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6 Marzo, 2022

2. Avasthātraya Mīmāṃsā

    Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

    2. Avasthātraya Mīmāṃsā

    Versione commentata del Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya

    Māṇḍūkya Upaniṣad – Āgama Prakaraṇa

    Le Upaniṣad solitamente iniziano con l’esposizione di riti sacrificali, di formule da ripetere (japa) o di meditazioni (upāsanā) su una forma o attributo divino o, ancora, sulla concezione del Signore universale. Queste diverse categorie di ingiunzioni che i maestri impartiscono ai discepoli risultano, alla fine, appartenere soltanto alla sezione del dharma dedicata all’azione (karma kāṇḍa). I maestri che trasmettono questi metodi insegnano l’uso di strumenti metodici (prakryā) basati su tre tipi di azioni: quella compiuta con il corpo (kāyaka kriyā), come i riti sacrificali (yajña), gli atti d’adorazione (pūjā), il digiuno (upavāsa), il dono (dāna), le posture (āsana), gli esercizi respiratori (prāṇayāma), la concentrazione della vista su un simbolo (pratika darśana) ecc.; l’azione compiuta con la parola (vācika kriyā), come la ripetizione dei mantra (jāpa), la preghiera (prārthanā), la lode (stotra), la recitazione dei Veda (brahmavadya), il canto (gāna) ecc.; e le azioni mentali (mānasa kriyā), come la ripetizione a labbra serrate del mantra (mānasika japa), la meditazione su un simbolo pensato (saṃpad upāsanā), la concentrazione su un concetto (dhāraṇa), la visualizzazione interiore (antardṛṣṭi), la meditazione diretta (dhyāna)1. Tutte questa azioni, compiute con sforzo di volontà (kratutantra), devono perciò essere superate e abbandonate se si vuole avere accesso alla conoscenza dell’Assoluto insegnata nel jñāna kāṇḍa delle śruti. Le medesime Upaniṣad, infatti, proseguono e si concludono esponendo i metodi che favoriscono l’emergere della Pura Coscienza d’essere-esistere. Da ciò si trae che gli argomenti iniziali presenti nelle varie Upaniṣad non rappresentano il vero fine della śruti: il loro vero scopo è, come dice il suo stesso nome, il Vedānta ossia il fine (anta) della conoscenza (veda). Per questa ragione Śaṃkara ha affermato qui nell’upodghāta che l’unico argomento (viṣaya), scopo (prayojana) e insegnamento (sambhanda) dell’Upaniṣad è solo e unicamente la conoscenza, strumento unico per la Liberazione. Tutte le altre vie, che usano metodi basati sull’azione, sono considerate utili esclusivamente al fine di raggiungere, in una o più vite, quella purificazione della mente (śuddhādhī) che permetta all’intelligenza del cercatore di discriminare (vivic) ciò che è falso, apparente e, in definitiva, irreale (mithyā, pratibhā, asat): tale discriminazione (viveka) farà scomparire l’illusione (moha), dalla cui scomparsa emergerà immediatamente la Realtà assoluta (pāramārthika sattā). In definitiva, l’analisi delle caratteristiche del karma kāṇḍa è utilizzata nelle Upaniṣad come adhyāropa, come una falsa apparenza accettata temporaneamente, per poi smascherarne l’illusorietà con l’apavāda, la demolizione metodica di tale fantasmagoria māyika, affinché la verità ultima emerga in tutta la sua evidenza, con la Liberazione del cercatore dai legami irreali dell’esistenza limitata (saṃsāra).

