5. Puruṣa Sūkta
Mantra X.90.11
yat Puruṣam vi adadhuḥ katidhā vi akalpayan
mukham kim asya kau bāhū kā ūrū pāda ucyete
Domanda: il mantra pone la questione: quando1 gli Dei decisero di offrire il Puruṣa come offerta sacrificale, qual era la sua forma? L’espressione Puruṣa suggerisce un essere umano, e ciò implica una forma umana per il Puruṣa, che ha un volto, o una bocca, delle braccia, delle cosce e dei piedi. Se l’offerta deve essere un Puruṣa, allora cosa sono i suoi viso, braccia, cosce e piedi?
Risposta: la parola vyadadhuḥ (vi+adadhuḥ) letteralmente significa sia nato sia mantenuto; Sāyana, però, lo interpreta nel senso di ‘creato tramite la loro volontà’. La parola può anche significare diviso, fatto di parti, composto. L’espressione che gli è attribuita, vyakalpayan (vi + akalpayan), è da prendersi nel significato di ‘differentemente immaginato’ (vividham kalpitavantaḥ). Quindi, la domanda significa “in quanti modi gli Dei, che fecero a pezzi il Puruṣa differenziandolo, hanno prodotto le parti che costituiscono questo Puruṣa?” La domanda generale è poi articolata in modo dettagliato: cos’è dunque la sua faccia o bocca? Cosa sono le sue braccia? Cosa le sue cosce? E cosa i suoi piedi? Bisogna ricordare che Yāska parla degli Dei come se avessero forme umane menzionando i loro organi (VII.6).
Ma chi sono questi Dei? Sāyaṇa spiega che essi sono i soffi vitali o le correnti vitali del Creatore e Conservatore di tutti gli esseri. Gli Dei desiderarono e produssero il Puruṣa con l’intento di compiere un sacrificio (yajña), che includesse tutte le oblazioni (sarvahuta). Il Puruṣa è chiaramente lo strumento costituito (com’è suggerito dal termine vyakalpayan) e strutturato (indicato dalla parola vyadadhuḥ), come pure l’oggetto del sacrificio, che sarà indicato dalla prossima asserzione del mantra 16, yajñena yajñam ayajanta devāḥ. Il vero e proprio sviluppo dell’esistenza fenomenica, rappresentato dagli Dei, produsse il primo essere del mondo delle relazioni2 chiamato Puruṣa, un’entità composita, che a sua volta fu responsabile dello sviluppo mondano di categorie animate e inanimate.
Mantra X.90.12
brāhmaṇo asya mukham āsīt bāhū rājanyaḥ kṛtaḥ
ūrū tad asya yad vaiśyaḥ padbhyām śūdro ajāyata
Qui si risponde all’interrogativo sollevato. Il Puruṣa, che era pronto per essere sacrificato, aveva i brāhmaṇa come suo volto (o bocca), i rājanya (o kṣatriya) come sue braccia, i vaiśya come sue cosce, e dai suoi piedi nacquero gli śūdra.
A prima vista il mantra sembra riferirsi all’origine delle quattro caste (varṇā) della società indiana. Di fatto, questa è la spiegazione che è data il più delle volte. Anche Sāyaṇa suggerisce che il mantra cerchi di assegnare le differenti membra del corpo del Puruṣa alle quattro caste (jāti). All’epoca di Sāyaṇa (XIV secolo d. C.) non solo erano fissate, ma erano divenute imprescindibili nell’organizzazione sociale. Quindi per lui era naturale interpretare i nomi brāhmaṇa, ecc. nel senso di caste. Ma bisogna sottolineare che, quando il testo fu compilato, il sistema castale non era completamente fissato nel Ṛg Veda e applicato nella società. È stata materia di indagine come questo mantra sia stato incorporato nel Sūkta; coloro che non credono nell’origine non umana (apauruṣeyatva) del Veda hanno anche suggerito che l’intero Sūkta sia una interpolazione.
È vero che l’idea dei quattro gruppi castali non si ritrova in altre parti del corpus ṛgvedico e che la parola śūdra non è più menzionata nell’intero Ṛg Veda3. L’espressione brāhmaṇa si trova solo in questo mantra, e in nessun’altra parte del Ṛg Veda. Il termine brahma è stato spesso impiegato, ma nel senso di inno o di inno creatore (mantra kaṛtṛ, sūkta drasṭṛ)4.
