umana e non fa alcuno sforzo per ottenere il mokṣa, commette il grave peccato di ātmahatyā (uccisione del Sé). Se una persona arriva a commettere ātmahatyā, quali altri peccati non sarà capace di commettere?
Sanatsujāta5 chiama “mṛtyu”, “Yama” ossia morte, l’errore di evitare la realizzazione della propria vera natura. Inoltre, chi considera che il Sé sia identico a oggetti inerti come il corpo, è considerato un grande ladro. Gli Śāstra definiscono il furto come la sottrazione di un bene altrui o il suo asporto in un luogo non gradito al proprietario. Vorremmo che il nostro denaro fosse custodito solo da noi. Se qualcuno ce lo sottraesse con la forza e lo tenesse in un suo nascondiglio contro la nostra volontà, ce ne lamenteremmo. Allo stesso modo, se chi identifica erroneamente il proprio Sé cosciente con il non-sé insenziente (corpo, ecc.) e ritiene che il corpo, la mente e i sensi siano coscienti, costui è davvero un ladro. Quando una persona osa commettere un crimine così grande, quali altri crimini non commetterà? Chi erroneamente sovrappone il proprio sé al corpo e alle altre facoltà, inizia a indulgere a qualsiasi atto deprecabile allo scopo di compiacere il proprio corpo. Ecco perché le scritture chiedono: “Quando una persona arriva a rubare il proprio Sé, quali altre colpe non commetterà?”.
Sofferenza in due stati e gioia nel terzo
Il furto del sé avviene negli stati di veglia e di sogno. Anche l’esperienza del dolore si manifesta solo in questi due stati. Invece, poiché non si commette il crimine di rubare il Sé durante lo stato del sonno profondo, in suṣupti non si sperimenta alcuna sofferenza. Al contrario, vi si sperimenta solo pace. Da ciò risulta chiaro che il dolore viene sperimentato solo quando si identifica il Sé con le entità insenzienti del non-sé, mentre si è felici quando si considera il Sé non legato a tutte le entità insenzienti e lo si considera come il loro testimone immutabile.
In sonno profondo non si sperimenta dolore
Se il dolore fosse una caratteristica intrinseca del Sé, allora non dovrebbe scomparire nemmeno nello stato di sonno profondo. Ma è questo che si sperimenta in sonno profondo? Non si prova forse in quello stato una gioia completamente priva di dolore? La dolcezza è la natura intrinseca dello zucchero. Lo zucchero non viene mai privato della sua natura di dolcezza. Non accade mai che lo zucchero sia a volte dolce e a volte no. Allo stesso modo, la Beatitudine è la natura intrinseca del Sé. Essa risplende chiaramente solo in sonno profondo, dove, a differenza degli stati di veglia e di sogno, tutti i sensi sono inattivi. La pura Beatitudine, priva di qualsiasi dolore, che appare solo in sonno profondo e non negli altri due stati, è dovuta al fatto che la Beatitudine stessa è la natura intrinseca del Sé, che è privo di dolore.
La sovrapposizione, causa della limitazione
Sebbene un cristallo di rocca sia per natura puro e incolore, appare rosso se accostato a un fiore rossastro come l’ibisco. Allo stesso modo, benché il Sé sia in realtà indipendente da qualsiasi aggiunta limitante (upādhi), sembra provare piacere e dolore quando viene erroneamente sovrapposto al non-sé, cioè al corpo, ai sensi e alla mente. Come il cristallo di rocca riacquista la sua trasparenza quando il fiore di ibisco viene rimosso, così l’Ātman risplende come Pura Beatitudine in sonno profondo, dove è completamente libero dalle limitazioni (corpo, sensi e mente) degli altri due stati. Da ciò risulta evidente che l’infelicità si verifica solo quando c’è un’identificazione del sé individuale con i corpi grossolani e sottili. Ci si sente soddisfatti quando si acquisiscono gli oggetti desiderati e si prova tristezza quando non li si ottiene. Quando la mente è sotto il controllo del karma negativo, essa prova dolore. D’altra parte, quando si impegna in azioni meritorie, ottiene puṇya e quindi prova il senso di gioia. Per rendere la mente pura, è necessario compiere atti meritori (puṇya karma). Una mente pura sarà sempre più rivolta verso l’Ātman. Di conseguenza, il suo attaccamento al non-sé, come corpo e sensi, si ridurrà gradualmente. In seguito, si capirà che deliberazioni come “io voglio”, ecc. appartengono solo all’intelletto e non al Sé. Questa comprensione renderà chiaro che il Sé è asaṅga (distaccato). Una volta capito questo, si realizzerà la verità che il Sé è al di là della morte.
Tempo da dedicare alle ingiunzioni previste dalla Scrittura.
Sembra che ognuno abbia tempo sufficiente per sbrigare le faccende domestiche, ma quando si tratta di eseguire i rituali prescritti dalle Scritture, come il sandhyā vandanam, si adduce ogni sorta di scusa per evitarli. Per quanto riguarda la conoscenza del Sé, si dovrebbe avere una forte capacità di distacco come Śrī Sadāśiva Brahmendra6. Colui che è privo di incrollabile determinazione per il raggiungimento della conoscenza, in realtà è un ingannatore di se stesso (svasya vaṅcakaḥ). È per questo che Bhagavatpāda ha insegnato così: “Recita i Veda ogni giorno; esegui i karma prescritti dai Veda con sincerità; pensa al Signore senza mai distrarti…”. La purezza della mente si ottiene solo quando tutti i karma sono stati eseguiti rigorosamente in accordo con i dettami vedici. La realizzazione del Supremo potrà essere realizzata solo da chi ha purificato la mente”.