    La Māṇḍūkya Upaniṣad ha un incipit diverso dalle altre śruti. Non si attarda a considerare i differenti metodi e le tecniche usate per salire per gradi, con sforzo di volontà e per mezzo dell’azione dei tre livelli descritti in precedenza, fino a raggiungere una condizione in cui sia possibile raccogliere i frutti di quei rituali. Anche tutto questo è falsamente esistente, è saṃsāritva: perciò l’adhyāropa nella Māṇḍūkya cancella direttamente il mondo del divenire così come appare all’ignorante: quel mondo (prapañca) che appare come tre gradi di esperienza quotidiana (avasthā traya) all’individuo che non sa discriminare (avivekin), che stupidamente crede che il ‘divino’ si trovi in un ulteriore Quarto pāda trascendente gli altri tre. E, altrettanto scioccamente, l’ignorante immagina che questo Signore trascendente, ineffabile e assolutamente reale, assuma le caratteristiche di un creatore per ragioni che sfuggono alla mente creaturale, ma che ricalcano le volizioni, i pensieri e i desideri propri dell’individuo che produce tale fantasia. Così, in seguito, il divino manifesterebbe parti di se stesso, dando origine alla molteplicità del mondo (jagat) e degli individui (jīva), i quali non sarebbero assolutamente reali, ma solamente un po’, con quel tanto di ‘realtà relativa’ da poter dire “io esisto perché vedo il mondo”. Tutta questa fantasmagoria è smontata pezzo per pezzo dall’apavāda guidato da Gauḍapādācārya e perfezionato da Śaṃkara, che dimostra l’inanità di accordare intrinseca efficacia realizzativa alle vie del non-Supremo2. Il dominio in cui esse agiscono è quello dell’illusione, della falsità e dell’ignoranza. La loro unica utilità, dal punto di vista assoluto, è quella di predisporre alla conoscenza se percorsa fino in fondo, capovolgendo del tutto i presupposti dottrinali basati sull’ajñāna. Senza queste precisazioni sapere che ci sono quattro pāda di Ātman non serve a nulla: ma ci siamo dilungati anche troppo a mettere in guardia il lettore di porsi nella corretta prospettiva prima di affrontare un testo così difficile e sublime. È arrivato il momento di dare inizio al vicāra.

    Mantra 1.

    La sillaba Oṃ è tutto questo. Di essa c’è una chiara spiegazione. Passato, presente e futuro, tutto questo è davvero la sillaba Oṃ. E ciò che è al di là del triplice tempo, anche Quello è ancora davvero la sillaba Oṃ.

    Śaṃkara Bhāṣya 1.

    Tutti questi oggetti che sono denominati (abhidheya) non sono diversi dai nomi (abhidhānam) che li designano e, poiché i nomi non sono diversi da Oṃ, così Oṃ è veramente tutto questo3. E come il Brahman Supremo è conosciuto proprio attraverso la relazione che sussiste tra il nome e il suo oggetto, anche Quello4 non è altro che Oṃ. Di ciò, ossia di come questa sillaba sia lo stesso Brahman Supremo come anche il Brahman non Supremo, c’è una chiara spiegazione (upavākyanam) per il fatto che la [denominazione] è così tanto aderente [a ciò che è il Brahman] da essere strumento per la realizzazione del Brahman. L’espressione ‘una chiara esposizione’ deve essere intesa come l’inizio di una frase la cui continuazione sottintesa è ‘di ciò che deve essere realizzato’. Passato (bhūtam), presente (bhuvat) e futuro (bhavisyat), vale a dire qualsiasi cosa sia compresa nei tre periodi di tempo, tutto questo non è altro che Oṃkāraḥ, in accordo con le ragioni già enunciate. E qualsiasi altra cosa sia al di là del triplice tempo (trikāla), deducibile dai suoi effetti pur non essendo circoscritta dal tempo, [vale a dire] il Non-manifesto (avyākṛtam), come anche altro5, anche questo è veramente Oṃkāraḥ. Anche se un nome (abhidhānam) e l’oggetto che esso definisce (abhidheyam) sono la stessa cosa, tuttavia da come si presenta il testo, “Questa sillaba che è Oṃ è tutto questo, ecc.”, è dato maggior risalto al nome. Lo stesso oggetto che è stato così definito ponendo l’accento sul nome, è nuovamente indicato dando risalto a ciò che significa, in modo tale che si possa cogliere l’unità (ekatva) del nome (Oṃ) e del denominato (il Brahman). Infatti, se si ritenesse erroneamente che il nominato dipenda dal suo nome, potrebbe sorgere il dubbio che l’identità tra abhidhānam e abhidheyam sia da prendere solo in senso figurato. La necessità di comprendere la loro identità nasce dal fatto che (una volta stabilita questa identità) si può eliminare a un tempo sia la denominazione sia il nominato per realizzare il Brahman che è assolutamente diverso da entrambi (nirviśeṣam6). E questo è ciò che l’Upaniṣad dirà con, “I pāda sono le mātrā di Oṃ, e le mātrā sono i pāda”7. L’Upaniṣad, perciò, afferma: “Tutto questo è realmente Brahman” ecc.