La parola rājanya per kṣatriya è impiegata solo in questo inno, mai altrove nel Ṛg Veda. Parimenti il vocabolo vaiśya e, come è stato indicato poco sopra, il termine śūdra. Kṣatra nel Ṛg Veda significa area, territorio (più tardi kṣetra), ma anche valore, forza e maestà quali attributi di Indra, di Varuṇa o dei Marut5. Vi sono anche riferimenti agli kṣatriyā come sovrani del territorio. E viśa, più tardi trascritto vaiśya, nel contesto ṛgvedico, significa un qualunque gruppo di persone; è un’espressione collettiva6.
Anche nello Yajur Veda, dove i riferimenti ai quattro gruppi sociali sono più evidenti, la spiegazione è prevalentemente simbolica: come, per esempio, in VS (XIV.28-31), dove c’è la proposta che le tre correnti vitali del Puruṣa (o Prajāpati), prāṇa, udāna e vyāna, rappresentino brahma, cioè i brāhmaṇa; le dieci dita dei piedi, le due cosce e il dorso rappresentino kṣatra, gli kṣatriya; le altre correnti vitali, i cinque elementi, la mente, la coscienza e l’ego simboleggino śūdrārye, cioè gli śūdrā e i vaiśyā.
I riferimenti a Brahma e Kṣatra sono stati trovati molto spesso, in questo Veda, come ‘yajamānā’7 in contesto sacrificale8. L’Aitareya Brāhmaṇa (XXXIV.19) stabilisce che Prajāpati creò yajña, e subito dopo brahma e kṣatra. Questi ultimi due indicano i poteri che rendono possibile il sacrificio. E, secondo lo Śatapatha Brāhmaṇa (XI.2.7.16), questi due poteri sono stati stabiliti sulla gente comune, i vaiśya.
Lo stesso testo identifica i tre domini, viśa, kṣatra e brahma, con i tre vyāhṛtī, vale a dire bhūḥ, la terra, bhuvaḥ, la regione intermedia, svaḥ, il cielo; Prajāpati creò i tre poteri dalle tre vyāhṛtī (ŚB II.1.4.11-12).
Il mantra deve, dunque, essere considerato in armonia con gli altri mantra per descrivere una comune origine per l’intero universo, animato e inanimato. Dalle differenti membra della persona simbolica, il Puruṣa, furono creati gli Dei, i Veda, i chanda9, tutti gli animali, il sole, la luna, la terra, gli orizzonti, le direzioni, le stagioni e tutti gli esseri umani. Questo argomento è trattato nei mantra 9-14.
Mantra X.90.13
candramā manaso jātaḥ cakṣoḥ sūryo ajāyata
mukhāt indraḥ ca agniḥ ca prāṇāt vāyur ajāyata
Se il precedente ha parlato di quali aspetti dell’universo furono emanati dalle membra maggiori di Puruṣa, dalla testa, braccia, cosce e piedi, il presente mantra tratta dell’origine della luna dalla sua mente, del sole dai suoi occhi, degli Dei Indra, Agni e Vāyu rispettivamente dal suo volto e dalle forze vitali.
La luna, candra, e la mente sono intimamente relazionate, come anche il sole, sūrya, con la vista. Il volto, essendo l’aspetto della forma umana che attrae maggiormente l’attenzione, è messo in relazione con Indra, la divinità più autorevole e con Agni, la qualità dello splendore e della luminosità. La forza vitale è naturalmente correlata alle correnti vitali che sono proprio forme dell’aria (prāṇavāyu).
Il termine candra è derivato dalla radice cadi, che significa delizia della mente (āhlādana; candatīti candraḥ). Sūrya è chiamato così perché si sposta nell’atmosfera o perché procrea tutte le creature o, ancora, perché stimola tutti gli esseri all’azione e al movimento10. Ci sono riferimenti a Sūrya, il Dio del sole, che lo collocano sia nella sfera solare sia nell’occhio destro di ogni individuo. Questo è stato spiegato sufficientemente quando abbiamo discusso il tema del Gāyatri mantra.
Agni non solo è il più importante e primordiale tra gli Dei (agnir agre prathamo devatānām), ma anche il cielo luminoso, cioè come calotta cranica (agnir mūrdhā divaḥ) [del Puruṣa]. Indra è naturalmente il Signore degli abitanti celesti (indro yātovasitasya rājā), il Re degli Dei. Entrambi, Agni e Indra, rappresentano l’aspetto di superiore e sovrano, proprio come il volto nella figura umana. Vāyu, che corrisponde al prāṇa di Puruṣa, è chiamato così perché va e viene senza un corpo, e crea tutti i movimenti e le azioni possibili.
