21 Marzo, 2021

La purificazione dell’antaḥkaraṇa

Svāmī Śrī Pūrṇānanda Tīrtha Uṛiyā Bābā

La purificazione dell’antaḥkaraṇa

Commento a Bhagavad Gītā II

Selezione delle annotazioni, traduzione da hindī e note a cura di Soumyā Devī

L’irreale (asat) non esiste e il reale (sat) è privo di non-esistenza.
La natura di entrambi è stata invero realizzata da coloro che conoscono la Realtà [tattva darśin]. (Bhagavad Gītā II.16)

Il metodo dei maestri consiste sempre nell’esposizione iniziale della dottrina seguita da quella dei mezzi per realizzarla perché senza conoscere la dottrina non ci si applica ai mezzi per realizzarla. Se si vuol far svolgere un’attività a qualcuno prima gli si descrive il beneficio che ne otterrà per accrescere il suo entusiasmo. In quest’ottica il maestro per prima cosa espone la dottrina affinché il discepolo sappia dove deve arrivare; così non scambierà per la meta finale [lakṣya] gli eventi straordinari che sopraggiungono nel mezzo del compimento del metodo, i quali sono un ostacolo. Per questo Śrī Kṛṣṇa ha esposto la dottrina nel verso già menzionato.

L’insegnamento è il seguente: sia i bhakta sia i vedāntin ritengono che il saṃsāra sia “māyā”; “māyā” è ciò che non è, ma appare, come uno spettacolo di illusionismo (indrajāla). Il saṃsāra appare, ma nessun mezzo di valida conoscenza – percezione, inferenza, comparazione, la parola del maestro ovvero le Upaniṣad – può dimostrare [la sua reale esistenza]. Anche gli occhi che vedono sono il saṃsāra quindi la percezione non può stabilire [la reale esistenza del saṃsāra]. L’inferenza si utilizza quando la cosa non è di fronte a noi, ma il saṃsāra è di fronte a noi, quindi l’inferenza non può essere applicata. La comparazione si usa per un’altra cosa visibile, come la comparazione tra il volto e la luna, ma non c’è un altro saṃsāra simile a questo, quindi non si può dimostrare il saṃsāra attraverso la comparazione. La parola del maestro ovvero le Upaniṣad si usano quando la cosa [indagata] non è di fronte a noi, quindi neanche tramite la parola possiamo dimostrare il saṃsāra. Non vi è nemmeno una regola che stabilisca che quello che ci appare esiste [veramente]. L’acqua del miraggio ci appare eppure non esiste. La conclusione è che il saṃsāra è una conoscenza erronea (mithyā) e ‘io’ (il dṛṣṭā) sono la Realtà (satya) perché sono il Testimone (Sāksī) dei tre stati (avasthā) e dei tre tempi. Qualcuno chiede a Uṛiyā Bābā come può esserci al tempo stesso totale inesistenza dell’irrealtà (asat atyāntābhāva) e non esserci mai inesistenza della Realtà (sat kā kabhī abhāva). La risposta è che pur vedendo con gli occhi le onde dell’acqua nel miraggio, noi con l’intelletto conosciamo la totale inesistenza [abhāva] dell’acqua; allo stesso modo possono coesistere l’intuizione dell’inesistenza del corpo grosso, ecc. cioè dell’intero mondo (prapañca) e l’intuizione dell’Ātman.

Śrī Kṛṣṇa conferisce l’insegnamento della Realtà ad Arjuna perché questi ha preso rifugio in Lui e ha accettato di essere suo discepolo. Gli individui qualificati per ricevere l’insegnamento sulla conoscenza della Realtà, tattva jñāna ovvero Brahma vidyā, sono il discepolo e il figlio maggiore. Oltre a ciò, Arjuna è un discepolo qualificato perché è profondamente afflitto [dal saṃsāra] e quindi possiede [la qualifica chiamata] vairāgya. Arjuna è dotato di ferma intenzione (śraddhā), il suo antaḥkaraṇa è puro, egli è kṛtopāstita cioè ha perfezionato l’upāsana in questa vita o in quelle precedenti.