    Ogni oggetto (viṣaya) di conoscenza (prameya) è descritto (abhidheyam) per mezzo delle sue caratteristiche peculiari (viśeṣa). Per esempio, se l’oggetto è un limone, il soggetto (viṣayin) che lo percepisce (il pramātṛ) lo concettualizza sulla base di alcune caratteristiche che lo identificano come tale. Una categoria generale che gli si riconosce è la sua natura (jāti) vegetale. Come tale ha la caratteristica di modificarsi nell’ambito del mondo dell’azione (karma): sorge dal fiore, cresce, forma al suo interno i semi dei futuri alberi, avvizzisce e cade. È riconoscibile tramite le qualità (guṇa8) che i sensi del soggetto conoscente indagano: è giallo e ovale alla vista, ha un profumo pungente e un gusto acido, una buccia fresca, morbida, liscia o leggermente scabra e, se percosso, suona ottusamente senza espandere alcuna risonanza. È anche distinguibile da altri oggetti per la relazione (sambandha) che ha con il soggetto e con altri oggetti: con il soggetto, in quanto gli si relaziona come una parte sostanziale (dravyatva sambandha) del suo cibo, e con altri oggetti in relazione di causa-effetto (kārya-kāraṇa sambandha), come l’albero da cui è prodotto e le piante che in futuro nasceranno dai suoi semi. La mente del soggetto aggrega tutte queste e altre caratteristiche, dando forma (rūpa) così a un concetto di quel frutto che definisce con il nome (nāma) di ‘limone’. Limone, com’è concepito, è dunque sia la denominazione (abhidhānam) sia l’oggetto così denominato (abhidheyam). Abhidheyam e abhidhānam sono tra loro identici perché sono un concetto, vale a dire un’unica modificazione della mente (manovṛtti). Su questa base si può affermare che tutti gli oggetti sono conosciuti, e quindi determinati (abhidheyam), grazie alle loro specifiche e particolari denominazioni (abhidhānam). “Tutto questo” cioè tutti gli oggetti, che sono sia abhidheyam sia abhidhānam e che compongono il mondo, ovvero il mondo nel suo complesso come un unico oggetto, altro non sono che il modo in cui appare il Brahman alla mente sia come abhidheyam sia come abhidhānam. La mente individuale può formarsi il concetto di Brahman solo mettendolo in relazione con il mondo in quanto origine della sua manifestazione. Senza questa falsa idea (viparīta pratyaya) il cercatore non potrebbe concepire l’esistenza del Brahman né, in quanto soggetto, potrebbe intraprendere, nel dominio dell’illusione, l’indagine su tale oggetto. Brahman come sostrato dell’intero mondo è dunque denominato (abhidheyam) per mezzo della sillaba sacra Oṃ che ne diventa il nome, ovvero la sua denominazione (abhidhānam). E le mātrā, i singoli suoni ‘a’, ‘u’, ‘’ che compongono il suono Oṃ, sono le denominazioni attribuite a ciascuno dei tre stati della Coscienza-Ātman, come appaiono per separato all’individuo della veglia. Se si ritorna all’esempio del limone, si potrà affermare dunque che abhidhānam e abhidheyam sono un’unica cosa. Quando si dice ‘limone’ si esprimono con quel nome esattamente tutte le sue caratteristiche conosciute; similmente, si deve riconoscere che quando si dice Oṃ si esprime davvero “tutto questo”. Ma per il soggetto che s’appresta a indagarlo al fine di realizzarlo, il Brahman è forse sottoposto alle relazioni (vyavahāra) di jāti, karma, guṇa e sambandha, come qualsiasi altro oggetto relativo? No, per l’aspirante alla conoscenza il Brahman è relato solo tramite kārya-kāraṇa sambandha; in altre parole, dal punto di vista macrocosmico, esso è la causa del mondo (jagat) e, da quello microcosmico, del singolo individuo (jīva). Īśvara-creatore, kāraṇa, e creato-creatura, kārya.