La luna del mondo esterno, all’interno della persona, corrisponde alla mente; il sole di lassù corrisponde alla facoltà della vista dimorante nell’occhio; il principio di calore e luce (Agni) e il governo degli organi di senso (Indra) ai principi attivi situati nella testa; l’aria dell’atmosfera alle correnti vitali che circolano in tutto il corpo.
Mantra X.90.14
nābhyā āsīt antarikṣm śīrṣṇo dyauḥ samavartata
padbhyām bhūmir diśaḥ śrotrāt tathā lokāṃ akalpayan
Dall’ombelico di Puruṣa si formò l’atmosfera, dalla sua testa il cielo, dai suoi piedi la terra e dagli orecchi lo spazio.
Con ombelico (nābhi), a detta di Yāska (Nirukta, IV.21), si vuole suggerire l’idea del punto più centrale o del luogo dove tutti gli organi sono incentrati (nahanam eva nābhiḥ). È il centro dell’aggregato che costituisce il corpo grosso. Dall’ombelico del Puruṣa, si è formato antarikṣa, letteralmente la regione intermedia; ma la parola ha diverse sfumature. Yāska spiega che l’atmosfera o regione mediana è così chiamata perché sta tra la terra e il cielo o, anche, perché è realmente il limite finale (anta) della terra (kṣā); o ancora perché in essa sono contenuti la terra e il cielo; o, infine, perché è invero l’immortale e immutabile cielo all’interno del corpo (II.10).
Essendo immutabile tra cose mutevoli, permanente tra cose transeunti, come ombelico del Puruṣa è il punto centrale di tutta la creazione. L’intero universo, in realtà, è contenuto in esso. Skandasvāmin spiega che antarikṣa è così chiamato perché è perfettamente in quiete (śānta) tra tutte le creature che sono sempre attive e agitate. Inoltre, antarikṣa mantiene separati la terra e il cielo. La terra è rappresentata dai piedi del Puruṣa, mentre il cielo è simboleggiato dalla sua testa. Tutt’intorno all’antarikṣa vi sono le direzioni dello spazio che provengono dagli orecchi del Puruṣa posti ai lati. Tutti i mondi e i regni della nostra esperienza, quindi, sono stati forgiati dal corpo del Puruṣa
Mantra X.90.15
saptāsyāsan paridhayas triḥ sapta samidhaḥ kṛtāḥ
devā yat yajñam tanvānā abadhnan Puruṣam paśum
Letteralmente il testo del mantra vorrebbe significare quanto segue: erano sette i fili d’erba darbha che cingevano il luogo del sacrificio; e tre volte sette le fascine da ardere, gettate ritualmente nel fuoco). Gli Dei, allo scopo di compiere il sacrificio, legarono il Puruṣa come vittima sacrificale.
Il mantra ritorna alla consueta immagine del sacrificio primordiale (yajña) che produsse tutta la creazione, identificato con il Puruṣa come persona cosmica. Le potenze splendenti e luminose, che erano emerse per prime, i devā, crearono tutto ciò che conosciamo.
E per far questo essi dovevano dipendere dallo stesso Puruṣa. Lo stesso atto di creazione da parte di tali potenze era della natura del sacrificio (yajña), per compiere il quale divenne indispensabile sacrificare il Puruṣa, il loro stesso progenitore. Questa dipendenza dal Puruṣa, per portare a compimento la creazione, si riferisce allegoricamente al Puruṣa come un paśu (animale sacrificale).