È necessario analizzare l’importanza dell’affermazione scritturale “la vidyā è arrivata ai brāhmaṇa”. Vidyā è ciò che permette di liberarsi dalla schiavitù del karma. La Gītā prescrive che i karma come, per esempio, gli yajña (sacrifici), debbano essere eseguiti senza il desiderio per i loro risultati. I karma che si compiono, se dedicati al Signore, non vincolano. Invece, i karma basati sul desiderio creano legami. Se si compiono i karma senza desiderio, si raggiunge la purificazione della mente. Poi, per mezzo della conoscenza, si può raggiungere la Liberazione. La schiavitù causata dall’ignoranza sarà rimossa dalla conoscenza. La schiavitù causata dall’ignoranza è più dolorosa di quella causata da una catena di ferro. Quest’ultima può essere rimossa spezzandola, mentre la prima non può essere rimossa con nessun altro mezzo se non tramite la conoscenza. Ecco perché gli scrittori hanno spesso sottolineato che “vidyā è ciò che conduce alla Liberazione”.
Sovrapporre erroneamente al Sé il corpo, la mente e i sensi, che appartengono alla categoria del non-sé, è ciò che si chiama schiavitù o ignoranza. “Yat ajñāna nāśayati tat jñānam”: quella conoscenza rimuove questa ignoranza. L’ignoranza del vaso viene rimossa unicamente conoscendo il vaso. Allo stesso modo, la conoscenza del Sé rimuove l’ignoranza secondo cui il Sé è il corpo, ecc. Le Upaniṣad chiedono: “Hai conosciuto Quello per mezzo del quale tutto diventa conosciuto?”.
Un realizzato trae utilità dai i Veda quanto un uomo ne trae da un pozzo quando c’è un’inondazione tutt’intorno.
Il bagno sacro (snāna) nell’oceano dà il beneficio del bagno in tutti i fiumi sacri7. Allo stesso modo, la completa beatitudine si può ottenere soltanto con la conoscenza del Sé. Ecco perché si dice che “ciò che libera è la conoscenza”.
Tutte le creature sono perennemente coinvolte in un’azione o nell’altra. Nessuno rimane mai, nemmeno per un momento, senza agire, perché tutti sono costretti a farlo dai guṇa sorti dalla Prakṛti. Tra tutte le azioni che si compiono, i doveri ordinati dalle Scritture sono relativamente più difficili e fastidiosi da eseguire. Tuttavia, l’esecuzione dei riti imposti dalle Scritture porta alla felicità, mentre le altre azioni portano all’infelicità. Se si compiamo fedelmente i doveri prescritti dagli Śāstra, il Signore si compiace di noi. Pertanto, ci si deve sforzare di compiere i rituali ingiunti dalle Scritture, nonostante siano difficili e pesanti da eseguire, perché in seguito si raccoglieranno le migliori ricompense. Altre azioni, anche se sembrano più vantaggiose e facili da eseguire, porteranno solo schiavitù. L’abilità che si raggiunge in altre forme di attività, come la scultura e simili, non aiuta a ottenere la pace e la felicità eterne.
Nessun’altra forma di conoscenza, se non quella del Sé, dà benefici eterni. Quando, con questa determinazione, i brāhmaṇa compiono i doveri ordinati dalle Scritture con l’obiettivo finale di perseguire la conoscenza del Sé, l’affermazione “la Brahmavidyā è arrivata al brāhmaṇa” diventa chiara. Il grande saggio Manu ha detto che il corpo di un brāhmaṇa non è destinato a godere dei piaceri di questo mondo. Al contrario, è qui per subire grandi sofferenze in questa nascita e sperimentare una gioia illimitata in seguito. È bene notare l’importanza di questa affermazione. Colui che nasce brāhmaṇa dovrebbe acquisire la conoscenza del Sé, che è il mezzo per liberarsi in questa stessa nascita. Solo allora la parola brāhmaṇa avrà un senso.
Oṃ Tat Sat
- Gli Dei dello stato di veglia, infatti, sono solo delle proiezioni mentali (mānasa kalpita) del vegliante. Tuttavia, da un punto di vista vyāvahārika l’uomo ordinario può anche pensare che essi veglino, sognino e vadano il sonno profondo durante il pralaya, come spesso è narrato nella mitologia[N.d.C.].[↩]
- Ovviamente il Jagadguru dà per scontato che chi ottiene la conoscenza nel bhūloka è jīvanmukta [N.d.C.].[↩]
- Infatti, per quanto rara, è pur sempre possibile, in quanto nulla di contingente può opporsi alla conoscenza che è assoluta. Tuttavia la difficoltà a rimuovere l’ignoranza è commisurata allo stato di ottundimento della mente, che nei bhogaloka è particolarmente distratta dai piaceri celesti [N.d.C.].[↩]
- Il gandharvaloka, infatti, è tra i cieli più bassi, dove le anime dei defunti godono di cibi saporiti, di bevande inebrianti e di amanti celesti (apsaras) [N.d.C.].[↩]
- Giovane saggio che espose l’insegnamento advitīya al Re Dhṛtarāṣṭra. L’episodio, con il titolo di Sānatsujātiya, appare negli adyāya 41-46 dell’Udyoga Parva del Mahābhārata. Il breve trattato è stato oggetto di un commento attribuito a Śaṃkara [N.d.C.].[↩]
- Santo del Karṇāṭaka del secolo XVIII, advaitin e celebre compositore di musica. È famoso per l’intensità del suo distacco dagli oggetti grossolani [N.d.C.].[↩]
- Tutti i fiumi, infatti, confluiscono nell’oceano [N.d.C.].[↩]