    Concludendo l’esempio precedentemente proposto, chi chiama ‘limone’ il concetto che si è fatto di quel frutto, conosce davvero la realtà del limone? Niente affatto. Il nome evoca le caratteristiche che si conoscono del limone, ma non il limone in se stesso che rimane sempre indifferenziato (nirviśeṣa) in sé e distinto sia dal nome che gli si attribuisce sia dalle sue caratteristiche percepite che costituiscono il concetto mentale corrispondente. Nome-concetto sono un’unica modificazione della mente (cittavṛtti) e non l’oggetto in quanto tale. Ciò vale a maggior ragione per l’Assoluto, al quale si attribuiscono sia la denominazione di Oṃkāra sia le caratteristiche di creatore e di substrato della manifestazione dell’universo, mentre è sempre e soltanto l’ineffabile e mai oggettivabile Nirviśeṣa non duale.

    Questa idea di Brahman in quanto creatore o manifestatore è il risultato dell’osservazione del creato o del mondo manifestato9 da parte dell’uomo comune: i suoi sensi (jñānendriya) entrano in contatto con il mondo esterno di cui riferiscono i particolari della percezione sensoria (pratyākṣa) alla mente (manas). Il manas aggrega tra loro quelle sensazioni in un unico oggetto mentale di cui passa l’informazione all’intelletto. Infine, la buddhi acquisisce tale informazione come un concetto mentale (cittavṛtti) che elaborerà nelle sue cogitazioni. Sulla base delle percezioni sensorie e del concetto che ne ha tratto, l’individuo inferisce che il creato o il manifestato è l’effetto di una causa, vale a dire del Brahman creatore e produttore di “tutto questo”. Tale deduzione (anumāna) è perciò il risultato finale di un ragionamento mediato da una serie di funzioni sottili tra loro diverse e dall’uso dei pramāṇa. Per questo motivo il Brahman, così concepito per mezzo dei suoi innumerevoli attributi, è chiamato nella śruti sia Brahman saguṇa, ovvero conoscibile tramite le sue qualità, sia Kāryabrahman o Brahman-effetto, in quanto prodotto da un procedimento mentale che lo ha reso oggetto di un’indagine razionale10.