Mentre il significato è abbastanza chiaro, la descrizione del sacrificio che coinvolge i numeri sette e ventuno rimane piuttosto enigmatica. Questo, però, è un espediente frequente negli inni vedici. Sāyaṇa propone alcune indicazioni su questo mantra che esponiamo di seguito. Forse, però, prima di considerare le proposte di Sāyaṇa, è necessario spiegare i termini tecnici paridhi (in numero di sette) e samidha (in numero di ventuno) usati nel mantra. La prima espressione (pari, tutto intorno; dhi, collocare) denota la procedura di priorità nel proteggere l’altare per il fuoco da tutti i lati per collocare cerimonialmente11 i fili di erba sacra (darbha o kuśa) o le fascine. Questo recinto ha lo scopo di respingere le forze maligne che tentano di disturbare il rito (rakṣoghna). È abitudine porre questi accorgimenti protettivi su tre lati dell’altare (nord, sud e ovest), lasciando aperto il lato est, perché il sole, che nasce in quella direzione, proteggerà lui stesso il rituale cacciando via le forze negative. Il secondo termine, samit, che etimologicamente significa ‘che brucia vivamente’, si riferisce alle fascine raccolte da alcune specie di alberi considerati sacri (come aśvattha, palāśa, ecc); il fuoco sull’altare è alimentato da queste fascine, gettate in esso con l’accompagnamento dei canti prescritti. Questo è un dettaglio importante nell’atto sacrificale. Le fascine sono sempre in numero stabilito, e spesso sono asperse con burro chiarificato. Però il sacrificio ha un carattere mentale (mānasam yajñam): comprende decisioni e intenzioni (sāmkalpika yajña), dunque non necessita di effettivi paridhī e samidha. Anche la protezione rituale dell’altare e l’offerta delle fascine può essere solo simbolica. I numeri ad esse associati (sette e ventuno rispettivamente) sono parimenti simbolici. Sono significativi solo per quello che ispirano.
Come sostiene Sāyaṇa, il numero sette sta per le sette forme metriche (chanda), come la gāyatri, ecc. Sono i chanda che racchiudono il pensiero vedico e lo proteggono; il vero significato etimologico dell’espressione chanda è quello di tenere segreto e di proteggere. Oppure l’idea di paridhi può suggerire i pali di una palizzata che circonda [ogni altare]. Come indicato prima, ognuno dei cinque altari ha tre lati protetti (escluso il lato orientale). I due altari, āhavanīya e uttara-vedi, hanno così sei paridhī; e il sole, Āditya [o Sūrya], nella direzione orientale è il settimo paridhi. Il numero sette ha un altro significato importante in contesto vedico, ma che non è ben indicato da Sāyaṇa. Per questo, in Yajur Veda (XVII.79) leggiamo:
Il passaggio (VS XVII.79) parla di sette combustibili per il fuoco sacro (samidha), le sette fiamme che avvampano (jīhvā, ovvero: Kāli, Karāli, Manojavā, ecc.), i sette veggenti (ṛṣi, ovvero: le cinque principali correnti vitali, prāṇa, apāna, vyāna, udāna e samāna, insieme a due correnti vitali minori, devadatta e dhanañjaya); le sette belle situazioni (dhāma, ovvero: janma o nascita, sthāna o luogo dove si vive, dharma o norme di vita retta, artha o ricchezze materiali, kāma o piaceri, mokṣa o liberazione dal ciclo dell’esistenza); le sette offerte (hotra,ovvero: le stagioni: vasanta, grīṣma, śarat, hemanta e śiśira) e le sette fonti di relazione (yoni, ovvero: i cinque mahābhūta, più mahat e ahaṃkāra). Ci sono anche riferimenti ai sette dhenu (forme del discorso), ai sette vipra (i brāhmaṇa della categoria degli āṅgirasa), i sette sindhu (fiumi) e i sette raśmi (raggi del sole).
Lo Śatapatha Brāhmaṇa (VI.1.1.1-6) ha una spiegazione per la creazione, in cui il numero sette rappresenta un dettaglio importante. Prima della creazione, niente (asat) era lì. Ora, cos’è questo ’niente’? Con ‘niente’ si definiscono i veggenti (ṛṣi). Essi allora erano lì all’inizio. Chi sono questi veggenti? Le correnti vitali o i principi di vita (prāṇa) sono chiamati veggenti. Con il loro sforzo e la loro austerità, caratteristica dei veggenti, hanno reso possibile la creazione. Il più importante tra loro è Indra, la corrente vitale principale (mukhya prāṇa); e Indra con il suo potere ispirò le altre correnti vitali a muoversi e ad agire. Infatti, Indra era chiamato così per il suo potere di ispirare. Le correnti vitali agirono e portarono in essere sette differenti Puruṣa. Queste correnti vitali subito deliberarono che, se questi sette Puruṣa fossero stati differenti l’uno dall’altro, lo scopo della creazione non sarebbe stato conseguito. Unirono allora i sette Puruṣa in un unico Puruṣa: due Puruṣa sopra l’ombelico, due Puruṣa sotto l’ombelico, due Puruṣa ai due lati, e il settimo Puruṣa come il vero e proprio supporto e fondamento (pratiṣṭhā) per gli altri sei. Gli altri sei Puruṣa posero la loro essenza individuale, la loro eminenza ed eccellenza (śrīḥ) nel settimo, che allora divenne la testa (śiraḥ), da cui gli altri sei dipendono. Tale Puruṣa composito, identico in essenza, eminenza ed eccellenza alle correnti vitali fuse per formare il corpo (chiamato śarīra, perché comune supporto di tutte quelle) è conosciuto come Prajāpati. Egli è settuplice ed è della natura di Agni (yanñāgni). Quindi è per questo che anche il fuoco sacrificale è settuplice. Sette è il numero che fissa le parti del Puruṣa yajña.
