20 Febbraio, 2022

Distinzione tra Ātman e l’idea di ego

Gian Giuseppe Filippi

Distinzione tra Ātman e l’idea di ego

Nelle pubblicazioni apparse su questo Sito o riprese nella loro forma cartacea da Ekatos, abbiamo ripetutamente riportato che per l’Advaita Vedānta1non esiste alcuna differenza tra l’Assoluto denominato Ātman (Ātmābhidheyam) e il jīva jīvātman2. Se dal punto di vista relativo (vyāvahārika dṛṣṭi) il jīva appare come l’esistenza individuale3, il saggio è perfettamente consapevole che tale concetto corrisponde piuttosto all’idea di ego (aham). Nel suo Upadeśa Sāhasrī, Śaṃkara spiega che l’intelletto (buddhi), a causa della sua incapacità di comprendere il Brahmātman, se lo raffigura in forma limitata nell’apparenza dell’aham. Per essere più chiari, l’Ācārya Bhagavatpāda paragona la buddhi a uno specchio sulla cui superficie l’Ātman si riflette come il volto di chi si guarda riflesso. Il riflesso è, dunque, l’ego, pura apparenza priva della realtà della fonte luminosa, l’Ātman. Anche l’aham appare, ma non esiste in quanto tale; è solo un pensiero, un’idea a cui non corrisponde sostanza alcuna.

Quella nozione [dell’egoche sorge da evidenze che sono tali solamente in apparenza, come le percezioni sensoriali ecc., in quanto erronea sarà rimossa da quella nozione che trae la sua evidenza reale dalla śruti. (US XVIII.7)

Si avverte l’esistenza dell’ego in quanto si ha l’esperienza sensibile che ‘io vedo’, ‘io odo’, ecc. oggetti esterni tramite i jñānendriya; l’esperienza mentale che ‘io provo attrazione o repulsione’ tramite il manas; la comprensione e la valutazione intellettuale che ‘io capisco o non capisco’, ‘io trovo utile o dannoso’ tramite la buddhi. Tuttavia, solamente gli ignoranti pensano che l’aham agisca. Infatti, sono i sensi, la mente e l’intelletto che agiscono in quanto prodotti della Prakṛti, perciò privi di coscienza (acit), ma dotati della dinamica proveniente dal triguṇa che li costituisce. La conoscenza, che si attribuisce loro erroneamente, invece, deriva sempre e solamente dall’Ātman Pura Coscienza. Il riflesso della Pura Coscienza nell’intelletto appare come ahaṃkāra; o meglio, la buddhi, riflettendo la Coscienza dell’Ātman si modifica in ahaṃkāra, ‘ciò che produce l’idea di ego4.

Quando la śruti afferma: Tu agisci così o: Tu sei lagente, essa riporta lopinione della gente ordinaria. Invece la conoscenza che Io sono lEsistenza scaturisce davvero dalla śruti stessa. Questultima affermazione confuta laltra. (US XVIII.8)

Quando si tratta di metafisica, non si dovrebbe mai rimanere ancorati a un’unica formula, a un punto di vista esclusivo e, soprattutto, a un lessico rigido. Ciò a cui la ragione non ha accesso non può essere espresso con un’unica denominazione dogmaticamente infrangibile; è necessaria una flessibilità di approccio che permetta di abbracciare il significato completo di ciò che si vuole trasmettere. Infatti, colui che si guarda allo specchio, lo specchio stesso e il suo volto riflesso sono soltanto un esempio tratto dall’esperienza quotidiana nel piano in cui si dà erroneamente realtà alle relazioni. Invece, nella visione assoluta (pāramārthika dṛṣṭi) priva di qualsiasi relazione (avyāvahārika) solamente l’Ātman è la Realtà non duale, essendo lo specchio e l’immagine riflessa non altro dal Sé.

Laspirante alla conoscenza afferma: «Quel riflesso per mezzo del quale lo specchio assume la forma della faccia, è esso stesso la faccia». Con ciò egli vuol dire che quel riflesso, per mezzo del quale lo specchio, la buddhi, e le modificazioni mentali, danno origine al senso dellego (ahaṃkāra), è veramente il Sé. (US XVIII.109)

In definitiva, tutto ciò che è anātman non è altro che l’Ātman considerato in forma sbagliata, ragion per cui ciò che è considerato non esistente (asat) è pur sempre non diverso dall’Assoluto.