    Alcune menti più raffinate hanno compreso che la descrizione del Brahman non Supremo è dipendente dalle caratteristiche della presunta realtà del mondo sottoposto ai condizionamenti delle relazioni (vyāvahārika prapañca). Anche se le qualità del Saguṇa sono trasposte fino al loro limite massimo concepibile, nondimeno esse sono l’universalizzazione di attributi del singolo individuo nella sua tripartizione corporea, vitale e mentale. Quando si dice che Dio è grande o che è altissimo, gli si attribuiscono qualità corrispondenti alle ben note caratteristiche del proprio corpo. Quando si dice che è vivente, che è onnipotente, lo si descrive tramite le facoltà che sono tratte dalla propria esperienza personale del prāṇa. Infine, quando si dice che è sapiente, onnisciente, giusto, lo si rappresenta nei termini della propria pratica mentale e intellettuale. Questi individui maggiormente qualificati si sono sforzati di concepire una idea più pura del Brahman, rimuovendo dalla sua perfezione qualsiasi attributo che riconduca a oggetti, concetti o azioni del mondo limitato dalle relazioni. Hanno perciò sostituito l’uso della percezione sensoriale (pratyākṣa pramāṇa) con quello di un altro pramāṇa e, precisamente, con l’anupalabdhi, la percezione dell’assenza11. È per anupalabdhi che, risvegliatosi dal sonno profondo, l’individuo afferma di suṣupti “Lì non c’era nulla, né il mondo né altre persone né tempo né spazio; c’era solo tenebra”. Analogamente, l’individuo dall’intelletto sottile concepisce il Brahman privandolo delle qualità che gli si attribuiscono per immaginarlo come un oggetto. È in questo modo che si formula il concetto del Brahman nirguṇa nella bhakti e nella teologia apofatica delle religioni occidentali. Ma, per quanto sia una concezione più elevata, tutto ciò non è ancora Advaita Vedānta. Infatti, l’applicazione dell’anupalabdhi deve forzatamente dipendere da una preliminare indagine compiuta tramite i sensi. Infatti, come si può dire che nel rudere di tempio è assente la mūrti se in precedenza non si è constatato per mezzo di pratyākṣa che in tutti i templi in attività è presente l’immagine divina? Come il vegliante, cercando di descrivere il sonno profondo, può affermare che “lì non c’è il mondo né ci sono altre persone”, se non dopo aver ben sperimentato che nella veglia sono presenti sia il mondo sia altre persone? Come il teologo apofatico può concepire il nirguṇatva se non dopo aver sperimentato ogni tipo di qualità, condizioni e azioni durante la sua vita in veglia e in sogno? L’apofasi, dunque, dipende da una preliminare esperienza catafatica; perciò, anche questo concetto di Brahman nirguṇa è il prodotto di un ragionamento (yukti). È per questa ragione che Śaṃkara, commentando questo secondo mantra afferma che Oṃ è la denominazione (abhidhānam) sia del Brahman supremo sia del non-Supremo, che ne sono l’abhidheyam.

    Il vero Brahman assoluto, l’unico nirguṇa non duale, nela sua Realtà è nirviśeṣa: non è né abhidheyam abhidhānam. Esso non può essere oggetto di conoscenza, non può essere ridotto a un concetto né può essere in alcun modo nominabile12. Ci si chiederà, allora, se è conoscibile. No, non è nemmeno conoscibile perché ognuno è eternamente cosciente di essere il Brahmātman. Ognuno sa di esistere senza aver bisogno di procedere a una dimostrazione della propria esistenza, senza oggettivarsi, senza considerare l’Ātman altro da Sé. Questa Coscienza-esistenza è sempre presente, ben prima che la mente la copra con un fittizio “io sono così e così”, che crei l’ego, il mondo e ogni concezione apofatica o catafatica di Dio. La mente è il saṃsāra, la māyā, la distributrice di nomi e di forme, l’ignoranza della Realtà.

    Da questo primo commento di Śaṃkara, appare in tutta evidenza che la descrizione, enunciata dall’Upaniṣad fino al sesto mantra, costituisce l’adhyāropa che deve in seguito essere smentito. Chi non riconosce questa fase del metodo e crede nella realtà di ciò che appare in questi primi mantra è definitivamente immerso nell’adhyāsa.

    Il nome è un’attribuzione che gli esseri umani assegnano arbitrariamente agli oggetti e alle loro proprietà per poter comunicare tra loro tramite quel suono. Il nome, perciò, dipende dalla lingua che si parla e da altre transazioni contingenti che riguardano l’oggetto, il suo uso, lo scopo, la collocazione, la durata, l’apparenza ecc. L’Oṃkāra, invece, sintesi di tutti i nomi in quanto abhidhānam di Īśvara, è davvero il nome di “tutto questo”. Infatti, la sillaba Oṃ, analizzando le ‘misure’ (mātrā) che la compongono, ‘a’, ‘u’ e ‘m’, contiene in sé tutti i suoni che l’intelligenza umana riesce ad articolare per formare le parole. Più precisamente, ‘a’ è il suono che, all’emissione del fiato, nasce con naturalezza dalla parte più profonda della gola, dall’apparato vocale; ‘u’ è il suono che matura nel bel mezzo della cassa di risonanza della bocca e ‘m’ è il suono prodotto là dove muore nasalizzandosi, quando il fiato s’arresta alla chiusura delle labbra. In tutti gli idiomi e in tutti gli individui, tutti gli altri suoni del linguaggio, vocali e consonanti, si articolano tra l’‘akāra’ e il ‘makāra’ culminando nell’‘ukāra’. Sintesi di tutti i suoni intellegibili, Oṃkāra non è scelto per convenzione condivisa, ma è effettivamente il nome divino da attribuire al Brahman, dono di Īśvara agli unici esseri dotati di favella e di intelligenza.