Bisogna sottolineare che Yāska vede il numero sette come i sette raggi del sole (Niṛukta, IV.26 sapta āditya raśmayaḥ).
Gli Dei che volevano celebrare il sacrificio primordiale sono solamente le reali correnti vitali di questo Puruṣa (Prajāpati). Sāyaṇa li descrive anche come il Prajāpati in forma dipotenza vitale (prajāpati prāṇendrya rūpāḥ).
Per quanto concerne i combustibili, i samidha, in numero di ventuno o tre volte sette (triguṇīkṛta sapta saṃkhyākā), l’opinione di Sāyaṇa è che il numero rappresenti i dodici mesi dell’anno, le cinque stagioni (escludendo śiśira, l’inverno, dalle solite sei), i tre regni (terra, regione mediana e cielo), insieme al sole (Āditya). Vi è inoltre un’altra spiegazione, che il numero si riferisca ai ventuno tattvā (oggetti reali): i dieci organi di senso e di azione (indriya), le cinque categorie di elementi (bhūta), le cinque forze vitali (prāṇa) e la mente (manas). Oppure i tattva sono la primordiale natura (prakṛti) non manifestata, l’iniziale impulso di manifestazione (mahat [Hiraṇyagarbha]), l’ego (ahamkāra), i cinque elementi grossi (mahābhūta), i cinque elementi sottili (sūkṣmabhūta), i cinque organi di sensazione (jñānendrya), e le tre fondamentali tendenze di sviluppo della realtà (guṇa).
Mantra X.90.16
yajñena yajñam ayajanta devāḥ tāni dharmāṇi prathamāni āsan
te ha nākam mahimānaḥ sacanta yatra pūrve sādhyāḥ santi devāḥ
I deva (che sono della natura delle energie vitali del Puruṣa (Prajāpati prāṇa rūpāḥ) eseguirono il rituale sacrificale, cioè produssero lo stesso Puruṣa, che è della natura dello yajña, con un’azione mentale, un rito meditativo, per mezzo della volontà e dell’intenzione. Il modo in cui il rituale fu portato a termine divenne invero la prima e più elevata meta. Quei grandi (mahātmānaḥ), che adorarono il Puruṣa in tale maniera (tali meditanti, tad upāsakāḥ, come dice Sāyaṇa), ottennero il più alto regno (il Virāt Puruṣa), dove risiedono gli antichi adoratori, i devā e i sadhya.
L’espressione yajña è stata usata qui in tre modi diversi: come l’oggetto di una azione rituale (yajñam), come uno strumento d’azione (yajñena) e come l’atto in sé (ayajanta). L’oggetto dell’azione è lo stesso Puruṣa (o Prajāpati). Esso è stato chiamato yajña (cfr. yajño vai viṣṇuḥ) e per questa ragione con yajña si indica l’anima di tutti gli esseri. Così leggiamo in Śatapatha Brāhmaṇa (XIV.3.2.1):
L’azione comprende gli strumenti, la volontà, l’intenzione, il compimento e la meditazione (mānasena saṅkalpena). Anche l’azione è descritta come adorazione (ayajanta pūjitavantaḥ).