Solamente questo è il modo in cui deve essere intesa la frase io sono Brahman (aham Brahmāsmi), e nessun altro. Senza questa mediazione il mahāvākya tu sei Quello sarebbe inutile. (US XVIII.110)

Chi ha compreso il senso delle righe precedenti saprà dunque distinguere quando aham sta a indicare l’ego individuale, com’è di regola, o quando è usato per significare il proprio Sé. In fondo, tutto quello che riguarda il Sé concerne sempre il mio Io5. Anche lo stesso termine Ātman, che in senso primario sta a esprimere il Sé, in alcuni casi può essere usato in senso secondario o traslato per indicare le diverse parti dell’aggregato individuale, ossia dell’ego:

Chi conosce così, dopo aver rinunciato al mondo, ottiene [il dominio sul]lātman fatto di cibo; dopo aver ottenuto [il dominio sul]lātman fatto di cibo, ottiene [il dominio sul]lātman fatto di prāṇa; dopo aver ottenuto [il dominio sul]lātman fatto di prāṇa, ottiene [il dominio sul]lātman fatto di mente; dopo aver ottenuto [il dominio sul]lātman fatto di mente, ottiene [il dominio sul]lātman fatto dintelletto; dopo aver ottenuto [il dominio sul]lātman fatto dintelletto, ottiene [il dominio sul]lātman fatto di beatitudine,… (TU III.10.5)

Quando il guru di Vedānta insegna, si rivolge al discepolo con “tu sei Quello” (Tat tvam asi), intendendo trasmettere la verità che l’argomento di cui tratta è la sua vera natura e non altro dal Sé (anātman). Il verbo essere (sei) indica perfetta identità tra ‘tu’ e ‘Quello’, tra l’ego del discepolo e il Brahmātman. Non dice ‘tu sarai’ o ‘tu diventerai’; tantomeno dice ‘tu sei simile a Quello’ o ‘tu sei prossimo a Quello’. La consapevolezza dell’identità di tu e Quello è sempre alla portata di tutti e consiste nella coscienza di essere, di esistere e di esistere in quanto Coscienza. Si tratta dell’unica conoscenza certa e diretta che ognuno ha e che non ha bisogno di essere provata, dimostrata, testimoniata: si tratta dell’indiscussa intuizione diretta di essere (prasiddhānubhāva)6. Diretta perché riguarda la coscienza della propria esistenza in quanto Sé (Ātmapratyaya) che ogni ego conosce senza alcuna necessità di qualsiasi mediazione percettiva o mentale. Non esiste mediazione a questa intuizione perché non c’è altro da Sé che possa frapporsi creando la dualità, separando il soggetto dall’oggetto. Al risveglio, all’addormentarsi, durante in sonno profondo, ognuno è solo, ed è l’unico e non duale Ātman. Anche durante gli stati di veglia e di sogno l’Ātman è sempre non duale, ma tale consapevolezza è onnubilata dalla mente (antaḥkaraṇa). C’è sempre l’ego, ma su di esso la mente sovrappone i pensieri. Si è sempre l’aham, ma in quei due stati gli si sovrappongono pensieri, idee, cambiamenti. Perciò l’aham, a causa dell’ignoranza (adhyāsa), non riconosce più d’essere l’Ātman (aham Ātmāsmi), ma pensa: ‘io sono così e così’ (aham amukaḥ asmi). Vale a dire pensa di essere un individuo descrivibile tramite caratteristiche, qualità, proprietà, modificazioni e azioni, ovvero tramite limitazioni. Questo ego è sottoposto all’illusione della dualità e della molteplicità che ne derivano, ed è volto a indagare, a muoversi e a impadronirsi di ciò che gli è apparentemente esterno e altro da Sé. Quando s’affaccia al mondo della veglia (jāgrat prapañca) ha conoscenza degli oggetti esterni tramite i sensi. I sensi non sono altro che modificazioni che la mente (mānasa vṛtti) assume per compiere l’indagine percettiva (pratyakṣa vicaya): quando vede, la mente è la vista, quando ode è l’udito ecc. Poi, le informazioni dei sensi nella mente diventano concetti, pensieri, idee. Depositati nella memoria, diventano ricordi, elaborati in forme nuove, diventano immaginazioni. Sulla base di quelle informazioni la mente formula inferenze, deduzioni, ipotesi. Da ciò si trae che la mente ha soltanto i sensi per indagare direttamente gli oggetti esterni, essendo tutte le altre conoscenze prodotti mentali (manasarga) mediate dai jñānendriya7. Tutto quello che precede è anche applicabile allo stato di sogno (svapna avasthā), con l’unica differenza che gli oggetti indagati sono considerati, nella prospettiva di chi è in veglia, come interni al corpo grossolano del dormiente8. C’è da aggiungere che l’uomo comune è convinto di avere una chiara idea sulla distinzione tra ciò che attribuisce alla propria individualità (ahaṃkāra) e gli oggetti esterni che essa possiede (mamakāra). La śruti dimostra che ciò non è esatto:

D’altro canto, trascinato dalla corrente dei guṇa di Prakṛti, contaminato e onnubilato, diventa instabile, vacillante, abbattuto, avido, scomposto e, coinvolto nell’illusione, immagina: “Io sono così e così, questo è mio”. (Maitry Upaniṣad, 3.2)

Infatti, il senso di incompletezza, di rimpianto o di disperazione che si prova per l’amputazione di un arto, per la perdita di uno stato di gioia o per la per cancellazione dalla memoria di una cognizione raggiunta in passato non è affatto diverso dalla sofferenza per la morte di un congiunto, per il furto di un oggetto caro o per il discredito della propria fama presso gli altri. Nemmeno l’immagine che si ha della propria persona è composta solamente da ciò che l’ahaṃkāra pensa di se stesso, ma è anche formata sulla base di ciò che le persone che ci conoscono e che appartengono alla nostra cerchia (del mamakāra) pensano di noi. Che ci si identifichi parzialmente anche con questa immagine che gli altri hanno di noi è dimostrato dal fatto che per essa ci si offende o ci si inorgoglisce.

Il riconoscimento che ‘io sono differente dal corpo’ è raggiunto soltanto attraverso gli śāstra ricevuti per audizione (śrāvaṇa) dalla bocca del guru. Tuttavia, il fine delle scritture non è quello di insegnare che ‘io sono uno che è dotato di corpo, sensi mente ecc.’, bensì quello di stabilire che ‘Io sono reale’ (sat), mentre corpo, sensi, ecc. sono del tutto non reali (asat). ‘Io’ sono lo stesso Ātman, mentre tutto ciò che appare sovrapposto a lui è anātman.

La percezione che ‘io sono così e così’, ‘io sono un agente (kartṛ)’, ‘io sono un fruitore (bhoktṛ) dei risultati delle azioni compiute (karma phala)’ è quindi una spontanea e illusoria convinzione che l’individuo prova a causa della nascita umana. Quindi è naturale per la gente comune provare identificazione (abhimāna) con una qualsiasi delle apparenti componenti dell’individualità, corpo, sensi, prāṇa, mente, intelletto, aham, a seconda delle limitazioni maggiori o minori delle qualifiche karmiche (adhīkāra), nonché delle circostanze e delle relazioni della vita quotidiana. Le persone ordinarie continuano a dire: «io vado; io vengo; io percepisco un oggetto; io afferro un oggetto; io sento un suono; io penso; io decido; io sperimento gioia o dolore» e così via, ma nelle loro relazioni con il mondo esterno, espresse da “io vado, io vengo”, è evidente la loro identificazione con il proprio corpo. Nelle relazioni sensorie “io percepisco, io sento” è evidente l’identificazione di se stessi con i sensi; e, allo stesso modo, nelle relazioni con oggetti interni, come quando si dice “io sto pensando; io sto decidendo; io provo felicità o sofferenza” è evidente l’identificazione di se stessi con la mente9. Quindi, alla domanda «Qual è quell’entità chiamata ego?», la gente comune non si pone il problema di discriminare tra Ātaman e anātman; perciò, non risponde e continua a comportarsi in base alle sue quotidiane esperienze di relazione con altro da Sé. In effetti, questa nozione di ego persiste, in tutti i nostri rapporti mondani senza alcun ostacolo o interruzione, come il fenomeno fondamentale dal quale nessuno sembra voler distogliere la propria attenzione per risolverne l’‘enigma’. Quindi, gli śāstra intervengono a insegnare il mistero per cui l’‘imprescindibile’ e ‘basilare’ nozione dell’ego è in realtà una falsa conoscenza, un’idea sbagliata; e per far entrare questa verità nella mente della gente comune, non iniziata e ignorante, essi spiegano che le relazioni, a cui è attualmente sottoposta, sono dovute ad altre nascite o a vite in mondi (loka) sperimentati tra una morte e la successiva rinascita.