    Mantra 2.

    Tutto questo è realmente Brahman. Questo Ātman è Brahman. Ātman in quanto tale ha quattro pāda.

    Śaṃkara Bhāṣya 2.

    Tutto questo che si è denominato come Oṃ è Brahman. E quel Brahman, come è stato dichiarato per deduzione indiretta13[nel primo mantra], è qui direttamente14 specificato come “Ayam Ātmā Brahma” (questo Ātman è il Brahman). Nel [mahā]vākya “Questo Sé è Brahman”, lo stesso Ātman, che sarà presentato come diviso in quattro parti, è indicato come il proprio Sé più profondo dalla parola ayam (questo), accompagnato da un gesto della mano. Quel Sé in quanto tale, che è denominato da Oṃ ed esiste come il Brahman Supremo e non-Supremo, è catuṣpāt, ha quattro quarti, non come una vacca, ma come una moneta (kārṣāpaṇa). Poiché il Quarto (Turiya) si realizza per fusione successiva dei tre precedenti15 a partire da viśva, la parola pāda (nei casi di viśva, taijasa e prājña) è usata nel senso strumentale [e tramite il caso strumentale] di ciò per mezzo di cui si ottiene qualcosa, mentre, attribuita a Turīya, la parola pāda è usata nel senso oggettivo di ciò che si deve ottenere [e come complemento oggetto che si deve realizzare].

    L’Upaniṣad mostra come il Sé possa avere quattro quarti:

    Il secondo mantra della Māṇḍūkya è celebrato nel sanātana dharma perché ospita il mahāvākya Ayam Ātmā Brahma”, “questo Sé è Brahman”; qui si allude all’identità di significato  con l’altro mahāvākya contenuto nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (I.4.10) “aham Brahmāsmi”, “io (il Sé) sono Brahman”, da cui si apprende che non si sta parlando di un’entità astratta trascendente, ma proprio di quella propria vera natura che il cercatore s’appresta a realizzare. Che sia così è dimostrato tramite un’indicazione gestuale: quando il vicārin ode il maestro spiegargli questo mantra dell’Upaniṣad, allora porta la mano destra al cuore per segnalargli che ha inteso che sta parlando proprio di lui, della sua vera natura. Le mātrā che compongono l’Oṃkāra, ‘a’, ‘u’ e ‘m’, sono le denominazioni dei tre stati di coscienza (avasthā o sthāna) di Ātman, la veglia, il sogno e il sonno profondo. Se a quelle tre ‘misure’ s’aggiunge la stessa sillaba (akṣara) Oṃ, che contiene le altre tre, si ha la completa cognizione dei quattro pāda di Ātman. Tuttavia, l’Oṃkāra non è una mātrā: è amātrā, incommensurabile.