Yajña come mezzo di adorazione può indicare, come afferma Sāyaṇa, il nirmathyāgni, quando l’oggetto dello yajña è l’accensione del fuoco āhavaniya (yajñena nirmathyāgninā, yajñam homasādhanam āhavanīyam ayajanta pūjitavantaḥ). Yajña può anche significare la vittima(paśu) nel suo senso strumentale, e l’agni rituale come oggetto (yajñena agninā paśubhūtena yajñam yaṣṭavyam agnim). Nel contesto interiore, adhyātma, yajña come oggetto dell’approccio rituale è Viṣṇu, mentree yajña, come strumento, indica la conoscenza di quella divinità (yajñena jñānādi yajñena yajñam Viṣṇum ayajanta).
Yāska sottolinea che yajña in tutte e tre le sue forme indica solamente Agni, e nel Nirukta (XII.41) cita a suo sostegno un passaggio tratto da un Brāhmaṇa.
Agni è identificato al Puruṣa, il grande Sé (mahān ātman o Hiraṇyagarbha) di tutti gli esseri e di tutte le divinità: è tutto questo (sarvam idam agniḥ). Questa è la percezione dei saggi o di coloro che visualizzano direttamente la divinità (daiva bhāvinaḥ). Per essi, Agni assume forme materiali (inerti e immote) come pure forme mentali e spirituali (dinamiche e mobili). L’atto sacrificale riguarda il fuoco adorato come Agni, e l’oblazione di burro chiarificato (havis) che anche è offerto come fosse Agni. Gli adoratori sono qui descritti come deva, cioè i viśvedeva, tutti gli Dei o i sette veggenti, sapta ṛṣi, e come sādyā, ossia le energie vitali o i raggi di sole che pervadono l’universo, (sādhyā iti sarva ete prāṇaḥ raśmayo vā). I deva sono caratterizzati da venerazione, luminosità ed eminenza, mentre i sādhya sono coloro che si perfezionano dal punto di vista della potenza. I due gruppi sono nominati insieme per indicare che yajña è un’opera congiunta di conoscenza e di azione. Questo è come i nostri antenati (pūrve) consideravano tutto ciò, e come si adoperarono per raggiungere la meta più elevata per chi compie gli yajña. L’uso congiunto di jñana e karma era la pratica primordiale per pervenire al più alto stato di beatitudine, la realizzazione del Virāt Puruṣa, il Sé di tutti gli esseri, che dimora nella testa identificata al cielo luminoso12.
Tale realizzazione è stata chiamata qui nāka che in generale indica il cielo (svarga). Il termine è derivato dalla negazione della sofferenza e del logorio mondano (na-aka): la spiegazione è che ka significa felicità; l’assenza di ciò, sofferenza e pena sono a-ka; un’ulteriore negazione di questo stato di dolore è na-aka o nāka. Ciò vuol dire che un’esatta esecuzione del sacrificio, come è stato esposto in precedenza, si risolverà in uno stato di beatitudine. Leggiamo nella Kāṭhaka Samhitā (II.2) che coloro che raggiungono questo regno eliminano ogni sofferenza. Yāska identifica nāka con Āditya o il sole d’oro che sta nei cieli più alti o nel cielo luminoso (dyauḥ), che innalza gli esseri al mondo dello splendore e della pura luce (Nirukta, II.14).
Ciò è confermato dal passaggio ṛgvedico (I.34.8):
Ci sono tre mondi, e muovendovi sopra il cielo voi [Aśvin] mantenete intatto il cielo luminoso per giorni e notti.
Durgāchārya interpreta nāka come ultima e immutabile felicità concessa a colui che si è identificato con il Mahān Ātman. E sottolinea che la meta da raggiungere (sacante) per deva e siddha avviene lungo il percorso che conduce a quel vero Sé, al Virāṭ Puruṣa.
Questo è il primo, principale (prathamāni mukhyāni), effettivo e stabile approccio per divenire uno con il Puruṣa Mahān ātmā (mahadātma bhāvāpattaye). Il fine della vita, quindi, è questo stato di beatitudine (nāka). Sāyaṇa sottolinea giustamente che questa è la breve esposizione del vero scopo dell’intero inno conosciuto come Puruṣa Sūkta, composto di sedici mantra.
Qualche nota aggiunta
La parte II contiene la spiegazione di tutti i sedici mantra nel Puruṣa Sūkta (10.90) della Ṛg Veda Saṃhitā. Come è stato detto nel primo capitolo della prima parte, tutti i sedici mantra si ritrovano con alcune varianti nello Yajur Veda. Come si sa, lo Yajur Veda ha due recensioni, il Kṛṣṇa Yajur Veda e lo Śukla Yajur Veda.