Vivendo in un solo corpo si passa attraverso gli stati di bālya (infanzia), kaumārya (fanciullezza), yauvana (maturità), jarā (vecchiaia); similmente dopo la morte si genera un altro corpo. (BhG II.13)

Gli śāstra, infatti, hanno lo scopo principale di insegnare all’umanità che sebbene il corpo sia in continuo cambiamento dall’infanzia alla fanciullezza, alla maturità ecc., l’Ātman esiste eternamente senza alcuna mutazione di sorta. Ugualmente, se in altre nascite e rinascite s’acquisiscono altri corpi, l’Ātman continua ad esistere senza mai modificarsi. Perciò, nella misura in cui questa conoscenza che “Io non sono questi fenomeni come corpo, sensi, mente, intelletto, ecc.” viene assimilata, i cercatori della Conoscenza del Sé (Ātmajijñāsu) dovrebbero continuare a utilizzare con ardore questo metodo unico di insegnamento della Realtà Ultima dell’Ātman, trasmessa dagli śāstra e dai loro esponenti qualificati, i jñānaguru.

Quando matura la conoscenza di non essere il corpo né i sensi né la mente, alcuni saggi usano la discriminazione in modo parziale. Pensano: «Io sono distinto da questi fenomeni, ma li sto usando; io ho coscienza d’essere solo l’io, me stesso. Perché questa coscienza, che è l’aham, è il solo strumento valido di conoscenza». Sulla sola base di questa convinzione, sono stati formulati i karma śāstra, le parti ritualistiche della śruti, e i tarka śāstra,i trattati di dialettica e di logica. Così l’Ātman, conosciuto sotto l’apparenza dell’ego, è chiamato ahampratyayagamya Ātman, cioè il concetto di Ātman sotto la forma di ego. Ma questo ego detto ahampratyayagamya Ātman, pensa: «Io sono un kartṛ, cioè un agente d’azione; facendo o compiendo azioni, io continuo a cambiare”. Egli crede, inoltre, d’essere l’io fruitore (boktṛ), che gode degli oggetti esterni e che, sperimentando felicità o dolore, continua a cambiare. Ritenere che “in virtù dei cambiamenti del corpo, dei sensi ecc. io stesso sto subendo dei cambiamenti” è sbagliato, poiché si basa su una premessa erronea. Ancor più grave è l’errore di ritenere che a causa dei cambiamenti nell’ego anche l’Ātman sia mutevole. Questo errore è stato escluso da Śrī Kṛṣṇa nella Bhagavad Gītā:

Chi pensa: «Io sto uccidendo», e crede che l’Ātman sia l’agente di quell’azione di uccidere; colui che pensa «Quest’uomo mi ucciderà», e crede che la stessa azione di uccidere sia un karma, entrambe queste persone non conoscono la verità. In realtà, l’Ātman non uccide affatto né è ucciso da qualcun altro. Egli non è un agente (kartṛ) né uno sperimentatore (bhoktṛ) di alcuna azione. (BhG II.19).

Nella Gītā, l’azione di uccidere (hanana) è portata come esempio per trasmettere l’insegnamento che è un’idea sbagliata che l’ego sia una nozione fondamentale. L’uomo ordinario è convinto che dal momento in cui è nato fino alla sua morte stia subendo tutta una serie di cambiamenti. Questo è il risultato della sua errata idea d’essere ahampratyayagamya, cioè d’essere questa entità prodotta dal concetto dell’ego. Ora, dal punto di vista dell’indagine intuitiva, dovrebbe essere evidente che questa costruzione mentale, sebbene radicata, non è né corretta né reale. Per questa ragione le scritture hanno lo scopo primario di insegnare che l’Ātman, il Sé, è eternamente avikriya, vale a dire senza cambiamento, immutabile, unico.