    Pāda in sanscrito vuole dire piede, quarto, una quarta parte. Nuovamente è chiesto a colui che ascolta (śotṛ) di ricordare che ciò che è abhidheyam è identico al suo abhidhānam; perciò, le quattro mātrā che denominano i quattro pāda a essi si identificano. Chi conosce le mātrā, conosce anche i pāda. A questo riguardo si deve ricordare che l’argomento qui affrontato riguarda la conoscenza e non il rituale. È un grave errore, dunque, supporre che nella Māṇḍūkya Upaniṣad l’Oṃkāra sia un mantra da ripetere ritmicamente: qui Oṃ è sempre e soltanto oggetto di indagine conoscitiva (vicāra) tramite riflessione (manana). La riflessione su Oṃ conduce a considerarlo sotto le due forme con cui la mente umana cerca di rendere l’Assoluto come oggetto d’indagine, ovvero come il Brahman Supremo in quanto tale e come non-Supremo in quanto origine, sostenitore e dissolutore dell’universo. Tuttavia, che l’Ātman sia composto da quattro pāda tra loro separati e distinti, come le zampe della vacca, è una visione alterata dell’Assoluto: sarebbe meglio paragonarlo a quella moneta d’oro o d’argento (kārṣāpaṇa), in corso all’epoca di Śaṃkara, che aveva forma quadrangolare. I quattro lati in questo simbolo, non sono parti separate, ma omogenee alla stessa forma della moneta. Il Quarto, in tal caso, non è soltanto uno dei lati, ma è la moneta intera che si presenta con quattro lati. I lati sono le caratteristiche che danno forma alla moneta, mentre la moneta è l’oggetto in sé16.

    Si deve fare attenzione all’uso tecnico dei termini vedāntici avasthā e pāda senza confonderli tra loro. Le avasthā designano i tre stati, ovvero i modi in cui l’Ātman appare alla mente dell’ignorante (ajñāni), in quanto sostrato (adhiṣṭhāna) della manifestazione. Per l’ignorante i tre stati sono reali, sebbene di una realtà ‘relativa’ in paragone con la realtà assoluta (indipendentemente dall’assenza d’ogni supporto logico, intuitivo e scritturale per una tale illazione). Poiché l’avasthā è considerata una condizione di realtà limitata, il Quarto (Turīya o Caturtha) non è mai definito ‘stato’ in quanto è immaginato come incondizionato e ‘trascendente’ rispetto alla realtà del mondo. Invece, il cercatore della Realtà, pur sempre dal punto di vista della veglia, proprio per dimostrare la falsità delle avasthā, riconosce l’unica Coscienza non duale dell’Ātman sotto quelle tre false apparenze. In questo modo, egli assume il punto di vista di catuṣpāt, dei quattro pāda. Così la realtà del Brahmātman si manifesta al cercatore sotto l’apparenza dei tre pāda che corrispondono ai tre stati di coscienza relativa, più il Quarto, l’Ātman-Caitanya in quanto tale. Quando, tramite il metodo del viveka, il vicārin realizza la conoscenza dell’Assoluto ponendosi fuori dal punto di vista della veglia e del sogno, da jñāni riconosce anche l’irrealtà dei quattro pāda: il Quarto (Turīya), che non è mai stato un’avasthā, non sarà più allora nemmeno ‘il Quarto’ pāda.