Il Vedānta śāstra ritiene che la purificazione dell’antaḥkaraṇa avvenga per mezzo dell’azione priva di desiderio di goderne i frutti (niṣkāma karma) e dell’unificazione [dell’intero composto individuale] (ekāgratā) attraverso l’upāsana; ritiene inoltre che la conoscenza sorga in una mente purificata e unificata. Ecco perché la dottrina della Conoscenza è enunciata all’inizio: se l’antaḥkaraṇa del discepolo è puro e quindi egli è estremamente qualificato [con la sola esposizione della dottrina, con śravaṇa] egli otterrà la Conoscenza. Invece se in lui ci sono ancora delle impurità [impedimenti] (malintā) allora la purificazione dell’antaḥkaraṇa attraverso il metodo gli permetterà di raggiungere lo scopo [finale, ottenere la Conoscenza, lakṣya].

Nel verso 16 sopra menzionato, l’irreale (asat) è il vaso, il reale (sat) è l’argilla. Asat è ciò che è totalmente inesistente (atyāntābhāva), che non c’è in nessuno dei tre tempi [passato, presente, futuro]. Bhagavān Śrī Kṛṣṇa parla in tre modi dell’Ātman in molteplici versi: 1) dal punto di vista della discordanza comparativa (vyatireka), come in II.16, per cui c’è solo Paramātman e non c’è niente oltre ad Esso; 2) dal punto di vista della concordanza comparativa (anvaya) come in IX. 19 per cui “[…] io sono sat e asat, o Arjuna” (sadasaccāhamarjuna); 3) sotto forma del Testimone (Sākṣī) di tutto, distinto da sat e asat come in XIII.12, “È detto essere né esistente né non esistente” (sattannāsaducyate).

Così ti è stata trasmessa la conoscenza (buddhi) del sāṃkhya (sāṃkhyayoga), ascolta ora quella dell’azione (karmayoga), dotato della quale ti libererai dai legami del karma. (BhG II.39)

Il significato letterale del verso è che attraverso il metodo dell’azione priva di attaccamento ai suoi frutti e attraverso il metodo della conoscenza (niṣkāma karmayoga e jñānayoga) ci si libera dai legami del saṃsāra. In realtà lo śloka deve essere considerato un verso di elogio perché la Liberazione non è possibile tramite il solo karma. Se così fosse allora affermazioni della śruti quali “la Liberazione avviene solo tramite la conoscenza” (jñānādeva tu kaivalyam) sarebbero prive di significato. Il niṣkāma karma è certamente uno strumento per ottenere la conoscenza, infatti poiché determina la purificazione dell’antaḥkaraṇa può permettere l’ottenimento della liberazione a tappe (krama mukti). Attraverso il niṣkāma karma e l’upāsana le colpe sono distrutte, l’antaḥkaraṇa è purificato e attraverso la rinuncia al mondo (vairāgya) e il desiderio di conoscere l’Assoluto (jijñāsā) sorge la Conoscenza e si ottiene la Liberazione. Questa è la dottrina insegnata dallo śāstra. L’ignoranza (ajñāna) è distrutta solo dal jñāna e il jñāna sorge solo in un antaḥkaraṇa purificato e l’antaḥkaraṇa si purifica solo attraverso il niṣkāma karma e l’upāsana. È quindi evidente che il niṣkāma karma purifica l’antaḥkaraṇa e che la liberazione si ottiene solo tramite la Conoscenza.

Uṛiyā Bābā dice che “quando si è raggiunto l’oceano non c’è più bisogno delle molteplici fonti d’acqua. L’oceano è simile alla conoscenza e le fonti d’acqua sono simili all’azione ingiunta dal Veda; con la realizzazione (tattvasākṣātkāra) si ottiene il frutto del karmakaṇḍa, dell’upāsana, ecc. ovvero di tutti i sādhana [mezzi dipendenti dall’azione]. Una volta ottenuta la pienezza del Brahman (brahmānanda) tutte gli altri ānanda [le forme di pienezza, di perfezionamento] sono incluse. [Il realizzato] non ha più bisogno dei sacrifici, ecc. menzionati dal Veda”. Uṛiyā Bābā dice che il Re Ajātaśatru aveva udito dalla bocca dei ṛṣi che Raikva otteneva i risultati delle azioni di tutto il saṃsāra perché era un realizzato (bodhavān) e l’intero saṃsāra è il corpo del realizzato. Quindi Esso [Paramātman] compie [apparentemente] ogni azione. Qual è quell’azione che Esso non compie ovvero quale dovere gli resta da compiere?