  1. Ci sono alcune correnti vedāntiche che sono state intitolate dai loro fondatori con termini comprendenti la parola advaita (non dualità). Tra queste il Viśiṣṭādvaita di Rāmānuja, il Dvaitādvaita di Nimbārka e lo Śuddhādvaita di Vallabha ecc. Di fatto tutte queste scuole sono dualiste, mantenendo irriducibile la differenza tra il Principio (avyakta) universale (dell’universo) e le sue manifestazioni (vyakta) macrocosmica (jagat) o microcosmica (vyakti). Solamente in questo senso la dottrina śaṃkariana può essere definita come unica (kevala), in quanto veramente non duale. Gli indologi usano, invece, la denominazione kevalādvaita per descriverla come una delle tante correnti del Vedānta alla pari con le altre. Questo è un chiaro abuso: abbiamo riscontrato che nessun advaitin userebbe mai tale termine per la dottrina che segue. Altrettanto illecito, è tradurre advaita con ‘monismo’, usato anche questo certamente non in buona fede. Infatti, questa espressione, coniata in epoca illuministica, denota una filosofia che ammette un ‘principio unico’ della dualità o della pluralità. L’Advaita Vedānta, al contrario, nega fermamente che l’Assoluto possa essere principio o causa di alcunché (vivartavāda ajātivāda). Nei nostri scritti, come in tutti quelli della Śaṃkara paramparā, si usa il termine Vedānta per antonomasia per intendere esclusivamente il vero Advaitavāda.[]
  2. Jīva è un sostantivo sanscrito che definisce la vita. Bisogna precisare, tuttavia, che la vita, dal punto di vista vedāntico, si svolge su tre piani di Coscienza: la veglia, il sogno e il sonno profondo. La vita comprende, dunque, l’intera esistenza come è testimoniata dal Sākṣin Ātman. Non è perciò correlata o contrapposta a ‘morte’ come accade nelle altre lingue. È perciò errato tradurre jīvātman, come l’anima vivente, ossia come se fosse sottoposta a una condizione d’esistenza limitata. La corretta interpretazione del termine è, quindi, ‘il Sé come appare illusoriamente nei tre stati di coscienza’. Ciò non toglie che l’ignorante prenda il jīva per un’entità individuale altro dall’Ātman, come si potrà leggere nelle argomentazioni che seguono.[]
  3. Jīva jīvātman è così entrato in uso anche nel linguaggio vedāntico nel suo senso secondario di ātman individuale; il termine jīvatva indica regolarmente l’esistenza caratterizzata dall’individualità, vale a dire, generalmente, lo stato di veglia e quello di sogno presi come un tutt’uno.[]
  4. Non è corretto, dunque, definire coscienza individuale l’ahaṃkāra, essendo anch’esso un prodotto di un tattva non cosciente. Il suo apparente stato cosciente proviene sempre e soltanto dal riflesso della Pura Coscienza (śuddha Caitanya). Anche la luna appare luminosa, ma la sua luce, in realtà, non è sua. È soltanto quella riflessa del sole.[]
  5. L’uso dell’iniziale minuscola o maiuscola nell’italiano può essere utile per distinguere il significato dei termini a seconda del contesto a cui si riferiscono.[]
  6. Essere-esistenza, Coscienza e piena felicità di essere tale, metafisicamente parlando, sono identiche, sono l’unico Saccidānanda non duale. Invece, nella conoscenza non suprema (Aparabrahman vidyā), caratterizzata dall’erronea prospettiva dualistica (dvitīya) e distintiva (viśiṣṭa), l’essere è distinto dall’esistenza, la coscienza è di qualcos’altro e la felicità è dovuta alla fruizione di altro da Sé.[]
  7. Per la verità, a una più attenta indagine, anche gli stessi sensi (jñānendriya buddhīndriya) risultano prodotti fittizi della mente. Queste costruzioni concettuali corrispondono esattamente alle diciannove bocche con cui Ātman-Vaiśvānara conosce gli oggetti esterni del mondo della veglia: cinque buddhīndriya, cinque karmendriya, cinque prāṇa, il senso interno (manas), l’intelletto (buddhi, a ennesima dimostrazione che l’intelletto è una facoltà individuale), il senso dell’ego (ahaṃkāra) e la memoria delle azioni passate (citta) (Māṇḍūkya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, I.3).[]
  8. Nello stato di sonno profondo (suṣupti avasthā), invece, non c’è alcuna presenza di oggetti, non essendo in realtà uno stato (avasthā), ma la natura stessa di Ātman non duale. Su questa base si può comprendere facilmente che l’istante di separazione tra la veglia e il sogno, in cui c’è coscienza di essere Ātman, appartiene sempre a suṣupta. Infine, un’ultima considerazione: se la mente è presa dalla molteplicità nella veglia e nel sogno, ciò non toglie che la reale natura di questi due stati illusori è pur sempre suṣupta. Conoscere questa realtà non duale anche della veglia cancella l’illusorietà di tutti gli stati. Chi sa ciò è libero (mukta) dal saṃsāra.[]
  9. Per essere più precisi, si potrà dunque dire che chi s’identifica soprattutto al corpo avrà caratteristiche animalesche; chi s’identifica al prāṇa sarà dominato dagli istinti; chi s’identifica ai sensi sarà attratto dai piaceri mondani; chi s’identifica maggiormente al manas sarà dominato dalle emozioni; chi s’identifica all’intelletto avrà tendenze razionalistiche e chi s’identifica all’aham, sottoporrà tutte le sue scelte, nei confronti degli oggetti esterni e interni, al suo egoismo (asmitā).[]