    1. Ci siamo volutamente soffermati su questi particolari in quanto alcuni confondono ciò che è una semplice azione mentale e intellettuale con la conoscenza. Ciò è dovuto a una interpretazione del tutto ambigua del termine ‘spirito’ e del suo derivato ‘spirituale’, in uso presso le lingue europee. L’imprecisione del senso attribuito a tali espressioni conduce a una grave confusione che finisce per associare l’intelletto e l’Ātman in un ambito comune, erroneamente definito ‘spirituale’. Non ci stancheremo mai di ripetere che se con spirito si vuole intendere l’Ātman, allora l’intelletto, che è di natura individuale ed è una delle componenti sottili dello strumento interno (antaḥkaraṇa, o, più genericamente, della mente) non può mai essere compreso nel dominio spirituale.[]
    2. È perfino abusivo usare il termine ‘realizzazione’ per descrivere gli ottenimenti prodotti lungo le vie a tappe del non-Supremo. Infatti, solamente la conoscenza immediata (sahyaḥ) permette di ‘realizzare’, vale a dire di riconoscersi nella propria Reale natura (satya svarūpa).[]
    3. Con ‘questo’ (idam) il Vedānta designa il mondo composto di tutti gli oggetti, ovvero il mondo-oggetto preso come un tutt’uno.[]
    4. Con ‘Quello’ (Tad) il Vedānta designa il Brahman. In questo caso si tratta chiaramente della fase di adhyāropa, in quanto, per errore volontario, il Brahman è preso per un denominabile oggetto di conoscenza.[]
    5. Ogni altra cosa che è già stata descritta in quanto compresa nel triplice tempo e che qui è considerata provvisoriamente come l’effetto dell’avyākṛtam nella prospettiva satkāryavāda; vale a dire che l’effetto, essendo interno alla causa, non ne differisce in nulla.[]
    6. ‘Indifferenziato’, perciò mai denominabile in alcun modo.[]
    7. MU 8.[]
    8. Guṇa, qui sta genericamente per esprimere qualità, proprietà, attributo, prerogativa; non si deve interpretare il termine sempre e solo collegandolo a una singola dottrina, in questo caso il Sāṃkhya. Anche l’uso tecnico di nirguṇa e saguṇa è totalmente slegato da quel darśana. Eppure, molti quando, per esempio nella Bhagavad Gītā, leggono del Sāṃkhya-Yoga, per riflesso condizionato sono spinti a collegarlo ai due darśana omonimi, interpretando così gli insegnamenti di Śrī Kṛṣṇa in modo del tutto improprio. Nella Gītā,con quel binomio s’intende la dottrina-metodo del Vedānta.[]
    9. In questo contesto, il punto di vista creazionista, tipico delle religioni monoteiste, e quello emanazionista o di manifestazione, in uso presso la filosofia ellenistica e in alcuni darśana dell’India, non sono poi molto differenti, essendo entrambi il risultato di una osservazione vyāvahārika ristretta all’ottica della veglia.[]
    10. Questa concezione del Brahman qualificato è comune alla ricerca filosofica e teologica, come anche alle dottrine del non-Supremo (Aparabrahman vidyā); essa ha dato adito a tutte le argomentazioni riguardanti le cosiddette ‘prove dell’esistenza di Dio’. Abbiamo già dimostrato l’errore di partenza di tutte queste elucubrazioni che s’appoggiano su indagini vyāvahārika, nel primo capitolo del nostro studio La distruzione della falsa conoscenza (mithyā vināśana) apparso in questo Sito e pubblicato per Ekatos in una raccolta intitolata Ai piedi del Guru, Milano, 2020.[]
    11. Poiché questo ‘valido mezzo di conoscenza’ non è in uso nella logica occidentale d’origine aristotelica, è opportuno darne una breve descrizione. Per esempio, può capitare di visitare un tempio in rovina. Entrando nel sanctum (garbhagṛha) si potrà constatare l’assenza dell’immagine divina (mūrti) che, in origine, doveva stare lì. La constatazione dell’assenza è quanto viene definito anupalabdhi.[]
    12. Anche i termini Brahman e Ātman sono, quindi, abhidhānam, utili esclusivamente per trasmettere l’insegnamento al discepolo.[]
    13. La conoscenza fornita dall’inferenza è sempre indiretta (parokṣa o asādhya buddhi) perché frutto di un ragionamento e non dell’esperienza diretta (aparokṣa anubhava).[]
    14. Il testo usa il termine pratyākṣa (percezione) come sinonimo di aparokṣa jñāna. Dal punto di vista del Nyāya, infatti la percezione sensoria è diretta, al contrario della deduzione (anumāna) che è mediata dagli stessi sensi.[]
    15. Un quarto si fonde nella metà, la metà si fonde nei tre quarti, e i tre quarti nella completezza dell’unità non duale del catuṣpāt.[]
    16. Come si leggerà negli sviluppi di questa śruti, sia l’idea che ci possano essere due ‘forme’ (vikāra) del Brahman, che è l’unico sempre definito arūpin (privo di forma), è ancora parte dell’errore qui usato per fare adhyāropa. A maggior ragione, l’Upaniṣad poi dimostrerà che le tre avasthā e perfino i quattro pāda sono solo false apparenze proiettate dalla māyā.[]