In relazione a niṣkāma karma, qualcuno chiede a Uṛiyā Bābā come ci si può liberare dai legami dell’azione attraverso l’azione. Sarebbe come ripulirsi dal fango con altro fango. La risposta di Uṛiyā Bābā è che il karma menzionato nel verso della Bhagavad Gītā è il niṣkāma karma, come si evince dalla parola ‘attraverso la conoscenza’ (buddhyā) la cui desinenza è nel terzo caso [lo strumentale della declinazione sanscrita]; esso distrugge i legami con il karma; non come l’azione compiuta per goderne i frutti (sakāma karma), la quale è fango, mentre il niṣkāma karma è l’acqua pura. La conoscenza (buddhi) di cui parla il verso è la seguente: io non sono l’agente, né colui che fa agire, né il fruitore; Bhagavān compie ogni cosa, fa compiere ogni cosa, fruisce di ogni cosa. Io sono solo uno strumento nelle sue mani, il testimone della sua līlā.

Qualcuno chiede a Uṛiyā Bābā: “Quando apprendo che è Bhagavān ad agire, a far agire e a fruire di ogni cosa e l’Ātman è solo il Testimone, perché non ottengo di conseguenza la Liberazione?” La risposta di Uṛiyā Bābā è che per il bhakta si tratta solo di una idea immaginata (bhāvanā); egli non conosce la propria vera natura essenziale, né la realizza. Il bhaktiyoga rientra nel karmayoga, si tratta di un’azione mentale (mānasika karma). Quindi la venerazione (ārādhanā) di Īśvara è karmayoga. Sono niṣkāma karma le azioni [rituali] compiute con l’intenzione di offrirle a Bhagavān (Bhagavādarpaṇa buddhi). Come spiega il verso successivo della Gītā (II.40), nel saṃsāra il niṣkāma karma non è mai distrutto né implica una colpa se non lo si completa o lo si compie senza seguire le ingiunzioni. Per esempio, se la pronuncia dei mantra è imperfetta ecc., non ne consegue alcun danno o perdita, mentre il sakāma karma compiuto violandone le regole è distrutto [e quindi non è efficace]. Il secondo capitolo della Gītā nel descrivere la risolutezza nella conoscenza (sāṃkhyaniṣṭhā) e la risolutezza nell’azione (karmaniṣṭhā) definisce vano e insignificante il sakāma karma. Tuttavia, il sakāma karma è disapprovato solo dal punto di vista del cercatore della conoscenza dell’Assoluto (jijñāsu) e non dal punto di vista degli uomini ordinari che sono rivolti al mondo e ai suoi oggetti (saṃsārī viṣayī puruṣa).

L’uomo che procede verso il paramārtha, privo di desideri (kāmanā) e con la mente purificata (śuddha citta) può riuscire a conoscere il Sé (ātma-vastu). La buddhi di colui che indaga l’Ātmanvastu è chiamata ‘risoluta’ (vyavasāyātmikā). Gli uomini dall’intelletto esitante non possono credere al maestro e allo śāstra. È irresoluto l’intelletto di chi è privo di discriminazione, desidera fruire degli oggetti e vede la dualità.

L’indicazione di compiere niṣkāma karma è data a quel cercatore della conoscenza dell’Assoluto (jijñāsu) che non è capace di una risoluta rinuncia al mondo (vairāgya); egli è qualificato per compiere niṣkāma karma, cioè solamente per compiere i riti quotidiani ed occasionali (nitya-naimittika karma), non è qualificato per il saṃnyāsa che è fermezza nella conoscenza (jñāna niṣṭhā). Solo un cercatore della conoscenza che sia risoluto è qualificato ad assumere il saṃnyāsa e a compiere śravaṇa, ecc. Niṣkāma karma è la rinuncia al desiderio dei frutti dell’azione, è la rinuncia all’attaccamento (āsakti); il desiderio è la causa della nascita, quindi l’iniziato che desidera la Liberazione (mumukṣu) non dovrebbe desiderare i frutti dell’azione. Il niṣkāma karma è caratterizzato da sattva guṇa, il sakāma karma da rajoguṇa e l’inattività da tamoguṇa. Tramite il sakāma karma non si sfugge alle [ripetute] nascite e morti e aumenta l’identificazione con il corpo (deha-buddhi). Invece il niṣkāma karma permette la purificazione dell’antaḥkaraṇa e quando sorgono la rinuncia al mondo (vairāgya) e il desiderio di conoscere l’Assoluto (jijñāsā) possiamo ricevere l’insegnamento di un Sadguru, ottenere la Conoscenza e quindi sfuggire alle nascite e alle morti.