Recensione Taittirīya del Kṛṣṇa Yajur Veda
Il Taittirīya Āraṇyaka (III.12) ha diciotto mantra dedicati a Puruṣa comprendenti tutti i sedici mantra del Ṛg Veda. Inoltre, l’ordine di esposizione dei mantra in TA (III.12) è differente da quello del Ṛg Veda. I mantra del Taittirīya Āraṇyaka (III.12.16 e III.12.17) non ci sono nel Ṛg Veda. Un mantra del Taittirīya Āraṇyaka (III.12.16) si trova anche nella Śvetāśvatara Upaniṣad.
Per leggere il testo di questi diciotto mantra del Taittirīya Āraṇyaka (III.12) nel loro ordine, con i loro commentari, suggeriamo il libro di Saksi, Veda Mantrās and Sūktas widely used in Worship, capitolo 2.
Gli Yajur Vedin recitano sei mantra in più, trattando il Puruṣa trovato in Taittirīya Āraṇyaka (III.13) come continuazione del Puruṣa Sūkta. Il primo mantra inizia con le parole adbhyaḥ sambhūtaḥ. Per il testo e la traduzione di questi sei mantra, si veda il terzo capitolo del libro di Saksi citato prima.
Viśva Puruṣa Nārāyaṇa Sūkta
Anche questo sūkta di dodici mantra è intimamente connesso al Puruṣa. È recitato assieme al Puruṣa Sūkta dai Kṛṣṇa Yajur Vedin. Questo sūkta si trova in Taittirīya Āraṇyaka (X.13). È anche ripetuto nella Mahānārāyaṇa Upaniṣad. Il testo e il commento possono essere letti nel quarto capitolo del libro di Saksi. Un eccellente commento a questo sūkta si trova nel testo di Svami Vimalānanda, Mahānārāyaṇa Upaniṣad pubblicato da R. K. Math, Chennai.
Śukla Yajur Veda (mādhyandina) Vājasaneya Samhitā
La Vājasaneya Samhitā ha in tutto quaranta adhyāyā o capitoli. Il capitolo XXXI, relativo al Puruṣa, è composto da ventidue mantra.
I primi sedici mantra sono quasi gli stessi del Puruṣa Sūkta del Ṛg Veda, a eccezione dell’ordine; si tratta, dunque, di variazioni di secondaria importanza. La differenza maggiore è nel dodicesimo mantra, in cui la prima metà è identico a quella del tredicesimo mantra del sūkta ṛgvedico. Invece la seconda metà è completamente diversa: śrotrāt vāyuḥ ca prāṇaḥ ca mukhyāt agnir ajāyata.
In Vājasaneya Samhitā mancano i mantra 16 e 17 del Taittirīya Āraṇyaka che sono presenti nel Ṛg Veda e altridue.
I rimanenti sei mantra nella Vājasaneya Samhitā (XXXI.17-22) sono gli stessi di Taittirīya Āraṇyaka (X.13.3-13), il così detto Uttaranārāyaṇa Anuvāka che abbiamo nominato in precedenza.
Oṃ Śāntiḥ Śāntiḥ Śāntiḥ
- Qui yat sta per yadā.[↩]
- Vyāvhārika prapañca [N.d.C.].[↩]
- Come P. V. Kane ha giustamente segnalato, History of Dharma Shāstra, Vol. 2, pp.18-104.[↩]
- Per es, ṚV IV.6.11; V.52.2; X.14.5; X.105.8.[↩]
- Cfr. ṚV VII.64.2; VIII.25, ecc.[↩]
- Cfr. ṚV III.5.3; III.6.3; III.11.5; IV.6.7 e 8; IV.9.2; V.1.2; V.8.3; VI.48.4; VIII.35.12 e 16, ecc.[↩]
- Patroni dei rituali; coloro che acquistano le offerte da oblare nel fuoco dell’altare vedico [N.d.C].[↩]
- Cfr. YV I.18; V.22; VI.3; VII.21; XI.14; XVIII.39 e 43; XIX.5; XX.25; XXVI.19; XXXII.16; XXXVIII.14, ecc.[↩]
- I metri degli inni vedici [N.d.C.].[↩]
- Cfr. Nirukta, XII.14 sūryās sartervā, suvater vā, svīryater vā.[↩]
- Come fossero i pali di una palizzata [N.d.C.].[↩]
- Il Brahmaloka [N.d.C.].[↩]