Il niṣkāma karma non può da solo rendere liberi (mukta) perché quando lo si compie rimane la modificazione mentale (vṛtti) secondo cui ‘io’ agisco – con un sentimento (bhāva) di non attaccamento ai frutti dell’azione (niṣkāma) -, quindi, poiché rimane la nozione di agente, sarò costretto a rinascere. Dopo la realizzazione (bodha) questa vṛtti cessa, quindi il modo eccellente di compiere karma è quello del jīvanmukta. Si fruisce sempre degli effetti del karma sia positivo (śubha) sia negativo (aśubha). Gli effetti del karma positivo possono essere distrutti solo dalla Conoscenza del Sé. Colui che agisce (karmī) e il praticante (sādhaka) possono solamente sfuggire al dolore. Al dolore e anche alla felicità solo il conoscitore del Sé può sfuggire. Per questo Bhagavān Kṛṣṇa invita Arjuna a dedicarsi interamente al metodo della Conoscenza (jñānayoga).

Il realizzato è libero dai legami con il corpo perché è cessata l’identificazione con esso; quindi, non ha più frutti dell’azione [di cui fruire] e, poiché l’insieme delle azioni accumulate nel corso delle esistenze precedenti (sañcita karma) è bruciato, non vi sarà un nuovo prārabdha karma a condizionare una nascita futura. Con la realizzazione (bodha) cessano i frutti delle azioni positive e negative ed egli ottiene una condizione libera da sofferenza (anāmaya pada). Adhyātma, adhibhūta e adhidaiva, questi tre tipi di tormenti (tāpa) o afflizioni (upadrava) sono infermità (āmaya), per cui il mokṣa, che è privo di questi tre tormenti (tāpa), è l’anāmaya pada.

Uṛiyā Bābā commentando BhG (II. 28), menziona un verso sanscrito secondo il quale “Questo corpo che prima non c’era e poi non ci sarà più, non è tuo né tu sei suo”. All’obiezione che tutti possono avere questa conoscenza Uṛiyā Bābā risponde di no perché bisogna rimuovere le idee (vāsanā) di corpo (dehin), agente (kartṛ) e fruitore (bhoktṛ). Se questo non avviene, il desiderio di agire e di fruire rimane. Solo dopo la rimozione (bādha) del corpo [cioè dell’identificazione con esso] si sfugge all’azione e alla fruizione.

Commentando BhG (II.29) Uṛiyā Bābā afferma che è difficile la rinuncia (vairāgya) agli oggetti di fruizione, è difficile abbandonare il dharmādhyāsa e assumere il saṃnyāsa, difficile incontrare un Sadguru, difficile avere un intelletto acuto, difficile rinunciare all’abhimāna cioè ritenere di essere l’agente e, infine, è difficile che sorga brahmākāra vṛtti. È quindi stupefacente che ci sia un uomo samādhiniṣṭha, che vuol dire fermo (niṣṭhā) nel ritenere di non avere nessun legame con questo vasto saṃsāra e con i meriti e le colpe, nel ritenere che l’apparenza erronea (mithyā) si proietta sul Sé come il serpente sulla corda.

[Riassumendo brevemente quanto esposto nel secondo capitolo della Gītā:] secondo la dottrina di Śrī Śaṃkarācārya attraverso niṣkāma karma e niṣkāma upāsana l’antaḥkaraṇa è purificato; grazie a un antaḥkaraṇa purificato sorge il desiderio di cercare l’Assoluto (jijñāsā), dal desiderio di cercare l’Assoluto sorge la rinuncia al mondo (vairāgya) e infine si assume il saṃnyāsa. Dopo il saṃnyāsa si è qualificati per l’ascolto del Vedānta (śravaṇa) e per ricevere l’insegnamento del mahāvākya dal maestro. Ne deriva la conoscenza; sorta la conoscenza, attraverso il Brahmabhyāsa [riflessione vedāntica] si ottiene la beatitudine (ānanda) caratteristica della jīvanmukti; avviene allora la videhamukti. Questo è quanto è detto nel secondo capitolo della Gītā e ciò che dice Bṛhaspati a Kaca nello Yogavāsiṣṭha e Śrī Rāma a Lakṣmaṇa nella Rāmagītā: la Liberazione suprema (kaivalya mukti) si ha solo attraverso la Conoscenza della Realtà (tattva jñāna).